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Autore: ConsultingFangirls    02/06/2012    5 recensioni
Era iniziato in un nebbioso mattino di febbraio quando, marciando per l'appartamento di Baker Street con le mani nei capelli e gli occhi da folle, Sherlock Holmes si era imbattuto in qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.
L'uomo seduto nella poltrona dei clienti, un tizio magro, alto, con un completo a righe blu e marroni, Converse rosse e capelli spettinati, stava imperturbabile e con le gambe accavallate, seguendo con gli occhi il famoso detective uscire di testa. John non ci avrebbe scommesso, ma sembrava si stesse divertendo.

/ «Rose? È finito il latte»
«E perché non vai a prenderlo?»
«Perché ci vai tu» Layne le tese il cappotto con un sorriso e svuotò la pipa sul divano «E prendi anche del tè, che è quasi finito»
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Slash | Personaggi: Companion - Altro, Doctor - 10, Rose Tyler, TARDIS
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Gender Bender
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Era iniziato in un nebbioso mattino di febbraio quando, marciando per l'appartamento di Baker Street con le mani nei capelli e gli occhi da folle, Sherlock Holmes si era imbattuto in qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.
L'uomo seduto nella poltrona dei clienti, un tizio magro, alto, con un completo a righe blu e marroni, Converse rosse e capelli spettinati, stava imperturbabile e con le gambe accavallate, seguendo con gli occhi il famoso detective uscire di testa. John non ci avrebbe scommesso, ma sembrava si stesse divertendo.
«Un alieno» disse Sherlock. No, più che altro lo ripeté, per la centesima volta. Il tizio seduto là davanti sbuffò «No, te l'ho detto. Mi chiamo John Smith, sono della polizia» e gli mostrò il suo tesserino di pelle con un'espressione annoiata. Sherlock Holmes ridacchiò «È ovvio che non sei della polizia. Conosco tutti, là dentro, e tutti mi devono almeno un favore. E poi guardati - completo di almeno quattro anni fa, scarpe da ginnastica che nessun uomo sano di mente ci abbinerebbe mai, hai la barba perfettamente tagliata, ma non ci sono segni di rasoio, come se non ti fosse mai nemmeno cresciuta. Ma devi avere almeno venticinque anni, e non è possibile che sia così. Hai i capelli puliti, ma non sanno di shampoo, come se non avessi dovuto lavarli, e poi le tue mani…»
«Cos'hanno le mie mani che non va?»
«Hai dei calli all'interno della mano, come se avessi tenuto un remo troppo stretto, ma non ne hai sulla punta delle dita, come invece succederebbe ad un rematore, e hai le unghie pulite, corte, come se non dovessi mai usare le dita. Quindi niente rematore. Potresti esserti messo a scrivere con una penna un po' troppo grande, ma non hai macchie d'inchiostro e…» 
Il tizio col completo si girò verso l'altro uomo nella stanza, seduto sul divano con il computer sulle gambe «Ehy, ma il tuo amico tiene mai la bocca chiusa?»
«Non puoi neanche immaginare» gli rispose quell'altro, sorridendo prima a Sherlock, che si decise a tacere. Sì, in effetti anche John si stava divertendo.
«Ciò non toglie» continuò “l'alieno” «che una cosa giusta l'abbia detta. Di sicuro, non sono un uomo sano di mente.» Allungò i piedi, mettendo in mostra le sue ridicole scarpe da teenager, e sorrise mostrando tutti i denti. Sembrava entusiasta. «Ma è davvero brillante il modo in cui sei riuscito a capire chi - no, be', tecnicamente cosa - sono e a non svenire. Di solito c'è bisogno di spiegazioni e spiegazioni e… ah, perché non sono tutti come te? Potresti venire con me, farmi da interprete, spiegare che ci si può inconfutabilmente fidare di me e della mia alienitudine.» Si fermò e sbatté un attimo le palpebre, come se persino lui si fosse perso nel proprio ragionamento, poi alzò lo sguardo su Sherlock, come in attesa di una risposta seria.
Lui aveva ancora gli occhi da pazzo e sembrava poco incline a prendere sul serio quel tizio che parlava senza neanche respirare e inventava parole sul momento. John sospettava che vi riconoscesse un po' troppo di se stesso. «Che ci si possa fidare di te, è ancora tutto da vedere.»
