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Autore: cerconicknamesugoogle    18/08/2012    4 recensioni
Se Katniss fosse stata una ragazza come tutte le altre? Un semplice tributo sopravvissuto alla furia di Capitol City? Se non ci fosse stata nessuna rivolta? Se i Distretti avesser continuato ad abbassare la testa davanti al potere costituito?
Siamo alla Centesima edizione degli Hunger Games, la quarta edizione della Memoria. I giochi saranno diversi.
Due Tributi. Distretti diversi, famiglie diverse, ferite e cicatrici diverse. Due destini separati, se credete nel destino. Due destini che sono destinati ad intrecciarsi, per la gioia degli spettatori.
Questa volta ci sarà un solo vincitore per gli Hunger Games.
Che i Giochi abbiano inizio? Tenete gli occhi incolati sullo schermo, ci sarà da divertirsi.
*Fanfiction scritta a quattro mani da Wania97 e Clalla97, per la gioia di chi ama i loro scleri, cioè nessuno ù-ù Un personaggio a testa, uno per uno non fa male a nessuno.*
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Pezzi di vetro

Non voglio offrire il corpo nudo,
senza riparo, ai chiodi che volano
per l'aria smaniosi di conficcarsi.
(G. Ceronetti, Un viaggio in Italia)


Lenore era distesa su quel divano da ore, ormai, lo sguardo fisso sul finestrino, sul paesaggio che sfrecciava davanti ai suoi occhi, mutevole, incerto, sfocato. Lo detestava, con tutte le sue forze. Perché ogni secondo che passava la portava più vicina alla propria morte. Ci stava correndo incontro e quello scorrere frenetico di fotogrammi non faceva che aumentare la sua angosciosa sensazione.
Qualcuno le passava davanti, di tanto intanto: Farika, uno dei Mentori, uno dei Tributi... Le oscuravano la vista per un istante, e per un decimo di secondo lei aveva la possibilità di fingere che quel maledetto treno fosse fermo, che la sua corsa verso la fine fosse sospesa. 
Illusa. 
Tornare ad osservare l'esterno diventava ogni volta più doloroso, eppure non smetteva di fissarlo.
Masochista.
Gli sguardi che le rivolgevano sembravano vedere la sua paura e sembravano prendersene gioco. Non poteva permetterlo, ecco perché la stava seppellendo sempre più giù.
Stoica... magari.
Era ora di cena, così le aveva detto Dave. Ormai li riconosceva: Dave era quello silenzioso, calmo, dall'espressione indecifrabile, quello che era finito nell'altra Arena, ringraziando il cielo; Brett era quello sicuro, forse troppo... desideroso di essere al centro dell'attenzione, con un sorriso palesemente finto sempre stampato sulla faccia, quello che avrebbe rappresentato una ben scarna minaccia, durante i giochi, anche cercando di essere il più generosi e paranoici possibile.
Era ora di cena, ma lei non aveva fame, perciò era rimasta lì, senza schiodarsi da quella conca che si era formata sui cuscini del divano e che aveva la sua forma, ascoltando le allegre conversazioni che provenivano dalla tavola, la voce musicale di Rosemary, i petulanti commenti di Farika, le penose battute di Brett...
Avrebbe tanto voluto riuscire a fingere come loro, autoconvincersi che fosse tutto a posto, sorridere. Ma non ce la faceva.
Debole.
Le faceva male la testa. Da quando aveva varcato la soglia del vagone del treno, il suo cervello si era accesso di una concentrazione ossessiva per ogni singolo particolare: da come la moquette era segnata dai loro passi, da come la tovaglia si arricciava in maniera strana in quell'angolo, fino al modo in cui i pannelli di legno di cui erano rivestite le pareti riflettevano la luce del lampadario che penzolava dal soffitto e dondolava lievemente. Era una cosa spossante.
Anche i Mentori avevano subito il suo esame. Nella sua mente erano stati dissezionati, i pezzi posizionati ordinatamente su un tavolo lucido con precisione chirurgica, per poi essere rimontati e riportati alla vita normale, la loro cartella clinica bene impressa nella sua memoria.
C'era Leanna, con i suoi vaporosi capelli color caramello e i suoi freddi occhi nocciola che bruciavano tutto ciò che incontravano, che aveva preso sotto la sua ala protettiva la bella Rosemary, che camminava sempre radente alle pareti, come se in quel modo fosse meno facile essere colta di sorpresa, che trasaliva al minimo cenno di rumore improvviso. Era abbastanza giovane, trentacinque anni compiuti da poco, e sembrava che i Giochi fossero una ferita ancora aperta nel suo corpo. Aveva sempre la risposta pronta, acida, tagliente, e questo faceva di lei una donna forte e rispettata, ma soprattutto ascoltata. Una donna che sapeva portare i pantaloni.
