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Autore: Iwuvyoubearymuch    25/07/2012    34 recensioni
Ho provato a mettere nero su bianco ciò che può essere accaduto dopo gli eventi dell'ultimo libro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ho aggiornato in fretta questa volta. Avrei potuto farlo anche prima perché ho finito questo capitolo venerdì sera, ma mi sono presa del tempo per scrivere anche gli altri. Posso annunciare con sicurezza che ci saranno altri due capitoli e subito dopo l'epilogo. E' quasi finita...
Le altre volte ho detto che il capitolo non mi piaceva, adesso invece sono molto contenta di quello che è uscito. E' uno dei miei capitoli preferiti, quindi non smontatemi. Scherzo, l'importante è che mi diciate sempre come la pensate, senza preoccuparvi di essere troppo dirette o "cattive".
Al prossimo capitolo...
-M


Capitolo Tredicesimo
E' strano come una giornata inizi in una maniera e si concluda in tutt'altro modo. La maggior parte dei giorni mi sveglio spaventata a morte, col cuore che mi batte forte come se volesse scoppiare in tanti piccoli pezzetti a ogni respiro in più che faccio, e le coperte sempre tirate fin sopra il naso per proteggermi da qualsiasi cosa veda negli incubi. Il più delle volte la sensazione di paura mi perseguita per le ore successive come la mia stessa ombra. Anche quando sono nel bosco immagino che mi accadono le cose peggiori e io, come nei sogni, non posso fare nulla per impedirle. Altre volte, invece, Peeta riesce a calmarmi, mormorando parole dolci all'orecchio, cullandomi come si farebbe con un bambino e con qualche bacio. Cerca di farmi sorridere, inventando le storie più buffe sui suoi trascorsi in panetteria e, nonostante io provi a fermarlo per non rievocare brutti ricordi in lui, non mi da ascolto e non si arrende fino a quando anche la più piccola traccia di un sorriso spunta sugli angoli della bocca.
Ci sono delle mattine, però, che mi sveglio bene. Come la prima volta che dormii con Peeta dopo essere ritornata al Distretto 12. Gli incubi, che in altre notti sono terribili e mi fanno svegliare di soprassalto, non mi infastidiscono più di tanto. Capita molto raramente, ma quando succede è come se fossi un'altra persona. Ovviamente, nel corso della giornata deve sempre accadere qualcosa che mi mette di malumore, come uno dei flashback di Peeta, bottino scarso o inesistente nel bosco, fotografie di bambini che giocano nell'acqua.
Questa mattina, ad esempio, fa parte alla seconda categoria. Rivedere Tresh che fracassa il cranio di Clove con una pietra subito dopo avermi risparmiata non mi ha terrorizzato molto più delle altre volte, e quando ho aperto gli occhi, Peeta era accanto a me che mi guardava. Non succede spesso che ci svegliamo insieme, perché abbiamo orari differenti per iniziare le nostre attività. In genere è lui quello che esce prima di casa, ma sostiene di non avere il coraggio di svegliarmi per dirmelo. A volte, come stamattina, si veste e aspetta che apra gli occhi, mi saluta e poi va via. E' in mattine come queste che mi sembra di essere ritornata nella grotta della nostra prima edizione. Quella piccola insenatura era diventata una specie di rifugio più mentale che strategico. Lì stavamo bene, sebbene il freddo ci facesse battere i denti e la fame oscurasse ogni buon presentimento. Eppure lì dentro, insieme, eravamo al sicuro dalla tempesta che imperversava fuori, accontentandoci di quell'illusorio senso di protezione. Mentre tutto fuori era il caos più totale, noi quasi ne eravamo indifferenti. Quasi. Arrivava sempre il momento in cui dovevamo uscire per cacciare, lavarci, raccogliere cibo. Non potevamo restare lì per sempre sia per necessità sia perché gli Strateghi non ce l'avrebbero permesso. E allora la paura iniziava di nuovo a tormentarmi. Il terrore di non poter più ritornare al nostro nascondiglio, di incontrare qualche altro tributo, di perdere di vista Peeta e ritrovarlo solo quando sarebbe stato troppo tardi come era successo per Rue. Adesso, come allora, ho la sensazione che ogni attimo di felicità - o almeno la cosa che più ci si avvicini - debba finire all'istante, che mi venga portato via quando meno me lo aspetto e mi ritroverò a dover ricominciare tutto da capo.
