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Autore: Dira_    23/06/2012    17 recensioni
“Mi chiamo Lily Luna Potter, ho quindici anni e credo nel Fato.
Intendiamoci: niente roba tipo scrutare il cielo. Io credo piuttosto che ciascuno di noi sia nato più di una volta e che prima o poi si trovi di fronte a scelte più vecchie di lui.”
Tom Dursley, la cui anima è quella di Voldemort, è scomparso. Al Potter lo cerca ancora. All’ombra del riesumato Torneo Tremaghi si dipanano i piani della Thule, società occulta, che già una volta ha tentato di impadronirsi dei Doni della Morte.
“Se aveste una seconda possibilità… voi cosa fareste?”
[Seguito di Doppelgaenger]
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Capitolo LVIII

 
 
 
 
 
The cycle repeated /As explosions broke in the sky
All that I needed /Was the one thing I couldn't find
(Burn It Down, Linkin Park)
 
 
“… Sono morta.” Si trovò a borbottare come una perfetta scema.
Sua nonna sorrise. “No che non lo sei.” Disse. “Ti dispiace se parliamo un po’?”

 
 
“Tu, parlare con me?” Lily si sentiva stupida. Si sentiva tale perché Lily Evans – sì, la sua augusta nonna – la guardava come se fosse tutto perfettamente normale. Per un momento allucinato pensò che tirasse fuori una torta, come l’altra nonna – quella che le piaceva – faceva ogni volta che lei e i fratelli andavano a trovarla.
Per fortuna non successe.
“Vedi altre persone?” Chiese invece, dandosi una spinta leggera sull’altalena. “Siamo solo io e te.”
“Sì, l’ho notato.” Replicò aspra, alzandosi in piedi e facendo dieci doverosi passi. La distanza era un buon metodo per esprimere sconforto.

Sono morta e chi mi viene a prendere è la Perfettissima?! Grazie tante!
L’altra ragazza inarcò le sopracciglia. “Non hai voglia di parlare, vedo.”
“Ma dai!” Anche a dieci passi di distanza poteva vedere la piega perfetta dei suoi capelli. Ci si svegliava di sicuro, non doveva stare mezz’ora di fronte allo specchio come lei, che doveva domare il suo terrificante Dna tricotico ogni giorno. Senza contare i lineamenti da bambola di porcellana, le forme statuarie –era una fottuta elfa a confronto - la pelle chiarissima e …

Sì, vabbeh, gli occhi.
“Posso sapere perché mi detesti tanto?”
Lily aprì la bocca, ma dalle labbra non le uscì alcun suono.

Perché ti detesto?
A parole non era semplice spiegare perché non sopportasse doversi confrontare con lei, persino in un luogo onirico e dunque deposto alla pace e alla serenità. L’aveva spiegato a Ren – a quello che credeva fosse Ren – ma dirlo in faccia a Lily Evans era tutt’altra storia.
“Perché… non sarò mai come te.” Buttò fuori, sentendo lo stomaco dolere e le ciglia pizzicare di lacrime trattenute. Non sarebbe mai stata tutto ciò che rappresentava il suo nome; non così coraggiosa, non così intelligente e piena di buonsenso. Sua nonna era un’eroina, lei sarebbe stata sempre e solo Lilian, la sciocchina, la ragazza che faceva fatica a concentrarsi sulle cose importanti e sbagliava giudizi sulle persone, nonostante avesse un dono che le facilitava il compito. Quella delle scelte sbagliate.
Insomma, una deficiente.
Le venne scoccata un’occhiata sorpresa. “E perché mai dovresti esserlo?” Si alzò dall’altalena e la raggiunse.
Lily fece un passo indietro. “Non… non lo so.” Borbottò presa in contropiede. Faceva caldo, realizzò. Faceva davvero caldo, molto più di prima. Forse era il sole che picchiava impazzito, fortissimo, arroventando tutto. Panchine, altalene, terreno, ogni cosa. “Possiamo spostarci all’ombra?”
“Qui non c’è ombra.” E non poteva sbagliarsi, per un momento Miss Perfezione aveva smesso di sorridere e fatto una smorfia. “Perché, ti dà fastidio?”
“Beh, magari con un paio di occhiali da sole…” Le uscì spontaneo, salvo arrossire alla risata dell’altra.

“Tu non sei come me, Lilian.” Disse inclinando la testa di lato per guardarla meglio. Era un gesto che faceva anche lei. Merlino, se la odiava. “Per fortuna, aggiungerei.”
“Fortuna per te.”
“Per te.” Le fece eco. “Vorrei farti notare che sono morta.”
Touché.
“Quindi … io non lo sono?” Già, aveva dimenticato quel piccolo particolare. Le era stato appena confermato di essere viva. “Ma l’Avada…”
“Non ti ha preso.” L’anticipò. “Diciamo che sei scivolata.”
“Scivolata?” Aggrottò le sopracciglia; ricordava di aver cercato di scappare, o comunque buttarsi a terra, quando aveva visto John Doe levare la bacchetta contro di lei. Lei e i fratelli avevano ricevuto precise istruzioni da padre sin dall’infanzia. Se non puoi combattere, non fare l’eroe. Il concetto era permeato. Ma non ricordava di essere riuscita ad evitare il colpo. “Come ho fatto?”
L’altra Lily fece un mezzo sorriso enigmatico. Davvero, sorrideva come Albus – o più probabilmente, suo fratello sorrideva come lei. Un sorriso simile l’aveva visto solo in un dipinto babbano a Parigi. Monna Lisa, le sembrava si chiamasse.

“Non puoi dirmelo?” Spiò, anche se un dubbio l’aveva. “Cioè… sei stata tu?”
“Tu che dici?” Rise della sua espressione sicuramente scornata. “Dall’Altra Parte, Lilian, vi osserviamo, lo dissi anche a tuo padre. Quando siete nati, io e tuo nonno siamo stati felicissimi. Per noi non c’è modo di dimenticarvi.”
“Tipo angeli custodi?” Era un po’ ridicolo, ma ricordava qualche nozione babbana dai discorsi della nonna di Rose, che era cattolica o una cosa simile.

Lo sguardo di sua nonna si illuminò. Forse le ricordava le sue, di origini. “Sì, una cosa simile.” Confermò.
Nel silenzio che ne conseguì Lily sentì frinire le cicale; quel posto sembrava immerso in una delle rare estate inglesi, dove il sole sembrava voler scaldare ogni cosa per ripagarli del fatto di esserci così poco il resto dell’anno.  
“Quindi non sono morta… Okay.” Fece il punto della situazione. “Allora che ci faccio qui? Non è, tipo… l’Altra Parte questa?” Prese un respiro profondo. Le stava andando a fuoco la testa, a dirla tutta.  
Davvero, neanche un po’ d’ombra? Sicuri non siamo all’inferno?
“No.” Negò l’altra Lily soffiandosi via una ciocca di capelli liscissimi. Per avere quell’effetto lei doveva lavorarci tre ore. Comunque. “Qui siamo ad una frontiera. Un lembo di terra tra due mondi, un posto in cui uno spirito, come me, può incontrare una persona viva come te.”
Wow. Dovrei essere impressionata?
Non lo era, sul serio. Neanche un po’.
“Sì, vabbeh … ma come ci sono finita? Se non sono morta, che mi è successo?” Insistette; tutti quei sorrisi sibillini non l’avrebbero certo fatta fessa. Era una LeNa, lei.
Sua nonna non sembrò seccata dalla sequela di domande; anzi, sembrava quasi piacerle. Tipa strana. “Hai battuto la testa quando sei scivolata ed hai perso i sensi… È una condizione mentale fertile a questo genere di contatto.” Ci pensò, poi aggiunse. “Tuo padre ha sperimentato qualcosa di simile, ti ricordi?” 
Lily annuì; sì, quello aveva senso. “Sei qui perché c’è qualcosa che devi dirmi?” Tirò ad indovinare.
Le venne fatto cenno di camminare, ma nel mentre e dopo sua nonna rimase alla distanza di sicurezza che le aveva imposto. Questo dovette apprezzarlo, sebbene a malincuore. “Sì.” Guardò il sole e aggrottò le sopracciglia; sembrava piuttosto contrariata dall’astro, quasi avesse il potere se scegliere di splendere o meno.
“Si tratta del tuo amico Sören.”
 
