Per
la serie, a volte
ritornano :’D un mesetto fa mi era venuta in mente la malsana
idea di scrivere
una ByaSana, e la prima parte con Hisana è stata anche
abbastanza semplice – ma
anche no – da scrivere. Poi però cascò
il pero, perché Byakuya è tutto tranne
che un personaggio facile da trattare, e questa parte è
interamente dedicata a
lui. Razza di antipatico. Che dire, questa è la seconda e
ultima parte di “When the Snow falls”,
è stato un
progettino senza grandi pretese, giusto per sperimentare un approccio
con
questa coppia che, come ho già detto, amo veramente tanto.
Giusto per farmi
male, una sana dose di ByaSana è presente anche nella long
AU che sto
scrivendo, “Fire and Ice”,
una
crossover tra Bleach e D.Gray-Man – sarei ben felice se
voleste darci un’occhiata
;) E giusto perché mi piace farmi male doppiamente, annuncio che c'è anche un sequel, "After the Snow, just the Silence". Proprio perché amo farmi male, LOL. BEh, vi lascio dunque al capitolo, badi giovani, sperando che vi piaccia
come il
precedente… ovviamente, commenti e critiche sono sempre ben
accette, lo sapete
*-*
When
the Snow falls
雪が下がると
Part 2
– My heart with you
«Come primavera sei per me
dolce il mio regalo inaspettato
se prima di te la parola amore
non aveva più significato
Come un’alba schiudi gli occhi miei
e con i tuoi mi fai vedere il mondo
quando non ci sei vivi nei pensieri
io aspetto unicamente il nostro incontro.»
Lancio
l’ennesima
occhiata distratta al tempo che imperversa fuori, il cielo è
ancora grigio e i
rami secchi degli alberi vengono scossi dalla fredda brezza invernale.
Nella caserma
non si ode rumore di sorta, fatta eccezione per il lieve cicaleccio di
alcuni
seggi che passano sull’engawa della struttura.
Firmo
quello che forse
è il cinquantesimo rapporto della giornata, stamane
sembravano essersi accatastati
tutti in una volta, come se non avessi lavorato nelle passate tre
settimane. Il
paradosso è che è anche un periodo festivo,
quindi la maggior parte degli
Shinigami ne ha approfittato per prendersi una pausa, io stesso non
dovrei
nemmeno essere qui. Del resto, però, non posso nemmeno
permettere che tutta
questa burocrazia stagni sulla mia scrivania per altri due giorni.
L’ufficio
è
fortunatamente deserto, motivo per cui nessuno può vedere
quanto effettivamente
nervoso io sia. Lungi da me l’ignorare o svolgere male il mio
lavoro per
pensieri personali, ma non posso ignorare completamente chi
ora è fuori al freddo, in chissà quale sperduto
quartiere del
Rukongai, in cerca di una bambina dispersa tra quei vicoli sudici.
Fisso per diversi
istanti la composizione di fiori che Hisana ha creato per me, piccola e
semplice
– modesta come lei, che non vuole mai spiccare troppo in
mezzo agli altri. È stato
uno dei primi doni che mi ha fatto dopo aver visitato per la prima
volta il mio
ufficio, allora spoglio di qualsiasi decorazione, pieno solo di
registri e documenti.
Mi aveva chiesto se mi sarebbe piaciuto avere qualcosa di colorato
sulla
scrivania, se non mi avrebbe dato fastidio – e quella sera, al
mio ritorno a
casa, avevo trovato quel piccolo vaso legato con un nastro azzurro
chiaro sul
tavolino dello studio. Fiori che, mischiati insieme, erano la sua
dichiarazione
d’amore più puro e genuino. Sembravano
sapientemente scelti e abbinati per
formare quel chiaro messaggio, non messi insieme solo per semplice
bellezza
cromatica – ed infatti, aveva distrattamente dimenticato il
libro sui fiori
aperto in camera.
