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Autore: Alaire94    26/07/2012    1 recensioni
E' una regola universale, da cui il mondo delle fate non è escluso: ad ogni sbaglio segue una punizione.
In particolar modo se si è rei di aver spezzato un patto millenario, rischiando di scatenare una guerra.
In tal caso la morte è troppo semplice, troppo veloce.
Quale migliore condanna dell'essere legato per sempre a un'inutile e indifesa zampettante?
(L'introduzione ha partecipato al contest "La trama di una storia" di Dear Juliet)
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Due

 

Era sempre difficile la mattina destreggiarsi nel traffico cittadino, così, fortunatamente, mi permettevano di prendere l'autobus, risparmiandomi l'imbarazzo di giungere a scuola con un'auto super lussuosa guidata dal nostro maggiordomo tutto fare.

Così anche quel giorno aspettai alla fermata, col venticello mattutino di maggio che mi accarezzava le braccia nude, facendomi pentire di non aver infilato una giacca nello zaino.

Finalmente il mezzo arrivò e le porte si aprirono proprio di fronte a me. Accennai un saluto all'autista e cominciai a infilarmi nella calca. Mi alzai in punta di piedi, cercando di scorgere Karima, la mia migliore amica, ma evidentemente quella mattina l'avevano accompagnata in macchina.

Mi sedetti non appena trovai un posto e mi godetti il viaggio verso la scuola.

Osservavo la gente che mi circondava, chiedendomi chi fossero e dove stessero andando. Spesso mi stupivo di quante persone incontrassi in una giornata, gente di cui non avrei mai conosciuto nulla.

Soltanto a volte il caso faceva sì che fra tutti, qualcuno emergesse. Forse uno scontro o un pretesto per attaccare bottone e dalla materia grezza, qualcuno prendeva forma, acquistava un nome, una personalità. Non era più una persona qualsiasi incontrata per strada, senza volto né identità. In un qualche modo avrebbe contato qualcosa, forse volto in meglio la tua vita.

Sospirai, spostando lo sguardo al di là del finestrino. Incontri del genere non mi erano mai capitati, poiché quando si verificavano solitamente erano memorabili. Cambiavano le cose per sempre.

Certe volte mi ritrovavo a pensare di volere proprio questo, per dare un po' di pepe a quella vita monotona e oppressa da una famiglia a cui non sentivo di appartenere.

L'autobus si fermò. Ero giunta alla fermata.

Dopo aver assestato qualche gomitata, riuscii a scendere, trovando davanti agli occhi la mia scuola.

Era un edificio piuttosto vecchio, dai muri ingrigiti dallo smog, dove l'unica oasi di ristoro all'aperto era un cortile di cemento che col sole di maggio emanava calore.

Entrai subito dal portone, rendendomi conto di essere leggermente in ritardo: la campanella doveva essere suonata pochi minuti prima.

Attraversai i corridoi dai muri coperti di scritte e giunsi in aula , per poi sedermi al mio banco in attesa del professore.

Karima era già nel posto a fianco al mio, coi libri sparsi sul ripiano.

Voltò leggermente la testa, rivolgendomi un sorriso. I denti bianchi risaltarono sulla pelle scura.

Ebbene sì, poteva sembrare bizzarro ad alcuni, ma la mia migliore amica era di colore e veniva dal Ghana. La sua famiglia si era trasferita a Bologna quando lei aveva solo cinque anni e, perciò, per molti aspetti era ormai italiana.

Nonostante ci conoscessimo dalla scuola elementare e fosse l'amica più fantastica che avessi mai avuto, in casa mia non sempre era la benvenuta. Ciò era una delle cose che più mi faceva male.

«Divertita in campagna?», mi domandò.

«Ci voleva un po' d'aria sana».

«Immagino nella tua situazione», commentò, senza staccare gli occhi dal libro che aveva davanti.

«Si può sapere cosa studi? Oggi non ci sono verifiche».

«Ottimizzo il tempo: venerdì c'è quella di latino». Si sistemò una treccina dietro l'orecchio. «Dovresti farlo anche tu: non ti grazierà altrimenti, visto che ormai l'anno è finito».