Il tizio sporse il labbro inferiore e fece gli occhi da cucciolo scontento, come un bambino che avesse improvvisamente scoperto che il suo ultimo giocattolo non era perfetto come aveva creduto. Poi balzò in piedi. «Te lo dimostrerò, allora. Non sono certo venuto qui solo per prendere un tè - graziosa la tua cameriera, a proposito, davvero magnifica - quindi muoviamoci
Sherlock aveva il vizio di far muovere la gente senza dar spiegazioni, e sembrava che essere soggetto allo stesso trattamento lo infastidisse più che mai. Si lasciò cadere accanto a John sul divano, stringendosi le gambe al petto, in un deciso rifiuto. «Quando mi dirai dove andremo…»
«Oh, non saperlo è molto più divertente!» si esaltò il pazzo, con un sorriso immenso. 
Holmes aggrottò le sopracciglia. Sembrava che si stesse raggrinzendo come dopo aver mangiato un limone. «Non ci hai ancora spiegato a cosa ti serve il nostro aiuto» gli fece notare allora John; perché sì, vedere il suo coinquilino impazzire era divertente, ma anche lui iniziava ad avere dubbi sull'entità di quell'uomo. «E neanche chi sei, in effetti.»
«Oh, giusto, giusto… Be', sono il Dottore!» Come se ciò spiegasse tutto.
«Non sei un medico» intervenne subito Sherlock. «Non ne hai l'odore né l'aspetto, non come il qui presente…» John fu quasi certo che avrebbe detto traditore «Dottor Watson.» E lo indicò.
«Oh, ma io non sono quel tipo di dottore! Be', sì, lo sono, e perdonami se te lo dico ma penso che tu sia afflitto da una specie di anoressia nervosa - oh no, non mangi? Chi ne ha tempo, con tutti questi misteri da risolvere, eh?» Prese una mela dal cestino lasciato da Mrs Hudson e la lanciò un paio di volte in aria. «Preferisco le banane, comunque» asserì, rimettendo il frutto a posto. «Chiamatemi il Dottore, e basta. Vedrete, è un titolo che merito. Ora… vogliamo andare? Non vi ho forse incuriosito abbastanza? Scommetto che vi stavate annoiando.» Guardò, neanche tanto velatamente, il giornale accartocciato accanto al caminetto. Sherlock l'aveva lanciato via dieci minuti prima che il campanello suonasse, disgustato dalle notizie inutili sulle vacanze invernali del Principe William.

Il Dottore iniziò a camminare veloce davanti a loro, indicando palazzi a caso e urlando frasi sconnesse e senza un apparente senso logico, mentre Sherlock e John gli tenevano dietro. «E lì è dove ho salvato Elisabetta!» John alzò un sopracciglio «La Regina Elisabetta?»
«Sì, ma la prima. Non quella di adesso. Anche se avrei un paio di aneddoti interessanti anche su di lei» sorrise e girò in una stradina buia e che sapeva di piscio di cane. In mezzo alla strada c'era solo una cabina telefonica della polizia, di un colore che in principio doveva essere stato un blu acceso, con le finestre troppo grosse. Il Dottore ci si fermò davanti, estasiato. 
«Beh?»
«Beh cosa? Questa è la TARDIS!»
«La cosa?»
«La TARDIS, John, la sua macchina del tempo» Sherlock si fece avanti sorridendo e il Dottore annuì verso di lui, compiaciuto. «Time And Relative Dimension In Space. Tempo e relativa dimensione nello spazio. Altresì, welcome to my crib» 
«Per favore, queste citazioni evitale. Non ti si addicono» Il detective sembrava aver ritrovato la sua famosa lingua tagliente. 
John, come al solito, si sentiva un pelo lasciato indietro. «Come…?»
«Cosa, John?» Impaziente come suo solito.
«Uno; davvero credi sia un alieno?»
«L'ho dedotto» ribatté Sherlock, come se gli stesse spiegando che sì, uno più uno fa due.
