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Autore: Elle Sinclaire    05/08/2012    4 recensioni
Quando il silenzio fa paura, quando si tenta di riempirlo di suoni e rumori, quando persino compiere i passi verso la vita sembra difficile, l'unico conforto che sembra trovare Martina è quello di rintanarsi in un angolo di se stessa, senza parole da dire né capacità di afferrare il tempo che gli scorre veloce di fianco.
Stefano, il dj di una delle serate più famose della città, sembra avvicinarsi con la stessa lenta apatia al suo mondo fatto di rumori, tenta di penetrare quell'anfratto buio. Poi c'è Rebecca, la sorella di Stefano e amica di Martina, studentessa di filosofia che tornerà a scontrarsi con il suo primo amore, Leonardo. E Irene, una pessima amica senza alcun interesse al di fuori di se stessa, Roma vista attraverso gli occhi di chi la vive ballando, attraverso i suoi vicoli e la sua musica, il rumore del traffico e il vociare di Trastevere.
Questa è una storia fatta di suoni e realtà che collidono, dell'incapacità di affrontare la morte, ma anche la vita.
[Dal primo capitolo: "Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso."]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Fuga da un orologio rotto. 

a 

A chi è rimasto
bloccato,
ma ha avuto il coraggio
di tornare a scorrere.

Il tempo passava con naturalezza e scorreva sulle nostre vite sempre uguale da più di ventidue anni.
Non ricordo momenti in cui era impazzito, rallentando o accelerando senza un senso preciso, secondo i suoi capricci.
Ogni compleanno cadeva preciso a un anno dal precedente, mi alzavo di qualche centimetro, dimagrivo qualche etto, Giorgia diventava più protettiva nei miei confronti, cresceva anche lei.
Ci piaceva passare le giornate insieme, spendere tempo facendo shopping o anche leggere un libro al parco vicino casa, quello poco frequentato.
Non avevamo mai pensato di non averne abbastanza, di tempo, convinte come ogni adolescente di avere la vita davanti e il tempo per realizzare i sogni e fare insieme ogni cosa.
Progettavamo di partire per la Russia, di aprire un locale insieme; Giorgia voleva iscriversi all’istituto di fotografia a San Lorenzo, quello che da fuori sembra uno scantinato, ma che lei sognava da quando lo aveva scoperto.
Forse se ci ripenso adesso mi rendo conto che in realtà il tempo correva troppo veloce, che ero io a non accorgermene, ma che scappava via e scivolava tra le nostre dita come sabbia, quando noi eravamo troppo impegnate a guardare qualcos’altro, a preoccuparci di qualcun altro, a  rimandare a un altro giorno.
Non abbiamo mai afferrato il futuro, convinte com’eravamo di averne tanto ancora da vivere insieme; ci crogiolavamo nel presente, come lucertole al sole.
La mia concezione del tempo è cambiata, da allora. È come se tutto avesse rallentato fino a fermarsi del tutto, come se fossi cristallizzata al 24 settembre, senza possibilità di movimento. Vedo la gente intorno a me correre impazzita, sbandare a destra e poi a sinistra, affrettarsi, lamentarsi del poco tempo.
Io invece sono ferma ancora lì, in un perpetuo immobilismo estenuante, come se la mia vita prima e dopo quel giorno non esistesse. Come se fossi nata quel giorno.
Come se fossi morta quel giorno.