Mi ritrovai ad essere d'accordo e mi pentii di non aver portato il libro. Karima aveva il potere speciale di farmi venire rimorsi di coscienza.

Proprio in quel momento il professor Carmini, di fisica, entrò in classe con la verifica della volta prima già corretta.

Fu con molto disgusto che i miei occhi si posarono su un cinque scritto a caratteri cubitali.

 

«Ti ho detto in continuazione che avresti dovuto studiare di più», osservò lanciandomi uno sguardo di rimprovero.

«E' quel maledetto moto rettilineo uniforme! Non mi entra in testa!».

«In ogni caso vedrai che oralmente recupererai».

«Altrimenti...». Fermai la frase a metà, quando di fianco a me passò il ragazzo che mi faceva girare la testa da mesi con quel suo fascino da bello e dannato.

«Pensavo avessi finalmente perso l'interesse per Bass».

Scossi la testa, gli occhi fissi ancora su di lui, fermo a parlare con alcune ragazze dell'ultimo anno.

In pochi secondi gli feci i raggi x, a partire dai capelli bruni,dagli occhi azzurri e dai lineamenti dolci, passando per i pettorali scolpiti e fermandomi in luoghi che una ragazza d'alta società com'ero diventata nemmeno dovrebbe conoscere.

«Ora capisco che fine ha fatto lo spazio che il moto rettilineo uniforme doveva occupare nel tuo cervello: Bass ti ha fritto qualche neurone», commentò, facendo scuotere la testa e le treccine nere che la ricoprivano.

«Ma cosa dici?!».

«La verità e purtroppo non c'è modo di risolvere la cosa: quello manco ti vede».

«Chissà, forse un giorno...». La speranza per me era sempre l'ultima a morire.

«Nel giorno del poi, nell'anno del mai», concluse, per poi voltarsi e tornare in classe: era chiaro che per lei non c'era altro da discutere.

 

Tornai a casa piuttosto adirata e mi sedetti a tavola più silenziosa del solito.

«Cos'è successo?», mi domandò mamma vedendomi tanto triste.

«Ho preso un'insufficienza in fisica».

Mi portò un piatto di pasta fumante, per poi rivolgermi uno sguardo di rimprovero. «Ma ormai è la fine dell'anno!».

«Lo so, è per questo che sono piuttosto disperata».

«Dovevi studiare di più», si intromise Cristiano.

La rabbia germogliò dentro di me e crebbe velocemente: possibile che tutte le volte che apriva bocca con me fosse per dare ordini o criticare?

«E' facile dirlo per qualcuno che ha comprato la maturità», osservai, per poi tornare a guardare il piatto.

Era vero ciò che aveva detto, ma non lo accettavo detto da lui che aveva studiato in un istituto privato con la promozione assicurata grazie ai soldi del padre.

Cristiano non replicò, restando qualche secondo con la bocca spalancata.

Fu mia madre ad avvicinarsi e, dopo avermi guardata con rimprovero, mi assestò uno schiaffo in pieno viso. «Non è questo il modo con cui ci si rivolge alle persone!», strillò.

Il sangue mi ribollì nelle vene. Certo, avevo risposto male, ma dov'era lei tutte le volte che lui mi criticava, che mi guardava come fossi un rifiuto umano? Perché non aveva sgridato anche lui quelle volte?

Perché era facile prendersela con me, l'adolescente disadattata che non vuole rigare dritto.

Ebbene, non mi sarei mai sottomessa a quel modo.

Allontanai il piatto, mangiato per metà e, senza dire una parola, mi alzai, per poi correre verso la porta.

Li sentii inseguirmi, ma ormai io ero già andata e non mi sarei voltata indietro.

All'inizio corsi a perdifiato, ancora con le infradito ai piedi, sfogando la rabbia che non accennava a calmarsi. Poi camminai, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e calciando un sasso o una lattina vuota di tanto in tanto.

Mi ero allontanata molto dal mio quartiere, inoltrandomi nelle vie della zona universitaria.

