Avviso:
questo capitolo è un po’ particolare per
l’intreccio
tra i POV di Draco e Narcissa, non cambio colori o stile di scrittura
perché sono
molto facili da riconoscere e alternati.
Il
serpente e l’uccellino.
“Cosa
ci fai in mezzo a tutta questa gente?
Sei
tu che vuoi o in fin dei conti non ti frega niente?”
Luciano
Ligabue.
Tutte
le sere finiva così.
Lui
tentava di parlarle, di starle vicino e
nonostante all’inizio, per poco, riusciva a oltrepassare un
poco la sua porta
di diffidenza e rabbia, ma alla fine lei lo chiudeva sempre fuori
sbattendogliela in faccia.
Erano
irrimediabilmente soli tutti e due, senza
nessuno, nessun appiglio nella loro vita cui aggrapparsi, sentivano
entrambi il
bisogno di parlare, di confidarsi con qualcuno, di condividere un
po’ della
loro quotidianità, ma nessuno lo voleva ammettere per primo,
nessuno voleva
dare all’altro la soddisfazione di farsi compatire, di farsi
vedere fragile, di
essere il primo a chiedere aiuto ad allungare la mano per farsi
prendere.
C’era
qualcosa che però li differenziava: lei alla
solitudine c’era abituata, lui era riuscito ad alleviarla, ma
per poco tempo.
Lei
sapeva cosa volevano dire le lunghe sere passate
in compagnia solo di un libro, le giornate vuote, le lunghe assenze
delle
persone e anche le sue, sapeva cosa voleva dire avere la pazienza di
aspettare.
Lui
no, perché aveva sempre avuto qualcuno intorno, da
quando aveva memoria non gli erano mai mancati ne affetto ne sostegno,
che
fossero i suoi genitori o gli amici e i compagni di scuola, e quindi fu
il
primo a cedere.
Perché
la solitudine in due diventa più
sopportabile, si affronta meglio, perché in due non
è più solitudine.
Perché
aveva bisogno di qualcosa che lo scaldasse,
qualcuno che gli facesse staccare un po’ la mente da tutto
quello che stava
attraversando, perché aveva bisogno di lei più di
qualsiasi altra cosa al
mondo.
Sterile.
La
terra intorno alla sua villa era morta.
Non
cresceva più nulla, le piante quell’agosto non
avevano dato i frutti aspettati, le foglie si erano subito ingiallite,
e a settembre
già cadevano staccate dal vento freddo che ghiacciava gli
animi oltre che le
piante.
Il
terreno era asciutto e persino l’erba, un tempo verde
e rigogliosa, sembrava secca, sembrava stanca, quasi quanto lei.
Il
bianco dei pavoni spiccava maggiormente in quel
giardino brullo e senza vita, tanto da sembrare, da lontano, dei
piccoli cumoli
di neve, sparuti, a dare luce.
Impossibile,
perché si sa, sotto la neve l’erba è
fresca.
Tutto
moriva, si spegneva, e piano piano anche lei e
la sua famiglia.
Suo
marito vagava per la villa senza motivo,
passando da una stanza all’altra senza un perché
preciso, non parlando quasi
mai, fermandosi ad osservarla di tanto in tanto, da dietro una porta,
mentre
lei leggeva, suonava, curava quel poco che era rimasto del giardino.
Quella
gioia che aveva sempre avuto negli occhi si
stava estinguendo e Narcissa non sapeva come mantenerla viva,
è più facile
spegnere un fuoco che riaccenderlo di nuovo.
Avevano
sempre portato insieme il peso di quello che
accadeva alla loro famiglia, ma sembrava che lui volesse prendere il
peso solo
sulle sue spalle e lei non glielo avrebbe permesso.
Perché
in due è più facile, perché in due il
carico
si dimezza e diventa più sopportabile.
La
notte trascorreva lenta tra le lenzuola di seta
chiara, rigirarsi, ancora e ancora, non aiutava di certo il sonno che
non era
ancora arrivato ad accoglierlo tra le sue braccia dolci e calde.
La
finestra aperta portava, con una brezza
tranquilla, il verso inquieto e inquietante dei barbagianni che avevano
il nido
nelle rientranze scure degli alberi.
Nient’altro.