 
****
 
“Al!”
Sentire Tom chiamarlo in quel tono allarmato era un fenomeno più unico che raro, dato che era quasi confermata la teoria secondo cui fosse incapace di utilizzare le corde vocali oltre un certo limite. Alzare la voce? E quando mai?
Al batté le palpebre e si tirò seduto, massaggiandosi con una smorfia la testa; ricordava solo una gran luce e poi un’altrettanta gran botta. Era rimasto stordito per qualche attimo, seduto contro le gambe di una grossa cassapanca di legno.
Vide Tom a qualche metro da lui, immobile. “Tom? Aiutarmi ad alzarmi no?” Bofonchiò tirandosi in piedi.
L’altro per tutta risposta stese una mano di fronte a sé; con enorme stupore Albus vide formarsi una patina luminosa attorno ad essa, quasi solida.
“C’è una barriera.” Disse. Il tono sfumò di nuovo nella preoccupazione, e così l’espressione ansiosa. “Stai bene?”
“Gran botta, nessun danno… sai che ho la testa dura.” Sorrise appena. Poi realizzò che se c’era una barriera dalla parte di Tom, molto probabilmente valeva lo stesso principio dalla sua. Si avvicinò e ripeté il gesto dell’altro. Stessa reazione.
“Maledizione…” Mormorò sgomento. “Com’è successo?”
“Credo fosse una trappola.” Tom misurò un paio di passi, da un lato all’altro del corridoio, già di per sé non molto ampio, almeno in larghezza. In lunghezza, sprofondava verso l’infinito. “Si è attivata quando siamo passati.”

“Come facciamo a romperla?”
“Non possiamo.” Lo freddò. “Ci ho già provato. Mi ha rispedito indietro qualunque incantesimo. Raddoppiato.”  
“Non puoi aver provato tutto. Quanto sono stato…”
“Abbastanza.” Lo interruppe brusco. Si morse un labbro. “Non è questione di trovare l’incantesimo giusto… il fatto è che qualunque esternazione magica viene rimandata indietro. È una barriera complessa. Oltre…” Fece un respiro profondo, quasi dovesse ingoiare un cucchiaio di una medicina disgustosa. “… È oltre la nostra portata.” Ammise infine.

“Maledizione.” Ripeté, realizzando che Tom non gli stava mentendo; non era una delle sue macchinazioni per andare da Von Hohenheim escludendolo dalla faccenda. Era l’agghiacciante realtà.
Si avvicinò il più possibile all’altro, finché non sentì sfrigolare l’energia della barriera. Si fermò di colpo quando vide Tom assumere una faccia così ansiosa che, in altre contingenze, avrebbe meritato una foto. “Che facciamo?”  
L’altro abbassò lo sguardo. “Tu devi tornare dagli altri.”
“Cosa?! Non pensare di liberarti…”
“Non voglio liberarmi di te!” Sbottò di rimando e con immediata violenza. “Visto quel che ho fatto prima non mi crederai, ma non…” Chiunque avesse visto Tom in quel momento non avrebbe pensato a lui come un mostro di glacialità e freddezza, ma tutto l’opposto. “… non volevo questo.” Concluse passandosi una mano trai capelli. Frustrazione, rabbia, paura. Al capì che non avrebbe potuto manifestare quelle emozioni, anche se le provava; c’era già Tom a provarle a sufficienza per entrambi.

Fece un profondo respiro. Calmare il cuore era il primo passo. Poi avrebbe pensato al resto. “E tu?”
“Anche se mi trovassero non mi farebbero niente… Von Hohenheim vuole parlarmi, non può rischiare che mi uccidano.” La voce della ragione. Tom stava riacquistando lucidità, ed era un sollievo. Nei brevi momenti in cui era stato incosciente per la botta doveva averlo spaventato a morte. “Al, devi trovare Lupin e gli altri. Saranno già con Lily adesso.” Fece un tentativo piuttosto debole di sorriso. “Non ce l’ha insegnato Harry? Da soli, mai.”
“Per questo non voglio lasciarti, cretino… Non è mai una buona idea farti fare le cose in solitaria.” Era la verità, sentimentalismi a parte. L’unica volta in cui erano rimasti separati davvero, l’anno prima, l’altro era stato rapito, sfruttato e quasi ucciso.
Non lo chiamerei un gran precedente…
“Questa volta non puoi decidere tu.” Tom fece un passo in avanti, appena un movimento, non di più. Un altro millimetro e sarebbe stato calciato indietro dalla magia oscura che pulsava tra di loro come un organo malato. “… Al,  va’ via.” Soggiunse con un tono che l’avrebbe ferito, se non fosse stato indice di un sentimento tutto contrario. “Se c’è una barriera sensibile al movimento ci sarà anche un allarme. I Mercemaghi non toccheranno me, ma non posso assicurarti lo stesso trattamento.” E non sapeva se glielo stesse dicendo per spronarlo, o perché fosse vero.
Ma può esserlo.
“Torneremo a prenderti.” Gli assicurò. “Hai capito?” Avrebbe voluto sfondarla quella barriera, farla a pezzi a mani nude. Dividerli in quel modo era forse la cosa più crudele che quel mostro di Von Hohenheim aveva fatto sino a quel momento. “Tornerò a prenderti.” Aggiunse, perché se gli altri lo avrebbero fatto per dovere e amicizia lui l’avrebbe fatto per un solo motivo.
Io senza di te non mi muovo. Né avanti, né indietro. Resto fermo e ti aspetto.
Tom sorrise. “Lo so.” Tese la mano nell’aria, quasi volesse toccarlo. La ritirò subito dopo, imbarazzato, ma il gesto c’era stato, e valeva più di mille dichiarazioni. “L’hai sempre fatto.” Continuò distogliendo lo sguardo. Imbarazzato, appunto. “Ti ho mai ringraziato?”
Al sorrise, inghiottendo l’odioso groppo alla gola, ma lasciando che gli occhi gli si inumidissero. Sperava che il buio aiutasse a dissimulare l’incipiente principio di pianto.

“No, direi di no, razza di ingrato.”
“Quando ti ho detto che ti amo…” Inarcò le sopracciglia. “… supponevo fosse implicito.”
Al stavolta rise, lasciandosi sfuggire qualche lacrima. “Visto tutto quello che hai combinato, me lo devi dire almeno cento volte.”

“Cinquanta.” Finse di barattare. Nessuno aveva mai visto il sorriso Tom diventare dolce, salvo una ristretta cerchia di eletti. Qualcuno avrebbe detto che sembrava quasi fuori posto in quel viso cupo e un po’ austero.
Che quel qualcuno vada a farsi fottere.
“Al.” Lo richiamò. “Vai.” Stavolta era uno dei suoi ordini.  
Gli voltò le spalle e corse via senza voltarsi; altrimenti sapeva che nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di fare un altro passo lontano dall’altro.
 