Mi infilai sotto i portici che circondavano una piazzetta e svoltai a sinistra. In strada non c'era molta gente: solo qualche studente con una borsa a tracolla, probabilmente diretto a lezione.

Camminai svelta, ogni tanto ritrovandomi in qualche via più trafficata dove mi guardavo instancabilmente attorno: non volevo che i miei mi trovassero prima che fossi di nuovo pronta a vederli.

Ben presto giunsi al Parco della Montagnola. Restai qualche secondo immobile, dall'altro lato della strada; era mia intenzione procedere, ma avevo la netta sensazione che qualche minuto in quel posto mi avrebbe rigenerata.

Attraversai la strada dopo aver guardato che non passassero auto e salii le ampie scalinate grigie. Alla mia destra si trovava un'enorme statua su un piedistallo, ingrigita dallo smog a cui ormai non facevo più caso.

Proseguii lungo uno dei viali, accorgendomi di quanto fosse silenzioso. Era un'area di ristoro, di stacco dalla confusione della città: i clacson e il rumore delle auto non era più che un'eco lontana, qualcosa che pareva far parte di un altro mondo.

Lì si udiva solo il cinguettio degli uccelli, il parlottare di qualcuno seduto su una panchina non lontana. Il resto era silenzio.

O almeno all'esterno: dentro di me la confusione era implacabile. Urla di ribellione parevano disintegrarmi il cervello, mi facevano pulsare le tempie.

E non potevo ignorare quelle grida. Per troppo tempo avevo ascoltato quelle voci, le avevo costrette a relegarsi in un angolo. Avevo cercato in ogni modo di strangolarle, soffocarle, ma bastava una minima distrazione perché sfuggissero al mio controllo.

Così, erano lì, libere. Nella mente avevo mille scimmie urlatrici.

Forse non era colpa di mamma né di Cristiano, forse stava accadendo qualcosa dentro di me che non riuscivo a capire. Non ancora.

Forse avevo bisogno di vedere le cose da un altro punto di vista.

Mi fermai davanti a una maestosa quercia; i rami si protendevano verso l'esterno, come cercasse un forte abbraccio, e uno di essi era abbastanza basso da essere raggiunto.

Ero sempre stata brava ad arrampicarmi, soprattutto da piccola, e il mio primo istinto in quel momento fu proprio quello di afferrare con le mani un ramo, di infilare il piede su una sporgenza e issarmi in alto.

Con facilità raggiunsi il ramo basso che avevo adocchiato, ma non mi sentii soddisfatta: avevo bisogno di andare ancora più su, verso il cielo e lontano dalla terra. Lì dove magari ogni cosa poteva risultare più chiara.

Posizionai di nuovo le mani, assicurandomi una presa alta e ancora una volta raccolsi le forze e mi issai col piede. L'altro lo appoggiai su un ramo più alto, permettendomi di salire ancora.

Presi la spinta e mi spostai sulla sinistra, come se i rami fossero liane.

Finalmente appoggiai i piedi su un ramo abbastanza grosso da sostenermi senza difficoltà. Con prudenza mi sedetti a cavalcioni, con la schiena contro il tronco.

Si stava piuttosto comodi e, da quella posizione, anche il parlottare della gente era qualcosa di estremamente lontano.

Eppure, soltanto nel momento in cui mi pulii i pantaloncini dai residui di foglie e corteccia, realizzai di essere veramente in alto: la panchina sotto la quercia era piccola, così come coloro che camminavano lungo il viale.

Nonostante ciò, non mi sentivo impaurita, ma invece finalmente in pace: anche le voci nella mia testa sembravano essersi leggermente quietate.

Era di questo che necessitavo: pace dentro e fuori. Qualche momento per scrutarsi con l'occhio della mente senza interferenze.

Alzai la testa, poggiandola contro la corteccia dell'albero. Le foglie si muovevano leggermente alla brezza, arrese e impotenti. Lasciavano filtrare a intermittenza i raggi del sole, così luminosi da accecarmi.

