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Autore: cerconicknamesugoogle    08/08/2012    6 recensioni
Se Katniss fosse stata una ragazza come tutte le altre? Un semplice tributo sopravvissuto alla furia di Capitol City? Se non ci fosse stata nessuna rivolta? Se i Distretti avesser continuato ad abbassare la testa davanti al potere costituito?
Siamo alla Centesima edizione degli Hunger Games, la quarta edizione della Memoria. I giochi saranno diversi.
Due Tributi. Distretti diversi, famiglie diverse, ferite e cicatrici diverse. Due destini separati, se credete nel destino. Due destini che sono destinati ad intrecciarsi, per la gioia degli spettatori.
Questa volta ci sarà un solo vincitore per gli Hunger Games.
Che i Giochi abbiano inizio? Tenete gli occhi incolati sullo schermo, ci sarà da divertirsi.
*Fanfiction scritta a quattro mani da Wania97 e Clalla97, per la gioia di chi ama i loro scleri, cioè nessuno ù-ù Un personaggio a testa, uno per uno non fa male a nessuno.*
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Orme sulla sabbia

Ciò che vedeva era soltanto questo: 
comicità e miseria, comicità e miseria.
E allora, insieme con la pena e l'orgoglio 
della conoscenza, venne la solitudine, 
perché gli riusciva intollerabile la vicinanza degli inetti 
con lo spirito gaiamente ottenebrato, 
e il marchio che lui recava sulla fronte li respingeva. 
(T. Mann, Tonio Kröger)


Non importava che fosse ancora buio, lì nel distretto 4. L'oscurità era una buona amica dei pescatori, dopotutto. L'alba non era ancora sorta, ma la città era già animata dalle voci di chi era rimasto sveglio tutta la notte ad aspettare di poter ritirare a bordo le reti, di chi aspettava il pesce da vendere la mattina al mercato o da stipare nel primo treno merci diretto a Capitol City, di chi usciva semplicemente per fare quattro passi a quell'ora, perché la solitudine era una brutta cosa e i pescatori erano i migliori, nel farti sentire accettato. Lenore sentiva le risate anche dalla soglia di casa sua, ilarità suscitata da un umorismo tutto loro, un umorismo che non la toccava.
Era silenziosa, la casupola in cui abitava, la madre non era ancora tornata. Non c'era nessuno che potesse preoccuparsi di lei, che potesse ordinarle di tornare a letto e rimanerci per un altro paio di ore. Avrebbe quasi desiderato che qualcuno lo facesse, almeno una volta. Quasi.
Si incamminò con calma verso la pineta che affiancava quel piccolo pezzo di erba incolta che lei si azzardava a chiamare giardino.
Il tappeto di aghi secchi scricchiolava sotto i suoi piedi senza che lei facesse nulla per mascherare il rumore, in fondo non c'era anima viva che lo ascoltasse. Non era proibito gironzolare tra quegli alberi, ma nessuno ci pensava nemmeno, non vicino alla loro casa. 
Annusava a fondo quell'aria dall'odore salmastro, quell'aria che tanto odiava perché si appiccicava alla sua pelle, ai suoi capelli, facendola sentire un'alga maleodorante. Gli uccelli erano già svegli, come sempre e le facevano compagnia con il loro canto fastidioso, rubandole il silenzio. Tutto sommato, però, le piacevano, con la loro inconsapevole allegria, con la loro libertà...
Camminò per parecchi minuti alla ricerca dei familiari cespugli che si erano arrampicati lungo gli steli spinosi dei rovi, sentinelle del suo piccolo angolo di mondo in cui nessuno poteva penetrare.
Li superò, non senza aver pagato un paio di graffi e versato qualche goccia di sangue come pedaggio, lacerando l'ennesimo paio di pantaloni che sua madre avrebbe guardato con occhio stanco e che avrebbe gettato sull'altissima pila di vestiti da rammendare. Che Lenore avrebbe ricucito, non di certo lei.
Ed eccolo lì, dopo un altro tratto di strada fra sterpaglie ed ortiche, il suo rifugio.
La piccola spiaggia sembrava inglobata nella pineta come una spirale colorata in una biglia di vetro soffiato, una di quelle palline con cui giocava da piccola. La striscia di sabbia non era molto larga, e gli alberi incombevano quasi minacciosi, tentando di soffocarla. Quello su cui si affacciava era un tratto di mare piuttosto agitato, in qualsiasi stagione dell'anno, e perciò pressoché deserto, ma la piccola insenatura accoglieva acqua placide in cui le piaceva nuotare, quando era troppo tesa e il peso della gravità la schiacciava al suolo.
