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Autore: Ila_Chia_Echelon    31/07/2012    2 recensioni
Raccolta di racconti horror creati da due menti perverse (si consiglia di non utilizzarli allo scopo descritto nel titolo) con parecchi cuori strappati, sangue e per fortuna (o sfortuna) significati non del tutto ovvi e superficiali...a voi l'interpretazione!
Auguriamo a tutti una buonanotte...
Genere: Fantasy, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota dell'autrice: inizialmente doveva essere un horror (come richiede questa raccolta d'altronde), ma a mio parere ha finito per non avere un granchè di questo genere. Lo pubblico comunque e spero lo apprezziate nonostante i pochi brividi di terrore che causerà. Sotto con le opinioni (sì anche gli insulti se volete)! xD

The raven

 

Dark in their hearts,
I can feel it burn inside of me
Tormented young with no souls, haunting me
Pain in their lives all they know is misery
Take these chains away that are holding me down
-
Eternal rest, Avenged Sevenfold

 

La terra è fredda sotto le ginocchia.
Le mani giunte, le dita strette tra loro quasi convulsamente.
Le nocche bianche per la stretta o per il gelo, chissà.
Le labbra rosee si muovono in un impercettibile sussurro di preghiera: una preghiera tutta mia, un'inutile invenzione...non ti riporterà indietro.
“A chi è rivolta?” mi chiedo.
Non credo in niente.
Le uniche cose a cui posso aggrapparmi in questo momento sono le macchie di terra sui miei jeans, il nero della matita intorno ai miei occhi, l'azzurro scuro di una ciocca che mi sfiora la guancia.
Esse sono vive e pulsanti, mi parlano. Sono ciò che mi tiene aggrappata qui, a questo terreno in cui affondo rabbiosa le unghie, in cui sono racchiuse tutte le mie lacrime per te, in cui vorrei talvolta sprofondare.
Ma scavare non serve a niente. C'è solo terra e terra e terra. E la tua lapide.
La tua fottuta lapide che mi fissa con quel suo sorriso lucido e bianco, quel ghigno che nemmeno con montagne di fiori multicolori sono riuscita a nascondere.
Ci sputo sopra ma niente riesce ad incrinarne la brillantezza, quasi fosse sempre lì ad urlare per me, a ricordarmi ciò che ho perduto.
Ah-ah-ah.
Perché non riderci sopra? Ti combatto con la tua stessa arma e rido, rido sguaiatamente al cielo plumbeo; qualche goccia di pioggia inizia a cadere sul mio viso e in bocca e l'acqua fresca sulla lingua mi fa ridere ancora di più e non sento altro che la mia risata e non ho mai riso così tanto in vita mia.
Ridere è bello, vivere è bello, si dice.
Io sono pazza.
Perché rido e non vorrei altro che morire.

 

Ricordo perfettamente quell'afosa sera d'agosto, lo squillo del telefono, il ticchettio dei tacchi di mia madre sul pavimento del salotto, la voce indistinta proveniente dal ricevitore, il pianto della mamma, il rumore sordo della cornetta che torna al suo posto, il ronzio della TV.
E il pulsare del sangue nelle orecchie, la sensazione di sapere cosa stesse per dirmi quella maschera di trucco sbavato e lacrime che si era appena seduta accanto a me, il constatare che il presentimento, quel presentimento che mai si sarebbe dovuto avverare, non era che la realtà.
E il pensiero che tu fossi morto, quel sentimento che non si insinuò immediatamente dentro di me ma rimase per un po' un sussurro lontano, come la stretta di due mani intorno alla gola, tanto che il pianto tardò ad arrivare e per qualche giorno rimasi semplicemente...immobile.
Dopodiché dovetti fare i conti con tutto ciò che mi circondava, perché ogni cosa, senza mio fratello, senza la persona che consideravo una parte di me, quasi un mio prolungamento, sembrava enorme e incontrollabile, ma soprattutto perché nessuno conosce il valore del silenzio e le persone non facevano altro che parlare, parlare, parlare.
D'altro canto non assorbivo una parola di ciò che dicevano, mi limitavo ad annuire e nel frattempo mi chiedevo cosa sarebbe successo se avessi deciso di morire anch'io, in quel preciso istante.
Adesso mi ritrovo a vagare in questo cimitero quasi ogni giorno, e come un fantasma non trovo pace.
L'unica consolazione, che mi si presenta ogni volta che attraverso questo luogo, è che un cimitero è pur sempre meno vuoto di casa.