Lui lo ignorò. Era più facile che prenderlo a pugni. «Due; macchina del tempo
«Ovviamente, ha detto di aver conosciuto la prima Elisabetta, e poi, cos'altro avrebbe potuto voler dire quella sigla?»
«Ma certo» sussurrò John, lanciandogli un'occhiataccia.
Il Dottore aveva aperto la porta della TARDIS e stava appoggiato allo stipite, nascondendo l'interno, osservandoli con aria affascinata e divertita. John entrò e sentì la mascella cadere. «È…» vide il Dottore portarsi le mani al viso «Se hai intenzione di finire questa frase con "più grande all'interno" ti prego, risparmiatelo. L'hanno detto così tante volte che sta iniziando a diventare noioso» John chiuse la bocca e si ficcò le mani così a fondo nelle tasche che per un attimo ebbe paura di sfondarle. Sherlock si aggirava per la sala con il naso all'insù, e sembrava un bambino in un negozio di caramelle. «E quindi? Dove andiamo? Cosa facciamo?» 
Il Dottore gli sorrise «Dove volete»

***


La prima sensazione era stata un pizzicore nella punta delle dita, come quando le metti vicino al fuoco dopo essere stata a lungo al freddo. Non ci badò, perché quella era una missione, e Rose non si faceva distrarre, durante le missioni. Non quando aveva un'arma sonica fra le braccia ed una roba viscidosa e verde che le strisciava incontro. Certo a lei gli alieni non facevano paura, non desiderava neanche ammazzarli tutti come alcuni suoi colleghi - il Torchwood dell'universo parallelo era molto più, uhm, simpatico di quello del suo mondo, ma alcune cose faticavano a cambiare - ma questo aveva appena divorato l'intera popolazione di uno sperduto villaggio Gallese, quindi no, Rose non poteva permettersi di distrarsi per un pizzicore alle dita.
Fu quando la mano che reggeva il fucilone-spara-metastasi, come l'aveva chiamato Clint, iniziò a sparire che si fermò un secondo. Alzò gli occhi verso l'uomo con il cappotto nero - lungo, di pelle. Infatti, alcune cose faticavano a cambiare -, ma il suo sguardo terrificato non la rassicurò. «Clint. Clint, che…» il fucile era ancora sospeso a mezz'aria, come se fosse effettivamente retto da qualcosa. Peccato che quel qualcosa avrebbe dovuto essere il suo braccio, e dopo la sua spalla non c'era più nulla. «Rose!» sentì ancora quel pizzicore, molto più intenso però, come una vera e propria scarica elettrica che partiva dalla fronte e si spandeva per tutto il corpo. Quando le arrivò alle gambe si trovò a spalancare le braccia e urlare. Ma dalla sua nonbocca non usciva nulla, e anche se i suoi nonocchi riuscivano a vedere tutte le espressioni sbalordite dei suoi colleghi, le sue nonmani non tenevano più il fucile. Si limitò a urlare - a nonurlare - nella sua nonmente. 
Quando le riaprì, le palpebre erano vere palpebre, e tutto il suo corpo sembrava tornato a posto, vistoso e corporeo. Tutta gialla e rosa, le avrebbe detto qualcuno. Le scintillò una lacrima sulla guancia. Già, alcune cose faticavano davvero a cambiare. 
Un attimo dopo, era tornata al presente. Basta lacrime, era appena scomparsa dal mondo. La nausea le attanagliava le viscere, eppure la sensazione era quella di un deja-vù, e non avrebbe mai potuto scordarla. Quella era la sensazione che ti lasciano addosso i viaggi nel tempo. Quella specie di polvere che pare depositartisi addosso, subito scacciata da un vortice di eccitazione che ti parte dalla testa e da ogni singolo centimetro di pelle e istinto che urla sbagliatosbagliatosbagliato - non dovremmo essere qui.
Rose sbatté le palpebre, ed il mondo tornò a fuoco. Tornò al presente, solo che non era presente quanto avrebbe dovuto. Oppure il vintage era tornato di moda in quei due secondi fra un battito di palpebre e l'altro. Ma d'altro canto non ne era sorpresa. Sapeva già di essere in un altro tempo.