○○○
 

Martina gira la cannuccia nello spritz annacquato appoggiato sul muretto su cui è seduta e ingolla di tanto in tanto una patatina.
Alla sua destra il traffico lungo il Tevere inquina la sua testa di frenate e clacson, dall’altro lato il vociare dei vicoli trasteverini copre le parole di Rebecca che per la prima volta da sempre sono quasi sussurrate.
Sono da Freni e Frizioni da dieci minuti e a fatica hanno parlato di niente: che l’amica parli così poco è strano e Martina si sente quasi a disagio mentre cerca i suoi occhi che fuggono pensierosi verso il nugolo di gente che cammina intorno a loro. Come se avesse paura che qualcuno potesse apparire all’improvviso, spaventarla, scuoterla ancora.
Non si vedono da una settimana, sette giorni senza mai riuscire a trovare un attimo per incastrarsi, o forse in fuga da parole che prima o poi avrebbero dovuto pronunciare entrambe, senza il coraggio di farlo veramente.
Rebecca ha le parole che premono sulle labbra e sono sillabe ricciolute, lettere dagli occhi scuri, accenti tatuati con colori allegri. Le sente lì, a metà tra la lingua e i denti che le mordono per ricacciarle indietro, con minacce poco velate. Rebecca parla e parla, senza interrompersi, ma la sua voce è smussata da qualcosa, dalla frase che nasconde e non rivela.
Sa che Martina l’ascolterebbe, non giudicherebbe, sarebbe solo lì a darle conforto silenzioso, forse qualche consiglio che lei stessa non saprebbe seguire, però non si muoverebbe da quel muretto, rimarrebbe lì per lei.
È  questo a convincerla a parlare, l’assenza di Raffaele tornato a casa sua, la presenza incoraggiante di Martina.
E allora racconta dall’inizio, di quella sensazione che sembra affondare i suoi denti nella carne con violenza e strappare via ogni volta un pezzo diverso, mentre il tempo si srotola via con indifferenza e Leonardo lo lascia passare abbracciato a un’altra, qualcuna che non ha avuto paura di crescere quand’è stato il momento e gli ha permesso di entrare, forse anche di accompagnarlo a un concerto.
Dice con voce rotta quanto tempo è passato, ma che non sembra mai abbastanza per dimenticare, che la prende in giro con le sue ore veloci e i suoi secondi impalpabili, ma alla fine resta sempre là, con un peso che cresce e una libertà che muore, perché la stretta al suo collo è più forte, come quella alla sua mano quando lui la afferra per non lasciarla scappare.
E allora racconta di come quella presa la settimana prima le abbia tolto il respiro, ma senza cappi e senza mani a stringere la gola. È stato uno sfiorarsi di dita appena accennato, mentre la pioggia ancora scendeva, anzi scendeva più forte, e lui l’aveva raggiunta e il tempo rallentava all’improvviso, perdendo la percezione di sé e del giorno, dimenticando se fosse pomeriggio o mattina, dei minuti che avrebbe dovuto far scorrere e che invece sembravano intrappolati come lei.
Martina l’ascolta in silenzio e guarda i suoi occhi velati, non parla e non sa cosa dire, mentre Rebecca vuole sciogliersi in lacrime che però non lascia cadere.
“Bella merda.” Le esce di getto e Rebecca ride e una stilla salata scivola sulla guancia.
Allora Martina la abbraccia e sembra non ricordare neanche come si fa. La abbraccia stretta e pensa che non può dirle del lago e di Stefano, ma solo sentire i suoi battiti scandire il tempo al ricordo di un contatto da cui è fuggita.
Sono mesi che non abbraccia nessuno e per un momento pensa che Stefano ha ragione: rischiare potrebbe non essere tanto brutto. Poi Rebecca si allontana con un sorriso e beve il suo spritz e Martina vorrebbe parlare, ma non ne ha più il coraggio.
“A te cos’è successo? Sei più musona del solito.”
Lei sorride e scuote la testa.
“È stata solo una settimana stancante a lavoro.”
Rebecca fa finta di crederci e l’aria torna distesa, il vento fresco di Trastevere scompiglia i loro capelli, si insinua sotto le giacche troppo leggere. Martina rabbrividisce e non sa se è per il freddo o perché alle spalle dell’amica è apparso Stefano.
“Buona sera, ragazze!”
Saluta la sorella con un bacio sulla testa e si avvicina a lei sorridente. Sembra facile sorridere di rimando quando lui la guarda negli occhi e ricambia il suo bacio sotto lo sguardo sospettoso di Rebecca.
C’è una confidenza strana tra loro, quasi palpabile, come se il tempo dell’indifferenza fosse finito seppellito da un’unica gita sul lago. Non si sono più visti né sentiti dopo il messaggio di Martina, ma lei sa che lui ci ha pensato quanto ci ha pensato lei.
“Che ci fai qui?” La voce di Rebecca si insinua nei suoi pensieri e Martina muovendo la mano si accorge che Stefano è ancora al suo fianco, tanto che lo sfiora.
“Mi devo vedere con Leonardo e altra gente,” dice tranquillo. Martina occhieggia preoccupata l’amica e sta per parlare, ma l’altro la anticipa, indicando un punto alle spalle di Rebecca. “Eccolo. Bella Leonà!”
Si salutano e poi il nuovo arrivato si accorge di loro: si presenta a Martina, perché l’unica volta che si sono visti non ce n’è stata l’occasione, e occhieggia Rebecca dopo averle baciato piano una guancia. Lei non lo guarda, rimane là, zitta. Il tempo sembra diradarsi come nebbia, rallentare nel loro silenzio, imbarazzarsi nelle loro pause.
“Reby, io vado, mi accompagni al motorino?”
L’altra annuisce e sembra urlarle grazie, mentre il tempo riprende a scorrere e salutano gli altri due, che sono stati raggiunti da altri volti anonimi, ma familiari.
Si volta un istante, prima di sparire per la gradinata che la porterà a piazza Trilussa, nella fiumana di gente che passeggia a qualsiasi ora. Stefano le sta ancora sorridendo.