 
****
 
Harry lanciò un’occhiata a Ron; l’amico di una vita contava le crepe sul muro della stanza in cui li avevano rinchiusi – con tanto di sorveglianza alla porta – con la concentrazione di chi teneva la mente occupata per evitare reazioni inconsulte.
Lui aveva perso il conto delle crepe mezz’ora prima.
Un’ora intera era passata, e nulla si era mosso. La McGrannitt e Vitious stavano facendo carte false per poter mettere becco nella situazione; era certo infatti di aver sentito l’alterato accento scozzese della vecchia strega al di là della porta; doveva esser arrivata fino al corridoio, ma poi gli zelanti agenti nordici l’avevano prontamente rimandata indietro.
Dannazione, stiamo perdendo tempo!
Ormai era diventato un mantra ossessivo, un dannato, insopportabile ritornello dentro la sua testa.
Sentì un’imprecazione robustamente colorita provenire dall’amico. Subito dopo si alzò di colpo, cominciando a misurare a gran passi la piccola stanza che altro non era che l’appartamento privato di un professore, messo a disposizione dalla solerte, quanto insopportabile, segretaria del Direttore.
“Giuro che faccio confringere la porta e schianto quei due idioti che ci stanno a palo!” Esclamò a voce sufficientemente alta da dar intendere che voleva render palesi le sue intenzioni.
“Sta’ calmo.” Lo riprese senza convinzione. “Ci sbatterebbero a Nurmengard senza battere ciglio. E da lì, credimi, sarebbe ancora più difficile uscire.”
Ron sbuffò scornato, risedendosi sulla sedia della scrivania. “Okay, ma dobbiamo fare qualcosa!”
“Cosa? Abbiamo già tentato tutto… il camino non è collegato alla Metropolvere, le finestre sono inchiodate e non abbiamo un gufo.” Elencò stringatamente. “Ron, credimi, se ci fosse qualcosa…”
“E dov’è finita Nora?” Lo interruppe. La forte simpatia e stima che provava per l’americana aveva subito un duro colpo. Era evidente come il suo tirarsi fuori gli avesse fatto una brutta impressione.

Come non dargli ragione?
“Non lo so.” Scosse la testa, sedendosi sul ciglio del davanzale. “Il fatto è che abbiamo sbagliato.”
“Cosa?”

Harry sospirò; si era reso conto, riflettendo oltre la rabbia della prima mezz’ora che il loro venire lì, minacciare un Direttore – un pubblico funzionario – di un altro stato non solo era stato avventato, ma anche stupido. Aveva usato il suo essere Capo Auror per avere le informazioni e raggiungere dei risultati, e questo era andato bene finché si era trovato in Inghilterra e in India, notoriamente un protettorato magico della prima.
Ma non ho messo in conto che agendo come ministeriale, e non come privato cittadino, avrei avuto molta meno indulgenza qui. La Scandinavia non è esattamente famosa per avere un sistema di regole elastico.
Neppure noi, ma in Inghilterra io sono Harry Potter.
Non biasimava gli agenti nordici per averlo arrestato; al loro posto avrebbe fatto lo stesso.
Lo spiegò a Ron, e vide l’altro raggiungere la sua stessa consapevolezza. “Siamo proprio nei casini, eh Harry?” Disse con un tono che gli ricordò curiosamente la loro adolescenza e i primi guai. “Almeno fossimo riusciti a raggiungere i ragazzi…” Si passò una mano trai capelli. “So che sono in gamba e tutto, e che c’è Teddy con loro, ma…”
“Li raggiungeremo.” Lo fermò. “Li tireremo fuori di lì, Ron, non preoccuparti.”
L’altro fece un sorriso tra l’esasperazione e l’affetto. Gliene venivano rivolti spesso, sia da lui che da Hermione. “A volte mi chiedo perché diavolo ti ho sempre dato retta, anche quando hai queste idee da scoppiato come un calderone.” Rise. “Poi mi ricordo che hai anche una fortuna sfacciata. Ci credi davvero?”

Harry fece per rispondere, ma l’aprirsi della porta lo allertò. Saltarono entrambi in piedi, rivelando l’uno all’altro quanto in realtà fossero coi nervi tesi. Entrò il tipo con i capelli a spazzola di prima. “Capo Auror Potter, Sergente Weasley…” Esordì facendo loro spazio, e il gesto era inequivocabile. “La vostra posizione è stata chiarita. Siete liberi di andare.”
“Eh?” Ron non poté frenarsi, anche se arrossì immediatamente per l’uscita poco sveglia. “Che significa che la nostra posizione è chiarita? Chi l’ha chiarita?”

L’agente non rispose ed Harry intuì che se qualcosa era successo, era stato ai piani alti; l’ordine doveva esser stato comunicato senza spiegazioni. “La ringrazio.” Disse, dando un colpetto al gomito dell’altro per farlo tacere.
Fuori furono invitati da Capelli a Spazzola a seguirlo. Harry stava cominciando a capire la dinamica dei fatti. C’era stata una comunicazione tempestiva, un ordine, un eludere le regole.
Ora bisogna solo capire se gioca a nostro favore.
Furono condotti nell’ufficio del Direttore, ma non vide traccia né dei durmstranghiani che sorvegliavano il portone né dell’antipatica segretaria. Tantomeno vi era Jagland. Quando entrarono vi trovarono invece Nora. Era in piedi di fronte alla scrivania e sembrava perfettamente in controllo, tanto che fu lei a congedare l’agente scandinavo; quello obbedì senza fiatare.
“Nora!” Esclamò Ron in totale sbalordimento. “Per tutti i calzini sporchi di Merlino, che diavolo sta succedendo?”
Quella sorrise. “Pensavate vi avessi abbandonato?”

Ron si schiarì la voce, guardandolo in cerca di aiuto. Harry non lo lesinò. “Sì.”
“Harry!” Esclamò l’amico esterrefatto. Ma non negò neppure.
Nora annuì. “È comprensibile, l’avrei pensato anch’io.” Replicò senza battere ciglio. “Il fatto è che dovevo tirarmi fuori, per potervi aiutare. Se avessi cercato di difendervi senza avere una base solida sarei finita confinata come voi due… ed era l’ultima cosa di cui avevamo bisogno.”

“Eleanor, parla chiaro.” Non avevano tempo, ma le spiegazioni lì erano doverose. Ce n’erano state poche, ed era stato quello ad averli infilati in quel ginepraio.
“Ho usato un influenza che non ho.” Esordì sibillina. Continuò subito dopo però. “Ho una serie di permessi di indagine, bolle ufficiali che mi permettono di muovermi da voi, come qui o in Germania. Ne ho fatto valere una che in realtà, se controllano bene, non parlano di immunità d’azione anche per gli agenti che mi accompagnano.”
“Non capisco…” Borbottò Ron aggrottando le sopracciglia. “Hai fornito loro un permesso che ci autorizza ad indagare ovunque come te… Ma noi non l’abbiamo una cosa simile, e dubito che il tuo Ministero ce l’abbia rilasciato sulla simpatia.” Sgranò gli occhi, raggiungendo la consapevolezza. “Hai falsificato una bolla d’indagine?”

Harry non disse nulla; non bisognava essere il Capo dell’Ufficio Auror per sapere che se l’americana aveva fatto una cosa simile, aveva non solo scavalcato la legge, ma l’aveva proprio presa a calci.
“Siamo tutti servitori della Legge Magica, Ronald.” Replicò la donna con la calma surreale tipica di chi aveva appena preso una decisione epocale. “Ma, come ho detto ad Harry, il mio obbiettivo … il vero obbiettivo per cui mi alzo ogni mattina, è prendere vivo Alberich Von Hohenheim e vendicare la memoria di Jeremiah.” Non c’era esitazione, o rimpianto nel suo tono e nella sua espressione. Harry si sentì in colpa per averla considerata una voltagabbana. Aveva dimenticato quanto la vendetta potesse rendere una persona affidabile. Del resto, Piton non aveva fatto lo stesso?
Anche se non si parla della stessa tipologia di persona, affatto. Per fortuna.