 

Il cielo è rossastro sopra di me.
Il crepuscolo è così cupo, così pesante, così esageratamente sfumato d'arancio scuro. E' una coltre esageratamente calda posata sul mio capo in fiamme, ed è troppo stretta.
Un tempo il cielo era libertà, voglia di vivere, adesso mi pare solo una ferita profonda sulla pelle dell'atmosfera.
Ricordo quando i cumuli di nubi erano cibo per la mia fantasia, gli uccelli leggiadri animali che allietavano con il loro canto, il vento un soffio pieno di soddisfazione e puro sogno.
Ma ora dov'è, quel sogno?
Il vento, il vento maledetto l'ha portato via con sè, ma non lo biasimo poiché l'ha protetto dal buio di una mente ormai vuota e priva di passioni, una catacomba desolata e spoglia, piena di silenziosa polvere.
Infine sono morta.

Lo scricchiolio delle foglie cadute mi tiene sveglia e tiene così lontana la morte fisica, quella vera.
Non è assurdo che io la desideri e allo stesso tempo non abbia il coraggio di affrontarla?
Mi trovo davvero bene qui, in questo eterno purgatorio, in questo vagare tra le lapidi alla ricerca di un'anima vera?
Poiché la mia è andata perduta da molti mesi, forse è proprio qui, sepolta da qualche parte accanto ai tanti corpi che popolano questo luogo.
Non ho trovato niente, finora, se non i ricordi di dolorosi passati o vite felici, il giocattolo lasciato da un bimbo, la lettera mai letta abbandonata sul marmo freddo.
Passo accanto a un enorme mausoleo, dentro di esso i visi tristi di un'intera generazione. Dalla parte opposta scorgo la minuscola tomba di una ragazzina sorridente.
Si può incontrare ogni genere di persona qui dentro e si può parlare con tutti. Loro sanno cos'è il silenzio, quello eterno, e sanno farti capire il loro messaggio, se hai la sensibilità necessaria a percepirlo. Loro ti sanno guidare.
Per questo attendo e cammino, cammino finché non mi porteranno alla mia anima o morirò nel cercarla.

 

Mi accoccolo dietro la tomba della bambina e poggio la schiena sulla dura pietra, le foglie portate dal vento formano un morbido tappeto su cui sedersi. Indosso le auricolari e ascolto la mia canzone preferita, è forse una delle poche cose che ancora riesce ad emozionarmi.
Penso alla prima volta in cui sono venuta qui, con mia madre, mio padre e i miei famigliari. Le loro facce scure mentre la piccola bara veniva sepolta per sempre. Il mio corpo in balia della brezza e delle loro mani. Il mio sguardo assente.
Ricordo quando, alla fine del funerale, mi rintanai dietro un alto cipresso ad osservare le lapidi e vidi un corvo sfrecciare via dalle fronde sempreverdi. Avevo deciso che quello era il luogo giusto in cui perdermi, poiché il silenzio era saturo di memorie e le mie erano rinchiuse nell'angolo più remoto della mente, quindi mi ero alzata e avevo iniziato a vagare tra le tombe senza una meta, leggendo le incisioni e immaginando le storie dietro di esse.
Mi ero fermata a qualche metro dalla foto di una nonnina, non tanto perché avesse qualcosa di familiare o interessante, ma poiché di fronte ad essa c'era un bambino che piangeva, un bambino che era riuscito a conservare il suo dolore e che ancora soffriva, e che per questo mi aveva in qualche modo colpito. Avevo aspettato che se ne andasse e mi ero inginocchiata di fronte alla lapide, ma non avevo sentito niente.

 