Io ero come quelle foglie: costrette a rimanere attaccate al ramo e sballottate dal vento. Proprio allo stesso modo con cui io ero legata alla mia famiglia, col vento degli eventi che anelava a spazzarmi via.

Sospirai e avvicinai una gamba al petto, nel tentativo di raggomitolarmi su me stessa, ma il piede scivolò e persi l'equilibrio. Cercai di ristabilirlo, afferrando con la mano un rametto. Si spezzò.

Caddi, sentendo lo stomaco arrivare in gola, il cervello paralizzato dal terrore. Vidi l'asfalto del vialetto avvicinarsi più veloce che mai, grigio e duro. Non avevo scampo.

La consapevolezza della morte mi avvolse, mi uccise ancor prima di atterrare.

Era vero; ero come le foglie. Anche loro non erano totalmente impotenti. Potevano scegliere di abbandonarsi e quando il vento era troppo forte si arrendevano alla morte, l'unica possibilità di sfuggire all'albero.

Forse sarebbe stata una liberazione. Soltanto qualche attimo di dolore per avere la libertà eterna.

Chiusi gli occhi e aspettai l'impatto, senza più paura. Il terrore era svanito così improvvisamente com'era iniziato.

Aspettai, in secondi che parvero ore, ma non avvenne nulla. Mi aspettavo dolore, fracasso prima della calma irreale della morte, ma niente di tutto questo accadde.

Aprii gli occhi, stupendomi di poterlo ancora fare. Misi a fuoco un viso: un ragazzo che sembrava uscito da uno spot televisivo: capelli ramati che ricadevano sulla fronte e sulle orecchie, luminosi. Dovevano essere morbidi, come il pelo di un cucciolo e dovetti costringermi a resistere all'impulso di toccarli.

Aveva lineamenti dolci, una piccola fossetta sul mento, la pelle dorata.

E quegli occhi; verdi alla luce del sole e azzurri in ombra, avevano la tranquillità di una foresta e l'impetuosità di un oceano.

«Tutto bene?», domandò, sfoderando un sorriso talmente luminoso da abbagliarmi.

Impiegai qualche secondo a rispondergli: prima dovetti realizzare di essere ancora viva e di trovarmi fra le sue braccia. Probabilmente mi aveva afferrata prima che cadessi.

«Sì, grazie».

Mi lasciò appoggiare i piedi a terra, così ebbi la possibilità di osservarlo interamente. Aveva un fisico possente e muscoloso, dato da una costituzione massiccia e da qualche ora di palestra, il tutto messo in risalto da una t-shirt aderente.

Certamente doveva essere un modello o qualcosa di simile: era davvero fin troppo bello per essere una persona comune. Di sicuro ben lontano dai canoni del ragazzo medio.

Soltanto gli occhi avevano un che di strano, una nota inquietante in un corpo perfetto.

«Non devi più salire così in alto: avresti potuto morire», osservò, in tono serio e autoritario che non mi piacque.

«Mi hai presa tu: è andata bene». Cercai di sorridere, ma lui continuò a squadrarmi con rimprovero.

«Non sempre qualcuno passa nel posto giusto al momento giusto».

Abbassai lo sguardo: aveva ragione, ma non poteva sapere cosa mi aveva portata sulla cima di quell'albero. D'improvviso tutto il peso della mia oppressione mi ricadde sulla schiena come un macigno.

«Ti ringrazio molto per avermi salvata».

Lui scosse la testa contrariato. «Non devi ringraziarmi, semplicemente non dovrai fare mai più una cosa del genere».

Sentii nuovamente il sangue ribollire nelle vene: come si permetteva di rivolgersi così a me? Nemmeno mi conosceva!

«Faccio quello che mi pare e piace: non sei mia madre!».

Storse un angolo della bocca, senza rivelare alcuna emozione: parve accusare il colpo. «Come ti chiami?».

Rimasi qualche secondo interdetta, non riuscendo a comprendere cosa diavolo gli passasse per la testa. «Mariasole».

«Cognome?».