«E quando arrivi il cielo si apre in un secondo
e dentro al tuo sorriso io mi perdo
risplendo nel tuo sguardo
ringrazio il cielo per averti accanto.»
Hisana
non è il tipo
che parla facilmente dei propri sentimenti, ha
un’umiltà tale che, nei primi
tempi, la famiglia la scambiava per mera e subdola accondiscendenza nei
miei
confronti, solo per mirare al patrimonio di famiglia. Peccato per loro
che
Hisana non sia affatto l’ipocrita arrivista che credono, e me
ne dà riprova
ogni giorno – nei più piccoli gesti, da come
arrossisce e abbassa lo sguardo
quando la guardo, con un leggero sorriso a piegarle le labbra pallide e
fini,
al fatto che io debba insistere più volte perché
decida di concedersi un kimono
nuovo. Ho come la vaga impressione che ritenga immeritato tutto
ciò che
possiede, come se quello che ha per lei sia già troppo. Mi
ha parlato di una
sorellina che ha abbandonato tempo fa nel Rukongai, quand’era
solo una neonata
– un errore che tutt’ora lei non riesce a
perdonarsi. Diceva che sperava
venisse accolta da qualcuno con più possibilità
di lei, già indebolita dalla
fragilità del suo corpo, da quella salute fin troppo cagionevole. Mi ha implorato
di permetterle di cercarla, di poterla vedere ancora una volta, se
è ancora
viva o meno. Le ho chiesto se desiderasse venisse adottata nella famiglia,
quando
me ne ha parlato – era sua sorella biologica, in fondo. Sul
momento non ha
risposto, anzi, ha rifuggito il mio sguardo, puntandolo sulle mani che
stringeva in grembo.
«Non
oserei mai
chiedervi una simile grazia, Byakuya-sama. Sarebbe il mio
più grande desiderio
sapere che potrà avere un futuro al sicuro dalla cattiveria
che infesta quei
quartieri, protetta dal vostro potere e dal vostro nome, ma so che
siete in una
posizione difficile. Non voglio mettervi contro la vostra famiglia
più di
quanto non sia già successo quando mi avete scelto come
vostra sposa. Vi
chiederei di concedermi la possibilità di…
aiutarla in altri modi, fosse anche
portandole abbastanza cibo ogni giorno, o donandole vestiti per
proteggersi dal
freddo, se non trovate sconveniente la mia richiesta.».
Come
considerare
arrivista una persona che rinunciava a richiedere la propria sorella in
famiglia, solo per timore di ripercussioni su di me, pur desiderandolo
con
tutto il cuore? Quanto stava morendo dentro, mentre pronunciava quelle
parole? Si
era detta disposta anche ad andarsene, a tornare nel Rukongai con lei,
una
volta trovata – ma no, a quel punto io non
gliel’avrei permesso, avrei
obbligato gli anziani ad accettare quella sorellina esattamente come
avevano accettato
Hisana. Aveva rifiutato l’aiuto che le avevo offerto per
cercarla, voleva
potercela fare da sola, voleva pagare il suo debito nei confronti della
sorella
ad ogni costo, scontare la pena di quel rimorso anche a costo di
peggiorare la
propria salute. Con che coraggio gli anziani della famiglia potevano
insultare
alle spalle una persona che la nobiltà non l’aveva
nel nome, ma direttamente
nell’animo?