C'era Walt, un uomo sui quarantacinque, con i capelli biondo grano e una barba di un tono più scuro che era abituato a torturare con le dita, quasi fosse un tic nervoso di cui non riusciva a liberarsi. Sembrava aver scritto la parola “pescatore” in fronte e Lenore sapeva che era così: lo aveva visto spesso al porto, a scaricare cassette piene di pesce, con un sorriso soddisfatto a tagliare in due quella folta fascia barbuta, i muscoli che si gonfiavano sotto il grave peso. Evidentemente l'uomo aveva trovato nel suo lavoro l'unico modo per resistere agli incubi della notte. La ragazza non lo biasimava. Era buono, Walt, sotto quella ruvida corazza e aveva una risata che ti faceva sorridere anche se non ne avevi intenzione. Le sue mani callose avevano già tirato parecchi colpi, seppur delicati, alla nuca di Brett, visto che aveva preso come sfida personale il compito di mitigarne il carattere troppo esibizionista.
C'era Stan, Stanley in realtà, con i suoi settant'anni suonati, ma ancora vispo come una cavalletta, con le articolazioni più sottili che avesse mai visto, la pelle macchiata dal tempo, una pelata nella quale avrebbe potuto specchiarsi e lo sguardo ancora acceso di vita e furbizia, nonostante tutti gli orrori visti, tutti gli anni passati e tutto il dolore che le ossa indebolite e i reumatismi dovevano provocargli. Settant'anni e mai un raffreddore, un'influenza o un'infezione per la ferita con un vecchio amo arrugginito. Aveva un umorismo di quelli che lo portava a dire la frase più impensabile con tutta la naturalezza che possedeva, lasciando passare un paio di secondi di attonito silenzio che venivano poi rimpiazzati dalle risa più sfrenate. Era una brava persona, Stan, i suoi occhi appannati dalla cataratta non riuscivano a nascondere la limpidezza dello sguardo. Lui e Dave erano una bella coppia, così aveva pensato quando li aveva visti imboscati a confabulare mangiando una fetta di pane con la marmellata che aveva sporcato gli angoli delle loro bocche.
E poi non c'era mai Gregory. Ventotto anni. Sarebbe stato carino dire “Greg per gli amici”, ma lui di amici quasi sicuramente non ne aveva. Lenore non aveva avuto il tempo di analizzarlo, perché l'ultima volta che l'aveva visto era stato durante la Mietitura e in quel momento non sarebbe stata nemmeno in grado di trovare le proprie dita dei piedi, ma se lo ricordava. Eccome.
Gregory O'Berris era da dieci anni la prima persona su cui si posavano gli occhi di ogni singola persona che assisteva alla Mietitura. Se ne stava sempre lì, seduto, con gli lo sguardo impazzito che guizzava da una parte all'altra, i capelli scompigliati, talmente scuri da sembrare neri, che però si animavano di riflessi rossastri quando il sole li colpiva direttamente, le occhiaie pronunciate che testimoniavano le ore passate in bianco, la pelle pallidissima di chi non vedeva il sole da troppo tempo, un sorriso inquietante che aleggiava sempre velatamente sulle sue labbra. Era la persona più ossuta che Lenore avesse mai visto, le guance scavate, la schiena gobba sotto il peso della testa, le mani scheletriche, infagottato tra quei vestiti cadenti che lo facevano sembrare ancora più goffo di quanto già non fosse. Ogni tanto le sue spalle erano scosse da risate silenziose, senza la benché minima ragione apparente, ogni tanto dalle sue labbra uscivano sussurri di cui nessuno capiva il senso e ogni tanto si alzava dal suo posto di Mentore e se ne andava, solo il Cielo sapeva dove.
Era il classico esempio di come gli Hunger Games logorassero anche la mente, oltre che il corpo e di come nemmeno i Vincitori fossero al sicuro.
Gregory O'Berris era stato eletto Spauracchio del Distretto 4, da quando se n'era tornato a casa, Vincitore. Altro che il Taglialegna Assassino, il Lupo Nero, il Minatore Rabbioso... era lui il vero terrore dei bambini.
Se non mangi Gregory verrà a cercarti, ti taglierà la testa e si traccerà una linea col tuo sangue sul braccio, per tenere il conto delle vittime, come faceva nell'Arena. Mangia.
Non c'era una sola persona che non ubbidisse a quella minaccia. Era vero: il ragazzo faceva veramente così, per ricordarsi di quante persone aveva ucciso. Giravano voci che avesse ancora quei segni rossi sulle braccia, sotto le maniche lunghe delle maglie che portava sempre. Lenore non ci credeva.
Gregory O'Berris era, ovviamente, il suo Mentore, quasi gli altri avessero pensato che fra persone sole se la potessero intendere. Lenore non poteva far altro che provare simpatia per quel ragazzo, marchiato dai pregiudizi della gente, così come lo era lei. Ma non riusciva a non essere irritata di fronte al fatto che lui non si fosse ancora fatto vedere per parlarle anche solo un paio di minuti.
Ma da Gregory che ci si poteva aspettare?
Farika si era appena appostata davanti alla porta della sua camera, nel corridoio poco distante, con un vassoio di cibo in mano, bussando come un picchio ostinato che colpisce il tronco dell'albero sulla quale ha deciso che costruirà il nido, e si era lanciata in un dettagliato racconto della giornata. Se Lenore fosse stata nei panni del ragazzo avrebbe spalancato la porta e avrebbe colpito la donna con una scarpa, prima di tornare a farsi gli affari propri.