L'irritazione che mi faceva provare quel tipo era davvero inverosimile. Aveva un comportamento a dir poco snervante e il suo bell'aspetto non faceva che rincarare la dose. Era chiaro che la perfezione non esisteva: un ragazzo bello doveva per forza essere antipatico.

«Non so... vuoi anche il codice fiscale?!». Il mio stato d'animo trasparì fin troppo bene dal mio tono.

Non mosse un muscolo, né mostrò alcuna emozione. Soltanto dopo qualche secondo si mise a braccia conserte. «Ti ho salvato la vita, in fondo non ti chiedo molto».

«Mottardi. Mariasole Mottardi e tu? Come ti chiami?».

Sorrise leggermente. «Bel nome».

I nervi parvero scoppiarmi, ma mantenni l'indifferenza. «Come ti chiami?», ripetei, consapevole che aveva ignorato deliberatamente la domanda.

Non avrei lasciato perdere: non mi facevo sottomettere da nessuno, tanto meno da un bell'imbusto come lui. Certo, avrebbe incantato molte ragazze, ma non me, non Mariasole Mottardi.

«Grikie», rispose.

Sollevai le sopracciglia, perplessa. «Grikie? E' il tuo nome?».

«No, ma chiamami così».

Trassi un bel respiro, cercando di scacciare l'irritazione. «Voglio sapere il tuo nome. Tu sai il mio, ora voglio il tuo».

Mi squadrò duramente. «Ti ho detto di chiamarmi Grikie». Anche il suo tono si era fatto decisamente più aggressivo di fronte alla mia testardaggine.

«Perché non me lo dici? Non può essere peggiore».

Che soprannome era Grikie? Era assolutamente imbarazzante per un bel ragazzo come lui: ricordava un orsacchiotto, un giocattolo per bambini. E aveva un che di omosessuale.

Un pensiero mi folgorò all'improvviso: forse lo era.

«Fatti gli affari tuoi».

Battei i piedi a terra, adirata. «Non è giusto!».

Sollevò un sopracciglio; pareva quasi provare compassione per me, come la si prova per un qualche animale malformato. «Io non ti ho chiesto perché te ne stavi su quell'albero da cui sei caduta come un uccello dal nido e tu non mi chiederai questo».

«Anche io avrei potuto presentarmi come "Sole"».

Scosse leggermente la testa. «Per te il nome non è importante quanto lo è per me», affermò e, prima che potessi fermarlo, si era già allontanato senza nemmeno salutare. Per lui la conversazione era evidentemente conclusa.

Pochi minuti dopo, mentre mi incamminavo verso casa, consapevole che purtroppo non avrei potuto stare via per molto - per quanto lo desiderassi -, ebbi un'altra folgorazione.

Realizzai che mi ero appena imbattuta in uno di quegli incontri, di quelli dettati dal caso e assolutamente imprevedibili. Di quelli che avevo desiderato soltanto quella mattina in autobus.

Eppure in quel momento, rimpiansi di averlo fatto: non avrei voluto fosse così, in quel modo tanto rozzo e con qualcuno di assolutamente irritante. Forse nella mia mente aspettavo un bel principe azzurro sul cavallo bianco.

Non avrebbe dovuto accadere.

Tuttavia, ormai era troppo tardi: non si torna indietro, questa era la regola. Il desiderio era stato espresso, realizzato. L'unica cosa che potevo sperare era di non rivederlo mai più; d'altronde ero troppo cinica per credere in queste cose. Magari non sarebbe cambiato proprio un bel niente nella mia vita.  

 

Angolo autrice: 

Grazie a chi ha recensito e letto gli scorsi capitoli, ma soprattutto grazie a chi recensirà e leggerà anche questo. Per me è sempre molto importante avere dei pareri, sapere se la mia idea può essere apprezzata. 

Ora piccola pubblicità: sto partecipando a un concorso, mi piacerebbe che apriste questo link: http://www.i-fantasy.it/home/2012/07/19/daniela-fava-hiscordia/ , magari leggeste e metteste "mi piace" o condivideste attraverso i pulsanti che trovate in fondo alla pagina. Grazie mille in anticipo :) 

   
 
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