Leonardo osserva Stefano curioso, senza chiedere niente del suo sorriso ancora rivolto verso l’amica di Rebecca. Preferisce non fare domande, quando non vuole ne vengano porte a lui.
Il suo volto probabilmente parla per lui, qualcosa come un leggero velo lo dipinge di amarezza per la freddezza che ha riscontrato nella sorella dell’amico, una freddezza che pesa come un macigno, pronta a ibernarlo. Gli piacevano i tempi in cui prima di tutto erano amici, complici di quell’alchimia di chi si conosce da una vita e sa come divertirsi in compagnia dell’altro e di cosa parlare.
Fino a qualche anno prima sembrava non esserci niente a dividerli, se non quel senso di pudore inconfessato che li teneva lontani anche a livello fisico, rosicchiati dalle remore del fare qualcosa di sbagliato.
Ora sentirla così lontano è frustrante, perché vorrebbe poterla abbracciare senza sentirla irrigidirsi al suo fianco, senza dover assaporare quell’attimo come se fosse l’ultimo.
Stefano sta parlando di laghi e arcobaleni e lui si chiede se non abbia fumato qualcosa e quasi se ne sente dispiaciuto che non abbia condiviso, ma avrebbe potuto dire qualcosa di troppo, come l’aver cercato di fermare Rebecca sotto la pioggia e aver desiderato solo baciarla, mentre lacrime non sue le scendevano sul volto.
“Ti piace la moretta?”
Inciampa su qualche parola, Stefano, senza sapere come rispondere. Convinto risponde di no, che qualcosa lo incuriosisce di lei, senza accennare al tempo che sembra troppo lento quando sono insieme, perché è lei ad essere ferma, immobilizzata in un attimo come un fotogramma del suo film preferito.
Un vociare indistinto lo riscuote dall’imbarazzo del sorriso malizioso di Leonardo e si volta con noncuranza verso il gruppo di persone che lo raggiunge parlando. Una ragazza minuta e bionda si aggrappa al collo dell’amico, gli stampa un bacio sulle labbra che zittisce le sue insinuazioni.
Leonardo la guarda perplesso, come se non la riconoscesse per qualche istante, poi si scioglie in un sorriso tirato. Federica non se ne accorge, troppo intenta a riempirlo di parole che lui fa fatica ad ascoltare.
A volte pensa di aver sbagliato tutto. Di essersi imbarcato in una storia senza sbocchi, solo per il bisogno di qualcuno accanto, con cui dividere il tempo e le serate fuori dalle discoteche; qualcuno che gli donasse lo stesso calore della massa di corpi danzante del Brancaleone il lunedì sera.
Ha conosciuto Federica alla fine dell’estate, dopo mesi di vagabondaggio per la Spagna con uno zaino e un sacco a pelo sulla spalla. I viaggi in solitaria sono belli, nessun orario o legame a lo teneva ancorato alla realtà, è come sospendere il tempo per giorni, anche mesi, senza curarsi di ciò che si lascia alle spalle, a casa. Solo un momento sospeso nel presente, ma quando Leonardo è tornato la solitudine ha sentito il bisogno di farsi sostituire da gente, rumore, parole. Il silenzio è diventato qualcosa di troppo potente, per sopportarlo ancora, e lui ha archiviato quei mesi con la compagnia di Federica, che nei suoi shorts rossi e trucco perfetto si è avvicinata a lui alla serata di apertura dell’Another Great Moretti di settembre e si è presentata, con spigliatezza, senza timori né remore.
Qualcosa di semplice, di naturale, finire a fare sesso nella macchina come se non potessero aspettare ancora, come se quelle pelli rimaste a lungo troppo sole si richiamassero a vicenda, a voce alta, in echi indistinti e sempre più vicini. Federica è la sua àncora in una realtà che spesso lo spaventa, quando si sveglia da solo nel suo letto a una piazza e mezzo o quando Stefano non si fa sentire per giorni, perché lui è fatto così e a volte la solitudine la ricerca come lui la rifugge.
Quell’amore che sembrava averlo divorato, quella fame insaziabile di Federica, di averla in tutto, in ogni istante, è ancora lì, nascosto da qualche parte, forse sotto i suoi gesti troppo affettuosi e il suo trucco troppo perfetto e i capelli troppo biondi.
Non è la noia a sopraffarli, ma pian piano le loro diversità si frappongono tra loro, senza che Leonardo riesca a muovere un dito per avvicinarsi a lei, per coprire quella distanza che sembra essere lui stesso a creare.
Federica gli sta dicendo che la sera successiva non andrà al Brancaleone, forse per la prima volta da quando sono insieme si perderà una serata in cui lui suona e lui sente un po’ di quella solitudine tornare a pungerlo.
Stefano però sarà lì, ancora una volta, nonostante il tempo passato, lui è sempre rimasto lì, accanto a lui. Come in quel momento, in cui lo guarda indagatore, perplesso dalla sua poca loquacità.
Federica lo bacia ancora, Leonardo risponde, con una mano tra i suoi capelli.
I capelli di Federica sono sempre troppo poco rossi.

 