“Senza di voi non posso farcela.” Continuò la strega. “Senza di me, scusate la franchezza, ma non potevate farcela. Capito questo, la decisione da prendere era una sola.”
Harry sentì crescere ulteriormente, se possibile, la stima per quella donna d’acciaio. Erano donne come lei, Ginny, Hermione e Luna che facevano girare il mondo nel verso giusto, ne era assolutamente certo.
“Bene.” Disse; non era il momento giusto per perdersi in ringraziamenti e gratitudine. “Rimane però un problema… la Passaporta dentro lo Specchio delle Brame. Non funziona.”
Nora sorrise di nuovo. “Ho avuto la fortuna di conoscere degli eccellenti docenti inglesi, qui… Sembra che, in fondo, per certe cose, abbiamo ancora tanto da imparare dalla Madrepatria. La Passaporta è attiva, Harry. Possiamo andare.”



****
 
“Sören?”
Sentirsi quel nome  in bocca le dava un sapore amaro. Come aver inghiottito per sbaglio una spezia che doveva solo insaporire il piatto che stava mangiando. La spezia in questione però era indigeribile.

Sua nonna non sembrò notare la sua espressione. “Certo. Sören. O preferisci che lo chiami Ren?”
“Non preferisco nessuno dei due.” Lo stomaco le si serrò in una morsa spiacevole. Rabbia, umiliazione. Era questo che provava quando pensava a lui. “Non voglio parlarne.”
L’altra assunse un’aria comprensiva che le fece venir voglia di urlarle contro. Come poteva capire?

… beh. In realtà, cocca, capisce eccome. In famiglia, la più grossa delusione in tema amicizia se l’è presa lei, a pari con nonno James e il ratto.
Finse di non cogliere l’allusione. Non voleva, non ci pensava neppure a trovare un punto di contatto tra di loro. “Non è mai stato mio amico.”
“Ma l’hai considerato tale.”

Non era mio amico!” Non doveva piangere. Non serviva a niente e probabilmente, con tutto quel sole, si sarebbe disidratata. “Era… ha soltanto finto, per potersi avvicinare a me! Era ordini di suo zio, non certo … Non era nemmeno il Sören vero.”
“Ah, intendi il tuo amico di piuma.” Era inquietante come sapesse tutto di lei. La spiava o cosa?

Non dev’essere difficile, quando sei qui. Inquietante, sul serio.
“Però, scusa… Sören Luzhin l’hai mai visto dal vivo?”
“No, ma che c’entra?” Ne stavano parlando. La cosa più irritante era rendersi conto di come sua nonna riuscisse a manipolare la loro conversazione nella direzione da lei voluta. Non era l’ingenua eroina piena di buone intenzioni che le avevano sempre descritto.
È una gran stronza!
“In questi mesi hai avuto modo di conoscere quel ragazzo più di quanto tu abbia fatto con il vero Sören Luzhin, mi sbaglio?”
Lily fece una smorfia insofferente; negare era stupido, ma non darle ragione un punto di principio.
Si guardò attorno per non dover guardare l’altra. Perché poi quel parco? Era quello comunale di Cokeworth, ne era sicura, come era sicura di avere le scarpe ai piedi.
Poi capì: era il posto in cui sua nonna e Severus Piton si erano incontrati per la prima volta. Non poteva essere che quello. C’era addirittura il cespuglio dove il Piton ragazzino si era nascosto.
Questi paralleli cominciano a venirmi a noia…
“Perché mi hai portato qui?” La apostrofò, cercando di sviare il discorso.
L’altra ragazza si strinse nelle spalle. “Non sono stata io, sei stata tu. Questa è la tua festa¹. Hai immaginato il parco ed hai chiamato me.”
“Non è vero!”
Sua nonna non rispose. Dannatamente irritante. Decise di glissare, e nel farlo, fu proprio lei a tornare al punto. “Non capisco dove vuoi arrivare. Sören… o come diavolo si chiama davvero, mi ha preso in giro. Non c’è altro da dire.” Ripeté per forse la milionesima volta. Sentiva il sudore cominciare a bagnarle la pelle, scendere fastidiosamente lungo la nuca. Lanciò uno sguardo a sua nonna, ma quella non sembrava affatto risentire della calura.
Certo, è un fantasma.
“Pensi davvero ciò che dici?”
Le lanciò un’occhiata. L’altra Lily la stava guardando con uno sguardo severo che prima non aveva. Boccheggiò a corto di parole. Era ridicolo, ma si sentì inspiegabilmente in colpa.  
È quel che è successo. Sören era tutta una montatura. È la verità… Perché te la prendi con me?
Sua nonna tornò verso le altalene. Non le restò che seguirla; ormai c’era cascata con tutti i piedi, in quella dannata conversazione. La curiosità era una gran brutta bestia.
“Il fatto, Lilian, è che non esiste il  bianco e il nero.” Disse. “Alla tua età lo credevo… La mia esperienza mi aveva insegnato che il mondo si divideva sempre in due parti. Maghi e Babbani, Magia e normalità, io e Petunia, Serpeverde e Grifondoro… luce ed ombra.”
“Non è così?” Le uscì spontaneo. “Insomma, è vero che esistono sia luce che ombra.”
Sua nonna si illuminò, quasi avesse detto la frase del secolo. “Sia.” Ripeté. “È proprio così… sia. Sia luce che ombra, esistono entrambe. Coesistono, entrambe. È questo che io non capivo.”
Come si fa a non capire una cosa così banale? È stupida?
“Okay, non c’è il buio assoluto o la luce assoluta, anche se qui ci stiamo andando vicino…” Strizzò di nuovo gli occhi. Quel sole l’avrebbe accecata. “Grazie tante, è come dire che il mare è salato. Lo sanno tutti.”
“Ma non tutti lo capiscono.” Si sedette di nuovo sull’altalena, e si diede una spinta con i piedi nudi. Si alzò una lieve nuvoletta di terra. Da quant’è che non pioveva in quel posto? Anni?
“Sì, ma questo cosa c’entra con Re… con Sören?” L’abitudine era dura a morire, le disse una voce che era come un coltello che affondava compiaciuto nel suo stomaco.  
“Amicizia e indifferenza. Sono altri due opposti.” La ignorò. “Tutti pensano che sia l’odio, ma in realtà, l’odio è solo una reazione, una conseguenza… È l’indifferenza il vero opposto dell’amore.”
“Ma che diavolo…”