La Presentatrice alla fine aveva abbandonato il cibo davanti alla porta, rassegnata, ma non senza un ultimo tentativo.
“Gregory. Te lo dico per l'ultima volta. Esci da quella maledetta stanza e abbi la decenza di parlare con quella povera ragazza che ti è stata assegnata. Lenore non vede l'ora di poterti vedere. Non è vero, cara?” le urlò attraverso i muri che le separavano.
Le sopracciglia della interpellata schizzarono verso l'altro, mentre cercava una buona risposta che non suonasse troppo... scortese. Il silenzio fu l'unico risultato decente che ottenne.
“Lenore! Se non mi dai una mano tu sono finita! Digli che deve uscire di lì. Per favore.”
Il tono di Farika suonava così sconsolato che la ragazza non poté far altro che sospirare e cedere. Respirò a fondo e, dal basso della sua postazione sul divano, si lanciò in uno strano verso dal dubbio significato e da un Sì strascicato e stridulo che scatenarono l'ilarità dei presenti.
“Cielo, con che gente sono finita? Perché proprio a me?”
La donna rientrò con passo stanco nella sala, ma adocchiata Lenore si fermò di fronte al divano con le braccia saldamente piantate sui fianchi.
“Eh no, cara. Ne basta uno. Da quanto tempo sei ferma in quella posizione? Se credi di passare tutto il viaggio distesa lì, ti sbagli di grosso. Anche a costo di farti sollevare da Walt.”
La voce aveva una forte sfumatura materna, qualcosa che Lenore non sentiva da tanto tempo. Qualcosa che le era mancato. Qualcosa che in quel momento detestò con tutta se stessa, senza averne un vero motivo, forse perché proveniva dalla persona sbagliata. Per quando potesse odiare Elisha, Farika non era sua madre e il fatto che si comportasse come tale la infastidiva. Perciò la ignorò, perché di certo non sarebbe stato carino risponderle come faceva a casa. In quel posto non ne aveva il diritto.
“Mi sta ignorando! Guardatela, mi ignora! Aiutatemi voi!”
Quella volta la preghiera era rivolta ai Mentori e ai Tributi che, ancora seduti a tavola, continuavano a ridere sotto i baffi.
“Cosa ne dici di andare da Gregory e chiedergli di darti una mano dicendo a Lenore che deve schiodarsi di lì perché lui non vede l'ora di vederla?”
Persino Lenore provò la strana voglia di ridere alla frase di Walt e ancora di più dopo aver assistito al suono esasperato e alla teatrale uscita di scena con tanto di “Povera me!” della donna.
“Però Farika ha ragione. Non puoi stare su quel divano per tutto il tempo che rimane. Non ti fa bene.”
“Sì, ti farà male la schiena, non appena tenterai di alzarti.” le parole di Rosemary la sorpresero, quasi quanto quelle che aveva pronunciato appena prima Stan, per quanto il tono della ragazza fosse altero e fastidioso alle sue orecchie.
“Dovresti venire a mangiare qualcosa.” Dave?
“Già... non voglio una compagna pelle e ossa nell'Arena!” Persino Brett, ci si metteva...
Leanna sbuffò sonoramente. “Per quanto Hank, qui, sia stato indelicato, ha ragione.”
“Certo che ho ragione.”
Lenore sentì una sedia che si spostava e qualcuno che si avvicinava al suo divano, accucciandosi di fronte a lei, intravide i capelli biondi e un braccio muscoloso che si avvicinava al suo viso e decise di serrare gli occhi.
La mano di Walt le accarezzo i capelli, scompigliandoglieli.
“Lo so, piccola. È dura. Ma arrenderti così non migliorerà le cose. Fidati di me. Ci sono passato.”
La ragazza decise di fissare l'uomo e di inchiodarlo con le sue iridi color ghiaccio. Non l'aveva mai guardata negli occhi, Walt, vero? Cosa si aspettava? Una bambina impaurita, sperduta, una creatura debole e fragile da aiutare perché non crollasse al primo assalto? Forse, ma di certo non fu quello che vide. Quello di Lenore era lo sguardo duro di chi ormai non si cura più delle ferite, che spazza via il sangue con noncuranza, che ferisce senza più provare rimorso. Era lo sguardo di chi sa già come si dovrà comportare. Di chi non ha paura. O meglio, di chi paura ne ha, tanta, ma riesce a far finta di non averne. Di chi si mostra forte senza esserlo, ma che inganna tutti.
Walt si ritrasse, scottato da quel ghiaccio. Aveva capito.
“Io non vi ho chiesto niente.”
Anche le parole furono di ghiaccio, così come il silenzio che le seguì. Avevano capito tutti, si sperava.
“È tardi, dovremmo andare a letto. Cerca di non esagerare nemmeno tu, Lenore.”
Se ne uscirono uno a uno, lasciandola sola. Per l'ennesima volta. Anche se era solo colpa sua.
Le facevano paura, tutti quanti, perché stavano riuscendo a farle sentire cosa voleva dire avere qualcuno che si preoccupasse per lei, qualcuno che glielo dimostrasse palesemente, qualcuno che volesse aiutarla senza chiedere nulla in cambio, nemmeno gratitudine.