Quando quel lunedì le squilla il cellulare, subito dopo aver venduto un film di Truffaut a un ragazzo sui vent’anni con i capelli rasati verdi, Martina non si aspetta la voce di Irene in linea. Sta piangendo e a malapena riesce a farsi sentire. Martina la immagina seduta sul suo divano rosso, mentre accarezza il gatto seduto sulle sue gambe e con un fazzoletto in mano, mentre tenta di arginare le lacrime che in realtà ama versare.
“Ho lasciato Marco…”
Martina riesce a capire solo queste parole tra le tante ed è tentata di premere il tasto rosso del suo telefono e mettere fine alla conversazione, ma alla fine rimane in ascolto e la sente chiederle di vedersi, perché ha bisogno di un’amica, di qualcuno che possa starle vicino.
La ascolta parlare, singhiozzare parole, a volte le risponde qualcosa, senza mai entrare troppo a fondo, senza sembrare troppo interessata a una vita che non dovrebbe più far parte della sua da tempo.
Quando Irene le chiede di vedersi quella sera, lei accampa una scusa, un impegno improrogabile e l’altra ci crede, o forse non le interessa poi così tanto vederla, ma voleva solo mettere in scena il suo teatro di sofferenza e smuovere a pietà qualcuno, come segno di orgoglio per aver vinto ancora le resistenze di Martina.
Ma lei non barcolla e ha già deciso che quel lunedì sera andrà con Rebecca al Brancaleone, hanno appuntamento alle undici e vuole stare vicino all’amica, non lasciarla da sola, con Leonardo troppo vicino e l’alcol troppo presente nel sangue.
“Oggi non posso, Ire,” dall’altra parte, la ragazza si zittisce all’improvviso, come se un pugno l’avesse colpita. “Mi vedo con Rebecca.”
Non da spiegazioni, non dice nient’altro, non la invita. Non la vuole lì, magari mentre fa gli occhi dolci a Stefano o qualche volto anonimo che le sussurrerebbe all’orecchio parole lascive a cui lei riderebbe maliziosa.
Non vuole farle da balia anche quella notte, mentre vomita in qualche cesso o non si regge in piedi per tutto ciò che ha ingerito.
Vuole passare del tempo senza preoccuparsi di altro, vuole vedere Rebecca, poterla ascoltare, schietta e ironica come suo solito, senza imbarazzi dovuti a terze persone. A volte le sembra di conoscerla da sempre, più di quanto abbia mai conosciuto Irene, come se il tempo avesse giocato anche con loro, privandole l’una dell’altra per poi riportarle lì, in una pista, a ballare e cantare, sovrastate dal rumore di tutto il resto e della vita che scorre.
“Marti, davvero non puoi pisciarla?”
Avrebbe detto di sì e ceduto solo poche settimane prima, l’avrebbe accontentata come si fa con una bambina viziata, ma non può farlo e non vuole neanche, perché vuole godersi quei giorni prima del 24 ancora in pace, nella poca serenità che riesce a racimolare ogni mese, ma che sembra portarla avanti, a una lentezza disumana, incurante del tempo che passa.
“No, Ire. Stasera non posso proprio, mi dispiace.”
La sua voce è fredda e l’altra non insiste più, però parla ancora un po’ della tristezza esistenziale che l’attanaglia per aver dovuto lasciare Marco. E nel frattempo ne ha già conosciuto un altro, un nome che Martina dimentica subito dopo averlo sentito, un’altra conquista che forse diventerà il prossimo fidanzato da presentare a casa e anche lui per i primi tempi sarà perfetto e poi quando la minima difficoltà si frapporrà tra loro sarà un mostro.
Lei questo gioco non vuole sentirlo più.
“Ire, scusa, devo staccare che sono a lavoro,” la interrompe a metà di un discorso, in cui era apparso anche il nome di Stefano e lei si era subito innervosita, come se non fosse un suo diritto parlare di lui, perché Irene non ha visto con lui un arcobaleno né un film su un divano su cui poi entrambi si sono addormentati.
Come se conoscerlo fosse solo una sua prerogativa, perché lui gliel'ha chiesto.
E lei, alla fine, potrebbe anche cedere.

 