Anche
oggi, quando le
ho proposto di andare con lei, non ha avuto il coraggio di accettare la
mia
offerta – condannandomi così a passare
più tempo a pensare a dove si trovi in
quel momento, piuttosto che lavorare senza pensieri. Il Comandante
desiderava
ricevere adeguati ragguagli circa alcune delle ultime registrazioni
fatte dal
Clan Kuchiki – c’entrerà qualcosa il
mondo terreno? – e, per il resto, la
brigata è stata ben felice di vedere che potevo
tirare avanti le scartoffie burocratiche anche in questo periodo di
festa, così
da alleggerire il lavoro al nostro rientro. Firmo e metto da parte un
altro
foglio, ho letto giusto un paio di righe di quello che
c’è scritto, più o meno
come ho fatto per i precedenti sei o sette rapporti. Ma no, mi dico, se
lei lo
sapesse si arrabbierebbe, si sentirebbe in colpa – lavora
bene anche per lei,
Byakuya. Li riprendo e li leggo con attenzione, rimettendoli poi nella
pila
dove li avevo precedentemente depositati. Ne ho ancora parecchi che
attendono
di essere letti, devo restare concentrato, prima finisco e prima
potrò tornare
a casa. Diamine, non sono da me certi ragionamenti, lo so, se fosse un
altro
giorno non mi passerebbero nemmeno per l’anticamera del
cervello – se poi lo
venisse a scoprire il mio nobile nonno, che figura ci farei? Penserebbe
di aver
lasciato il casato in mano ad uno sprovveduto che si fa distrarre sul
lavoro da
un nonnulla – ma Hisana non è un nonnulla, non lo
è mai stata, non lo è nemmeno
oggi e non lo sarà mai, al contrario di quanto possano
rinfacciarmi gli
anziani. Sì, sottilmente continuano a sbattermi in faccia i
loro pensieri, i
loro rimproveri, il loro disgusto – per loro Hisana non
è altro che una cosa sudicia,
nemmeno si degnano di darne definizione, che infanga e porta disonore
al nobile
clan Kuchiki. Da un certo punto di vista hanno pure ragione, questo
devo dirlo.
Hisana
non era ricca,
istruita, esperta di arti tradizionali o di nobili natali, non era
altro che
una povera disgraziata trovata per caso nel Rukongai dopo una caccia
agli Hollow.
Ricordo che quel giorno, quando me la ritrovai davanti inginocchiata a
terra, stringeva
al petto un vaso mezzo rotto con dell’acqua, salvato forse
per miracolo dalle
grinfie di belve molto più assetate di lei. Nel vedere il
mio volto leggermente
sporco di terra e sangue di Hollow, me l’aveva teso con un
sorriso timido e le
mani tremanti. Quella donna, coperta da un kimono rovinato e magra da
far impressione,
mi stava offrendo quella poca acqua che aveva trovato, dopo
chissà quanti
giorni senza mangiare o bere, solo perché avevo il viso
sporco. Sul momento mi
dissi che lo faceva solo perché mi temeva in quanto
Shinigami, come uomo
decisamente più grande di lei. Ma quelle iridi bluastre non
erano tinte di
timore, quanto di una strana… voglia di aiutarmi, di
offrirmi il suo modesto
aiuto. Chissà come c’era rimasta quando mi ero
rialzato e le avevo voltato le
spalle, mentre ancora mi tendeva la piccola anfora sbeccata, e me
n’ero andato
senza dirle neanche una parola. Ammetto che non so perché lo
feci – avrei
rifiutato comunque, ma potevo dirle pur qualcosa. “Non serve,
è una
sciocchezza”? “Tieni tu quest’acqua, ne
hai più bisogno di me”? Avevo semplicemente
preso nota di quale fosse il distretto e me n’ero andato
senza pensarci più di
tanto – di anime sfortunate ne avevo viste a bizzeffe, nel
Rukongai, lei non
era altro che una goccia nel mare della Soul Society.