«Be', signorina» disse la donna mora seduta in poltrona - più che seduta raggomitolata, con addosso un cappotto lungo e blu scuro ed una tazza da tè in bilico sulle ginocchia. «Raramente chiedo spiegazioni alla gente, ma lei come diavolo è arrivata qui

Rose si mise a sedere sulla poltrona davanti alla donna col cappotto, e un uomo le portò una tazza di tè su un vassoio «Layne, guarda che disordine…» l'uomo sbuffò e fece per andarsene «QUEL TESCHIO. Ti avevo detto di ritirarlo in un qualche angolo buio dimenticato da Dio e dagli uomini!» 
«Ianto, smettila, e portaci dei biscotti, per favore»
«Sono il tuo padrone di casa, tesoro, non il tuo cameriere» 
«Come al solito» lei gli strizzò l'occhio e Ianto scomparve nella tromba delle scale. Rose aveva assistito a tutta la scena in silenzio, con la tazza di tè bollente fra le mani e le sopracciglia leggermente alzate, come se avesse già visto quella scena. Poi la donna tornò a concentrarsi su di lei. «Non di questo tempo. Centovent'anni, se non vado errata. È il tuo odore. Niente da queste parti ne ha uno simile. Ma» la donna si mordicchiava la punta delle dita, fissandola intenta. «C'è qualcosa di fuori fuoco. Fuori spazio. Sì, sì. Il potere della faglia ha agito più a fondo di quanto non pensassi.»
Saltò in piedi - il tè che un attimo prima era sulle sue ginocchia si salvò in una qualche misteriosa e soprannaturale maniera - e in un unico passo arrivò a uno scrittoio ingombro di libri e provette. Aveva le dita lunghe, sottili e bianche, e quando le infilò in mezzo a quel ciarpame ci misero poco a trovare ciò che stavano cercando. La donna - Layne - le puntò contro un tubetto di metallo lucido, troppo lungo per essere una penna e troppo inspiegabile per essere un semplice frustino antelitteram. Sulla punta aveva una sferetta di vetro. Che si illuminava. Di blu.
Rose sussultò, e le immagini del Dottore con quel coso stretto in mano le ferirono la mente «Dove l'hai preso?» sibilò, con gli occhi stretti a due fessure. Il Dottore non si separava mai dal suo prezioso cacciavite sonico. Il Dottore teneva più a quel pezzetto di latta che all'intero ordine cosmico. Poi il pensiero la colpì: il Dottore era lì.
«L'ho costruito» le rispose Layne con una scrollata di spalle, polverizzando ogni sua speranza con una violenza così brutale e involontaria da farle quasi male «sai, un pezzetto di metallo qui, una biglia di là… ho sistemato dei contatti elettrici con dei pezzi di una lampadina rotta - invenzione geniale, tra l'altro, non trovi? E all'improvviso ha iniziato a fare così» le indicò la punta sonica del cacciavite. Si illuminava ad intermittenza. Quattro flash, pausa, quattro flash, pausa. E non faceva rumore. Ricordava il rumore del cacciavite del Dottore come se l'avesse usato come suoneria del cellulare, e quel surrogato di apparecchio cosmico costruito da una strana ragazza in cappotto nero e pigiama appollaiata su una poltrona di un salotto di chissà quale epoca storica era completamente muto.
«E tu» continuò Layne «sei qualcosa che non gli piace. Sei…» Osservò la punta luminosa con sguardo concentrato. Le ricordava molto, molto qualcun altro: ma doveva sforzarsi di tornare al presente, perché quella ragazza non sembrava avere nulla in comune col Dottore. «Sei carica. Hai una carica, tua, propria, come… come uno ione.» Si mise a borbottare fra sé e sé qualcosa d'inintelligibile.
«Ed è strano? Scusa, posso chiederti che anno è?»
Lei alzò di scatto la testa, facendosi cadere qualche ciocca sul viso. Aveva i capelli ricci, lunghi fino a sfiorare il colletto alzato del suo cappotto. La guardava e sorrideva, adesso, come le avesse annunciato di esserle apparsa d'improvviso in casa perché sì, sono Babbo Natale. «Oh! Oh! Lo sapevo. 1888. Inghilterra. Londra. 221B Baker Street. A casa - be', non lo rimarrà per molto se non pagherò l'affitto - di Miss Layne Holmes. E» puntò quel surrogato-sonico verso se stessa. «no, in questa casa non è strano. Sono carica anch'io, vedi?» Le mostrò la punta lampeggiante di blu, anche se Rose non sapeva davvero cos'avrebbe dovuto vedere. «Ma se uscirai in strada, non troverai nessun altro sonicamente carico. E una persona diventa sonicamente carica solo se assorbe una grande, grandissima emissione di energia.» 