Il motivo per cui a Martina piace bere è il senso di appartenenza che sente al tempo che si dilata e trasforma per tutti e non più solo per lei. I movimenti della calca rallentano e si espandono a macchia d’olio nei minuti, come se non ci fosse accezione corretta nelle lancette che scorrono incuranti della sua poca lucidità.
All’improvviso, con la vodka nel sangue, le sembra di tornare indietro di sette mesi, quando ancora la sua vita scorreva regolare, senza lancette incastrate in ingranaggi male oliati.
E allora il vociare intorno a lei prende a rimbombare ogni istante nella sua testa, il rumore si fa più forte, il ronzio dei pensieri sconnessi si fa latore di un silenzio piacevole e mai invasivo, sopportabile nel momento in cui il suo corpo si dimena a destra e a sinistra, in una danza fluida, su canzoni forse imbarazzanti, ma sinonimi del suo stato d’animo.
C’è Lady Gaga che canta, mixata dalle dita di Stefano che l’ha salutata con un occhiolino, quando l’ha vista;  c’è Rebecca che ubriaca si guarda intorno e ricerca qualcuno, mentre Martina tenta di distrarla, perché la vede precaria nel suo sorriso traballante. Come sull’orlo delle lacrime, l’amica si muove lenta, con gli occhi persi nel vuoto e a Martina piacerebbe essere come lei e avere le parole sempre giuste da dire per farla sentire meglio e farle capire che può contare su di lei.
La trascina nella calca, si uniscono al vociare indistinto, si avvicinano al palco. Spintonano una spilungona che urla il nome di Stez, cercando di attirare la sua attenzione e viene loro da ridere quando si accorgono che lui invece non l’ha degnata di un’occhiata.
C’è Leonardo, poco distante, sempre sul palco ma più defilato e stranamente è solo, senza la bionda slavata attaccata alle gambe come al solito. Prova a spostare Rebecca di spalle, perché finalmente ha recuperato il sorriso e non vuole che possa tornare malinconica. Non fa in tempo, però, perché è lui a vederla e alla fine scende dal palco, dopo un’occhiata strana che fa tremare Martina di preoccupazione.
L’amica le chiede scusa in un sussurro e si allontana, mentre Stefano finisce il suo turno alla consolle e beve il suo cocktail, defilato, nascosto ad attenzioni indesiderate. Non sa dove sia Rebecca né vede più Leonardo, ma quando Stefano le fa cenno di salire sul palco, è come se il tempo accelerasse di nuovo e abbattesse il vociare, per infiltrarsi nella sua testa e spingerla da lui, solo per poterlo ascoltare parlare ad alta voce per sovrastare il rumore.
Stefano la guarda avvicinarsi, nel suo vestito nero accollato, i capelli sciolti sulle spalle. Hanno delle ciocche rosa, ora, forse fresche di giornata e gli sembra strano quel colore su di lei e allo stesso tempo perfetto.
“Bei capelli.”
La sorprende con quelle due parole, quando lei si ritrova di fronte a lui. Gli sorride ubriaca, prima di baciargli una guancia e scuotere la testa per mostrare il nuovo colore.
“Grazie Stez!” risponde e si sente stupida a usare il soprannome perché sembra una qualsiasi ragazzina urlante sotto al palco, che lo acclama come un dio.
Lui ridacchia all’uso del nomignolo e la prende per mano e la porta al bar, dove prende da bere per sé e vorrebbe offrirle qualcosa ma lei rifiuta, già abbastanza brilla.
“Sei chiacchierona da ubriaca,” le dice, interrompendo il suo racconto della giornata lavorativa.
Ci sono le pareti colorate intorno a loro, con le stampe gialle fluo che le confondono di più i pensieri, complice una canzone drum’n’bass sparata a tutto volume dagli amplificatori sparsi per il locale. Una coppia è appoggiata contro il muro accanto a loro e lui sembra avere le mani nelle sue mutande che lei si lascia esplorare dalle dita tozze: forse è già troppo ubriaca per capire che uomo osceno si porterà a casa quella notte e la mattina dopo si sveglierà con un mal di testa terribile e un grassone nel letto. Il barista dalla cresta corta le fa l’occhiolino, come fa da mesi e mesi, caricando ogni volta sempre più forte il suo drink, nella speranza che lei ceda a lusinghe che non ha veramente il coraggio di esprimere.
Si gratta il naso che non sente più, guarda il palco riempitosi di gente anonima che balla scoordinata e senza ritmo, il loro vociare sembra arrivare anche sino a lei che li guarda quasi impietosita: inutile ricerca di attenzione, riflettori puntati su tutti, ma in fondo mai su nessuno in particolare, perché il lunedì dopo saranno di nuovo volti senza una storia abbastanza forte da rimanere impressa nelle menti di qualcuno.
“Non guardarli così.”
Si era dimenticata di Stefano e non sa quanto tempo è rimasta zitta a occhieggiare schifata ragazze poco vestite dimenarsi su quell’esiguo spazio che si sono ritagliate a forza di tacchi piantati nei piedi.
“Così come?”
“Come se fossero il motivo per cui esiste la fame nel mondo e la crisi economica.”
Martina ride, divertita e vuole lasciar cadere l’argomento così, senza spiegazioni, senza altre parole futili su gente ancora più futile. Lui però insiste.
“Andiamo.”
“Dove?”
“Non ti deve interessare, vieni.”
Martina tentenna e si guarda intorno come a cercare una via d’uscita, ma alla fine afferra di nuovo un lembo di maglietta, per non perderlo nella calca, lo stesso lembo dell’altra volta. L’ha già seguito una volta, senza remore, e ha potuto guardare un arcobaleno distesa su una coperta davanti a un lago silente, mentre le sillabe si accalcavano in voci familiari l’una sull’altra. Si è già fatta portare da lui in un posto e non se n’è pentita.
Quando però si ritrova davanti la piccola scalinata che porta sul palco, dopo aver scavalcato la fila di gente che vorrebbe salire al posto suo, si pente un po’ di avergli dato ascolto e prova ad allontanarsi infastidita da Stefano. Lui però le afferra la mano, intreccia le loro dita e le sorride, portandola lì, dove lei non vorrebbe mai trovarsi.
“Me la pagherai,” sibila al suo orecchio, sbilanciata dalla spinta di una ragazzina con un vestito blu elettrico. Lui la trattiene, ride, si fa largo tra la gente e la porta al centro di quel luogo per lui tanto familiare.
“Questo è il mio posto preferito,” dice. “Goditelo.”
Balla e la costringe quasi a seguire il suo ritmo e i suoi passi, senza fermarsi, con la forza di uno sguardo che sembra dire che non la lascerà là sopra da sola, ma condivideranno quel momento.
“Mi sento cretina.”
Stanno ballando da un tempo indefinito, non capisce quanto ne sia passato, se ore o pochi minuti, addirittura pochi secondi, né quando ha preso tanto gusto a dimenarsi lì sopra, ignara di chi la guarda, da sotto il palco.
“È qui che sbagli. Nessuno guarda te, tu sei qui solo per te stessa, per assaporare il momento. Non devi sentirti cretina se fai qualcosa che ti piace.”
Sono le sue parole, quasi urlate a pochi centimetri dal suo orecchio a farla ridere di più e quasi cadere, nell’equilibrio precario di una serata troppo alcolica. Lui la trattiene ancora, poi le posa una mano sul fianco, le fa fare una giravolta, mentre si improvvisano in un ballo di rock’n’roll, su una canzone di Grease.
E allora, per almeno una serata, il tempo sembra muoversi un po’, scorrere un po’ più veloce, come quando ci si diverte.
Il resto della serata vola via.

 