E come tutte le mattine Lenore si sedette, togliendosi le scarpe e affondando le dita nella sabbia fine e bianca alla luce del sole che sorgeva all'orizzonte. E come tutte le mattine dopo qualche minuto si stese completamente, disegnando un angelo con gambe e piedi. Sognava di farlo con la neve, un giorno, ma da quelle parti non nevicava mai. Odiare il caldo e nascere nel Distretto 4 era un pessimo scherzo del destino. Almeno c'era il mare...
Solitamente a quell'ora, quando i riflessi arancioni cominciavano ad allungarsi sull'acqua limpida, Lenore si toglieva lentamente i vestiti e scivolava a sfiorare il fondale marino con le labbra, nuotando e osservando le figure sfocate attraverso gli occhi che bruciavano per il sale.
Ma non quel giorno. Perché c'era una Mietitura, ad aspettarla, e l'acqua per una volta non sarebbe riuscita a darle la sicurezza che voleva.
Così si alzò e frugò tra i cespugli spinosi, tirandone fuori un fagotto ormai consumato dal tempo. C'erano dei coltelli e una spada lì dentro, le lame corrose dalla salsedine, qualche piccola macchia di ruggine a incrinarne l'opacità uniforme.
Ricordava quando sua madre glieli aveva regalati, era stata l'ultima volta che avevano litigato sul serio. Non perché poi le cose fossero andate meglio, ma semplicemente perché fra loro non cerano più stati contatti degni di tal nome.

Lenore era stesa sul pavimento di legno rovinato della casa, braccia e gambe larghe, un vago sorriso stampato sulle labbra. Aveva superato indenne la sua seconda Mietitura, ne rimanevano solo cinque da affrontare. La prospettiva non era così rassicurante, ma lei era ancora lì, ancora viva e non su un treno diretta a Capitol City, e ciò non poteva che renderla felice.
La madre entrò nella stanza sbattendo la porta, cosa che innervosiva immancabilmente la ragazza, e si sedette sulla sedia a dondolo zoppicante, appoggiando un grande fagotto sulle proprie ginocchia. Non si era tolta lo scialle, né le scarpe sporche di terra. Era strano, considerato che era sua madre, quella di cui si stava parlando. Miss Ordine A Qualunque Costo.
“Che c'è, mamma?” chiese la ragazza con voce annoiata, evitando di guardarla negli occhi. Non lo faceva mai, c'era sempre quel riflesso di tacita accusa, nelle sue iridi verde ghiaccio, un riflesso che la faceva sentire un'intrusa nella vita di sua madre, una zecca che si era appiccicata alla sue gambe e che non voleva saperne di mollarla.
“Oggi c'è stata la Mietitura.”
“Come ogni anno, d'altra parte. Che cosa c'è di così anormale? Tanto non mi hanno estratta. Sono ancora qui. Non hanno portato via il tuo capro espiatorio preferito.”
Si aspettava un coro inviperito di recriminazioni, una fila interminabili di “Sei ingiusta, io faccio così tanto per te. Non sei il mio capro espiatorio, se la mia unica ragione di vita.”
Eppure quella fila interminabile di balle non arrivò. Lenore si scontrò invece con un'espressione di dura rassegnazione.
“Lo faranno invece. Prima o poi ti estrarranno. Succede sempre a quelli che se lo meritano meno.”
La ragazza la fissò, senza lasciare che la sorpresa che animava i suoi pensieri trapelasse. Sua madre non si meritava quel premio. Non avrebbe visto ciò che provava.
“Cosa ti fa pensare che io me lo meriti meno degli altri? Cosa ti fa pensare che abbia meno colpe della ragazzina di dodici anni che è stata estratta oggi?” chiese, senza avere la soddisfazione di vedere la comprensione giungere alla mente di sua madre e il rimorso straziarne l'espressione. Elisha rimase ferma, torturando il nodo che legava il fagotto.
“Tutto quello che io ho passato... quello che hai passato tu... quello che abbiamo passato insieme.”
Lenore rise, un suono amaro che riempì l'aria e colpì la madre come un pugno.