«Allora mi sa che il tuo apparecchio non funziona, Layne» Rose sorrise del sorriso più accondiscendente che riuscì a confezionare «io non ho certo assorbito energia, come dici tu, né fatto niente di speciale» "L'alieno nella gabbia di vetro continuava a picchiare, Clint, il capo del Torchwood, la fece allontanare prendendola per il braccio. Le disse che aveva fatto davvero un buon lavoro, che in pochi riuscivano a catturare uno Sleethin così in fretta e con così poca esperienza, e a lei venne da ridere. Poca esperienza…" «…beh, quasi niente di speciale» "La TARDIS era in lei. Lei era la TARDIS. Sentiva la sua voce, antica e potente, roboante, la sentiva urlare in ogni sua vena, in ogni osso, in ogni muscolo, premeva contro tutto ciò che Rose Tyler era e che smetteva di essere nell'istante stesso in cui lo pensava. Il Cuore della TARDIS vorticava nella sua testa, e lei sapeva tutto, del tempo, dello spazio, dell'universo, di ogni cosa, tutto era antico, tutto era nuovo, tutto era nello stesso momento in cui pensava che fosse, mondi che si sovrapponevano in un valzer unico di tempo e… «…Ok, forse non funziona poi così male. Ma il Dottore mi aveva assicurato di essersi preso tutto, che non era rimasto niente a me»
«Il Dottore?» Layne si era fatta improvvisamente interessata, e la sua voce profonda era scivolata ancora più in basso. Prese una pipa dallo scrittoio e se l'accese, prendendo grosse boccate di tabacco e sputando nell'aria del fumo azzurrognolo «Oh, ti dispiace se fumo? So che non dovrei, è così difficile sostenere un'abitudine da fumatrice nella Londra di oggi… ma cosa ci posso fare?» soffiò un altro paio di nuvolette grigioazzurre e si raggomitolò ancora più sulla poltrona. Teneva le mani sotto le ascelle, ne tirava fuori una di tanto in tanto per sistemarsi la pipa. Aveva gli angoli della bocca piegati verso il basso, gli occhi azzurri così concentrati da parer fissi - no, non erano azzurri, e neanche grigi o verdi; erano dello stesso colore del ghiaccio. O il colore della fine dell'Universo. «Chi è questo Dottore?»
«Lui è… il Dottore.» Rose scosse il capo. «Lui è… aiuta la gente. Viaggia nel tempo e nello spazio con la sua cabina blu e mette a posto le cose. E io ho viaggiato con lui, e-» ma si fermò in tempo. «È stato allora che ho assorbito quell'energia. Lui è morto - be', quasi - per tirarmela fuori, era sicuro che non sarebbe tornata mai più…»
Layne scosse la testa, togliendosi la pipa di bocca. «Non è tornata… è stata riattivata. Da me.»
«Da te
«Be', dalla quantità di energia che io ho assorbito e che nessuno s'è preso la briga di tirarmi fuori. Oh, non preoccuparti, sto benissimo» Aveva notato il lampo di preoccupazione negli occhi della bionda prima ancora che lei potesse pensare di far domande. «È utile. Aiuta a combattere la noia.»
«E come?»
«Un sacco di alieni mi trovano interessante, adesso. E dovrei anche menzionare il fatto che mi faccia piovere graziose ragazze seminude in casa.»
«Non sono seminuda!» Questo le ricordava molto qualcos'altro. Si strinse le braccia attorno al petto, per buona misura, anche se indossava solo una t-shirt a mezze maniche.
«Non preoccuparti, siamo di vedute aperte, qui.» Layne si alzò di nuovo per andare a svuotare la pipa nel camino spento. «Ad ogni modo, la mia energia ha risvegliato la tua. L'ha richiamata, sarebbe più preciso dire… e tu ti sei ritrovata qui.» Le puntò contro il cannello della pipa. «Complimenti per la pazienza, mi hai lasciato divagare quanto ho voluto.»