Era stata convinta, da quando il suo nome era stato pronunciato ad alta voce, che l'unico suo vero vantaggio sarebbe stato il non avere niente da perdere.
Le persone che non avevano niente da perdere erano le più pericolose, sempre.
E ora qualcuno le stava togliendo anche quell'unico vantaggio.
Non lo avrebbe permesso.
Darren.
Quel nome abbatté il muro dietro alla quale lo aveva richiuso e inondò la sua mente. Rivide la faccia del ragazzo identica alla propria, sentì nuovamente il suo nome rimbombarle nelle orecchie. Lo detestò un'altra volta, perché era l'ennesima cosa destinata a diventare debolezza. Già lo sapeva.
Debole.
Era riuscita a combattere quella maledetta fragilità per tutta la vita, doveva perdere la guerra proprio in quel momento?
Fragile vuol dire morta.
Sei morta, Lenore.
Fai qualcosa. Inventati qualcosa.
Non puoi spezzarti.


Un colpo secco, una imprecazione sputata a mezza voce.
Lenore si alzò a sedere di scatto, brutalmente strappata al sonno leggero in cui era sprofondata.
La coperta, rimboccata fino alle sue spalle, scivolò di lato, cadendo a terra. Non fece nemmeno in tempo a chiedersi chi gliel'avesse messa, la sua attenzione era totalmente incentrata su quella figura allampanata che era troppo impegnata a frugare in giro, per accorgersi di lei. Non ci impiegò molto a riconoscere il suo Mentore.
Gregory si voltò, interrompendosi a metà di un sorso appena accennato.
“Oh... a quanto pare non sono solo.” biascicò, quasi deluso dalla sua presenza.
“Già...”
“Sai... il succo d'arancia...” sembrava quasi a disagio.
Lenore alzò le mani, facendogli chiaramente intendere che quello che lui decideva di fare non la riguardava.
“Mi dispiace di averti svegliata, ma sai... solitamente la gente dorme su un letto, possibilmente in camera propria.”
“Beh... se vogliamo dirla tutta solitamente la gente dorme di notte e sta sveglia di giorno, non il contrario.”
Il sarcasmo nella voce di Lenore fece sogghignare il ragazzo che scrollò le spalle in segno di assenso.
“Forse hai ragione... tu devi essere Lenore, vero? Quella che è stata assegnata a me e che era ansiosissima di vedermi. O sbaglio?”
La ragazza aggrottò le sopracciglia, sorpresa.
“Sì... sono io.”
“Andiamo, ragazzina, non fare quella faccia sorpresa. Da quello che ho capito delle parole di Farika, Rosemary considererebbe un sonno sul divano terribilmente antiestetico.”
“Farika? Mi vuoi dire che la ascolti sul serio?”
Gregory si lanciò in una risata che salì lungo la spina dorsale di Lenore, facendole venire voglia di rabbrividire.
“Sì... Farika... grande donna. Sottovalutata.”
Lo sbigottimento della ragazza fu palese e le impietrì il volto. Il Mentore annuì, sorridendo.
“Sì lo so, la pensavo come te. Frivola, petulante, fastidiosa. Ed è così, sul serio. Eppure è stata una delle poche persone che mi sono state vicine dopo la Vittoria. Dopo che sono diventato... strano, come dice la gente. Viene a trovarmi ogni volta che può e una porta chiusa non la ferma. Per quanto sia insopportabile ci tiene veramente. È questo il suo difetto: si affeziona troppo a noi Tributi e poi quando moriamo ci sta male. Per mesi. Eppure ogni volta è pronta a ricadere nello stesso sbaglio. Credimi, non tutti i Presentatori sono come lei.”
Lenore rimase qualche istante in silenzio, riflettendo su quelle parole.
“Bene, Lenore... se non l'hai capito io sono...”
“Sì, sei Gregory. Il Tributo Pazzo del 4. L'uomo nero dei piccoli pescatori in erba.”
Il ragazzo rimase a fissarla sorpreso, passandosi una mano fra i capelli scompigliati.
“L'uomo nero, eh? Questa me l'ero persa. A quanto pare sono diventato famoso.”
“Hai idea di quante infanzie hai traumatizzato?” chiese Lenore divertita.
“Tante?” la sua voce suonava quasi speranzosa.
“Sicuramente.”
“Posso dire di essere realizzato, allora.”
La ragazza scoppiò a ridere, soffocando i singulti con il palmo della mano, mentre il Mentore era scosso da un tremito silenzioso.
“Voglio essere chiaro con te, Lenore. Mi piaci. Io non ho mai addestrato un Tributo in vita mia. Non ho mai contrattato con Sponsor e cazzate varie. Non posso fare niente, per te. Mi dispiace.”
“Lo so.”
“E allora perché non chiedi a Walt di darti una mano?”
“No. Tu vai benissimo.”
“Ma hai sentito quello che ho detto?”
“Certo. Ma il punto è che a me non fa differenza che tu possa o no salvarmi. Non voglio un Mentore che riveda in me sua figlia, che tenti di proteggermi, che mi dia consigli su come scampare le lotte. Non mi serve a nulla. Io voglio un Mentore che sia chiaro, che si limiti a dirmi la verità così com'è, che non abbia paura di rompermi a parole. Non sono di vetro.”