Eppure
non riuscii più
a levarmela dalla testa, specie se guardavo attentamente gli
atteggiamenti di
chi mi circondava abitualmente. Da quanta ipocrisia e falso rispetto
ero
circondato, quanti mi adulavano solo per il nome che portavo sulle
spalle? Il
nome della famiglia, l’onore, il rispetto delle leggi, tutte
cose che mi erano
state inculcate in testa dal mio nobile nonno, una volta preso atto del
fatto
che sarei stato io il successivo capofamiglia, dal momento che il mio
nobile
padre era venuto a mancare. Non avevo mai disobbedito alle regole, non
avevo
passato l’infanzia a giocare con i miei coetanei –
avevo solo tanto, troppo da
studiare, e non potevo permettermi di perdere tempo. Accettai senza
ribattere
di entrare all’Accademia per gli Shinigami, di lavorare sodo
per diventare un
ufficiale del Gotei 13, mirando alla carica di futuro Capitano di
brigata.
Tutti risultati che ho ottenuto con i migliori voti, surclassando gli
altri
senza voltarmi un attimo a degnarli di uno sguardo.
Ma,
si sa, quando si
prende la carica di Capoclan, si presume ci si debba anche sposare. E,
nonostante ci provassi in tutte le maniere, non riuscivo ad accettare
l’idea
che qualcun altro scegliesse la donna che sarebbe poi diventata mia
moglie e magari
madre dei nostri bambini, una donna che io avrei dovuto amare e
proteggere.
Avrei potuto fingere, questo è vero. Ma d’altro
canto mi avevano insegnato il rispetto
per l’onore delle persone, e da parte mia fingere di amare
una donna,
reclamarla tra le lenzuola senza provare nulla, era forse
l’offesa più grave
che avrei potuto arrecarle. Sperai quasi che le pretendenti scelte
dalla
famiglia fossero graziose e con un carattere amabile. Dire che rimasi
disgustato dai loro sguardi famelici e dai loro vezzeggiamenti sarebbe
ancora
poco – della mia persona vedevano solo il cognome
“Kuchiki” stampato a lettere
cubitali dorate. Era alta nobiltà anche quella, per
carità, ma non importante
quanto il Clan Kuchiki. Me lo potevo pure aspettare, quanti sono i
matrimoni
legati da sincero amore, nell’aristocrazia? Mio padre era
stato fortunato, era
legato a mia madre da un sincero sentimento, sebbene si fossero
conosciuti solamente
ad un Omiai.
E
fu allora che mi
tornò in mente lei, con quei piedini sporchi di terra e il
kimono rattoppato
alla bell’e meglio, i capelli aggrovigliati e le braccia
esili, quella donna
che, senza dire nulla, mi aveva offerto un umile aiuto a proprie spese,
senza
chiedere nulla in cambio. Quanto tempo era passato? Un giorno, una
settimana,
un mese? Sarei stato ancora in grado di ritrovarla? Tornai a cercarla
nel
Rukongai e, una volta trovata, visto dove e come viveva,
l’osservai più volte
nell’arco di diverso tempo. Si prodigava per gli altri come
meglio riusciva,
aspettando di svoltare l’angolo e non esser vista per
crollare. Non capivo,
però, a cosa fosse dovuta la tristezza che vedevo
chiaramente nel suo sguardo. Solo
il giorno dopo le nostre nozze glielo chiesi, e lei mi
raccontò tutto.
Quella
fu la prima
volta che andai contro le regole senza nessun rimorso. Sapevo che non
era una
marachella da bambini, quella che era diventata mia moglie era una
donna povera
e niente avrebbe cambiato questo fatto. Ma era buona dentro, e tanto mi
bastava. E in questi mesi non mi sono mai pentito della mia scelta, e
penso
sarà sempre così. Ancor prima del nostro
matrimonio Hisana si è data da fare
per non deludere le mie aspettative, ha studiato per imparare le arti
tradizionali come l’ikebana o la cerimonia del
thè, non è mai stata invadente e
non si è mai volutamente messa al centro
dell’attenzione. È stata, forse, una
delle scelte più giuste che abbia mai fatto.