“Sai, è per questo che ti disprezzo tanto, mamma.” La donna trasalì, come se la figlia l'avesse schiaffeggiata veramente. “Tu e la tua patetica convinzione di essere sempre la persona più sfortunata di questo mondo. Sei sicura di non soffrire di manie di persecuzione? Mettitelo bene in testa, mamma. Noi non siamo nessuno di speciale. E il fatto che tu sia ancora convinta del contrario dimostra quanto ti stia illudendo. Credevo fossi più realista. Soprattutto considerato quello che fai tutti i giorni. O quello che non fai, dipende dai punti di vista.”
Elisha strinse con forza i denti, impedendosi di rispondere e slegò il sacco di stoffa, rivelando una spada lucida e una mezza dozzina di pugnali da lancio.
“Non mi importa quello che pensi di me... ma queste...”
“Come hai avuto quella roba?” la interruppe la ragazza, alzandosi a sedere.
“Lo sai benissimo come l'ho avuta, quindi evita di farmelo dire.” rispose la donna con espressione impassibile.
“Già... e cosa vuoi che ci faccia? Potrei aprirci qualche scatoletta di latta, in effetti.”
“Non fare domande di cui conosci già la risposta. Dovresti allenarti, non voglio che tu finisca nell'Arena senza essere preparata.”
Lenore si mise le mani fra i capelli, tirando le ciocche per combattere il nervosismo.
“Smettila, mamma! Smettila di dare per scontato che verrò estratta. Sembra quasi che tu lo speri, in fondo in fondo. Se dovessi uscire viva saremmo ricche e tu non avresti più bisogno di passare le sere ad... intrattenere uomini che hanno voglia di un paio di ore particolarmente divertenti. Se dovessi rimanerci secca tu ti saresti tolta una bocca da sfamare. Non è vero?”
“Non lo dire. Nessuno si augurerebbe una cosa simile, per i propri figli.”
“Nessuno si augurerebbe nemmeno questo.” ribatté lei allargando le braccia per mostrare la casa che la circondava, comprendendo nel suo disgusto anche la stessa madre.
Elisha si alzò in piedi ficcando il fagotto fra le mani di Lenore.
“Fai quello che ti pare. Non so che altro dirti. Io vado, ho da fare.”
La ragazza fissò la madre che usciva dalla porta, le spalle rigide, la testa bassa, ma il rimorso non si fece sentire. Tredici anni passati da sola. Il rimorso non faceva parte dei suoi amici. La rabbia, invece, sì.
Fissò la madre uscire e non la fermò, ma il fagotto finì nella baia alla spiaggia.
Nell'Arena non ci sarebbe finita. Ma era meglio essere previdenti.


Il coltello si conficcò a fondo nella corteccia di pino che svettava ai limiti della striscia sabbiosa su cui affondavano i piedi di Lenore.
La ragazza sospirò, fissando quei pochi millimetri di lama che ancora sporgevano dal legno scheggiato dagli innumerevoli lanci, passando le dita della mano destra sull'avambraccio sinistro, sentendo il profilo familiare delle cicatrici che si era procurata da sola col tempo e l'ispida morbidezza dei peli schiariti dal sole. Era un gesto che le dava sicurezza, che la faceva aggrappare alle poche cose veramente reali della vita. Il dolore era una di quelle. Non che Lenore avesse provato molto dolore, nella sua vita, forse era il caso di dire che la sensazione constante nel corso degli anni fosse stata la delusione. Delusione di scoprire quello che faceva sua madre per procurarle del cibo, delusione di capire che le cose non sarebbero cambiate, delusione di scoprire che suo padre era un maledetto bastardo e non il principe azzurro dei suoi sogni, delusione ogni volta che si guardava allo specchio perché era troppo debole per sottrarsi a quella spirale di solitudine che lei stessa aveva generato. Delusione nel pensare che forse non erano gli altri ad essere sbagliati, forse era in lei ad esserci qualcosa che non andava.
Camminò fino al tronco per poi divellere quell'ultima serie di coltelli che aveva lanciato. Erano dei buoni colpi, ma la cosa aveva smesso di importarle pochi giorni dopo il primo ottimo tiro che era riuscita a fare, l'anno prima. Una volta vinta quella sfida che l'aveva appassionata per molto tempo, anche l'Allenamento era diventato qualcosa di meccanico, una routine senza senso.
