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Autore: Sottosopra    03/01/2007    1 recensioni
Stazione Termini. O "mamma Termini", che dir si voglia.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Pensava, in quel momento, che la mamma aveva ragione a dire che la Stazione non è un luogo da frequentare, di notte.
Capì però – e sorrise anche, amarognola – che i soggetti da-non-incrociare erano proprio i tipi come lei che, in quel momento, seduta con due occhiaie che le coprivano tutte le guance, magra e stanca, gettata in un angolo, guardava arcigna le poche persone che passavano aspettando che “la storia” le sbucasse da dietro l’angolo.
Già. “La Storia”.
Perché lei – e questo teniamo a dirlo subito – non aveva davvero niente a che fare con tutti quei tipi in cerca di una dose alle due del mattino, che le si avvicinavano chiedendole se aveva dei soldi e poi, vedendo i suoi occhi azzurri infossati in quel viso magro e malato, come chi ha paura del proprio riflesso scappavano lontano, aspettando la mattina per guardare con aria invidiosa e affamata tutti quei ricchi borghesi in giacca e cravatta che parlavano ai loro auricolari, ostentando in quei modi raffinati il loro retaggio da Liceo Classico e la loro laurea da cinque anni a Giurisprudenza o, nelle migliori delle ipotesi, Lettere Moderne alla Sapienza. Avevano una casa con il recinto, quelli lì, una moglie, una segretaria e un’amante. A volte la segretaria e l’amante erano la stessa persona. Lei non aveva niente a che fare neanche con quelli lì, e non aveva niente a che fare neppure con i pendolari con i denti ingialliti da sigarette e caffé, e non un soldo o uno sguardo in comune con le suore bianche, nere, azzurre e variopinte che passavano ridendo a gruppi, con quelle vesti pesanti anche d’estate. No, non c’entrava. Non c’entrava con le ragazzine spaurite che si dimenticavano di timbrare il biglietto, e neanche con i vecchi che, dimenticatisi degli occhiali, chiedevano ai passanti di fretta di legger loro i tabelloni delle partenze e degli arrivi. E si passava una mano sulla bocca divertita quando annunciavano che alle nove si sarebbe celebrata la Santa Messa nella Cappella Termini, e quando lo ripetevano si lasciava scivolare sul terreno lurido e rideva ancora più forte, finché non le venivano le lacrime agli occhi e la gente, passando, le lanciava occhiate imbarazzate o sprezzanti.
Ma lei li perdonava tutti. Li osservava vorticare su loro stessi fino al capogiro, inghiottendo le risate fino a farsi male. Fino al capogiro, vorticavano, e si gloriavano di una vita di stenti o quasi, dandosi l’un l’altro pacche sulle spalle a fine giornata, prima di addormentarsi, e ignorando di fare un sogno ogni quattro secondi, e di vivere una sola vita di settant’anni, lamentandosi di non avere mai abbastanza tempo ma guardando di domenica la partita in tv.
E lei rideva piegandosi in due e sentendo arrivare le convulsioni, con le dita congestionate dal freddo e le labbra viola, il ghiaccio incrostato nelle ciglia lunghe. Ma cercava di catturare la gente.
Cercava di catturare la gente, di intrappolarla, incantarla, imprigionarla nel ricordo e poi tornare a casa sua. Se ci fosse riuscita sarebbe potuta tornare davvero, e avrebbe avuto un termosifone e un bagno caldo, e poi avrebbe scritto tutto. Ma “La Storia” non veniva.
Colpa di chi? iniziò a chiedersi un giorno: colpa di cosa?
Colpa mia o della gente, che corre e non si lascia catturare, imprigionare, incantare, intrappolare tra le ciglia assieme al ghiaccio, e tenerla lì davanti agli occhi, e tornare a casa ed essere in grado di raccontarla.
Mostrati! Mostrati! Mostrati! Allora sbatteva i pugni e si graffiava le guance finché il sangue non le ricordava che era ancora viva e finché…
finché c’è vita c’è…
Speranza?





  
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