Ah,
ma sto di nuovo
divagando. Concentrati, Byakuya, concentrati, o questi rapporti
resteranno qui
in eterno. Intingo nuovamente il pennello e firmo l’ennesimo
foglio, prendendo
nota su un altro di poche ma preziose informazioni. La caserma non
è mai stata
tanto silenziosa e, sebbene io stesso sia un cultore della calma
durante il lavoro,
devo ammettere che ora questo silenzio ha un ché di
opprimente. Non ho neanche
idea di che ore siano, da quanto sono chiuso qui in ufficio? Due, tre
ore? È
già pomeriggio? Non mi azzardo a controllare, in ogni caso
sarebbe troppa
l’angoscia che mi salirebbe a sapere con precisione da quanto
tempo mi sono
separato da lei. Lavora, Byakuya, lavora.
Quando
finalmente mi
riconnetto alla realtà, noto con un certo piacere che la
pila di resoconti si è
ridotta a due o tre fogli. Li leggo velocemente, firmando dove
necessario, e finalmente
poso la schiena contro la spalliera della sedia. Ora non ho veramente
idea di
che ore siano, ho lavorato senza sosta obbligandomi a non pensare a
nulla se
non ai dati che avevo davanti – ma l’orologio
appeso alla parete dell’ufficio mi
rende noto che è ormai pomeriggio inoltrato, la luce sta cedendo il posto ai primi stralci delle tenebre serali. È passato veramente
così tanto tempo? Alla fine ho
trascorso praticamente tutto il giorno qui in ufficio, le ore sono
letteralmente
volate. Chissà se Hisana è già
rientrata a casa. Risistemo la scrivania e metto
i vari fascicoli in un cassetto, lasciandomi finalmente
l’ufficio alle spalle.
Francamente, l’idea di tornare con calma a casa non mi garba
affatto – lo
Shunpo è la soluzione spontanea, non
c’è nemmeno bisogno di starci a pensare.
Rallento
a poca
distanza dal maniero, varcando dopo pochi minuti il grande cancello. Il
giardino è deserto, ancora coperto dal manto bianco della
neve, intatto. Quando
entro in casa i servi sono già lì ad accogliermi,
inchinati per darmi il
bentornato. Adocchio uno dei più anziani, Nobutsune Seike,
tra i primi della
fila, ed è a lui che mi rivolgo subito. Immagino sappia
già cosa voglio sapere,
come leggo nei suoi occhi stanchi nascosti dietro una montatura tonda
degli
occhiali. Però attende una mia parola, un mio accenno.
«Bentornato
a casa,
Byakuya-sama.» mormora con un leggero inchino «Vi
attendavamo.».
«Hisana
è già
tornata?» non m’interessano i convenevoli, non ora.
Quello che mi rivolgono è
sempre lo stesso saluto ogni santo giorno da interminabili anni.
«No,
signore, la
nobile Hisana non è ancora rientrata.».
Ed
è allora che sento
un macigno crollarmi sul cuore. Di solito sta via poche ore, verso
pomeriggio è
già a casa che riposa – più per
necessità che per sua volontà. Possibile che
l’abbia veramente trovata, che si sia attardata con lei? In
cuor mio spero che
il motivo del suo ritardo sia questo. Eppure non ho nessuna intenzione
di
restare qui ad attenderla, contando i secondi che passano con
l’ansia sempre
più grande – al che mi volto ed esco di nuovo,
mentre i servi tentano inutilmente
di farmi restare con le classiche frasi di circostanza,
“vedrete che tra poco
sarà di nuovo qui”, “non ci
metterà molto a tornare”. Parlano facile, loro.
Non
ho idea di come considerino Hisana, contando che poteva benissimo
essere una di
loro, ma ora come ora non m’interessa. Prima che riescano a
dire altro sono già
sparito alla loro vista – e intanto osservo attentamente ogni
strada della
Seireitei per vedere se sta veramente tornando a casa. Solo quando mi
ritrovo ancora
senza di lei davanti al cancello mi rendo conto che no, non
è tornata alla
Seireitei, è ancora in quel labirinto infinito del Rukongai.