Si voltò per tornare al proprio posto e ricominciare, per l'ultima volta, ma si fermò, fissando le sue impronte sulla sabbia, per niente nitide e poco pronunciate. Non era un'impresa facile lasciare orme così leggere su un suolo simile, ci aveva lavorato tanto, ma in quel momento quelle sagome la infastidirono, fastidio che aumentò quando un soffio di vento più forte degli altri smosse quei piccoli granelli che coprirono definitivamente i solchi.
Lasciò cadere i coltelli, decidendo che per quella mattina era abbastanza, tutto considerato, e si incamminò verso la riva del mare, affondando con deliberata forza i piedi nel terreno, lasciando impronte profonde e definite. Il vento non avrebbe cancellato un'altra volta i segni del suo passaggio.
Le dita entrarono a contatto con l'acqua gelida del mattino, che la fece rabbrividire, ma non era fra le sua abitudini quella di rimanere coi piedi in ammollo fino a che la temperatura non le fosse divenuta familiare, perciò continuò ad avanzare, per poi chinarsi sentendo la familiare sensazione delle ginocchia che sprofondavano nel fondale marino, facendo sì che l'acqua le lambisse i fianchi. Si lavò il viso bagnato di sudore, grattando senza troppe cerimonia le guance sporche, lasciando tracce di pelle morta sotto la mezzaluna pronunciata delle unghie. Il volto le bruciava per quella combinazione di graffi e sale e il freddo provocato dal vento che soffiava impietoso doveva averle arrossato il viso.
Lenore esaminò il pelo dell'acqua, alla ricerca della propria immagine, ma quella era troppo limpida per restituirgliela. Il fondale appariva chiaro, sotto la superficie danzante, e il suo viso non era altro che un'ombra informe, ma la ragazza sapeva già cosa ci avrebbe visto, in quel riflesso.
Avrebbe visto i capelli neri sfuggiti da una coda improvvisata, bagnati, appiccicati dal sudore e dall'acqua alla pelle arrossata. Avrebbe visto il viso dorato dal sole, i tratti induriti dall'espressione distante, le labbra contratte, i muscoli tesi. Avrebbe visto un paio di occhi grandi, azzurri come il mare che vedeva fuori dall'insenatura, ma vuoti.
Nessuno avrebbe mai potuto dire che lei avesse ereditato la bellezza di sua madre. Lei che aveva quegli stupendi occhi verdi, quei capelli biondi, i lineamenti delicati e il viso a cuore...
Avevano lo stesso fisico, certo, magro, dall'ossatura sottile e fragile, slanciato, i fianchi disegnati da una curva morbida ma non troppo accentuata, la vita stretta, il seno non troppo pieno... Ma la loro somiglianza finiva esattamente lì dove cominciava.
Lenore aveva il viso di suo padre e spesso si chiedeva come Elisha potesse sopportarne la vista senza arrivare ad odiarla.
Aveva quattro anni quando aveva chiesto per la prima volta alla madre dove fosse “il suo papà”, perché non fosse lì a tagliare la legna per il fuoco, a dare la buonanotte alla figlia e a portarla sulle spalle in giardino. Tutte le bambine che lei osservava da lontano, nella sua solitudine, ne avevano uno. Ma non lei.
La risposta era stata secca, pronunciata in modo amaro, da labbra talmente contratte da apparire invisibili. “Sei fortunata che non sia più qui con noi.”
Lenore era rimasta sorpresa da quelle parole. Sembrava che la madre fosse così in collera con quell'uomo di cui la bambina conosceva l'aspetto solo grazie allo specchio in camera sua, solo grazie al proprio riflesso.
“È morto?” aveva insistito. Elisha non si aspettava quella domanda, non da una bambina di quattro anni, perciò la risposta era stata frutto di un puro istinto.
“Magari...” parole sputate fra i denti, fatte di rabbia e risentimento.
Lenore si era bloccata, fissando la madre.
“Non si dicono queste cose.” era stata la sua infantile conclusione, prima di andarsene. “Mai.”
Non ne avevano più parlato, nonostante i numerosi tentativi della ragazza. Elisha sembrava una campionessa a schivare l'argomento. Ma cosa pensava? Che Lenore non lo avrebbe saputo? Che non avrebbe sentito le voci che giravano per la città? La figlia bastarda della puttana e dell'uomo che l'aveva messa incinta a diciassette anni per poi filarsela e lasciarla sola come un cane.