“Pensi davvero che tu sia indifferente a quel ragazzo? Che stesse solo eseguendo gli ordini? Pensaci bene.” Inclinò la testa per guardarla. I grandi occhi chiari rendevano quasi scialbi il resto dei lineamenti. Sua nonna era tutta occhi, o almeno, così sembrava a lei.
“Io…”
“No, non lo pensi.” La anticipò. “Hai abbastanza cervello per sapere che gli hai cambiato la vita. Hai anche abbastanza cuore per sapere che ve la siete cambiata a vicenda.”
Lily non disse nulla, mentre le lacrime a quel punto uscirono gloriose e al diavolo la disidratazione.
Era vero, Sören l’aveva cambiata. L’aveva fatta uscire fuori dal guscio comodo in cui si era rinchiusa. L’aveva fatta uscire a giocare in prima linea, l’aveva fatta esporre come nessun ragazzo era mai riuscito. Per dirla semplice, era il suo maledetto, primo amore. Ed era anche più di quello, se lo sentiva nelle ossa.
Perché non posso avere delle esperienze normali? Banali, anche! Banale va bene, banale è bello.
Invece no. Dopotutto, era pur sempre una Potter.
“Entrare nella vita di qualcuno, anche per una serie di circostanze che non dipendono da noi, significa prendersi delle responsabilità. Non vale solo per chi è in torto, in un’amicizia… ” Continuò sua nonna. Sentì un tuono. Era così lontano che fu costretta a voltarsi e strizzare più volte le palpebre per vedere che nel lenzuolo turchese che c’era al posto del cielo si stavano addensando delle nuvole.
Le estate inglesi cambiano così in fretta…
Lily era stanca di stare in piedi, così si sedette nell’altalena accanto a quella dell’altra. Solo perché era stanca, tutto lì. “Di cosa sarei responsabile?” Chiese comunque, nel suo tono più sgarbato. Non si sentiva particolarmente gentile, date le circostanze. “Di essere cascata nella trappola?”
“No, quello non c’entra. Sei responsabile di essergli diventata amica. Di avergli teso la mano quando credimi, nessun altro l’aveva mai fatto.”
Lily aggrottò le sopracciglia. “Non stiamo parlando solo di me, vero?” Indovinò. “Si tratta di te e del Preside Piton.” Ora quei paralleli avevano improvvisamente un senso. 
“Preside…” Fece una breve risata. Non sembrava molto allegra, per niente. “È così strano. Nella mia testa resterà sempre Sev.”
“Lui ti ha tradita.” Era così che suo padre gliel’aveva raccontata. Un po’ più edulcorata, ma anche da bambina aveva letto oltre le righe il giudizio del genitore. E adesso lo comprendeva a pieno. Il tradimento era un concetto comprensibile solo se veniva provato in prima persona.
“Non userei una parola così forte…” Certo, perché era morta e quindi era tutta pace, amore e serenità. Ma lei sapeva la verità. Il tradimento esisteva, ed era la sensazione più schifosa della Terra.
“L’hai perdonato?” La aggredì quasi.
“Non c’è mai stato niente da perdonare. Una parola… ma Lilian, se ne dicono così tante. ” Scosse la testa, e un tuono suonò ancora più vicino. “Ero una bambina, ero sciocca. Pensavo di avere tutte le ragioni del mondo, ma la storia mi ha insegnato altrimenti.”
“Sì, ma ti ha ferita!”
“Ed io ho ferito lui.” Il tono non dava spazio ad obiezioni, così Lily tacque. “La mia morte l’ha legato ad una vita terribile.” Chiuse gli occhi e quando li riaprì erano in due ad averli lucidi. “Severus era pieno di ombre, ed io pensavo che la luce fosse meglio. Fosse tutto. Mi sbagliavo.”

Lily si morse un labbro; il caldo stava diventando umido, come se una coperta bagnata le si fosse appoggiata addosso. Ma con quello, sarebbe arrivata anche la pioggia.
“Fra me e Sören non è la stessa cosa.”
Sua nonna sospirò. “No, è vero. Ma lui ha bisogno di te adesso … e tu hai bisogno di perdonarlo. In fondo questo è uguale.” Stese il braccio e le prese la mano stringendola nella sua. Non tentò di divincolarsi. Non voleva, anche se era scomodamente calda. “Hai un dono, Lilian. Gli hai letto nel cuore quando è tornato a prenderti, no?”
“La Legimanzia non fa leggere i pensieri della gente.”
“Mentiva o no?” La riprese. “Tu lo sai.”
Lo sapeva. E sapeva anche la risposta, anche se faceva male e rendeva tutto più complicato.  

“Non posso perdonarlo.” Prese una boccata d’aria. Era umida ora, e fresca. “Non so… non so come fare.”
L’altra le strinse la mano. “Lo imparerai. Hai tempo… e non sei me.”
“Tu non sapevi perdonare?”

“Sono sempre stata un po’ lenta in certe cose.” Ironizzò, ma vi lesse tristezza in quella frase. Perché era implicita un’altra.
Non ho avuto tempo.
Lily non replicò la stretta ma lasciò che sua nonna continuasse a stringere, senza divincolarsi neppure un po’. “Si può sapere perché dobbiamo essere sempre noi Potter a salvare capra e cavoli?” Esclamò per togliersi di dosso l’idea di abbracciare l’altra. Era orrenda.
La ragazza rise. “Penso che sia pessimo karma.” Ghignò – oh, era proprio un ghigno – alla sua aria indispettita. “Non sei la sola a saper cos’è, sai?”
Lily sbuffò, alzandosi in piedi. “Come faccio a tornare indietro? C’è un passaggio, una porta, un treno, qualcosa?” I nuvoloni ormai si addensavano velocemente e spirava un vento gelido e secco. Forse non era una questione di clima, era una questione di stato d’animo. Il suo. Comunque era piacevole dopo tutta quell’afa.  
Sua nonna non si alzò dall’altalena. Si limitò a dondolare leggermente. “Sta arrivando la pioggia.” Disse soltanto. “A te piace?”
Lily scrollò le spalle rassegnata dall’assurdità di quella conversazione; uno psicologo babbano da quel dialogo ci avrebbe tratto una diagnosi coi fiocchi, probabilmente piazzandoci pure qualche bella psicopatia. “Se non ci fosse sarebbe un bel guaio, no? È necessaria.”
“Già, hai proprio ragione.” Le prime gocce cominciarono a colpire il terreno, e furono bevute da esso come se non piovesse da anni. Lily si accorse che sua nonna, mentre la pioggia diventava più fitta, era sempre più sfumata. Come un acquerello bagnato da una mano maldestra.
Come un fantasma…
Sentì l’insopprimibile voglia di chiederle un altro milione di cose. Di arrabbiarsi di nuovo con lei. Di dirle che le dispiaceva. Di abbracciarla.
“L’hai incontrato?” Ormai vedeva solo rosso e i colori spenti della divisa. “Hai visto Severus dopo?”
Sua nonna si spinse sull’altalena, che cominciò ad ondeggiare avanti e indietro. “Certo.” Rispose, e la voce sembrava provenire da molto lontano. Lontanissimo. “È stato bello.”  

E Lily si rese conto che non era sua nonna a sbiadire. Era lei. Era vero, se ne stava andando; il parco, le panchine, le altalene si scioglievano? No, era lei.
“Aspetta!” Ora sì che le veniva da piangere, ed era da autentiche idiote. Aveva passato tutta la vita a detestare sua nonna, il simbolo che rappresentava, e ora aveva paura di lasciarla. “Non so che fare! Non so che cavolo fare quando tornerò indietro!”  
“Vivere, bambina mia. Devi vivere.” E la voce adesso era quella di un’adulta. Chissà se era la stessa che aveva sentito suo padre, quella che gli aveva dato la forza di affrontare Voldemort. “È tutto qui, alla fine.”
 
Fu come venir svegliati quando il corpo aveva tutte le intenzioni di dormire; non sentirsi le ossa, i muscoli e la pelle, e poi immergercisi di nuovo, di colpo.
Fu piuttosto doloroso.
 
