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Autore: chi_lamed    30/05/2012    2 recensioni
Seguito di Conversazioni Notturne.
"E si rese conto, per la prima volta, che il mondo di dolore in cui si era rifugiato non era più soltanto una difesa. Impedirsi di provare emozioni per non soffrire ancora.
Era diventato una trappola da cui non era più capace di uscire."

Aberforth Silente e Severus Piton hanno in comune una vita di dolore. Uno è ben deciso a superarlo e lasciarselo alle spalle, l'altro invece si tiene la sofferenza stretta al cuore, impedendosi di vivere.
Storia di un'amicizia sincera.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte'
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Aber
 

 
Aberforth stramaledisse il gelido vento invernale che non la smetteva di fischiare e l’insegna del pub che cigolava lamentosamente senza sosta. Lo stavano tenendo sveglio da almeno due ore, causandogli un mal di testa feroce che cresceva di minuto in minuto, di pari passo con il suo malumore.
Aveva talmente tanto sonno da sbadigliare in continuazione, rischiando più d’una volta di slogarsi le mascelle. Merlino, se fosse accaduto per davvero sarebbe stato uno spettacolo penoso.
Guardò l’ora. Mancavano pochi minuti alle cinque. Fatti gli opportuni conti, calcolò che aveva dormito solo un’ora dopo aver chiuso il pub. Decisamente troppo poco.
Un altro sbadiglio ai limiti dello stordimento, che gli fece venire le lacrime agli occhi.
Sperò con tutto il cuore che gli ultimi tre avventori che lo avevano ridotto in quel modo venissero colpiti da un Bolide gigante, ovunque fossero in quel momento.
Hmf, Quidditch!
Si erano scolati quasi tutta la sua scorta di Whisky Incendiario, discutendo come degli infervorati sul campionato in corso e lamentandosi poco garbatamente della sua decisione di chiudere il locale per la notte. Dalla parlata strascicata e dal colorito dei loro nasi tendente al rubino, non aveva faticato ad intuire che erano più patetici che minacciosi, soprattutto poiché due gli stavano puntando le bacchette al contrario. Di sicuro non erano del luogo, perché nessun abitante di Hogsmeade e dintorni sano di mente avrebbe mai osato provocarlo, intimandogli di lasciarlo in pace.
Aberforth Silente, membro dell’Ordine della Fenice e valoroso combattente nella Battaglia di Hogwarts, non aveva battuto ciglio di fronte a quella ridicola minaccia. Con tutta calma aveva semplicemente scaraventato fuori i tre avventori, troppo alticci perfino per reggersi in piedi, figurarsi per lanciare un incantesimo.
Con un sonoro sbuffo, sprimacciò con forza il cuscino, mettendoci più rabbia del dovuto. Il povero ed incolpevole oggetto ricevette così qualche pugno ben assestato, afflosciandosi ancora di più. Da un piccolo strappo nella stoffa usurata uscirono un paio di piume che volteggiarono pigramente nella stanza prima di atterrare con delicatezza. Una si posò sul logoro tappetino accanto al letto, proprio vicino alle pantofole, l’altra volò più lontana e andò a ficcarsi sotto la poltrona color grigio topo a lato del caminetto.
Le seguì stizzito, scuotendo desolatamente la testa. Poco dopo, si rimise sotto le coperte, troppo stanco anche per essere arrabbiato. Stremato, scivolò in sogni con Bolidi vendicativi ed alticci avventori pronti a darsela a gambe.
 