Era in quel modo che aveva saputo anche del lavoro che faceva la madre. Non dalla sua voce, non dalle sue parole esitanti, per addolcire il concetto. Lo aveva saputo dalle sentenze dure di gente che la vedeva passare per strada, che si chiedeva se lei avrebbe fatto la sua stessa fine, a vendersi per del pane e dei vestiti. Non l'avevano mai detto ad alta voce, in casa. Elisha sapeva che Lenore sapeva. E lì finiva il discorso. Allusioni velate, commenti pungenti. Ma mai quella parola detta ad alta voce. Puttana.
No, Lenore non aveva preso la bellezza della madre, e ne era contenta.
Forse era bella anche lei, a modo suo, quella bellezza che passa inosservata a meno che non ci si concentri a fondo. Avrebbe preferito cento volte essere brutta, forse. Pur di non avere nemmeno la possibilità di prendere la strada di Elisha.
Odiava quei commenti fatti a mezza voce, senza nemmeno curarsi che lei non li sentisse, come se non fosse realmente presente o che non valesse la pena di premurarsi di essere discreti.
“Me la farei, se solo non fosse così snob. Col lavoro che fa sua madre anche lei deve essere parecchio brava. Voglio dire, guardala.”
Erano quelli i momenti in cui si pentiva di avere lasciato i coltelli alla spiaggia ed era esattamente quello il motivo per cui li lasciava lì, anche se la tentazione era tanta.
Era per quello che odiava Elisha, anche se era l'unica persona che le fosse mai stata vicina. Perché l'aveva marchiata, aveva fatto sì che si richiudesse in quella fortezza per tenere lontano il mondo, per non lasciare il corpo nudo, inerme alle sassate che tutti le rivolgevano.
Aveva creato quella crisalide, occupata solo da un piccolo bozzolo di rabbia che a volte si dilatava fino ad occuparla del tutto, ma che il più delle volte era confinata in un angolino, lasciando il guscio vuoto.
Un guscio vuoto che si lasciava scivolare addosso ferite, pugnalate, colpi, bruciature, senza curarsi dei segni che lasciavano. Facendo finta che non facessero male. Era più facile, in quel modo. Era più facile conservare il rancore e rivolgerlo contro una sola persona. Era soddisfacente.
Era tardi, si rese improvvisamente conto e si alzò, uscendo frettolosamente dall'acqua, raccattando i coltelli e la spada e nascondendoli di nuovo fra i radi cespugli, agguantando le scarpe e avviandosi verso casa, i piedi ricoperti di sabbia bagnata, gli aghi secchi che le graffiavano le piante callose.
Non se n'era accorta, Lenore, che le sue impronte erano di nuovo impercettibili. Era quello uno dei suoi difetti: vampate di attenzioni quasi ossessive che duravano quanto la fiamma di un cerino per poi consumarsi velocemente e farla di nuovo cadere nell'apatia.
Ma quelle orme esasperatamente calcate, quelle che aveva lasciato in quel precedente momento di rabbia, erano ancora lì, sulla spiaggia.
Lenore era stata in quel posto.
Aveva lasciato una traccia nel mondo.
Che fosse la prima?

“Finalmente! Dove accidenti sei stata? Cielo, guardati, sei impresentabile.”
Era facile ignorare quella voce, ormai. Un grugnito, come risposta, le parve più che sufficiente.
“Non vorrai mica entrare in casa con quei piedi, spero. Sporcherai tutto di sabbia.”
Ecco, quella frase non si meritava nemmeno il grugnito.
La mano della madre afferrò saldamente il braccio di Lenore, bloccandola sulla soglia di casa.
“Degnami della tua attenzione.”
“Di che ti preoccupi, Elisha? Questa casa la pulisco io. Spazzerò quando torno.” Non mamma, Elisha. Veleno, in quelle parole. Veleno puro. La donna lasciò il braccio come se si fosse scottata.
“Ti... ti ho preparato l'acqua per il bagno... se vuoi. Il vestito è sul tuo letto.”
“Mi lavo fuori. È più veloce.”
Era vero, almeno quello. Era come prendere due piccioni con una fava: fare più in fretta e allo stesso tempo ferire la madre. Anche se l'acqua gelida non la attirava più di tanto.
Lenore si ritrovò a guardare il letto su cui aveva dormito per anni, in quello sgabuzzino di camera, dopo essersi lavata. Ma per una volta, l'oggetto della sua attenzione non era il disgusto per quella sottospecie di stanza che era la sua camera, ma per il vestito adagiato sul materasso, fra le lenzuola sfatte.