Lily spalancò gli occhi e la prima cosa che vide fu nero. Ombre ovunque, il che era ovvio, dato che era stata abituata al sole accecante del… sogno? Era stato un sogno? Ne avrebbe parlato con suo padre, una volta finito tutto.
Il nero poi si definì in ombre. Ombre di torce, lingue di fuoco che baluginavano. Il pavimento era freddo, e umido e si sentiva odore di mare.
Era tornata al castello. Era tornata indietro. Percepì poi una pressione alla mano; per un attimo credette che fosse ancora sua nonna a stringerla.
“Lily…?”
Era Sören. Sören, che inginocchiato accanto a lei le teneva la mano stretta nella sua. I contorni della stanza – no, era un corridoio– si fecero più definiti, e così la figura del ragazzo. Era davvero vicino a lei, e la guardava come se fosse risorta dalla tomba.
Quant’ero messa male?
Non era quello il punto, comunque. Doveva piuttosto dire qualcosa, alzarsi a sedere magari, dimostrare a sé stessa e all’altro che era tutta intera, mente e corpo.
Poi si accorse che Sören piangeva. Non aveva mai visto nessuno piangere senza singhiozzare, diventare rosso in faccia e tremare. Sören, al solito, era l’eccezione. Le lacrime gli scorrevano sul viso come fili d’acqua sottili. Erano lacrime di sollievo.
 “… Stai piangendo.” Gli sembrò un attestazione piuttosto intelligente, date le contingenze. Non sapeva cosa dire. Sentiva male alla testa, nausea e paura. E rabbia. E confusione.
Può esplodermi la testa, così la facciamo finita, grazie?
“Cosa?” Si toccò il viso e si guardò la mano, con una perplessità che aveva dell’incredibile, perché sincera. Non se n’era davvero accorto. “Io… sì, credo di sì.” Attestò con una nota di stupore. “Non ti svegliavi, e… non rispondevi.” Concluse e distolse lo sguardo.
Non farlo. Non provare a sembrare …
Era meglio pensare alla cose pratiche. “Dov’è John Doe?” Dopotutto poteva essere ancora in giro e aver voglia di finire il lavoro.
Sören si strofinò la manica ruvida dell’uniforme di Durmstrang sulle guance, con il risultato di peggiorare ulteriormente la situazione. “Non è più in grado di nuocere a nessuno. Sei al sicuro adesso.” Disse. La dicotomia più folle. Aveva gesti di un bambino e il tono di un adulto. Era quello ad averla maledettamente attratta sin da subito; quell’impacciato controsenso. 
Non provare a sembrare innocente!
“Sono nel castello di un pazzo, nei suoi sotterranei, sono tutto fuorché al sicuro!” Replicò, ma si pentì immediatamente di quel tono aspro. Sören sciolse le loro mani serrate l’una all’altra; non si era accorta di aver ricambiato la stretta finché l’altro non l’aveva lasciata.
“… Mi dispiace…” Un mormorio, accentato. Le emozioni non andavano d’accordo con l’esprimersi in un’altra lingua. “Lily, mi dispiace tanto.”
“Lo so.” Ed era vero. Era questo a rendere più straziante il tutto. Capire, grazie al suo essere LeNa, o semplicemente un essere umano funzionale, che Sören stava dicendo la verità. “Dispiace anche a me.”
“Mi odi?” Era assurdo sentirsi in colpa con qualcuno che le aveva, anche senza rendersene conto a pieno, fatto a pezzi fiducia nel genere umano e cuore. Era assurdo, eppure…
“Non lo so…” Ignorò l’espressione dell’altro, perché si rifiutava di provare empatia. La provava comunque. “… Forse. È perché ti ho voluto bene.”
Non poteva dire altro. Non sapeva neanche lei cosa provare in quel momento. L’unica cosa che voleva fare era scappare il più lontano possibile da quel castello, da quel corridoio, da Sören.
L’altro abbassò lo sguardo. “È giusto.” Si inginocchiò, tendendole la mano per aiutarla a rialzarsi. Poi le piantò gli occhi in faccia e Lily non riuscì a distogliere lo sguardo. Non ci sarebbe riuscita mai, se la guardava in quel modo.
“Voglio solo che tu sappia una cosa. Hai il diritto di non considerarmi più una persona amica… ma tu, per me, lo sarai sempre, finché avrò vita.”
Lily non disse niente. Non aveva la forza, la capacità o il coraggio di analizzare quella frase e interiorizzarla. Sören del resto non sembrava volere una risposta. Meglio così. Prese la mano che le veniva porta e si tirò su. Le girava un po’ la testa, ma era sopportabile. La caviglia però aveva ripreso a darle delle fitte pazzesche; la pozione del Magonò doveva aver finito l’effetto. “Voglio andarmene.” Disse. “Portami via di qui.”
Sören annuì. “Ce la fai a camminare?” Non aspettò la risposta; gli bastò guardare come posava il piede a terra per tirare fuori la bacchetta e curarle la caviglia. “Ora è a posto. Andiamo.”
Lily non dovette dire una parola in merito e per la prima volta fu contenta di non doverlo fare.

 
 
****
 
Qualcosa ticchettava nel profondo, nelle viscere stesse del castello.
Il ticchettio non era altro che l’incedere del tempo. L’incedere del tempo legato, ovviamente, come nella migliore delle tradizioni, ad un conto alla rovescia.
Il ticchettio si arrestò, e qualcosa cominciò a bruciare.
 
****
 
Milo rinvenne e immediatamente capì che c’era qualcosa che non andava.
Ovviamente c’era qualcosa che non andava da prima; il castello era assediato dai Mercemaghi, il padrone era impazzito. Date le contingenze, lui aveva avuto la meravigliosa idea di collaborare – rischiando le penne – con l’unico erede, preso da senso di colpa verso la sua fidanzatina.
Speriamo che alla fine della storia, la cazzata si riveli una bella pensata.
Tuttavia, c’era qualcosa in più, di storto. Il sesto senso gli stava dicendo che qualcosa era accaduto di nuovo nel castello e che, in toni generali, non gli sarebbe piaciuto affatto.
Credeva a quella sensazione perché del suo sesto senso ne aveva fatta un’arte.
I Mercemaghi che lo avevano attaccato erano ancora riversi a terra, svenuti; il piccolo principe aveva avuto più riguardo per lui, che per quei tre avanzi di galera.
Dovrei ringraziarlo, se non mi suonasse una grancassa tra le tempie.
Si tirò in piedi e si spazzolò i poveri vestiti bistrattati; si segnò l’ennesimo, inevitabile, rammendo.
Una cosa per volta, decise; se doveva togliersi dai piedi in tempo utile, e portarsi dietro i due vecchi, doveva cominciare subito.
C’era uno strano odore però; un odore che non aveva niente a che fare con il sale del mare, o con quello chiuso e penetrante dei sotterranei. Era un odore sgradevole, come qualcosa di marcio.
Cadaveri?
No, non ce n’erano. I tre Mercemaghi erano malmessi, ma ben vivi a giudicare dai lamenti. In ogni caso, odore o meno, doveva andarsene prima che qualcuno lo beccasse con quei tre e traesse le conclusioni più sbagliate.
Tornò negli appartamenti della servitù. L’odore era persistente, come l’improvviso caldo che sentiva in quegli ambienti. Era così strano, sentirsi a suo agio con i vestiti che indossava, dato il tepore, che dava quasi fastidio.
Ci si abitua anche al gelo segamani, pare.
Hilda ed Etzel erano seduti di fronte al camino; Milo provò sia pena che rabbia a vedere come stessero affrontando le incombenze di tutti i giorni, come se fuori non stesse accadendo nulla, o peggio; come se non avesse importanza per loro, parti di un ingranaggio che non doveva mai deviare.
“Ehi.” Li apostrofò. “Lasciate perdere… Le cose si stanno mettendo male. Dobbiamo andarcene.”
“Come, Milo?” Chiese Etzel fissandolo sbigottito. “Che dici?”
“Dico che il padrone ha rapito una ragazzina, e quella ragazzina è figlia di un pezzo grosso del Ministero britannico. Harry Potter, ne avrete sentito parlare anche voi, no?” Non aspettò risposta. “Adesso è qui, e non ci vorrà molto prima che se la vengano a riprendere in pompa magna, con incantesimi e arresti lampo. Il padrone ha toccato il fondo, ed io non voglio affogare. Voi?”
I due rimasero congelati, come buffe e tristi statue di sale. Inevitabile, doveva insistere. “Non ci arrivate? Verremo arrestati come complici! Ai maghi non interessa sapere come e quanto siamo invischiati nei loro affari, daranno per scontato che siamo parte del pacchetto!”
“Ma non possiamo…” Esordì Hilda guardandosi smarrita attorno, come se dagli oggetti della misera stanza potesse provenire una risposta. “… non possiamo andarcene. Dove andremo? Serviamo questa casa da tre decadi!”