Il buonumore di questa mattina si è concluso in concomitanza all'arrivo di una fotografia da parte di Annie Cresta. Tra la lettera di mia madre e la lista delle nuove cure per me e Peeta del Dr. Aurelius, quasi non mi sono accorta dell'immagine che mostrava un bambino alle prese con le onde del mare. Prima ancora di leggere il nome del mittente sul retro, ho capito di chi si trattava. C'era un Finnick in miniatura davanti ai miei occhi, bello come il padre a cui aveva anche rubato il colore dei capelli e l'altezza; le forme del viso e gli occhi verdi erano tutto merito di Annie. E' stato impossibile non riconoscerlo.
"Peeta, vieni a vedere una cosa" grido, senza mai distogliere l'attenzione dalla fotografia sotto il mio naso. E' sorprendente come la stessa espressione di Finnick sia presente nel figlio. Se non avessi saputo che ne aveva avuto uno, avrei giurato che quella era una fotografia di lui da piccolo. "Guarda qui" dico a Peeta, quando arriva, mostrandogli l'immagine.
E' divertente vederlo aguzzare la vista e poi quasi indietreggiare alla consapevolezza di quello che ha davanti. "E' Finnick!" esclama, tornando ad osservare meglio. "Sa già nuotare e ha quanto?, un anno?" 
Annuisco. E' nato dopo la morte di Finnick, dalla quale è passato poco più di un anno. E il piccolo Finnick ha già imparato come si deve comportare in acqua. Ha due piccole ciambelle attorno alle braccia, che suppongo gli facciano da salvagente. Eppure dalla bocca spalancata in una gioiosa risata e le mani che si schiantano sulla superficie dell'acqua alzando un bel po' di schizzi, direi che potrebbe anche farne a meno. Annie ha davvero fatto un bel lavoro con lui.
"Non si dovrebbe chiamare un bambino col nome del padre morto" dico improvvisamente, continuando a fissare il nome che Annie ha scelto per il figlio.
"Perché?" chiede Peeta, mettendosi accanto a me sul divano.
Non è evidente? "Sarebbe come rivivere quel dolore ogni volta, credo" spiego. E' così sicuramente. Come può una persona andare avanti e superare la morte del marito, se ogni volta che chiama il figlio deve fare i conti col momento in cui l'ha perso? E vale anche per altri componenti della famiglia o degli amici. Magari, è solo un tentativo di tenere vivo il ricordo di una persona che si amava, ma è come farsi del male di proposito. Soprattutto quando il bambino in questione somiglia così spudoratamente al precedente proprietario del nome. Evidentemente Annie non l'ha pensata in questo modo e mi chiedo come faccia a guardare suo figlio, senza finire in lacrime ogni volta che dovrà chiamarlo perché la cena è pronta o quando dovrà rimproverarlo.
"Tu come lo chiameresti?" mi chiede Peeta, mentre passa un braccio attorno alle mie spalle e mi tira a sé.
Scrollo le spalle. "Non lo so" ammetto. Non ho mai pensato a una cosa del genere e mai ho desiderato pensarci. "Non avrò di questi problemi" dico, ritenendomi in un certo senso fortunata.
"Che vuoi dire?" domanda Peeta, perplesso. Non riesco a vederlo in faccia, ma so per certo che è sorpreso.
Affondo la faccia nel suo petto. "I bambini non fanno per me" rispondo, timorosa della piega che la conversazione potrebbe assumere da questo momento in poi. "Dovresti saperlo" aggiungo, nel tentativo di alleviare l'atmosfera che già si sta già facendo insostenibile.
"Sapere cosa?" continua, mettendo da parte la fotografia proveniente dal Distretto 4. So per certo che ha capito a cosa mi sto riferendo e il fatto che io rimanga in silenzio e non smentisca i suoi dubbi, gli da solo una conferma ulteriore. "Non vorresti avere un figlio? E' questo che mi stai dicendo?". Sembra quasi che non riesca a credere alle sue parole e alle mie.