Il
rumore di un qualche animale che camminava
intrepido sulle tegole del tetto, qualcuno che sbatteva la porta
d’ingresso, un
elfo domestico che correva da una stanza all’altra per
accontentare gli ospiti
strascicando i piedi grandi fuori misura, gli risultava tutto
così ovattato da
fargli credere che niente di tutto ciò succedesse.
Tutto
lontano, a mala pena percettibile, distante,
senza sostanza e forma.
L’unica
cosa che sentiva vicino, palpabile, era il
respiro tiepido di Wren nella stanza accanto.
Non
che lo sentisse veramente, ma ormai era così
abituato ad ascoltarlo che gli era rimasto in testa e pensava di udirlo
ovunque.
Pensare
che c’era lei, e che li separava solo una
parete poco spessa, ma che non poteva avvicinarsi, lo mandava in bestia
e di
certo non conciliava il sonno.
Si
alzò barcollando per la stanchezza per
raggiungere l’armadio e con il buio che regnava nella stanza
quasi vi cadde
dentro mentre apriva le ante cercando di non far rumore.
“Lumos”.
Con
la luce scaturita dalla bacchetta non fece molta
fatica a trovare quello che stava cercando.
La
loro era l’unica camera della villa che manteneva
almeno una candela accesa durante tutta la notte.
Non
che avessero paura del buio, loro, che le
tenebre le conoscevano meglio di chiunque e le vivevano da sempre.
Lo
aveva chiesto Narcissa, perché suo figlio sapesse
che c’era sempre qualcuno se lui avesse voluto parlare, se
non fosse riuscito a
dormire là nel suo letto freddo da solo, se scegliesse di
passare un po’ da
loro.
Lucius
glielo aveva detto che non sarebbe mai
venuto, che era troppo grande, che era troppo orgoglioso anche solo per
venire
a chiederle aiuto, che non aveva senso quello che stava facendo.
Lei
non la pensava così, bastava il pensiero, la
certezza della loro costante presenza, una luce per salvarlo
dall’oscurità che
lo stava avvolgendo, strappandolo a loro.
La
loro luce sarebbe rimasta accesa, il resto non
aveva alcuna importanza.
Basta
poco per rischiarare l’oscurità, così
poco che
a volte non gli diamo importanza, perché la via facile non
è sempre quella
giusta, ma la maggior parte delle volte sì.
Un
libro sul comodino, un altro tra le dita lunghe
che sfogliavano i fogli delicatamente, con sapienza, una carezza
amareggiata di
chi lascia una pagina come abbandona un amico.
Una
volta.
Un’altra
ancora.
Finché
la pelle lavorata non prese il posto della
carta e il tempo di perdersi tra le amate storie finì come
era iniziato.
Apatia
totale dopo quell’attimo di libertà,
finché
Lucius la raggiunse sotto le lenzuola e lei ebbe la certezza di non
essere
sola, anche se lui era così distante.
Si
avvicinò cauto, finché non sentì il
legno striato
sotto le dita, mentre la luce forte emanata dalla bacchetta lo aiutava
ad
abbassare la maniglia.
Si
avvicinò e si sedette sul bordo del letto per non
disturbarla.
Il
suo respiro era come lo sentiva nella sua stanza,
lento, regolare, gli sembrò, per un attimo, di essere
tornato nel suo letto, e
così cullato, di poter finalmente prendere sonno.
Mosse
la mano per spostarle i capelli che le
cadevano sulla fronte, ma non fu abbastanza delicato, perché
lei se ne accorse
e scattò sulla difensiva come un gatto prendendo velocemente
la bacchetta che
teneva sotto il cuscino.
Wren
sussurrò qualcosa e la bacchetta di lui si
spense improvvisamente.
Erano
così diversi loro: lui, per sentirsi al
sicuro, accendeva una luce, per vedere meglio, per non essere
circondato dalle
tenebre, lei, per sentirsi al sicuro, spegneva le luci degli altri, per
far si
che non potessero vederla, perché lei dalle tenebre era
sempre circondata.
A
lei la luce non serviva, a lui sì.
-Sono
io.- disse per tranquillizzarla, ma era più agitato
di lei.