“Sei sicuro di ciò che dici, ragazzo?”
Milo fece una smorfia; la titubanza poteva capirla, ma non la paura dell’ignoto. Perché quello che li aspettava se fossero rimasti era decisamente peggio. “Non avete sentito movimenti fuori?” Tirò ad indovinare. Era rimasto svenuto per tutto il tempo, ma era certo che il piccolo principe avesse già fatto quel che doveva, allertando metà castello, se non tutto. Dalle espressioni ansiose dei due, capì di averci preso in pieno.
“Pensate che il padrone vi congederà, o vi dirà che potete andarvene prima che arrivino gli agenti? Che vi salverà? Dobbiamo salvarci da soli.” Sapeva di premere in modo violento su tasti che per quei due poveri anziani erano quanto più di sensibile. Non aveva importanza, se alla fine dei giochi restavano vivi e soprattutto, liberi.
Fu Hilda, dopo aver serrato le mani sullo strofinaccio con cui stava pulendo un candelabro, a parlare. “Pensi davvero che ci arresteranno?”
“Hilda!” Scattò Etzel, guardando in alto, quasi avesse paura che Von Hohenheim scendesse come una sorta di vendicativo deus ex machina.
“Milo non è uno sciocco!” Lo rimbeccò la donna. “Ed hai sentito e visto anche tu! Forse sono già entrati… Ci sono stati molti rumori, incantesimi… Qualcuno si è scontrato con quei Mercemaghi.” Spiegò a suo beneficio.
“Allora sono già qua.” Tagliò corto. Avevano meno tempo del previsto. Chissà che fine aveva fatto Sören? Non che gli importasse, beninteso. “Dobbiamo levare le tende, ora.”
I due anziani si guardarono di nuovo; Milo in un certo senso ammirava il modo in cui prendevano le decisioni assieme, consultandosi solo con un’occhiata o con un gesto. Supponeva che quello volesse dire amore. Non che ne avesse mai avuto prova concreta e personale.
“Va bene.” Disse infine Etzel, mentre la moglie gli stringeva il braccio con forza, quasi a dargli supporto silenzioso. “Va bene, Milo. Cosa dobbiamo fare?”
Finalmente!
“Andate nella vostra stanza, prendete solo quello che riuscite a portare con facilità. Niente roba pesante, o ingombrante. Taglieremo per la foresta, verso Lubecca, è la strada più sicura. Lì ho dei contatti, ci aiuteranno loro.” Li rassicurò con il suo miglior sorriso, vedendoli stringersi l’uno all’altro. “State tranquilli, andrà tutto bene.”
Almeno spero.
C’era qualcosa che non gli tornava però. Quell’odore schifoso gli si era piantato nelle narici. Che ci fosse qualche perdita nell’impianto di scarico?
Nah. Conosco l’odore del liquame e non è questo.

“Sentite anche voi questo odore?” Li richiamò mentre se ne stavano andando. “Dico, questa puzza?”
Hilda lo guardò confusa, mentre l’altro uomo si limitò ad una leggera smorfia. “Sì, lo sento… Forse qualche problema di tubature? Sono molto vecchie.”
Milo scrollò le spalle; evidentemente era tutta una sua suggestione, e forse erano davvero le tubature. Il caldo però non si spiegava.
Aveva comunque un’ultima cosa da fare prima di darsela a gambe e lasciare per sempre quel castello degli orrori. “Dove vai?” Lo apostrofò l’anziana, vedendo che non prendeva la strada delle loro stanze, ma quella in alto, verso i piani padronali.
Milo ghignò. Poteva essere considerato una brava persona per aiutare due vecchi, ma restava sempre un tipo tirato su dalla strada. E sapeva bene che in tre non sarebbero durati che pochi giorni senza qualcosa da barattare con la fauna locale di Lubecca.
“Il nostro ultimo stipendio.” Prima che la donna potesse ribattere qualcosa, corse via. Non aveva proprio voglia di farsi redarguire per voler rubare un po’ di argenteria a quello stronzo di Von Hohenheim.
 
 
****
 
Tom non aveva bisogno di una guida per sapere dove stava andando; c’era la voce che funzionava meglio di una bussola babbana.
Quel castello avrebbe potuto essere suo, rifletté. Tutta quella ricchezza, quell’opulenza maestosa nascosta dall’oscurità avrebbe potuto essere parte dei suoi possedimenti. I Von Hohenheim erano palesemente molto, molto ricchi, sia in termini magici che babbani. Se fosse cresciuto lì, lo sarebbe stato anche lui.
Eppure non provava nessun rimpianto all’idea di rimanere figlio di babbani che pagavano religiosamente le tasse e sceglievano con accortezza, ogni anno, un luogo di villeggiatura economico.
Non pensava cose banali come ‘l’amore di una famiglia è meglio dei soldi’, perché non era quello il punto. Era vedere come tutta quella ricchezza a niente servisse se non rimanere soli, e odiati.
Perché l’uomo che gli aveva dato la vita non era precisamente circondato da affetto, o anche solo da sostenitori.
Cos’ha? John Doe? Il falso Luzhin? Non un granché.
Certo, in quel momento era solo anche lui, ma sapeva che qualcuno sarebbe tornato a prenderlo. La differenza stava tutta lì. 
Albus, Harry, la sua famiglia, quella marmaglia di parenti acquisiti e più o meno amici che gli riempiva la vita, esasperandolo ma facendolo anche sentire un essere umano funzionale. Erano loro ad essere la differenza. Erano loro ad averlo reso la persona che era.
Se non lo fosse stato poi, Albus l’avrebbe preso a pugni.
Non aveva paura; o meglio. Ne aveva, ma era anche sicuro che qualsiasi cosa gli avesse detto Von Hohenheim non l’avrebbe fatto perdere in se stesso come l’anno prima. L’avrebbe ferito forse. Se John Doe era riuscito a farlo scappare da tutto ciò che amava, non aveva dubbi sul fatto che il suo padrone avesse una lingua ancora più biforcuta.
Fece un mezzo sorriso.
Avresti dovuto far resuscitare qualcuno di più arrendevole di me. Si sa che ero un tipo tenace.
Non lascio ciò che è mio. E tutto questo non è mio. La mia famiglia, invece sì.
Si fermò di fronte ad un portone. Era salito per le scale più ripide, più alte. Doveva dunque essere arrivato. La porta infatti si aprì silenziosa, lasciando intravedere luce al di là di essa.
Avrebbe lottato, e avrebbe vinto. Perché quella volta era dalla parte giusta.
 