Aprì un occhio solo, fissando il soffitto. Tese l’orecchio, aspettandosi che quello strano silenzio venisse prima o poi interrotto.
Non avvenne.
Prima buona notizia della giornata: era cessato il vento.
Aprì anche l’altro occhio e guardò fuori dalla finestra. Nevicava piano in placidi fiocchi leggeri. Seconda buona notizia.
Gli piaceva la neve, ma solo quando scendeva senza fretta e senza folate traditrici che facevano entrare il gelo fin nelle ossa. Si godette la quiete, sorridendo sornione nell’esatto modo di Albus.
Sto diventando sempre più vecchio e melenso, pensò Aberforth, tentennando parecchio prima di togliersi di dosso le coperte e rabbrividire per il freddo. Doveva decidersi una volta per tutte a tappare quegli orribili spifferi.
Era certo che, ovunque suo fratello si trovasse, in quell’istante fosse sicuramente intento a fargli qualche battuta sagace con la sua solita aria innocua da bambino che colleziona marachelle. Merlino se gli mancava, così come aveva nostalgia delle sue uscite apparentemente innocenti, ma dal retrogusto acidulo come le caramelle al limone che gli piacevano tanto. Aveva avuto l’occasione di sentirle solo quando c’erano altre persone presenti, Albus in pubblico non poteva permettersi quell’atteggiamento dimesso che invece adottava quand’erano soli.
Che attore.
Fece un sospiro, il primo della giornata.
Con un veloce colpo di bacchetta alimentò nuovamente le fiamme nel camino. Per tutta la stanza si diffuse presto un piacevole tepore, accompagnato da un vivace crepitio che gli piacque moltissimo. Anche il mal di testa era sparito.
 Erano solo le otto del mattino, poteva fare ogni cosa con calma.
Se un certo Preside di sua conoscenza si fosse comportato come aveva previsto, avrebbe avuto tutta la mattinata per mettere comodamente in atto il suo piano.
 
Mezz’ora più tardi, dopo aver valutato tutte le circostanze e pianificato ad occhi aperti ogni tipo di eventualità, si decise ad uscire dall’ammasso di coperte. Aveva urgentemente bisogno di una tazza di caffè nero per essere completamente sveglio, altrimenti tanti saluti a tutti i progetti che aveva condiviso con Minerva, sarebbe crollato prima dell’ora di pranzo.
La vestaglia giaceva abbandonata sullo schienale della poltrona. La infilò senza riuscire a non scuotere la testa. Lilla con piccoli pesci gialli, un autentico pugno nell’occhio.
L’ultimo regalo di Albus.
 
Non aveva smesso un istante di guardarlo in cagnesco, da quando il vecchio Preside aveva messo piede nel locale che stava per chiudere. Qua e là, qualche sparuta candela dava un che di tetro e strideva con le luci scintillanti delle vetrine degli altri negozi del villaggio. Si era in guerra, ma era pur sempre festa. Il pub di Aberforth, invece, in quei giorni spiccava in quanto ad oscurità: lui non aveva nulla da festeggiare, nulla.
Oh, non ci voleva molto a capire le intenzioni di Albus, era Natale e lui teneva nella mano sinistra un pacchettino azzurro scintillante decorato di stelle. I suoi melensi e colorati regali erano riconoscibili anche a chilometri di distanza ed in piena notte.
Sorrideva, Albus, ma all’occhio esperto di Aberforth, abituato ad avere a che fare con ogni tipo di clientela, non era sfuggito il velo di amarezza che si nascondeva dietro lo sguardo ammiccante.
Se quello era un altro dei suoi patetici tentativi di fare le sue scuse, beh, poteva anche tenersele.
Non sarebbe bastato un regalo di Natale ed uno al compleanno per sistemare le cose, non sarebbe servito a nulla il fiume di rimorso che ogni volta straripava dalle sue parole.
Nessuno di loro avrebbe mai più riavuto indietro la felicità, Ariana non sarebbe mai più ritornata.
 
Guardatelo, il grande mago che tutti venerano, viene a mendicare un perdono che non ci potrà mai essere!
Lo sanno, lo sanno chi sei davvero, Albus?
Sanno quel che hai fatto?
Sanno quanto sei stato accecato dal potere al punto da sacrificare la tua stessa famiglia?
 
«Buon Natale, Aberforth.»
 
Beh? E ora cos’è questo tono dimesso? Un’altra ridicola sceneggiata?
No, Albus, nessun “buon Natale”, né per te, né tantomeno per me.
Ti odio.
Anche se con il tempo ho imparato a trattenermi, giusto il necessario per condividere la stessa stanza con te senza essere tentato di prenderti ancora a pugni, ti odio.
 