«Anche al Dottore piace divagare.»
«Capisco» Layne annuì, concedendole uno sguardo di sbieco. «Ora, mia cara… come ti chiami?»
«Rose, Rose Tyler. Vivevo… vivo a Londra… beh, una storia troppo lunga.»
L'altra annuì; sembrava non fosse molto interessata, ad ogni modo. «Sì. Bene. Non ho la minima idea di come farti tornare indietro. Non è qualcosa che ho scelto volontariamente. Quindi, ora, è meglio se ti presto un vestito, se speri di ambientarti qui.»

***
 

«Ma santa di quella miseria, Dottore! È sempre così?» John era appeso ad una sbarra di ferro all'interno della TARDIS, dopo essere stato sbattuto per tutto il vortice del tempo e dello spazio, con la sciarpa che gli scendeva fino alle gambe e il maglione alzato fino allo sterno, che mostrava la sua pancia piatta e bianchiccia. Sherlock, invece, era in piedi perfettamente immobile al centro della macchina, che fissava il Dottore con un interesse quasi rapace. «Dove siamo, Dottore?»
«Oh, non ne ho idea. Così è molto più divertente!» Toccò un paio di volte quello che sembrava lo schermo di una televisione d'annata appeso ad un tubo di un'aspirapolvere e sorrise «La TARDIS mi sta dicendo che sembra che ci sia una forte energia temporale, da queste parti. Come… un catalizzatore. Qualcosa di elettronicamente e sonoramente… non so come spiegarvelo. Attivo. Come uno ione» Sherlock annuì, impassibile «Ovviamente» 
Uscirono dalla TARDIS troppo velocemente perché John potesse seguirli, e si trovò a correre dietro ad un pazzo con una cabina blu e ad un sociopatico troppo pallido, entrambi con gambe molto più lunghe delle sue, per un mondo e un tempo che avrebbe potuto essere qualunque. 
Sherlock e il Dottore si fermarono in una strada che sapeva di piscio e vomito non pulito, ma questa volta poteva sentire benissimo l'odore dolciastro di alcool. Avevano tutti e due gli occhi che si muovevano veloci tra una mattonella e l'altra, tra un dettaglio e l'altro. «Londra. 1890» il Dottore fissò Sherlock ammirato, e John pensò che si stesse trattenendo dal battere le mani e saltargli attorno urlando che sì, finalmente aveva trovato il suo amichetto. «Impressionante!»
«No, ovvio. La calce dei palazzi, i manifesti che ci sono appesi in giro, la stampa del Times… non usano il Times New Roman, deve essere prima dell'inizio del '900» si portò la pagina di giornale che aveva raccolto da terra al naso «e l'odore non è dell'inchiostro chimico, è ancora una miscela di china. E poi… beh, c'è la data. 13 aprile 1890» 
«Bene, adesso sappiamo quando. Dovremmo solo capire cosa, o chi» 
John aveva smesso di seguire i loro ragionamenti da tempo, ma tornò presente a sé «Cosa o chi… cosa?» ricevette sguardi stupiti sia da parte del suo coinquilino che da parte del Dottore. 
«Ma chi o cosa sta catalizzando l'energia, è ovvio, John» 

 

***

 «Rose? È finito il latte» 
«E perché non vai a prenderlo?»
«Perché ci vai tu» Layne le tese il cappotto con un sorriso e svuotò la pipa sul divano «E prendi anche del tè, che è quasi finito» 
Due anni. Erano passati due anni da quando era arrivata in quella Londra in cui tutto sapeva di vapore e sporco, ma ancora non si era abituata a Layne. Si era abituata a tutto, agli scarichi in mezzo alle strade e ai mercati del pesce che puzzavano a chilometri di distanza, ma non era ancora riuscita ad abituarsi a come quella ragazza potesse essere così incredibilmente intelligente, spigliata e pigra. 
«Non sono pigra, cerco di tenere le mie energie per quando serviranno davvero»  
«Non puoi sapere a cosa stessi pensando, dai. Lì non ci arrivi neanche tu.» 