Tiro fuori quel
piccolo dispositivo datomi dal capitano Kurotsuchi, una sorta di
simil-cercapersone commisionatogli appositamente in vista di simili
occasioni –
c’era voluto del bello e del buono per convincerlo
–, in grado di rilevare la
posizione di chiunque solo mediante il battito cardiaco. Sì,
lo ammetto, è
stata una vigliaccata da parte mia metterle addosso
quell’ambigua sottospecie
di microspia, ma non voglio correre il rischio di cercarla in lungo e in largo, mentre lei magari sta male, e arrivare solo quando è troppo tardi. E se serve ad assicurarmi di poterla sempre trovare, ovunque essa sia,
accetto di buon grado – o anche no – di farmi
aiutare da quell’assurdo individuo
che è Mayuri Kurotsuchi. Osservo i dati che quel dispositivo
mostra sullo
schermo e sgrano gli occhi. Hisana, quanto ti sei spinta lontana, oggi?
Lo sapevo
che sarei dovuto venire con te, tutti i michiyuki pesanti o gli haori
caldi che
puoi indossare non mi tranquillizzerebbero mai abbastanza, o le tue
rassicurazioni,
so che lo fai per me, Hisana, ma sono stato un vero stolto a non venire
con te.
Corro,
corro come se
non ci fosse un domani, come se da questo dipendesse la tua vita
– e forse è
davvero così. Ti prego, Hisana, resisti ancora un poco.
Dammi il tempo di ritrovarti
e di portarti a casa, di farti stendere al caldo, di curarti, di
stringerti e
sentire il tuo respiro leggero, quel tuo sussurrato “va tutto
bene,
Byakuya-sama”, le tue mani che mi tirano la stoffa del
kimono, il profumo di
lavanda sui tuoi capelli – è l’odore che
sento ogni volta che fai il bagno, so
bene che è il tuo preferito. Voglio poter vedere ancora il
tuo sorriso, quei
tuoi occhi così sinceri, umili come il primo giorno in cui
t’ho vista e mi offristi
il tuo aiuto, voglio potermi addormentare stringendo la tua mano o,
perché no,
amarti come la nostra prima volta, non è stata per dovere,
per concepire
l’erede, per chissà che altri futili motivi
– volevo solo dirti quanto ti amo
in un altro modo – e poi dormire stringendoti a me, restando
ad osservarti
ancora addormentata il mattino dopo. Sarò anche drastico a
fare subito pensieri
così pessimisti, come se avessi la consapevolezza che nella
nostra storia non
c’è futuro, che sto per perderti, ma perdonami,
Hisana, ai miei occhi sei
fragile come il cristallo, d’una delicatezza tale da
rischiare d’infrangerti
anche solo per sbaglio, al minimo tocco un po’ più
insistente.
E
intanto il paesaggio
desolato del Rukongai mi scorre accanto, passo sui tetti delle capanne,
la neve
che si è deposta non ha il tempo di scricchiolare per il mio
peso, è questione
di frazioni di secondo. Ormai sei vicina, Hisana, il dispositivo nella
mia mano
suona senza sosta, come ad incitarmi ad andare ancora più
veloce. Avverto
all’improvviso il nitrire di un cavallo, ti sei spinta
addirittura al di fuori
di questo distretto? È un campo in rovina quello che mi si
presenta davanti, a
parte qualche sporadico albero e un fiume lercio che scorre poco
più sotto.
Dove sei, Hisana? Finalmente vedo il cavallo, lo riconosco, Arashi
è sempre
stato il tuo preferito, vero? Ma gli manca la coperta sotto la sella,
hai
visto? Hai avuto bisogno anche di quella per questo freddo.
L’animale scalpita
nervoso, sbatte gli zoccoli sul terreno, nitrisce come per richiamarmi.