"Pensavo lo sapessi" bisbiglio.
"Non me l'hai mai detto, come facevo a saperlo?"
Non ho assolutamente idea di cosa dire. Peeta non sembra arrabbiato, ma nemmeno sereno come prima. Possibile che non sapesse che non voglio avere figli? Anzi, che non ne ho la minima voglia o interesse? In effetti, l'unico a saperlo era Gale. Lui ha sempre saputo che i non avrei mai voluto dei bambini. Perché volerli dopotutto? Perché potessi vederli morire uno dopo l'altro negli Hunger Games? No, era impensabile. E adesso che i Giochi non ci sono più, vale lo stesso principio. Chi mi dice che non verranno restaurati nel giro di qualche anno? E dopotutto non si muore soltanto in questo modo. Sebbene le cose qui siano migliorate di molto, c'è ancora chi non riesce a portare del cibo in tavola, oppure a guadagnare tanto da permetterselo. Non vorrei mai vedere mio figlio soffrire la fame nel modo in cui l'ho sofferta io. Vedere ogni giorno le sue guance diventare sempre più scarne oppure le braccia esili su cui si potrebbero distinguere le ossa. Sarebbe insopportabile. Anche se ora le cosa vanno meglio, ci sarebbe sempre una buona percentuale di pericolo, uno che non sono pronta a rischiare.
E' ovvio dall'espressione di Peeta che lui non la pensa allo stesso modo. "Tu ne vorresti uno?" chiedo, sicura che una risposta affermativa potrebbe fare del male a entrambi.
"Non ci ho mai pensato prima di adesso" dice, e so che è la verità perché sembra che ci stia dando un pensiero per la prima volta in questo momento. "Certamente non ora, ma in futuro potrei volerlo" confessa, dopo qualche istante di silenzio.
Come temevo. Il terribile momento in cui devo uscire dalla grotta è arrivato, portando con se ogni tipo di sicurezza. "Io no" replico, decisa.
"Mai?" chiede sconcertato Peeta. Scuoto la testa. "Non puoi dire sul serio" dice, scattando in piedi.
Lo seguo a ruota. "Si, invece. Non voglio un bambino e non cambierò idea". La faccio suonare come una promessa allettante. Magari per me lo è, ma per Peeta sembra che sia l'esatto opposto.
"Hai cambiato idea quando hai deciso di sposarmi" mi fa notare, con una nota di sarcasmo che mi infastidisce. "Eri dell'idea che non avresti mai sposato nessuno e guardati adesso - mi indica a mano ben aperta - sei mia moglie"
Più Peeta va avanti a cercare di convincermi e più ho la sensazione che non resisterò a lungo in questa casa, che non riuscirò a mantenere la calma. "Stai dicendo che non so quello che voglio?" accuso, facendo qualche passo nella sua direzione. 
Peeta mi mette le mani sulle spalle. "Non ho detto questo" ci tiene a precisare immediatamente. "Solo che non puoi sapere cosa vorrai in futuro"
"Ti sbagli" è tutto ciò che gli dico, voltandogli le spalle. Non mi va più di stare a sentirlo. La mia è una decisione presa già da molti anni, che non subirà mutamenti per nessuna ragione. Non c'è niente che lui possa fare per farmi cambiare idea. Sono irremovibile da questo punto di vista.
Il sospiro di Peeta mi giunge perfettamente alle orecchie, sebbene abbia messo una notevole distanza tra noi due. "E quando ti chiederò di provarci?" mi urla dietro.
"Avresti dovuto sposare qualcun'altra allora" 
Mi chiudo la porta alle spalle, per non rischiare di vedere la sua espressione ferita. E' sicuro che queste ultime parole gli abbiano fatto più male di tutta la discussione perché è lo stesso effetto che hanno avuto su di me. Me le rimangerei all'istante se ciò non lo inducesse a illudersi che in futuro potrebbe esserci una speranza. Non ci sarà ed è bene che lo capisca adesso.
Ma non lo capisce.