A questo pensava Aberforth, mentre il fratello poggiava sul sudicio bancone il regalo e poco dopo prendeva da una delle ampie tasche del mantello una bottiglia di vino elfico.
Qualcosa non andava.
La sua mano destra era ancora ferita.
Santo Merlino, cosa diamine poteva aver combinato per essere ancora conciato in quel modo?
No no, lui non era preoccupato, ci mancava anche quello! Solo si chiedeva cosa potesse essere successo e perché ancora non fosse guarito, dopotutto disponeva del miglior pozionista del mondo magico, per quanto quell’uomo sempre in nero gli andasse poco a genio.
Lui aveva fatto il solito gesto consueto, come chi scaccia una mosca fastidiosa dal volto, per minimizzare la cosa, ma non era riuscito a nascondere del tutto la mestizia dietro le lenti a mezzaluna.
C’era dell’altro.
Ma non avrebbe chiesto, questo mai. Non avrebbe sprecato fiato per domandare al fratello cosa avesse, non avrebbe fatto nemmeno mezzo passo per cercare di avvicinarsi a lui.
E così era stato.
A braccia incrociate, se ne era rimasto fermo e zitto. Più che il bancone del pub, era l’incomprensione a dividerli. Aberforth non aveva nessuna intenzione di aggirare nessuna delle due cose.
Albus era andato via dopo pochi minuti, dopo un altro patetico tentativo di scuse ed un altro augurio di buone feste, cercando di calcare la mano sul fatto che fossero in guerra e che era necessario stare uniti – all’interno del castello, ma anche al di fuori, tra maghi che si opponevano a Voldemort – per combattere in maniera efficace.
Gli aveva risposto con un mezzo grugnito ed un cenno del capo, giusto per non sembrare di essere sordo.
Lo aveva guardato andarsene senza battere ciglio. Si era perfino avvicinato alla finestra per seguire i suoi passi, fino a quando la notte non lo aveva inghiottito.
 
Maledetto, stramaledetto, schifosissimo orgoglio, che incatena ogni altro sentimento e ti dà un cuore di pietra al posto di un cuore di carne[1], che ti impedisce di voltare pagina e aggrapparti a ciò che hai – e che ancora ami, ammettilo –  e ti fa invece continuare a volgere indietro la testa per rievocare ciò che non può più tornare.
 
Pensava a tutto questo, Aberforth, mentre attraversava l’angusto corridoio che portava alla sua piccola e misera cucina e intanto si asciugava gli occhi con una manica della vestaglia.
Aveva nostalgia. Terribile, soffocante, bruciante più delle lacrime che finirono nella tazza di caffè nero che fu pronta in pochi attimi.
Pianse, singhiozzando rumorosamente, con le braccia tese appoggiate al piccolo tavolo traballante. Fu il pianto di un vecchio che sa di non poter più ragionare al futuro, se non per il breve tempo dei giorni e dei mesi, forse degli anni se iniziava a prendersi un po’ più cura di se stesso.
La strada tortuosa del passato si era fatta lunga e cominciava a pesargli sull’animo prima che sulle spalle. La zavorra l’aveva lasciata ai piedi di una lapide, nell’agosto di un’estate afosa, ma c’erano momenti in cui tornava e sembrava chiedere vendetta per essere stata abbandonata. Lui non aveva nessuna intenzione di riprenderla.
Era solo il rovescio della medaglia: aveva aperto il suo cuore al perdono, ad Albus e a Severus ed ora, attraverso quello spiraglio, era entrata anche quella marea di sentimenti che aveva lasciato alla porta per anni, privilegiando il rancore come inquilino assoluto.
Ansimò, scosso dall’ultimo singhiozzo ormai senza più lacrime.
Tornare indietro?
No – per Merlino, Morgana e tutti i Folletti della Cornovaglia – no, nemmeno per idea! Non si sarebbe ripreso il macigno del rancore, non se lo sarebbe caricato sulle spalle un’altra volta. Sarebbe stato un fallimento su tutta la linea e, soprattutto, avrebbe reso vano anche il sacrificio di Albus.
No, no ed ancora no!
Non voleva tornare indietro: la dolcezza del perdono che aveva concesso era stata una sensazione troppo bella ed intensa, per essere gettata via alla prima difficoltà.
Tornare a vivere, sforzandosi di cercare le cose belle per cui valeva la pena andare avanti: questo doveva e voleva fare, passo dopo passo.
Ci sarebbe riuscito, pensò con fermezza.
Diede il primo rumoroso sorso ad un caffè ormai freddo.
Bah!
Arricciò naso e labbra in una smorfia di puro disgusto e pose rimedio a quell’obbrobrio con un veloce colpo di bacchetta al bordo della tazza; subito si levò una nuvoletta di fumo e l’aroma invase la piccola stanza.
Si asciugò alla bell’e meglio gli occhi rossi e gonfi, con un sincero moto d’orgoglio.
Aveva appena vinto una delle tante battaglie personali che ogni tanto gli accadevano. Prima o poi, lo sconforto avrebbe definitivamente supplicato la resa e sventolato bandiera bianca e lui voleva godersi quel momento fino in fondo, voleva che accadesse il più presto possibile.
Andò nel salottino, per finire il suo caffè sulla poltrona accanto al caminetto e godersi lo spettacolo della nevicata.
Ariana dalla cornice lo salutò con un dolce sorriso. Lo ricambiò con altrettanta dolcezza e si sedette sulla poltrona, con la stoffa rossiccia un po’ troppo consunta sui braccioli.
Fuori, nevicava sempre più piano, era abbastanza certo che avrebbe smesso nel giro di una mezz’ora, anche se il cielo continuava ad essere bianchissimo e coperto.
 