La canzone finisce e torno alla realtà. Metto via l'iPod e quando alzo lo sguardo dalla tasca mi rendo conto con sorpresa che il dolce sorriso della vecchina è proprio qui, di fronte a me.
Mi metto a carponi per raggiungerla e quando sono a qualche centimetro da lei capisco che cosa mi ha colpito così tanto.
La tomba non era qui. Nei miei ricordi il bimbo stava pregando di fronte a una lapide, una lapide che si trovava esattamente dalla parte opposta del cimitero.
Osservo attentamente la foto ma ne sono sicura, è lei. E allora perché si trova qui?
Giro intorno alla lastra di pietra e mi pare non ci sia niente di strano, finché non mi accorgo che dietro di essa ci sono parecchi metri di prato e poi, su per una collinetta, intravedo i contorni di un'altra lapide.
Inspiegabilmente attratta da essa, scatto in piedi e mi avvio verso il rilievo, mentre si fa strada in me la consapevolezza di non aver mai visitato questa parte di cimitero, nonostante fossi pienamente convinta di non aver lasciato un solo angolo inesplorato.
Arrivata in cima alla collina riesco a distinguere meglio i dettagli della lapide: è candida e pulita, come se non fosse qui da molto.
Ora riesco a leggere chiaramente il nome inciso su di essa, Eveline Wright.
Mi siedo a terra e continuo a fissare la scritta.
Potrebbe essere un semplice omonimo. Un'antenata. Una parente sconosciuta un errore di stampa (esistono errori di stampa sulle lapidi?!) una e di troppo un cognome diverso uno scherzo sono io.
Sono io.
Sono io.
Riflettendoci meglio, la cosa non dovrebbe sorprendermi. So da tempo che una parte di me, una grande parte di me, è andata perduta. Eppure trovarsi di fronte alla prova concreta della sua morte mi infligge qualcosa di molto simile al dolore, una sorta di sensazione d'inesorabile fine.
Forse è davvero arrivato il momento di arrendersi alla fine stessa. È così, ho trovato la mia anima, ma non ho alcuna speranza di riaverla.
“Addio” sussurro sfiorando la pietra liscia.
Sento un verso acuto e un dolore lancinante mi trafigge la schiena, sono chissà come appiccicata al tronco nodoso di un albero (ma da dov'è spuntato?) e tenuta bloccata da una mano ferma sul collo.
Non ho avuto nemmeno il tempo di rendermi conto di che cosa mi abbia sollevata da terra con tale forza, ma ora due occhi verdi e determinati sono fissi nei miei, così come i capelli azzurri sono talmente vicini da solleticarmi la gola.
L'Eveline che mi trovo davanti ha un ghigno a metà tra il felice e l'amareggiato, non parla, non si muove, ma ha una luce negli occhi tanto prepotente e tanto simile a quella che giaceva nei miei tempo fa da costringermi a distogliere lo sguardo, mentre una lacrima silenziosa mi scorre lungo la guancia.
Continua a fissarmi come se ne andasse della sua stessa vita, ma, pensandoci meglio, non dovrebbe essere già morta? E' coperta di terra, sembra essere appena riemersa dall'erba sotto cui era sepolta.
«Tu..mi hai...abbandonato!» Mormora voltando repentinamente la testa di lato, in un gesto che comunica una sola cosa: frustrazione.
Il suo petto si abbassa e si alza ritmicamente, spinto dalla collera che vedo nelle sue pupille.
«Mi hai lasciato..a marcire sottoterra!» dice aumentando la presa sulla mia gola.
«Non hai fatto altro che vagare qui, cercandomi, ma perché? Perché rincorrere una cosa che si ha deciso di lasciare andare? Avrei dovuto aspettare di vederti morire, avrei dovuto abbandonarti in questo freddo cimitero in cui prima o poi avresti lasciato andare te stessa, proprio come hai fatto con me. Ma sai una cosa? Sono troppo buona. Sono troppo piena di pensieri e ricordi e paure per non desiderare un corpo in cui sopravvivere. Sono troppo te.
La verità è che ho bisogno di te. Perché tutto ciò che mi hai scaricato addosso decidendo di perdermi mi logora dall'interno, mi affoga in un mare di sofferenza e di pianti trattenuti che non posso allontanare, perché sono la condanna della mia esistenza, perché sono la mia essenza. Ho bisogno di un corpo con cui condividerli.»
Respiro a fatica, ma so di non poter scaricare la colpa sulla sua mano.
«E se io non ti volessi?»
«Cosa?» I suoi occhi sono pozze smeraldine cariche di sorpresa.
«Se io avessi capito che non voglio più un'anima? Che non voglio assolutamente condividere il tuo dolore? Ci sarà pure un motivo se ti ho abbandonata.»
Si allontana di un passo. «No. Non avresti perso le tue giornate a cercarmi. Come io necessito del tuo corpo, tu sai di aver bisogno di me.»
Ha ragione. Ma all'improvviso non sono più sicura di volerla con me.
Tornerei a vedere i colori.
Saprei di nuovo piangere, e sorridere. Ma soprattutto piangere. E' questo che voglio?
Riavere la mia anima comporta anche il ritorno, sulle mie spalle, di quell'enorme peso per cui l'avevo sepolta tra queste lapidi.
«Non ti voglio.»
«Morirai.»
«Morirò.»
Abbasso lo sguardo sui piedi e l'ultima cosa che mi passa per la mente è che lei non ha un'ombra.
Poi lo scintillio di una lama e il mio stomaco trafitto con forza. E quella sensazione: non di svuotamento, non di sangue che sgorga, ma di una nuova pienezza che come puro sole scintillante mi scorre nelle vene.
Mi accascio ai piedi dell'albero e sento di nuovo quel gracchiare acuto: sollevo lo sguardo e tra le foglie scorgo gli occhietti vispi di un corvo. Sorrido debolmente e poi svengo.

 

Al mio risveglio è ormai mattina, erano mesi che non facevo una dormita del genere.
Il sole mi ferisce gli occhi, per cui li tengo socchiusi un altro po', finché un lieve pizzichio all'indice della mano sinistra non mi costringe ad aprirli.
Mi metto comoda contro la ruvida corteccia e scopro che sul mio dito è posata una minuscola farfallina verde brillante.
Non ne avevo mai viste di questo colore, ed è bellissima, mi dico.
Prima che possa fermarmi scoppio in un pianto silenzioso, e l'animaletto è sempre lì, che mi sbatte in faccia la sua minuscola maestosità.
Forse avevo davvero bisogno di un'anima.

 

 

 

 


 

 

   
 
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