Leonardo l’ha vista muoversi come a rallentatore, mentre una vecchia canzone dei Planet Funk risuonava nella sua testa, battendo il ritmo con violenza, tanto da spingerlo a muoversi a tempo. Le sue braccia ornate di bracciali fini al cielo o intorno al collo di Martina con cui ride, i capelli sciolti con le ciocche davanti legate all’indietro, le gambe scoperte, sempre troppo nude, lunghe e piegate in una posa sensuale mentre muove il bacino.
Gli occhi azzurri che si spostano svagati, oppure si chiudono sulle guance, con le ciglia lunghe a tendere verso il soffitto nero e le labbra socchiuse in un respiro affannato.
Sembra quasi l’unica a muoversi, nel marasma di voci concitate e corpi scoordinati, l’unica illuminata dai faretti intermittenti e i flash del fotografo, mentre intorno tutto rallenta fino a fermarsi.
Vede Martina che tenta di spostarla, ora gli danno entrambe le spalle, ma lui vuole parlare con lei, chiederle scusa per qualcosa che non si è accorto di aver fatto la settimana precedente, dirle che se avesse voluto avrebbe potuto far finta di niente e che quel tocco di dita, sotto la pioggia, non si sarebbe verificato mai più.
Incrocia i suoi occhi per un istante e dice qualcosa a Martina allontanandosi e lui non si è accorto che è già a metà scalinata, pronto a seguirla, a toccarla di nuovo, solo sul polso con due dita, per fermarla e parlarle un secondo, come facevano anni prima, quando quel velo di malinconia non si era abbattuto su di loro, quando la solitudine non lo spaventava, quando Federica non esisteva e lui non aveva paura a sfiorarla.
La perde tra la folla, nel corridoio che porta alla sala principale, dove la gente è di meno e la musica è più bassa; la cerca nei bagni chimici e luridi, al bar all’entrata, al guardaroba. Alla fine torna indietro e qualcosa zoppica nella gabbia toracica, quando scorge le sue gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce.
Si avvicina a lei con il cocktail blu ancora tra le mani, la prende alla sprovvista, le tocca una mano. Lei si ritrae, lo sguardo lucido di ebbrezza, ma vigile e attento alla sua presenza, come se lo registrasse con la pelle più che con gli occhi, nonostante non si stiano più toccando.
Leonardo la saluta, vorrebbe baciarle una guancia, ma ha paura potrebbe fuggire di nuovo, senza che lui ne capisca il motivo. Il pizzico del suo sguardo addosso sembra propagarsi attraverso i nervi, giungere da qualche parte fino alla testa, ubriacarlo dei suoi occhi chiari, simili a quelli di Stefano, ma più vivaci.
Vorrebbe esserne motivo, destinatario, scorgere quel sorriso ancora, invece del suo sguardo serio. Vorrebbe annullare quella solitudine che sente pervadergli lo stomaco nel loro essere insieme, per un istante solo, tra le sue labbra.
“Cosa ci fai qui?”
Non lo saluta neanche, sembra arrabbiata e per quanto lui possa percepirlo, non ne comprende il motivo. Prova a toccarla di nuovo, solo uno sfioramento di pelli, ma Rebecca fa un passo indietro e poi un altro.
“Volevo salutarti…”
Arranca scuse, false persino al suo udito, perché non l’ha mai seguita solo per dirle ciao e tornare dietro al palco. A volte neanche si salutano e non se ne è mai dispiaciuto; non è l’assenza di Federica, è solo un richiamo, una forza che non concepisce, ma che lo spinge lì, a toccarla di nuovo e afferrarle un polso, mentre lei tenta la via della fuga.
“Balla con me.”
Rebecca si sente affondare da queste tre parole, piccole e già sentite mille volte, ma non da quella voce né con quel tono. Non erano mai stati gli occhi di Leonardo a osservarla, quasi implorante, come se il tempo di attesa di una sua risposta potesse ucciderlo, prolungato nell’ansia di un rifiuto che si aspetta.
Dovrebbe dire di no e ritrovare Martina e andare via con lei; mettersi a letto con il trucco ancora addosso e il soffitto che girerebbe sulla sua testa, al ritmo dell’alcol ingerito; svegliarsi la mattina dopo e far cadere il cellulare mentre si scrive un messaggio, fare colazione con il pane e bere litri d’acqua.
Però non si ritrae più. Lascia la mano in quella di Leonardo, cerca le sue dita e lascia che lui le incastri con naturalezza, come se fossero sempre state là, delatrici di solitudini troppo a lungo combattute invano.
Lo segue in pista, si fa condurre come una bambina che segue il padre, fiduciosa e abbandonata. Non lo guarda, i suoi occhi cercano qualcuno, salutano qualcun altro, si fermano sulle loro mani. Lo evita anche ora, dopo che si è lasciata trovare e prendere.
Leonardo ordina un altro drink e gliene offre un sorso e il tempo corre via, mentre la gente sembra ferma e loro si muovono a velocità raddoppiata e ridono anche un po’, quando accanto a loro, fermi al bancone di un bar, passa un ragazzo ubriaco vestito da donna, con in testa una corona del Burger King.
Sono più sciolti e alla fine del cocktail si infilano nella calca, tra le voci sconosciute che hanno intorno e si muovono, senza pensare, senza l’assurda pretesa di ragionare su niente, con l’unica consapevolezza di essere lì e di poter ridere insieme e di nuovo, senza solitudini a interromperli o fantasmi a osservarli.
Con la leggerezza dell’alcol a offuscare il controllo e a inibire i problemi, a nascondere i ricordi di una donna che aspetta a casa, di un fratello geloso, di un futuro senza prospettiva, nei movimenti sempre più vicini di due corpi che si sincronizzano su un ritmo comune, mentre i bacini si scontrano e le dita si intrecciano ancora e i nasi si sfiorano.
Distanze minime, mentali e fisiche abbattute in pochi istanti, troppo veloci, in un tempo che sembra vorticare impazzito tra le sensazioni troppo intense e vivide, amplificate da una lucidità che sembra coglierli quando i loro sguardi s’incrociano ancora e Leonardo quella solitudine sembra averla dimenticata in un’altra vita.
Sposta una mano tra i suoi capelli, in un boccolo ramato che si attorciglia su se stesso, si avvicina ancora, stavolta con le labbra, secche di una sete che non l’alcol, ma solo lei può estinguere. Forse è lei ad avvicinarsi alla fine, a mettere un punto a quella ricerca spasmodica che sembra averli catturati, o forse è lui ad avventarsi con bramosia su quelle labbra fini ma sempre rosse.
Senza alcuna delicatezza, come uno sfogo dei denti mai sazi e delle lingue sempre pronte a rincorrersi, in un bacio senza tempo, intrappolato tra le pareti delle loro gole, insieme a parole che non vogliono ascoltare né dire. Sembrano fermarsi anche loro, proprio lì, al centro della sala, senza più musica nelle orecchie sorde né gente a contatto con i corpi stanchi, immobili nell’attimo e nell’apice di qualcosa di desiderato e spaventoso, mai avuto e insperato.
E poi la musica cambia, si spegne per un attimo, nel silenzio dell’intervallo tra la precedente e la nuova e qualcosa sembra penetrare nell’oasi atemporale in cui sono sprofondati; tutto riprende a correre troppo veloce e Rebecca si scosta, come bruciata dalla sua stessa voglia. Lo guarda quasi sconvolta e va via, mentre lui la segue con lo sguardo, incapace di rincorrerla, conscio di aver compromesso ogni cosa.
Sospira e l’odore della gente sudata impregna le sue narici, ma lui sente ancora il profumo di vaniglia invadere i suoi sensi e la consistenza dei capelli di Rebecca tra le dita.
La sua è la giusta tonalità di rosso.