Era sicuramente nuovo, o era di sua madre, perché non lo aveva mai visto. Era di un tortora chiaro, con dei disegni neri lungo uno dei fianchi. Era bello, ma di una cosa era sicura: non lo avrebbe messo. Neanche morta.
Una gonna dall'orribile stampa a fiori, una canottiera nera, dei sandali bassi e consumati dal tempo e una treccia disordinata erano più che sufficienti, per andare al macello.
La madre sospirò rassegnata, vedendola entrare in salotto.
“E il vestito che ti avevo preparato?”
“Non mi piaceva, preferisco così.”
“Vuoi che ti pettini io? O che ti trucchi un po'?” Acconciature? Trucchi? La speranza nella voce della donna la infastidì.
“Vatti a truccare tu, mamma. È un gran giorno. Stasera avrai uomini disperato per la perdita di un figlio oppure una schiera di esaltati perché il loro non è stato estratto. Devi farti bella.”
L'espressione ferita la ricompensò più di mille lanci andati a segno.
Affonda. Colpisci. Sorridi. Leccati il sangue che è rimasto sulle mani.
Sei contenta di averla ferita così a fondo, non è vero, Lenore?
Sì.
No.
Ormai non lo sai nemmeno tu.

Era una fortuna che il vento si fosse calmato, o la sabbia volante sarebbe stato un gran fastidio per gli spettatori della Mietitura annuale. Era tradizione svolgerla sulla spiaggia.
Il palco sembrava leggermente traballante a causa del terreno poco solido, ma Capitol City non avrebbe mai permesso che una cosa solenne come quella si trasformasse in una burla.
Il Sindaco e i Mentori erano seduti su delle sedie, sul palco. Non erano molti, i Vincitori sopravvissuti, negli ultimi cinquanta anni gli eroi del Distretto 4 erano scarseggiati, e fra quelli ancora vivi, non colpiti da malattia o non ancora raggiunti dalla vecchiaia, si contavano una ragazze e tre ragazzi. Una magra annata, sicuramente.
La maggior parte dei ragazzi era arrivata ed era già schierata, in piedi, in attesa dell'estrazione. C'erano pochi ritardatari, come lei, che si affrettavano per raggiungere i banchi di registrazione.
Le due bocce di vetro sembravano fissarla ridendo, mentre lei si disponeva assieme alle altre ragazze, ignorando quel piccolo vuoto che le si formò intorno. Era normale.
Lei e sua madre avevano la lebbra, no?
C'era silenzio, come al solito. I ragazzi persi nei loro pensieri e nelle loro preghiere, i genitori altrettanto infervorati dalla speranza che non toccasse al loro figlio, o magari accesi dal desiderio che fosse proprio il sangue del loro sangue ad essere estratto, per dare gloria alla loro famiglia.
Chissà se Elisha era tra la folla di adulti. Probabilmente no, dopo le parole che le aveva rivolto. Non sapeva se essere triste all'idea di essere sola per l'ennesima volta o soddisfatta che il suo colpo fosse andato a segno. Probabilmente tutte e due.
Farika salì sul palco, sorridente e allegra come sempre. Lenore si era sempre chiesta se i Presentatori fossero fatti con lo stampino. Tutta quell'ostentata ipocrisia, quella desolante allegria quasi grottesca...
La ragazza raggiunse il microfono, con la sua pelle azzurra cosparsa di brillantini dorati, il vestito bianco come schiuma marina, i capelli castani accesi dal sole e da sfumature più chiare non di certo naturali, l'età non identificabile sotto tutti quegli strati di chirurgia. Erano dieci anni che era la Presentatrice del Distretto 4 ed era ancora identica alla prima volta.
“Felici Hunger games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore”
Ormai tutti i presenti sarebbero stati in grado di ripetere il discorso con le esatte parole che Farika avrebbe pronunciato. Prima la formula di rito, poi il filmino di Capitol City, poi le solite cavolate dette giusto per mantenere le apparenze. E poi il sorteggio.
“Come tutti sapete questo è il Centesimo anno di Hunger Games, la nostra Quarta Edizione della Memoria. E la busta che il nostro amato Presidente ha estratto ci ha rivelato che quest'anno le Arene saranno due, e che perciò ogni Distretto dovrà estrarre quattro Tributi. Non la trovate un'idea meravigliosa?”