Ed
infatti eccoti, Hisana, rannicchiata ai piedi di uno di quei pochi
alberi
spogli – ma non hai addosso la coperta che manca ad Arashi,
stai lì ad occhi
chiusi con le braccia strette al petto. Spero solo non sia davvero
troppo
tardi…
Tolgo
velocemente l’haori
e glielo sistemo addosso con cura, cercando di coprirla il
più possibile. Il
suo viso è più pallido del solito, la pelle
fredda come la morte. Eppure respira,
respira ancora, aggrappata a quel sottile filo di vita che ancora la
tiene in
questo mondo. La stringo forte, più forte che posso, quasi
fregandomene del
fatto di poterle fare male, cercando di trasmetterle quanto
più calore
possibile. Mi rialzo tirandola su, lego alla meno peggio le redini del
cavallo
all’albero e parto di nuovo con lo Shunpo, sempre tenendo
Hisana stretta tra le
braccia. Per l’animale posso sempre mandare qualcun altro a
riportarlo a casa,
mia moglie è molto più importante, non la si
può sostituire. Non mi soffermo
minimamente a guardarmi intorno, oltrepasso i cancelli della Seireitei
evitando
il guardiano, non ho tempo da perdere per certe quisquilie. Non passo
nemmeno
dal portone principale della residenza, atterrando nel giardino privato
su cui
si affaccia la nostra camera e apro gli shoji per entrare. Non mi
preoccupo di
togliere i waraji, accucciandomi e scostando la coperta del futon di
Hisana – e
lentamente la deposito lì, lasciandole addosso anche il mio
haori. Kami-sama, è così pallida, il suo respiro è quasi impercettibile. Per diversi minuti non si muove, ammetto che l'ansia mi sta divorando come un cancro. Sto per alzarmi per andare a chiamare il medico quando, grazie al cielo, la sento chiamarmi per nome.
«Byakuya-sama…».
Parla
con un filo di
voce, respirando a fondo e aprendo piano gli occhi – sono
lucidi, quasi
acquosi. Che abbia la febbre? Le sfioro la fronte con la mano, o
è gelida lei o
sono io che sono diventato una fornace. Solo in quel momento mi rendo
conto di
quanto siano sudate, le mie mani.
«Ti
senti male,
Hisana? Vuoi che chiami il medico?».
Lei
scuote lentamente
la testa, serrando le palpebre. Si sistema meglio sul futon, osservando
per un
attimo il bordo bianco che le sfiora la guancia.
«Il
vostro haori…».
La
vedo muoversi
ulteriormente, quasi a volerselo sfilare. Benedetta donna, quanta
pazienza ci
vuole con te. Quando capirà che da lei devo essere
considerato un suo pari? Probabilmente
mai, ma non disperiamo. Le sfioro la guancia con la mano, stirando
appena un
sorriso.
«Tienilo,
Hisana, ora
non mi serve.».
«Ma
si stropiccerà…».
«Non ha importanza. Pensa a stare al caldo, per ora. Vuoi dormire un po’?».
Scuote di nuovo la
testa in senso di diniego. Spero davvero le basti un semplice riposo
come
questo, ma probabilmente l’ha detto per non invitarmi
sottilmente ad andarmene
o non farmi preoccupare. La farò comunque visitare non
appena si sarà
addormentata, in ogni caso. Lentamente una sua mano sbuca da sotto le
coperte,
cercando alla cieca la stoffa dei miei hakama – la prendo
nella mia, la
stringo, la scaldo. Mi piace riuscire a stringerla tanto da avvolgerla completamente, scioccamente mi dà
l’illusione di essere abbastanza
da riuscire a proteggerla. Ma sviste come quella di oggi non devono
assolutamente
ripetersi, e al diavolo ciò che penseranno gli anziani.
Anche se temo che
Hisana non sarebbe molto d’accordo.