Gregory la fissava in silenzio, soppesandola con il suo sguardo di onice.
“Va bene. Ma prima rispondi ad una domanda. Sinceramente. Cosa pensi di me? Da quello che hai visto, dalle voci che hai sentito...”
Lenore fissò le proprie dita lunghe e sottili, mentre rispondeva, cauta.
“Penso che siamo uguali.”
“E cosa ti fa avere la presunzione per dire una cosa simile?” la mascella del ragazzo era tesa. Lenore sapeva di aver fatto un passo falso, ma le aveva chiesto sincerità e lei gliel'aveva data.
“A forza di scontrarci con i giudizi della gente abbiamo deciso che la solitudine era migliore. Ci hanno marchiati, contro la nostra volontà. Ci siamo adeguati, non potevamo fare altro. È più facile, fa meno male. È l'unico modo in cui possiamo sopravvivere.”
Non vivere, sopravvivere. Forse era stata proprio quella scelta di termini ad ammorbidire l'espressione del Mentore, che annuì in silenzio. Sì, erano uguali.
“Va bene. Cosa ne dici se ci guardiamo di nuovo la Mietitura, questa volta sul serio? Ci scommetto tutti i miei vestiti che non hai prestato la minima attenzione.”
“Allora comincia a spogliarti, Gregory. Ricordo tutti i loro nomi a memoria, anche di quelli che non sono nella mia stessa Arena.”
Il ragazzo sorrise.
“Ripeto, non hai prestato la minima attenzione.”
Lenore lo fissò, un'ombra di confusione perfettamente visibile anche alla luce fioca della luna.
“È inutile che tu conosca i loro nomi se non conosci le loro potenzialità, le loro abitudini, i loro punti deboli, le armi con cui combattono più volentieri. Non hai molto tempo. E il fatto che un Tributo non sia nella tua stessa Arena non vuol dire che tu non debba conoscerlo meglio di te stessa.”
“Mi stai prendendo in giro?”
“Per niente.”
“E come dovrei riuscire a capire l'arma preferita di una persona da una semplice Mietitura?”
“Puoi supporlo.”
Gregory fece partire la registrazione.
Lenore si era messa comoda, aspettandosi di doversi sorbire per la seconda volta quei quaranta minuti di scena trita e ritrita, ma al primo nome estratto, non appena la ragazza del1'Uno salì sul palco e pronunciò il suo nome, il ragazzo stoppò il video e lo fece ripartire, salvo poi puntare l'attenzione su un fermo immagine.
“Rowena Dallis, 17 anni, Distretto 1. Non è una volontaria. Ma è stata addestrata.”
La ragazza sbuffò divertita.
“Fino a qui ci arrivavo anche io.”
“Concentrati, Lenore. Vedi come mantiene lo sguardo sulla faccia della Presentatrice? Come tiene fisso un punto nel vuoto? Non è una che si fa distrarre facilmente, quella. Ha chiaro l'obiettivo. È meno scontato di quello che pensi. Credimi, quando avrà puntato la preda non la mollerà fino a quando non sarà stesa ai suoi piedi. Fai in modo di non essere quella preda.”
“Capito.” la voce della ragazza suonava esitante di fronte a quella precisione inattesa.
“Vediamo un po'... cosa mi dici tu, di lei?”
“Che sono fregata! Quella è con me. Saranno cazzi. Ed è solo la prima.”
Il suo Mentore si passò una mano sugli occhi, a metà fra l'esasperato e il divertito.
“Sii seria, per favore. Fissale le mani.” la esortò facendo ripartire il video.
“Pessima manicure. Unghie sbeccate e mani screpolate. Vuol dire che è più interessata a fare fuori la gente che alla sua cura personale. Non è un buon segno. Decisamente.”
Gregory scoppiò a ridere per l'ennesima volta.
“Sì beh... lettura interessante. Ma non era quello che volevo farti notare. Vedi il modo nervoso in cui muove il polso? Sono gesti secchi e rapidi, ma sono controllati, anche troppo per un semplice tic.”
“Maneggia la frusta.”
“Quasi sicuramente. Impari in fretta. Le sue braccia sono troppo poco muscolose per il tiro con l'arco o per la spada, quindi il massimo che ti puoi aspettare sono i coltelli. Ovviamente stiamo parlando in linea teorica, tienine conto.”
Ripeterono lo stesso rituale per ogni singolo Tributo, compresi quelli del Quattro. Lenore aspettava con nervosismo il momento in cui Gregory avrebbe stoppato il video osservando attonito la sua copia sputata fissa sullo schermo, ma non successe. Il suo Mentore dedicò a Darren esattamente la stessa dose di attenzione che aveva riservato agli altri. Lenore fu costretta ad osservare il proprio sosia in modo estremamente analitico, a prenderne le distanze, cosa che apprezzò enormemente, a considerare oggettivamente tutti i suoi punti di forza e i suoi punti deboli.
“Solleva pesi e deve avere dei gran bei pettorali, oltre che ai bicipiti.” aveva commentato distrattamente, fissando lo schermo concentrata.
“Cosa te lo fa pensare?” la voce di Gregory suonava curiosa, più che divertita.