-Lo
avevo capito- rispose stropicciandosi gli occhi
con il dorso della mano –lo sai che ore sono? Non ti hanno
insegnato che ci
sono momenti in cui alla gente non piace essere disturbata?-
-Non
riuscivo a dormire.- rispose quieto, riaccomodandosi
sul materasso, sperando che lei facesse lo stesso, invece Wren, riprese
le
lenzuola e se le tirò fino sotto il mento.
-E
quindi hai deciso di non far dormire neppure me,
molto gentile da parte tua.- lo ammonì girandosi
dall’altra parte, verso la parete.
-No,
non volevo disturbarti, ma tu ti sei
svegliata..- cercò di spiegarsi lui.
-Adesso
puoi anche andartene allora.- disse arricciando
le labbra visibilmente irritata.
-In
verità volevo qualcuno con cui dividere questa
cioccolata, ma se proprio non vuoi..-
-Ho
sedici anni, non mi faccio di certo corrompere
con della cioccolata!- disse rigirandosi verso il ragazzo e tirandosi a
sedere
come per difendersi da qualcosa.
-Non
voglio corromperti! Voglio solo qualcuno con
cui condividere le mie giornate. Pensi davvero che il mio mondo sia
bello? Pensi che mi piaccia tenerti chiusa qui?- e si alzò
per raggiungere la
porta –Ma forse tu sei troppo ottusa per capirlo.-
Si
avvicinò all’uscio, ma la voce della ragazza lo
fermò:
-Spero
almeno che non sia fondente, io odio il
fondente.-
Nulla
avrebbe potuto renderlo più felice.
Si
accomodò vicino a lei, avvicinandosi per
lasciarle un bacio veloce sulla tempia.
Il
rituale di tutte le sere per loro, come dettato
da una legge stupida da seguire ripetutamente, riutilizzando
l’affetto delle
sere precedenti per colmare un vuoto che li risucchiava.
“Sii
forte, fallo per Lucius, per Draco” come un
mantra, ogni mattina appena sveglia, si dava coraggio da sola,
aspettando una
mano da parte del marito che non arrivava.
Non
lo biasimava, quello che aveva passato solo lui
poteva saperlo, prima Azkaban, poi la casa occupata, il figlio
Mangiamorte, ma
non poteva farlo cadere, lei non lo avrebbe abbandonato.
Chiuse
il libro che teneva ancora tra le mani con un
colpo secco, lo appoggiò sul comodino accanto e si sedette
meglio invitando il
marito a fare lo stesso per poter parlare.
-Non
ce la faccio, Lucius… non posso essere forte
per tutti e due, non riesco a vederti in questo stato, se non vuoi
farlo per
te, ci siamo io e tuo figlio, e non possiamo farcela da soli.-
Si
aspettava un’espressione stranita, un piccolo
sussulto da parte del marito, ma rimase immobile, consapevole,
colpevole.
Si
portò solo le mani al viso, come per nasconderlo
dagli occhi della moglie.
-Narcissa,
chi sono diventato? Cosa sono diventato?
Non sono neppure più un uomo, non mi sento tale, non riesco
a definirmi tale,
come potrei?
Sono
un peso, per te e per gli altri.-
-No,
non lo sei Lucius.- cercò di rassicurarlo la
moglie.
-Non
ho neppure la bacchetta… uomo, che uomo sono se
non posso proteggere la mia famiglia, quelli che mi stanno
più cari neppure
dalla notte per portarli nel torpore della luce? Che uomo sono se son
prigioniero a casa mia, tra le mura che i miei avi hanno contribuito a
costruire?-
-Sei
il mio uomo- lo interruppe prendendogli la mano
-ed è il momento che inizi a comportarti come tale. Sei un
Malfoy, non un
qualunque garzone trovato su un marciapiede! E da domani non voglio
più vederti
perso come un bambino. E adesso buonanotte.- concluse posandogli un
bacio sulle
labbra che erano rimaste socchiuse dall’impatto che le sue
parole avevano avuto
su di lui.
Angolo
del cranio:
Oh
come sono contenta di questo capitolo *-*
Probabilmente
perché c’è Narcissa, Wren, e i
barbagianni (che odio).
Il
prossimo capitolo sarà molto più movimentato, uno
dei miei preferiti, tra quelli che ho pensato.. non vedo
l’ora di postarlo.
Grazie
mille a chi continua a seguire la mia storia.
Un
bacione
cranium