La prima volta che me l'ha chiesto, ho liquidato la faccenda con un deciso "no" che non ha ammesso alcuna replica da parte sua. Gli occhi hanno parlato al posto suo. In un attimo si sono riempiti di un dolore talmente insostenibile, che non sono riuscita a reggere. Quella stessa notte ho pensato che ce l'avesse con me quando a letto non mi ha preso tra le sue braccia come faceva di solito. Al mattino, invece, l'ho trovato al mio fianco con la sua mano attorno alla mia. Ha capito che avevo bisogno di lui anche se entrambi eravamo addormentati, anche se non ho avuto modo di parlargli dell'incubo sul giorno della Mietitura. Non la mia, quella non la sogno mai. Al mio posto infatti c'era un bambino dai capelli biondi che somigliava tremendamente a Peeta; vederlo avvicinarsi al palco, mi distruggeva passo dopo passo e io non potevo fare nulla per impedirlo. I figli di un vincitore sono sempre una notevole risorsa di divertimento, figurarsi quando i genitori hanno vinto la stessa edizione.
Ogni anno si ripete sempre la stessa storia. Sangue ovunque, bambini stesi al suolo inermi. La seconda volta che me l'ha proposto, mi ha chiesto di pensarci. Ed il modo in cui l'ha detto e l'espressione del viso, che mi hanno costretto a darci davvero un pensiero. Non mi ha chiesto una cosa brutta, anzi è molto dolce, tenera, molto da lui. Ma fa sentire me malissimo. Così cedo e gli prometto che davvero ci penserò. "Non sto dicendo che cambierò idea" lo avverto. E infatti non cambio idea nemmeno dopo il quinto anno. Ne passano sei, sette, otto... mi sorprende che Peeta mantenga la stessa espressione speranzosa anche dopo dieci anni di continui rifiuti. "Non ne sono sicura" gli concedo e lui non dice niente. Lascia che sia io a decidere, senza mai nessuna forzatura. Mi ringrazia anche e mi abbraccia, facendo contorcere il mio stomaco dal dolore, solo perché ho ammesso di non esserne sicura.
Ma non è la sua intramontabile ottimistica fiducia che mi fa dire di si al quindicesimo anno. Piuttosto l'espressione sognante quando vede una bambina abbracciare il padre e giocare con lui davanti casa, tenderle un foglio di carta su cui ha disegnato loro due che si tengono per mano, oppure il sorriso che gli si stampa in faccia ogni volta che un ragazzino entra in panetteria e lui non può fare a meno di dargli biscotti o dolcetti. E' il ricordo costante di tutto quello che ha fatto per me che mi fa cedere. Ha fatto così tanto nel corso degli anni e ora io non posso fare una cosa per lui? In fondo, non sarei sola. Lui sarebbe sempre al mio fianco, pronto a darmi una mano e a sostenermi nei momenti difficili che sicuramente verranno. Ne sono sicura di questo. Così quando me lo chiede per l'ennesima volta, sono pronta a dirgli: "Si, va bene", abbracciandolo forte. Mi bacia e il sorriso che avverto contro le mie labbra sembra lo stesso di quel giorno sul tetto del Centro di Addestramento. In un istante la casa si riempie di una risata sollevata ed entusiasta che mi fa pentire di aver aspettato così tanto. Chiude le braccia attorno alla mia vita e mi sento sollevare di qualche centimetro da terra. Sul serio, come ho fatto a dirgli no per quindici anni?
Ci vuole qualche mese prima che si insinui nella mia mente il sospetto che l'ultimo tentativo sia andato a buon fine. Ho aspettato di esserne sicura prima di parlarne con Peeta per non illuderlo in caso di falso allarme. Il sospetto è giunto insieme alla permanente sensazione di avere la gola percorsa da centinaia di incandescenti fiammelle, un odore nauseante al momento sbagliato e i residui della cena della sera precedente sparsi un po' ovunque sul pigiama.
"Sono incinta" gli dico, pungolando le patate che domattina mi ritroverò addosso qualora non riuscissi a raggiungere il bagno in fretta. Lo dico così, con la stessa voce piatta che userei per dirgli che una delle oche di Haymitch è morta. Però, dirlo a voce alta rende tutto diverso, tutto più spaventoso. Fin quando era un pensiero mio, chiuso nella mia testa e di cui soltanto io ero a conoscenza, non sembrava così terribile. Forse, perché in quel modo avrei potuto fare finta di niente, evitare di pensare che in breve tempo sarò madre. Prima o poi, avrei dovuto farci i conti, è ovvio, ma avrei preferito che quel poi durasse un po' di più.