“La camicia è della sua taglia, ma il bottone all'altezza dello sterno tira. Ha i pettorali.”
“Ho creato un mostro.” commentò il Mentore facendo scorrere il filmato fino al Tributo successivo.
Quando spensero il video il sole stava quasi per sorgere, schiarendo l'aria fredda del mattino.
“E con questo abbiamo finito.” il ragazzo si stiracchiò sul divano, allungando le lunghe gambe ossute, strisciando i piedi sulla moquette. Il suono che uscì dalla sua bocca assomigliò vagamente alle fusa di un gatto. “Era da un sacco di tempo che non facevo tutta questa fatica.”
Lenore era distesa più o meno in una posizione simile, ma occupava nemmeno la metà dello spazio.
“Farika direbbe che ti fa bene, ogni tanto...”
“Avrebbe ragione. Piuttosto... hai niente da dirmi?”
La ragazza si strinse nelle spalle.
“Di cosa stai parlando, esattamente?”
“Mah... sai... quel piccolo particolare... nella fattispecie Distretto Dieci, muscoloso, pettorali, che guarda il caso ti assomiglia in maniera impressionante?”
“Ah, Darren.”
“Esattamente. Lui.”
Lenore storse la bocca, incerta.
“Non so nemmeno io cosa dirti. Non l'ho mai visto in vita mia. Anche se probabilmente c'entra qualcosa mio padre. O forse, più probabilmente, è una pura coincidenza.”
“Tuo padre?”
“La seconda ipotesi non l'hai nemmeno sentita, vero? Mio padre, sì... argomento che non mi piace toccare. Era un bastardo. Cioè... la bastarda di fatto sono io, se proprio vogliamo essere precisi. Ma il mio voleva essere un insulto.”
“Ah, ho capito. Discorso scottante, in cui non mi devo impicciare. Fai finta che non ti abbia chiesto niente.”
Gregory rimboccò le maniche della maglia, portando le braccia dietro la nuca, rivelando la pelle pallida e perfettamente pulita. Lenore sorrise.
“Che hai?” le chiese lui, fissandola.
“Avevo ragione io. Era una bugia.”
“Che cosa?”
“Non hai i segni rossi di sangue sulle braccia. Al Distretto si diceva che tu li conservassi ancora. Non ci ho mai creduto.”
Il ragazzo sorrise, osservandosi gli avambracci.
“Quelle tacche... sono state una grande trovata, non è vero?”
“Una trovata? Vuol dire che non le hai tracciate perché eri completamente fuori di testa?”
“Beh, qualcuno pensa che io sia veramente fuori di testa...”
“E ha ragione.”
Gregory alzò gli occhi al cielo.
“Forse. Ma sì... quei segni erano una decisione ben calcolata.”
Lenore rimase perplessa da quella rivelazione.
“Perché mai avresti dovuto fare una cosa così macabra?”
“Hai mai sentito dire che la qualità più utile negli Hunger Games è la furbizia?”
La ragazza sbuffò, annuendo.
“Centinaia di migliaia di volte.”
“Beh, hanno ragione.”
“Oh, andiamo, non ti ci mettere anche tu, Gregory. La furbizia non ti salva da una lama puntata al tuo collo.”
“Lo so, ma una lama non ti salva da un piano furbo ben congegnato.”
“E allora qual è la cosa migliore?”
Il ragazzo gettò la testa all'indietro, probabilmente cercando di distogliere lo sguardo da dei ricordi da cui invece non poteva fuggire.
“Io ho fatto credere alla gente a casa di essere forte. Non abbastanza da vincere, ma abbastanza da poterli far divertire. Poi ho fatto credere agli altri Tributi di essere pazzo, talmente tanto da aver perso totalmente la lucidità, talmente tanto da non costituire un pericolo troppo grosso. E poi li ho fatti fuori, uno ad uno. È questa la strategia vincente: convincere tutti di qualcosa che ti fa comodo e tirare le fila dall'alto, manovrando tutti per raggiungere il tuo scopo. Almeno, per me è stato così.”
Lenore rimase affascinata dalla logica del suo Mentore e si scoprì ad annuire.
“Mi dispiace... non deve essere stato facile, vero?”
“Non lo è mai, Lenore. Per nessuno.”
“Hai ragione... ma... grazie. Sul serio. Per fortuna che non potevi fare nulla per aiutarmi! Ho imparato più in queste ore con te che in anni di Allenamento da autodidatta. Sei tu il mostro!” la ragazza gli sorrise.
“Me l'hanno detto in tanti. Ma non era un complimento.” un sospiro sfuggì dalle labbra del ragazzo.
“Non ti ci mettere, Gregory. Non è il momento per fare il ragazzo depresso. Hai avuto dieci anni.”
Il Mentore voltò la testa di scatto per piantare lo sguardo su di lei, sbigottito. Lenore sostenne quegli occhi scuri, con il mento alto. La gente come Gregory, come lei, a volte aveva solo bisogno di una spintarella.
“Hai ragione. Ma mi sa che sono io a doverti ringraziare. Per la prima volta da dieci anni ho la vaga voglia di fare qualcosa che non sia addestrare i ragni che fanno la tela sopra al mio letto.”
“La gente griderà al miracolo.”