Roteò la tazza con la mano destra, cercando di capire quale strana figura avessero assunto i fondi di caffè. Se li guardava in un certo modo, gli sembrava di scorgere una mazza da Battitore. Assottigliò gli occhi, immaginandosi di spedire un vero Bolide agli avventori della sera precedente. Ridacchiò compiaciuto.
«Buongiorno, c’è qualche previsione interessante?» esclamò Albus, piombando nel suo piccolo ritratto sulla parete accanto.
Sollevò il capo verso il quadro dalla cornice dorata e decorata con piccoli ghirigori, un po’ troppo eleganti per i suoi gusti.
 
Aveva deciso di farsi dare un ritratto di Albus quando era iniziata la scuola. Contrariamente alle aspettative, non era stato recapitato da un gufo o da un altro volatile, era stato Severus in persona a portarglielo, un giorno di fine settembre dall’aria ancora mite.
Se l’era visto entrare nel locale una domenica mattina, poco prima dell’apertura, con un grosso involto tra le mani.
Quella fu la prima volta, dopo mesi, che non fu una lapide bianca il loro esclusivo luogo d’incontro.
Un primo passo avanti.
Aveva tentennato a lungo prima di decidere dove posizionarlo, mentre Severus attendeva paziente in un angolo del salottino: gli stava dando il tempo di fare definitivamente pace con il suo passato, cosa che il mago dai capelli corvini ancora non era riuscito a fare. Perfino il ritratto se ne era rimasto in silenzio, quasi fosse profondamente colpito e si sentisse onorato di essere accolto in quella stanza. Alla fine, la scelta era caduta sulla parete accanto alla porta d’entrata: in quel modo, seduto in poltrona, avrebbe avuto accanto Ariana e di fronte Albus.
Era poco, lo sapeva, ma pur sempre meglio di nulla.
 
«Nessuna previsione, Albus. Per quelle temo ti dovrai accontentare ancora della Cooman.»
Il dipinto ridacchiò, lisciandosi al contempo l’argentea barba fluente.
«Piuttosto, tu che notizie mi porti dall’altro fronte?» chiese Aberforth sornione.
Erano ormai le nove, il momento di mettersi in azione era giunto.
«Tutto come previsto.» gli rispose Albus. «E non è bene, Aber, non è bene.» aggiunse tristemente.
 
Aber.
Un nome lontano quanto due bambini che giocano in un prato, quanto una serenità ben presto spazzata via e mai più ritornata.
Un nome appartenente al passato per cominciare una nuova vita.
Aber, sì, per cento, mille volte.
Aber per tutte le volte che vuoi, Albus, se serve a farti capire, dovunque tu sia, quanto mi manchi.
 
Si alzò dalla poltrona, con la tazza di caffè vuota ancora in mano, per dirigersi altrove.
«Ah, Aber?» la voce di Albus lo bloccò proprio sulla porta. «Gran bella vestaglia, ti ho mai detto che ti dona davvero? Chi te l’ha regalata deve avere veramente stile.»
«Grazie, Albus. Me l’ha regalata una persona con un senso del buongusto piuttosto dubbio. Ma, sai che ti dico? Mi piace.»
E percorse il corridoio con le lacrime agli occhi ed un grande sorriso stampato in faccia.



[1]Citazione all’inverso di Ezechiele 36,26: Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne.

*******************
Nota dell'autrice: se siete arrivati fino in fondo senza annoiarvi e senza aver voglia di lanciarmi ortaggi, vi sarei grata se mi lasciaste una recensione. Sono ben accette anche critiche costruttive per quanto riguarda stile e trama.
Chiara


 
 
  
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