Peeta si accorge subito che qualcosa non va, come si accorge sempre di ogni minima cosa. L'iniziale sorriso che gli è spuntato sulle labbra, adesso non c'è e l'espressione si è incupita troppo velocemente. "E' quello che volevamo" dice, carezzandomi la mano con delicatezza. Sembra quasi una domanda, la sua.
Scuoto la testa, con le lacrime che minacciano di uscire da un momento all'altro. Stringo la mano libera in un pugno, con le unghie ben premute contro il palmo della mano. Non voglio piangere, non mi servirebbe a niente. "Lo volevi tu" gli faccio notare, la voce debole quanto la volontà di non cedere al pianto.
Per un paio di secondi, non si sente nient'altro che i tentativi di Peeta di trovare le parole adatte. Fa per dire qualcosa, ma poi richiude la bocca immediatamente forse meravigliato o sbalordito. Deluso. "Perché allora hai accettato?" domanda. "Quando hai detto si, ho pensato che fosse quello che volevamo entrambi. Non ho mai voluto forzarti..."
"Si, che l'hai fatto!" lo interrompo. "Me l'hai chiesto per quindici anni! Volevo che fossi felice, volevo davvero darti un bambino perché sapevo che ne desideravi uno. Per questo ho accettato" mi sfogo, trovando per la prima volta il coraggio di dirgli quello che pensavo. Approfitto di quello che mi rimane per lanciargli un'occhiata veloce. E' chiaramente confuso. Probabilmente non riesce a credere a quello che gli sto dicendo. Ma perché? E' un ragionamento esatto quello che mi ha condotto ad acconsentire. In questo modo avrei potuto ripagarlo per tutto quello che ha fatto per me: il pane di quando eravamo piccoli, il colpo di Cato solo per permettermi di fuggire, la prigionia a Capitol City, il rimettermi in sesto quando volevo soltanto morire.
Peeta allunga una mano nella mia direzione, sfiora la guancia e intrappola una lacrima con le proprie dita. Non mi ero accorta di aver iniziato a piangere. Maledetti ormoni!
"Non ho mai voluto che mettessi da parte quello che volevi tu per rendermi felice" sussurra dolcemente. "Avresti dovuto parlarmene prima. Adesso, cosa facciamo? Vuoi che..?"
"No!" dice qualcuno e solo dopo mi rendo conto di essere stata io. "No" ripeto, alzandomi dalla sedia. Ho bisogno di stare in piedi, devo camminare. Peeta fa lo stesso. "Il problema è che voglio questo bambino". Anche adesso, dirlo a parole rende tutto più reale e terrificante.
"Perché è un problema, allora?" chiede Peeta. Mi pare di avvertire un velo di esasperazione nella sua voce.
E' un problema perché l'unica cosa a cui riesco a pensare è che possa fare la stessa fine di Prim. O Rue, o tutti quelli che sono morti per colpa mia. "Ho paura che possano portarmelo via" ammetto in un faticoso bisbiglio. Deve aver sempre creduto che la mia fosse solo una semplice fobia di non essere un tipo materno. Strano come, in realtà, sia l'esatto contrario.
"Chi? I Giochi sono finiti. Vero o falso?"
"Vero. Ma come fai a essere sicuro che non ci sia qualche altra cosa in futuro?" Adesso è il mio turno di suonare esasperata. "Tutti quelli che conoscevamo sono morti"
"Non lo permetterei" esclama Peeta, le mani posate sulle mie spalle e il volto a qualche centimetro dal mio.