Layne le strizzò un occhio e le lanciò un cappello marrone «Questo lo credi tu, dolcezza.»
«Ma va a cagare, dolcezza» le lasciò un bacio delicato sulle labbra e si chiuse la porta alle spalle. Si calcò il cappello in testa e scese rapidamente le scale dell'appartamento, incontrando Ianto che invece saliva dal pianterreno.
«Latte?»
«Come faccia a finirlo così velocemente, è un mistero.»
«Magari vuole solo far esplodere la casa mentre non ci sei, così da poter fare la gnorri al tuo ritorno.»
«L'ha mai fatto?»
«Oh, sì. Corri, signorina, corri.»
Rose uscì dal palazzo ridendo e avviandosi a passi veloci lungo la strada, tenendosi il cappello sulla testa. Tirava un vento freddo e forte, che però, almeno per un po', scacciava quella nebbia tanto cupa che, se gliene avessero parlato nel XXI secolo, non ci avrebbe creduto. Lungo Baker Street passavano calessini e carrozze, dame dai lunghi abiti e uomini distinti in bombetta. Rose ci aveva fatto ormai l'abitudine; e d'altro canto, stranamente, una parte di lei trovava quel tempo più normale, suo di quello in cui era nata. Qualcuno avrebbe detto che era una vera viaggiatrice; ma ormai Rose aveva imparato a non pensare più così spesso al Dottore, e anche vedere un uomo con indosso un cappotto lungo non le faceva più saltare il cuore in gola. Avrebbe avuto come minimo dieci infarti al giorno, visto la moda del tempo.
Ovviamente non l'aveva dimenticato. Le era impossibile, come non provare malinconia per i suoi genitori. E c'erano ancora notti in cui si svegliava di soprassalto con la sua voce nella testa, e la sensazione che il mondo si stesse muovendo sotto di lei, girando, correndo; i vortici del tempo si aprivano nella sua mente, in quel momento in cui non si è sicuri di essere svegli o di star sognando.
Ma in quei momenti arrivava Layne. Era sempre lì, un'ombra più scura delle altre nella sua stanza, accanto al suo letto, una presenza calda quando di solito tutto il suo calore consisteva in semplici occhiate di sottecchi. E quindi Rose aveva lasciato che il dolore e la perdita si allontanassero da lei, rimanendole da qualche parte nel petto, proprio sotto il cuore, intrappolati sotto qualcosa che doveva essere malinconia, ma con cui stava imparando ad avere a che fare. Era un po' come sentire una vecchia canzone di Bob Dylan passare alla radio. Mette tristezza, ma in ogni caso sorridi, anche se sul parabrezza della tua macchina stanno piovendo gocce grosse come pugni, perché ti senti a casa. E Rose, con quella strana ragazza che aveva l'intelligenza di tutti i premi Nobel messi insieme e quel maggiordomo che continuava a chiamarla "signorina" si sentiva finalmente a casa. Era parecchio che pensava che il Torchwood non facesse davvero per lei, c'era troppa morte, troppa cattiveria, troppe gabbie nei metodi di quella protopolizia perché lei potesse andarci d'accordo.
Non si era neanche resa conto di essersi messa a camminare così velocemente. Si era tirata su la gonna - nei limiti della decenza - ed era entrata nel mercato. Era già davanti ai primi banchetti, e non se n'era accorta. Scosse la testa, con quel sorriso a trentadue denti che a Mickey era sempre piaciuto tanto, e si chinò sui sacchetti di telina viola che una signora con una mantella nera stava vendendo. Sapevano di biscotto spappolato sotto la pioggia e lavanda. 
«Ma'am, ne prenda un paio» le mormorò la donna da sotto il cappuccio della mantella. Aveva dei riccioli biondi che sfuggivano alla crocchia alta e due occhi chiari che sprizzavano vita. Per un attimo le sembrò di vedere qualcosa di familiare in quelle fossette, ma scacciò il pensiero scuotendo la testa «Davvero Ma'am, si fidi di Miss River Song. I migliori biscotti da che Londra è stata fondata - e si fidi, ne so qualcosa! Solo una sterlina, per lei» 

  
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