○○○

Buongiorno, radioascoltatori e ben ritrovati questo martedì in cui il cielo su Roma sembra prendersi gioco di noi! Il sole fa capolino a minuti alterni e le temperature si sono abbassate notevolmente.
Come ogni altro martedì, non sono abbastanza sveglio da fare chissà che discorsi, dato che ieri sera al Branca la serata è stata folle e io ho avuto troppo poco tempo per riposarmi.
Troppo, troppo veloce scorre certe volte. Vorrei fermarlo ad alcuni attimi, proprio lì, magari mentre sono dietro la consolle. Invece in quei momenti è sempre troppo poco, sfugge via come un niente e io mi perdo ogni cosa con un battito di ciglia, senza rendermene quasi conto.
Come sarebbe potersi bloccare, senza paura di non avere abbastanza tempo, senza il bisogno impellente di fare tutto di fretta, per non dimenticare di vivere.
Mi sono chiesto spesso se fosseè facile dimenticarsene e ogni volta mi sono risposto di no, però forse mi sono sempre sbagliato, ho sempre fatto riferimento unicamente alla mia esperienza e, lo sapete, non sono uno che lascia fuggire le occasioni: le colgo tutte, non spreco tempo in domande o paranoie.
È banale dire che il tempo è relativo, che ognuno lo percepisce a seconda di quello che fa. Penso che non sia del tutto giusto, ma che il tempo relativo lo sia davvero.
Per me è solo uno scorrere ritmico e cadenzato di secondi, minuti e ore, qualcosa di naturale con cui fare i conti ogni mattina al suono della sveglia e ogni notte, quando conto le due ore di dj set sul palco del Brancaleone. Non so come sia possibile però che qualcuno sembri non conoscerlo affatto, ignaro completamente del suo solito scorrere. Come se il sole non sorgesse né tramontasse, come se non si nascesse o invecchiasse, come se l’ingranaggio fosse fermo e le lancette puntassero sempre e solo un’ora di un’unica data.
Cristallizzarsi in un istante, congelati. Non percepire prima né dopo, la confusione del presente e del passato, l’inesistenza di un vero futuro. Non sarebbe come bloccarsi realmente in un secondo di felicità assoluta e goderlo a ripetizione, a proprio piacimento. Sarebbe vivere in un perpetuo incubo, senza possibilità di fuga.
Vorrei augurarvi di trovarla, quella fuga, di cercarla bene, negli angoli più nascosti di voi stessi, quelli che vi piace celare agli occhi degli altri, ma che sono lì e si illuminano a intermittenza, quando vi distraete abbastanza da dimenticare di spegnere ogni luce.
Magari, un giorno, tornerete a scorrere.

#Time.

 

Note di un'autrice innamorata di Leonardo e Rebecca.