"E se non bastasse?" chiedo, deviando ciò che avevo pensato di dire, all'ultimo minuto. Hanno preso anche te, è quello che per poco non ho detto. Capitol City era riuscita a togliermi anche lui per un breve periodo di tempo. Come facevo a dirgli una cosa del genere? Avrebbe potuto pensare che non mi fido abbastanza di lui. Che ho paura che possa fare del male al bambino in preda a uno dei suoi episodi. So per certo che se dovesse avere anche il misero sospetto di non stare bene, Peeta si allontanerebbe da nostro figlio all'istante perché non si perdonerebbe mai una cosa del genere. Ma come faccio a sapere che non sia proprio lui a portamelo via? A questo pensiero, sopraffatta dalla vergogna, inizio a singhiozzare. Provo solo sdegno verso me stessa, quando lascio che mi abbracci e mi culli sul posto. Affondo la faccia nel suo collo e mi aggrappo alle sue spalle, mentre lui mi carezza gentilmente la schiena. E' in momenti come questi che le parole di Haymitch tornano a galla, solo per rendermi orgogliosa di Peeta e al tempo stesso per farmi sentire malissimo.
Quando Peeta mi raggiunge a letto sembra pensieroso, al punto che non mi sente quando gli chiedo se c'è qualcosa che non va. "Mi è venuta in mente una cosa" dice, infilandosi sotto le coperte accanto a me. "Il gioco di vero o falso con me ha funzionato. Se ne creassimo uno anche per te? No, ascoltami - dice, quando mi volto nella direzione opposta con uno sbuffo - sei convinta che questa cosa non andrà bene perché hai assistito a troppe cose terribili. E' normale che tu sia spaventata, non posso darti torto perché so come ti senti. Ma se invece di buttarti giù, provassi a pensare a tutte le cose buone che hai visto fare, forse ti sentiresti meglio, potresti recuperare un po' di fiducia" conclude, fissandomi con quella stessa espressione speranzosa di quando mi chiedeva di provare a avere un bambino.
Un gioco. Un semplice gioco dovrebbe avere il potere di non farmi temere il peggio? Sembra un'idea così stupida che... che forse potrebbe funzionare. Peeta ha ragione. Il gioco del Dr. Aurelius ha funzionato con lui. E comunque, penso che dovrei accettare qualsiasi tipo di soluzione se non voglio che la paura mi pietrifichi per il resto degli anni.
Annuisco. "Cosa devo fare?"
"Dimmi la prima azione altruistica che ti viene in mente" mi spiega Peeta. 
"Facile" ribatto. "Il pane che mi hai dato quando eravamo piccoli"
Peeta sospira. So quanto non gli piaccia il fatto che tiri fuori questa storia ogni tanto. Ma non ne posso fare a meno. E' grazie a lui che ora sono qui. "Un'altra" dice soltanto.
Adesso devo pensarci per qualche instante. "Rue che mi avverte dell'alveare sull'albero e Tresh che mi risparmia" dico con la voce che cala man mano. Forse, non è una buona idea concentrarsi sulle persone morte. "Gale, quando si è preso cura della mia famiglia mentre non c'ero"
Andiamo avanti in questo modo per molto tempo, rievocando molti ricordi e persone. Sae la Zozza, Haymitch, Cinna, Finnick e Johanna, Beetee. Probabilmente è per via degli ormoni che iniziano già a impazzire, ma mi sento davvero meglio, rincuorata. Ciò non toglie che incontreremo delle difficoltà e che dovrò ricorrere a questo trucco moltissime volte, comunque è bene non concentrarsi troppo su quello che potrebbe accadere o non potrebbe accadere. E' vero che le cose potrebbero andare male, ma è possibile anche che migliorino, no? E se non dovesse essere così, ci penserò quando il problema si presenterà.
"Adesso che stai meglio, posso essere contento?" mi chiede improvvisamente Peeta.
Lo guardo, perplessa. E' di una dolcezza infinita il fatto che abbia aspettato che io mi riprendessi, ma... "Non devi chiedermelo" dico, quasi a mo' di rimprovero sia per me che per lui. Sono stata così presa dalla mia crisi di panico, che non ho pensato a nient'altro. Che non ho permesso a Peeta di gioire subito.
Lui non si accorge del mio tono - o forse, fa finta - e indica la mia pancia con il migliore dei sorrisi. "C'è il nostro bambino lì dentro"
Annuisco, coltivando la speranza che somigli al padre in ogni suo aspetto.
  
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