«Sapete,
Byakuya-sama…» riprende dopo qualche minuto
«In quel campo, prima che voi
arrivaste, io… ho ripensato al nostro primo
incontro…».
Esattamente
la stessa
cosa a cui ho pensato io in ufficio. Cos’è,
Hisana, una strana sorta di
telepatia? È sempre strano, ma bello vedere che condividiamo
anche gli stessi
pensieri, almeno per quanto riguarda i nostri trascorsi.
«Il
giorno in cui
rifiutai l’acqua che mi offrivi? Non devo averti fatto una
bella impressione,
perdonami.».
«No,
io… pensavo
l’aveste rifiutata perché… consideraste
umiliante l’idea di farvi aiutare da
una stracciona come me. Non che vi colpevolizzi, se davvero la
pensavate
così…».
«Se
l’avessi pensato
davvero, mesi dopo non ti avrei chiesto di diventare mia
moglie.».
Stavolta
non replica
minimamente, anzi, arrossisce e stira le labbra in un leggero sorriso.
Sorriso
che scompare, però, dopo pochi istanti. Non voglio farle
quella domanda a cui,
già lo so, seguirà una risposta negativa.
«Non
sono riuscita a
trovarla…».
E
infatti. Basta quel
pensiero a far adombrare il tuo sguardo, Hisana, te ne sei mai accorta?
Chiude
nuovamente gli occhi lasciandosi scappare un sospiro, forse
raccogliendo le
speranze per tentare nuovamente un altro giorno. Anche se volessi non
ci
sarebbero parole abbastanza convincenti da permetterle di accettare il
mio aiuto
– è così tremendamente testarda, a
volte. È in momenti come questo che mi sento
totalmente impotente, perché so già in partenza
che lei non mi darà
assolutamente retta, continuerà per la sua strada, cercando
una sorella che non
si sa nemmeno se sia ancora viva. Quel che è certo
è che continuerò a starle accanto
più che posso, contravverrò più che
volentieri alle regole, se necessario – non
sarebbero parole da me, ne sono consapevole. Ma Hisana è il
bene più prezioso
che ho, la piccola oasi di onesta serenità in questa casa,
contro il mondo
intero. In questa stanza non esistono ranghi, non esistono
nobiltà e doveri, i
pareri degli altri potrebbero contare quanto una goccia in un oceano,
siamo
solo io e lei, Byakuya e Hisana.
Le
sfioro la guancia e
le asciugo le lacrime con un pollice, delicatamente, mentre lei si
lascia
scappare qualche singhiozzo. Piange, perché per lei
è stato un altro
fallimento, un altro giorno in cui ha condannato la sorella a restare
in quelle
strade sudice, e non è insieme a lei. Piange, si sfoga
silenziosa, ancora
timorosa di disturbare. La sua mano esile stringe la mia, ci si
aggrappa,
quasi, se la preme contro il viso aggiungendo anche l’altra,
come a farsi forza
con quel semplice tocco. Lascia scorrere le lacrime in silenzio,
finché non la
sento respirare molto più profondamente – e quelle
righe umide sulle guance vanno
via via a seccarsi. Finalmente sembra essersi calmata, tanto da
riuscire ad
addormentarsi – o forse è semplicemente sfinita.
Accarezzo i capelli che le coprono
i lati del viso, spostandoli indietro, tranne quel ciuffo nero che ha
sempre in
mezzo agli occhi, e
resto lì con lei,
riprendendo piano quella mano abbandonata sopra la coperta.
Intanto,
in giardino,
la neve ha ripreso a cadere.
«Perché quando arrivi il cielo si apre in un secondo
e dentro al tuo sorriso io mi perdo
risplendo nel tuo sguardo
ringrazio il cielo per averti accanto
Ti prendi di me ogni cosa e non mi togli niente
vorrei sapessi quanto sei importante
ti voglio adesso e sempre
è questa la promessa che io faccio a te
che io faccio a te.»
La Promessa - Stadio