Quel commento avrebbe potuto o meglio, dovuto, risparmiarselo, e la donna lo capì dagli sguardi che l'intero pubblico le rivolse, ammutolì, si schiarì la voce e si avvicinò alle sfere di vetro che contenevano i bigliettini con i nomi.
Lenore aveva avuto bisogno di tessere supplementari solo poche volte, perciò il numero di possibilità di essere estratta erano dieci su... su quanti, nemmeno lo sapeva. La cosa la rassicurava.
“Prima le signore...”
Declamò immergendo la mano fra quel turbinio di pezzetti di carta.
“Rosemary Carlton.”
Lenore respirò lentamente osservando la ragazza bionda raggiungere il palco e salire le scale con espressione fiera, anche se sotto quella maschera si leggeva a chiare lettere il terrore.
Assomigliava troppo ad Elisha, quella Rosemary, e la ragazza si ritrovò a pensare che se fosse stata un Tributo nell'Arena della ragazza le sarebbe quasi piaciuto, ucciderla.
“E poi... Lenore Reeds”
Lenore...
Lenore Reeds...
Era lei?
Spazzerò quando torno.
Smettila, mamma! Smettila di dare per scontato che mi estrarranno.
Nell'Arena non ci sarebbe finita.

Vide i visi che si voltarono verso di lei, mentre avanzava verso il palco. Sentì i sussurri quando la riconobbero, lesse il disgusto nel volto di Rosemary, incontrò gli occhi pieni di orrore della madre.
Era lì.
Aveva avuto ragione.
L'avevano estratta.
E il fatto che fosse successo veramente gliela fece odiare ancora di più.
Il viso di Farika le fece venire una strana voglia di vomitare, ma rimase ferma, impassibile, a differenza della bionda che continuava a sorridere, sorniona, finta.
“Bene... passiamo ai maschietti.”
I visi femminili, giù nel pubblico erano rilassati, si abbracciavano, loro, che l'avevano scampata. Lenore odiò anche quelle ragazze che erano colpevoli, perché sarebbero tornate a casa, perché avrebbero dormito nel loro letto, perché sarebbero rimaste vive.
“Brett Hank.”
“Dave Sharp.”
I due ragazzi le raggiunsero sul palco, calmi, sembravano sicuramente più veri della bionda. Tutti e due coi capelli castani schiariti dal sole, la pelle abbronzata, gli occhi scuri. Si assomigliavano, anche se uno sembrava decisamente troppo contento di essere al centro dell'attenzione.
“Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore.”
Li condussero giù dal palco, senza fretta, lasciando che i sopravvissuti potessero compatirli e ammirarli con calma.
Salutarono il sindaco e i Mentori, tutti meno che lei, troppo presa dai suoi pensieri per riuscire a fare un gesto che non fosse camminare o pensare... o respirare.
Stavano andando verso il Palazzo della Giustizia, lo sapeva.
Ripensò a quelle impronte sulla sabbia, quelle che aveva marcato con forza.
Chissà se il vento le avrebbe cancellate.
Avrebbe cancellato lei, questo era certo.
Magari qualcosa sarebbe sopravvissuto a testimoniare che lei c'era stata. Anche solo quelle orme.
“Mamma mia che faccia... va tutto bene?”
Uno dei due Tributi l'aveva fermata. Brett? Dave? Non lo sapeva.
Non ebbe nemmeno la presenza di spirito per meravigliarsi che qualcuno la toccasse e le rivolgesse la parola di sua spontanea volontà.
“No... non va per niente bene.”
Il vento era tornato a soffiare, prepotente.
Le orme, lì nella sua amata spiaggia, vennero spazzate via.




Clalla97 commenta:
Ok, lo ammetto... questo capitolo è mio. Purtroppo. Quando lo scrivevo mi venivano in mente centomila cose da dire nelle mie note e ora... ora... vuoto totale.
Stavolta il lancio dei pomodori me lo prendo io, vero?
Beh, Lenore mi piace come personaggio, silenziosa, una di quelle che soffre in silenzio, che dice cento cose senza dire nulla.
Quindi vedremo cosa combinerà nell'Arena... non so voi ma io mi sento male solo a pensarci, considerato che sarò io a doverle scrivere. Speriamo non finisca male come tutti i miei personaggi, per una buona volta.
Bene, vi lascio alle lettura... e beh... siate buoni, io e i pomodori abbiamo un cattivo rapporto
Clara
  
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