Buona domenica a tutt* e bentornat* nella fiera del fluff mascherato da roba triste!
Spero il capitolo vi sia piaciuto quanto mi è piaciuto scriverlo. Se devo essere sincera mi piace abbastanza e, ribadisco, il mio amore per Reb e Leo è salito a livelli vertiginosi. Avete notato comunque che è tornata alla carica Irene che riapparirà prima o poi, come farà la sua comparsa Marco.
Nel frattempo abbiamo conosciuto qualcosina di più di Leonardo che nella mia mente era un personaggio molto molto tranquillo e leggero, ma che appena ho cominciato a scrivere mi si è trasformato in un complessato della peggio specie. I fratelli Mengacci avranno parecchio da fare!
Il discorso sul tempo fermato al 24 settembre è un po' il cardine di tutta la storia, quindi tenetelo a mente. Martina è come bloccata a un punto della sua vita e non ha il coraggio né la voglia di muoversi, rimane lì come sospesa nel tempo, mentre intorno a lei tutto sembra andare a velocità raddoppiata, le altre persone continuano le loro vite come se niente fosse. Tra queste persone ci sono anche Rebecca e Leonardo, che sono un po' gli antipodi di Martina e Stefano, perché vorticano come una trottola impazzita senza essere in grado di fermarsi mai. Tutta la storia si baserà su questo contrasto e sui piccoli passi che vorrei far compiere a Martina, non verso Stefano, ma in generale verso una concezione del tempo che abbia un senso comune e non solo suo.
Comunque nonostante le poche recensioni, sono contentissima del riscontro positivo che sta avendo e dell'ammòre che dichiarate per questa storia soprattutto nel mio giardino zoologico multicolor. Oltre al mio immenso amore per Erica e Milla che mi hanno detto tante cose bellissime, a chi recensisce (siete poche ma vi amo immensamente e lo sapete), ho ricevuto veramente tanti complimenti e ne sono proprio felice... Inoltre un grazie gigante ad Aika che mi ha messo ansia da prestazione addosso con la segnalazione per le scelte <3 (Aggiornamento di cinque minuti dopo) E un altro grazie triggoloso a Trigger sempre per la segnalazione *w* *sbrodola amore e vi ama tutte*
Ora passiamo alla nota dolente, cioè questo è l'ultimo capitolo prima che io parta. Me ne vado a Barcellona venerdì per dieci giorni e quando tornerò probabilmente non avrò voglia di fare nulla, ma più che altro devo cominciare a fare qualche giro per l'università e robe varie. Credo che a settembre riapparirò con amore con il capitolo sei, che sarà ambientato di 24 aprile, cioè il settimo "mesiversario" della morte di Giorgia. Ho deciso - nel mio schema delirante della storia xD - che ogni tot capitoli ci sarà il racconto di questa giornata particolare e di come la vive Martina, anche in relazione a chi ha intorno e si chiameranno tutti Cacofonia del silenzio, come il primo capitolo. Vabè questa era un'informazione in più random :D I capitoli comunque dovrebbero essere più di venti, forse addirittura trenta, dipende bene da tutto, però finalmente ho delineato una trama quindi siate fiere di me!
Ora credo di aver straparlato abbastanza, vi ricordo l'aggiornamento della settimana scorsa di Sequins High - un capitolo delirantissimo, veramente - che spero di riaggiornare prima che parta e questa cosa folle che ho scritto per Giulia, un AU della sua storia Scorie di un disperato amore.
Ci sentiamo nel gruppo o forse no, ma in caso buone vacanze <3
Elle.
PS. Vi ricordo come al solito la colonna sonora di Cacofonia.Frammenti, proprio QUI

Note un po' snob che renderanno fiero Manuel.

 

- Freni e Frizioni è un locale sul Lungo Tevere, all'altezza di Piazza Trilussa, in cui ho fatto aperitivo ogni tanto. Non ci sono posti a sedere dentro, solo il buffet, però tu puoi prendere quello che vuoi e sederti o sulla gradinata che porta in un vicolo trasteverino o sul muretto tutto intorno. E' molto carino e li ho piazzati lì perché mi piaceva come posto :D
- La concezione del tempo di cui parlo è per molti certi abbastanza banale, perché il relativismo temporale è veramente una scemenza. Ho cercato di dargli però una connotazione un po' più specifica in relazione a Martina, che non sente il tempo diverso da come lo sentono gli altri, ma lo sente proprio. Il rallentare e accelerare random soprattutto quando si guarda qualcuno è una citazione un po' vaga da Big Fish, un film che amo.
- Dal "mi sento cretina" di Martina fino alla fine della scena, è un dialogo che ho avuto veramente con la persona che per molte cose ha ispirato Stefano, una delle prime cose che ci siamo detti in vita nostra. Non lo dico mai, ma questa storia è sempre un po' anche per lui, nonostante io passi le mie giornate a insultarmi e non mi fa gli auguri di compleanno.
- La frase "gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce." è un giro di parole delirante che cita la frase "Le gambe delle donne sono come dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia" dal film L’uomo che amava le donne di François Truffaut - regista di cui Martina vende un film proprio quel giorno - perché avevo promesso a Manuel che avrei inserito anche lui <3

- Freni e Frizioni è un locale sul Lungo Tevere, all'altezza di Piazza Trilussa, in cui ho fatto aperitivo ogni tanto. Non ci sono posti a sedere dentro, solo il buffet, però tu puoi prendere quello che vuoi e sederti o sulla gradinata che porta in un vicolo trasteverino o sul muretto tutto intorno. E' molto carino e li ho piazzati lì perché mi piaceva come posto :D
- La concezione del tempo di cui parlo è per molti certi abbastanza banale, perché il relativismo temporale è veramente una scemenza. Ho cercato di dargli però una connotazione un po' più specifica in relazione a Martina, che non sente il tempo diverso da come lo sentono gli altri, ma lo sente proprio. Il rallentare e accelerare random soprattutto quando si guarda qualcuno è una citazione un po' vaga da Big Fish, un film che amo.
- Dal "mi sento cretina" di Martina fino alla fine della scena, è un dialogo che ho avuto veramente con la persona che per molte cose ha ispirato Stefano, una delle prime cose che ci siamo detti in vita nostra. Non lo dico mai, ma questa storia è sempre un po' anche per lui, nonostante io passi le mie giornate a insultarmi e non mi fa gli auguri di compleanno.
- La frase "gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce" è un giro di parole delirante che cita la frase "Le gambe delle donne sono come dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia" dal film L’uomo che amava le donne di François Truffaut - regista di cui Martina vende un film proprio quel giorno - perché avevo promesso a Manuel che avrei inserito anche lui <3
- La frase finale del monologo radiofonico di Stefano - Tornerete a scorrere - è una citazione della canzone Ci sono molti modi degli Afterhours, che dice appunto "Torneremo a scorrere". 

   
 
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