“Puoi dirlo forte.”
La bocca di Lenore si spalancò in un sonoro sbadiglio.
“Mmm... credo che la bambina abbia bisogno di fare un po' di nanne.”
“Sono d'accordo con te. Ma il mio Mentore seviziatore mi ha tenuta sveglia fino ad ora.”
“Che persona crudele. Beh... vedila così. I veri Eroi nascono da queste.” asserì allungando una mano per toccare con i polpastrelli scarni le occhiaie che coronavano gli occhi della ragazza.
“Allora sono sulla buona strada.”
“Certo, come no. Ti conviene andare a dormire, per quel poco tempo che rimane. Domani sarà la giornata peggiore. Almeno credo.”
“Oh... la Sfilata.” gemette Lenore alzandosi dal divano e barcollando verso il corridoio.
“Sì, avevo ragione. Povera piccola.”
La ragazza stava per lasciarlo quando la sua voce la richiamò indietro.
“Lenore?”
“Sì?”
“Hai buone possibilità, lo sai?”
“Non credo. Ma lo apprezzo.”
“Io ne sono uscito vivo. Ce la farai anche tu. In fondo noi siamo uguali. Fidati di me, Len.”
Len. Nessuno l'aveva mai chiamata così.
La ragazza sorrise, guardandolo, disteso sul divano come lo era stata lei fino a quella sera, a riguardare per la centesima volta la Mietitura, i piedi che penzolavano nel vuoto, le mani che tamburellavano sul tessuto azzurrino.
Sì, erano uguali.

Lenore continuava a fare avanti e indietro lungo lo stesso pezzo di stanza, torcendosi le mani ed evitando accuratamente di guardarsi allo specchio.
Erano arrivati a Capitol City quella mattina e, dopo aver superato lo shock per un Gregory seduto a tavola che beveva la sua tazza di tè con le mani che tremavano visibilmente, erano stati attirati ai finestrini dalle urla di una folla in visibilio per il loro arrivo.
Lenore vi aveva dato solo un'occhiata distratta e disgustata, prima di sedersi a tavola con il suo Mentore. Odiava Capitol, così caotica, piena di colori che ferivano gli occhi, piena di rumori molesti, di gente pronta a fissare il suo sguardo su di lei. Odiava ogni singola cima di grattacielo che tentava inutilmente di andare a toccare le stelle, odiava ogni fontana zampillante che voleva solo imitare il suo mare, odiava ogni singolo granello di polvere che fluttuava in un'aria che sembrava tentare di soffocarla.
E dalla padella si era trovata nella brace, lasciata nelle mani di tre Preparatori che l'avevano rivoltata come un calzino. Le avevano strappato ogni pelo che era passato loro per le mani, compresi quelli, totalmente inesistenti a suo avviso, nel naso e nelle orecchie.
C'era stata una tizia, dai vaporosi capelli rosa zucchero filato e ogni centimetro di pelle nuda ricoperta di tatuaggi color ciclamino, che si era accanita contro i suoi capelli ribelli. Lenore aveva sperato con tutta se stessa che rimanessero di quel colore, di quella lunghezza e di quel volume, ma a guardare l'acconciatura che sfoggiava Darla, quella nuvola che assomigliava pericolosamente a un coniglietto peloso, le era preso il panico.
C'era stata Jenae, una ragazza dai capelli verdi, gli occhi a mandorla, le orecchie a punta e le ciglia che assomigliavano in modo inquietante a dei lunghi fili d'erba. Aveva spalmato litri di crema profumata sulla sua pelle arrossata e poi si era dedicata minuziosamente alla sua manicure, quasi le sue unghie fossero copie in miniatura di costosissimi quadri.
C'era stato Rastus, un uomo con la testa completamente rasata, a parte un'alta cresta rosso fuoco, e la rima interna degli occhi della stessa tinta dei capelli, tanto che sembrava stesse sanguinando. Si era dedicato al suo viso e quando aveva finito Lenore si era convinta di non avere più addosso la sua faccia, tanto la sentiva impasticciata. Ma almeno era stato carino e aveva chiacchierato a vanvera, pur di allentare la tensione che riempiva completamente la stanza.
E poi, ultima ma non per importanza, c'era stata Sybil, la sua Stilista. La prima parola che le era venuta in mente fissandola era stato “Viola”. E come poteva essere altrimenti quando quella donna lo era quasi totalmente? Mancava solo la pelle. Lilla, malva... qualsiasi tinta potesse essere ricondotta nella scala cromatica era stata impiegata. L'unico stacco di colore erano dei pansè gialli intrecciati in alcune ciocche di capelli melanzana. Lenore si era chiesta se la lasciassero entrare in teatro o se per quelle serate cambiasse eccezionalmente colore.
Non aveva avuto il tempo di domandarlo perché l'avevano malamente infilata nel suo vestito e l'avevano lasciata sola nella stanza, dopo essersi beati del loro capolavoro.
E così Lenore si era trovata faccia a faccia con lo specchio, posando le dita sul vetro freddo, chiedendosi se quella che la fissava fosse veramente lei.
I capelli lisci, lucidi e cosparsi di glitter erano legati in una coda alta che le metteva in risalto il collo magro e il viso ovale, ma non potevano essere i suoi, sempre in disordine e arruffati.