“Benvenuto, Thomas…”
 
 
****
 
 
Albus non vedeva più in là del suo naso ed era piuttosto sicuro di essersi perso.
Comunque, si rifiutava di lasciarsi andare allo sconforto. In qualche modo sarebbe riuscito a trovare Ted e gli altri. L’aveva promesso a Tom … e alla sua stessa incolumità.
Anche se il mio senso dell’orientamento, specialmente al buio, fa schifo.
L’unica cosa di cui poteva rallegrarsi era il fatto di non aver incontrato Mercemaghi, almeno fino a quel momento.
C’era troppo caldo, comunque. Un caldo strano, simile a quello che si provava quando si stava troppo vicini al fuoco. Aveva dovuto togliersi il mantello e piegarlo sotto il braccio.
Svoltò l’ennesimo, anonimo angolo, cercando disperatamente di ricordare se avesse visto la serie di dipinti che gli si parava davanti.
… Boh.
Non aveva prestato granché attenzione all’arredamento purtroppo, dato che litigava con Tom.
Avrei dovuto trovarmi dei punti di riferimento. Sono un idiota.
Un rumore lo allertò. Non poteva sbagliarsi, erano passi. Spense la bacchetta e si nascose dietro una grossa armatura – c’erano più armature lì che ad Hogwarts. Attese, cercando di respirare il più piano possibile. Come si faceva, poi, a respirare piano?
La domanda rimase senza risposta, perché una luce piuttosto forte illuminò vicinissimo al suo nascondiglio; con stupore vide che si trattava di una torcia, e non di una bacchetta. La reggeva un ragazzo biondo, ma non John Doe. Non si sarebbe dimenticato mai quella faccia.
Lo vide avvicinarsi ad una vetrinetta riccamente istoriata ed aprirla con una chiave; ne aveva tante attaccate ad un mazzo che portava appeso alla cintura. Con stupore lo vide poi togliersi uno zaino dalle spalle e cominciare ad infilarci dentro oggetti dall’aria ricca e costosa.
Un ladro? Adesso? Con tutto quel che sta succedendo?
La scena era talmente surreale che Al ci mise un po’ a capire che non avrebbe potuto andarsene, non senza farsi notare.  
Oh, dannazione!
Scattò fuori dalla sua nicchia e lanciò uno Stupeficium, ma l’altro fu più svelto di lui. Che l’avesse già sentito, o che avesse i riflessi pronti, riuscì a gettarsi a lato e farsi mancare.
Al prese di nuovo la mira; sarebbe quasi stato disposto a lasciarlo andare, ma poteva sempre avvertire i suoi compari. Di certo, da com’era poveramente vestito – in maniera tradizionale tra l’altro – doveva essere uno dei Mercemaghi.
Nein!” Esclamò quello levando le mani. Halt mal! Ich habe kein Zauberstab, ich bin ein Squib²!
Tedesco, favoloso.
Non aveva la minima idea di cosa gli stesse dicendo, ma l’aria spaventata e le mani levate in segno di resa lo bloccarono.
Perché non ha preso la bacchetta per difendersi?
“Non ti capisco!” Sbottò innervosito. Se ci fosse stato Tom sarebbe stato un gioco da ragazzi, dato che l’altro il tedesco lo conosceva.
Già, ma non c’è.
Inspirò; non poteva neanche dargli le spalle e correre via. Se fosse stata tutta una messinscena e l’avesse poi colpito alle spalle?  
Solo che… ah, cavolo! Non mi piace schiantare la gente che non si difende!
… questo è molto, stupidamente, Grifondoro.
“Inglese? Sind Sie Engländer³?” Gli venne chiesto in quella lingua pietrosa. “Io … no magia. Magonò?” Tentò incerto, spiando la sua reazione.
È un Magonò? Cavolo! Non posso schiantare un Magonò!
Il problema è che non c’era modo di credergli sulla parola; la sua condizione non l’aveva scritta in faccia.  
“Alzati.” L’unica cosa sensata da fare era perquisirlo. Se aveva la bacchetta, l’aveva addosso.
L’altro parve capire l’ordine ed obbedì, alzando le mani con una smorfia insofferente.
Ringrazia che non ti ho spedito a dormire!
Guardò ovunque e gli frugò nelle tasche; la bacchetta non c’era, e non c’era neanche nello zaino di corda che si portava dietro, anche se abbondava ogni tipo di argenteria e metalli preziosi, dalle posate ai soprammobili.
“Lo sei davvero, dannazione…” Possibile che un Magonò avesse deciso di rubare proprio quando stava succedendo il finimondo? Poi notò un particolare che risolse definitivamente il dilemma; lo stemma cucito sulla casacca che indossava. Era lo stemma impresso su ogni singola cosa lì dentro, quello dei Von Hoenheim.
“Sei … lavori qui?” Indovinò, anche se era strano vedere un essere umano e non un elfo domestico vestire quei panni. Sapeva però che gli elfi domestici erano più che altro una prerogativa inglese, al massimo francese.
Ja.” Confermò. Un po’ di inglese allora lo capiva. “Andare?” Tentò.
Col cavolo!
Quel tipo sapeva muoversi in quel labirinto senza rischio di perdersi. Gli puntò la bacchetta al petto e lo vide sbiancare di un paio di toni. Non gli importò. “Adesso mi accompagni a cercare i miei amici.” Fece mente locale. “Ingresso. Portami all’ingresso.” Teddy aveva detto che, nel caso si fossero persi, di ritrovarsi tutti lì.
Il Magonò lo guardò con sguardo ottuso, ma sapeva che era tutta una messinscena. “Falla finita, lo so che mi capisci! Abbastanza almeno da sapere cosa ti sto chiedendo. Ingresso.” Ripeté.
L’altro gli lanciò un’occhiata. Sbuffò, ma poi annuì, raccattando lo zaino e indicando davanti a sé. “Dort. Là.” Tradusse poi a suo beneficio.
“Prima tu.” Gli fece cenno con la bacchetta. Il Magonò non se lo fece ripetere due volte e prese a camminare.
Speriamo non faccia scherzi.
Anche se lo riteneva quasi sicuro. Un servitore ladro non era certo quello che poteva definirsi una guida affidabile.
Avanzarono per un paio di metri in una direzione che Al era certo non aver mai preso; sperava solo non lo stesse portando in un vicolo cieco. Sperava solo di aver preso la decisione giusta.
Il caldo cominciò a diventare più opprimente. Non era il solo a sentirlo, dato che vide l’altro ragazzo passarsi una mano sulla fronte, forse per pulirsi dal sudore.
Che sta succedendo?
“Fermati, dove siamo?” Lo apostrofò, ma quello si voltò guardandolo incerto. “Dove. Siamo?” Ripeté più lentamente.
“Ingresso.” Replicò. “Di là.”
“Perché fa così caldo?” Nessuna risposta. Se lo capiva, non lo capiva abbastanza. Era frustrante.
Poi arrivò il fumo. Dapprima fu un penetrante odore di marcio, poi cominciarono a tossire, poi sentì gli occhi lacrimare. La penombra si fece più definita, più chiara. Troppo chiara.
Vide il Magonò sgranare gli occhi e non ci fu bisogno di traduttore per capire quello che poi urlò.
 
“Feuer!”
 
 
****
 
Note:

E nella prossima puntata… un drago volante sputafuoco! :D
Okay, a parte gli scherzi, so che ci sto dando dentro con i cliff-hanger. Forse troppo. Ma non è colpa mia se il capitolo finisce proprio bene in ‘sto modo! Non odiatemi, tutti i nodi verranno al pettine! >_<

 
Questa la canzone del capitolo. Tamarra ma comunque adatta. Specie nella parte non cantata ;D
1. Non ve lo siete immaginati. È la stessa cosa che Silente dice ad Harry quando sono nel limbo. ;)
2. ‘No, fermo! Non ho la bacchetta, sono un Magonò!’ Traduzione ad opera della bravissima e disponibilissima Blankette_Girl. Grazie ragazza!
3. ‘Sei inglese?’
  
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