Non si era mai truccata in tutta la sua vita. Ma ora che l'aveva fatto la sua faccia sarebbe mai tornata quella di prima, con quelle piccole imperfezioni che la rassicuravano? O sarebbe rimasta per sempre così innaturalmente uniforme? Gli occhi sembravano troppo grandi sotto quel trucco iridescente, le labbra erano troppo lucide, le guance troppo... magre? Come erano riusciti a far sembrare magra le sue guance, che erano sempre state morbide?
Il suo corpo non era mai stato così in mostra, accentuato da quella calzamaglia dello stesso colore della sua pelle che la faceva sembrare nuda quando, grazie al Cielo, non lo era. Quella calzamaglia che sembrava essere decorata con squame di pesce che riflettevano la luce, intrecciandosi in disegni strategici. Ogni sua curva era esaltata, troppo.
Persino i suoi piedi, nudi, non sembravano più quelli di una volta, privi dei calli che le permettevano di camminare sui sassi appuntiti della scogliera.
Quella non era lei. Non poteva esserlo.
Non voleva esserlo.
Era un vestito che avrebbe potuto mettere sua madre e sembrare a suo agio, che avrebbe potuto mettere Rosemary e sembrare una sirena appena uscita dal mare. Ma non lei.
Non lei.
Le lacrime erano salite a pungerle i lati degli occhi ma non le avrebbe lasciate uscire. Erano anni che non piangeva, non avrebbe di certo ricominciato in quel momento.
Si era voltata con decisione, fuggendo l'immagine riflessa e si era messa a camminare per la stanza torturandosi le mani, in attesa che Gregory venisse a prenderla.
Quando la porta finalmente si aprì, Lenore provò l'impulso di saltargli addosso.
“Sei arrivato... finalmente.”
Il ragazzo la stava fissando, sorpreso.
“Siamo sicuri che io non abbia sbagliato stanza?”
“No, sono io.” non era proprio in vena di scherzare, ma il Mentore sembrava non avere intenzione di mollare l'osso.
“Beh, allora credo che potrei anche innamorarmi di te.” sorrideva, lui.
“Pedofilo. Così non mi aiuti!”
Gregory riuscì finalmente a leggere l'ansia nella voce della ragazza e la fissò preoccupato.
“Len, che ti prende?”
“Non voglio uscire così.”
“Ma sei bella...”
“Ma non sono io!”
Il suo Mentore sospirò avvicinandosi a lei.
“Ascoltami, Len... alla gente lì fuori non interessa che tu sia te stessa, interessa che tu sia bella...”
“Greg! Ti stai impantanando e non migliori le cose.”
“Fammi finire... a loro interessa solo questo.” asserì prendendole il mento fra le dita. “Il tuo aspetto. Ma se tu ci metti questo e questo... ” continuò toccandole il petto e la tempia “... vedrai che a loro non importerà più nulla del tuo bel visino. Tu fregatene. Funziona sempre.”
“Diamine, come sei melodrammatico!”
“Però era una frase d'effetto... Ora vai, e voglio vederti a testa alta. E Greg mi piace. Nessuno mi ha mai chiamato così.”
Lenore sorrise.
“Idem per Len.”
Si voltò, uscendo dalla stanza con passo deciso.
“Len?”
“Si?”
“Non sei di vetro. Non ti possono rompere così facilmente.”
“Lo so.”

Lo so...
Tutta la sua sicurezza svanì quando sentì il rumore della folla che urlava, fuori dallo stanzone in cui era entrata.
Che cosa stava facendo?
Una vita intera passata a girare per le strade con la testa bassa, senza alzare gli occhi, cercando di proteggersi dal mondo esterno e di limitare i danni al minimo.
Perché diavolo si stava mettendo in piedi su un carro, offrendo loro il suo corpo? Offrendo loro anche le pietre da tirarle addosso?
Non aveva nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo, le mani che tremavano visibilmente.
Non ce la poteva fare.
Non sei di vetro. Non ti possono rompere così facilmente.
Una vita di ferite. Le sapeva sopportare, oramai.
Lei era debole, certo, ma gli altri non lo sapevano.
Convincere gli altri di qualcosa che ti fa comodo e poi tirare le fila dall'alto.
Era così semplice...
Io sono forte.
Lenore alzò lo sguardo, determinata, sicura di sé. Pericolosa.
Prendete una pietra. Vedremo chi crollerà.
Io non sono di vetro.
Voi non avrete i miei pezzi.




Clalla97 commenta:
Allora... ho promesso alla mia cara Wania che non avrei mai detto che il mio capitolo era schifoso, quindi non posso dirlo. Ma a buon intenditore poche parole.
Comunque... alzi la mano chi adora Greg!! *Clara alza tutto quanto*
Mi sto innamorando di questi personaggi. Comunque, vi chiedo perdono per tutte queste descrizioni in questo capitolo. Credo sinceramente che non vedrete l'ora di leggere il prossimo capitolo su Darren che, diciamocelo sottovoce, è veramente bello ù-ù
Speriamo che vi piaccia, nonostante sia più lungo di tutta la Bibbia
Clara
  
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