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Autore: Erodiade    02/09/2012    5 recensioni
Voldemort ha vinto la guerra, ma cinque Horcrux sono andati distrutti; rimangono Nagini, il ragazzo e strade inesplorate. Le sue ricerche per sconfiggere la Morte si fondono col tentativo, da parte di Harry, di tenere in vita un’illusione dolceamara.
“Le Arti Oscure hanno il vantaggio di vendere al mago ciò che vuole, vedilo come uno scambio. Prendi un mago nobile e altruista, e ponilo di fronte alla scelta di salvare uno dei suoi cari o rimanere puro e incorrotto. Che cosa farà, a quel punto?”
[Mentor!Voldemort, Gray!Harry]
SOSPESA.
Genere: Dark, Horror, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Lucius Malfoy, Remus Lupin, Sorelle Black, Tom Riddle/Voldermort | Coppie: Harry/Voldemort
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Da Epilogo alternativo
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Ceneri fredde è una piccola long cupa su un ipotetico dopoguerra in cui i cattivi vincono, con protagonisti un Mentor!Voldemort (cioè un Voldemort ‘mentore’ di Potter) e una specie di Gray!Harry che, almeno inizialmente, è simile (non uguale) a quello dei libri. Lo slash è lento e piuttosto sottile, anzi, si parte da un Potter invaghito di Ginny e da un Riddle quasi asessuato, e fa da sfondo a problemi ben più grandi per entrambi, tra cui, principalmente, la ricerca della vita eterna e la perdita dell’innocenza *musichetta ispirata*.

Segnalo la presenza di lieve sadismo psicologico, pippe mentali, Arti Oscure nella loro accezione più pura (squartamenti, sangue, organi umani, riti sacrificali), humor nero e possibile Death Character. La sconsiglio a chiunque voglia una cosa spensierata, di facile lettura e a lieto fine. Scribacchiare è solo un hobby, ma sono una da darkfic e nel tempo libero shippo Nietzsche/Wagner. xP


 



Ceneri fredde,,


- I -


Tutto ciò che è fatto per amore è sempre al di là del bene e del male.

(Friedrich Nietzsche)



Una volta, Silente gli aveva detto che era inutile rifugiarsi nei sogni dimenticandosi di vivere.
A Silente serviva un Harry Potter impegnato a combattere Voldemort, non un ragazzino che si rinchiudesse nell’autocommiserazione, e di sicuro aveva avuto ragioni più che valide per ammonirlo – una guerra in corso e migliaia di vite umane comprese nel prezzo; rimaneva il fatto che meno pensava al vecchio mago, meglio si sentiva. Forse non contava nemmeno come consiglio, a quel punto, anche se era stato la persona più vicina ad un padre che avesse mai avuto a parte Sirius; o forse doveva piantarla di ascoltare Riddle quando parlava e limitarsi ad annuire senza memorizzare niente.
Comunque, Silente aveva ragione. L’illusione è una padrona gelosa: si nutre dell’anima, e lentamente la svuota di tutto fuorché di se stessa. Non esiste reale desiderio di ribellarlesi perché dona assuefazione, regala una sorta di pace superficiale dal sottofondo inquietante, come una colonna sonora stridente in un pomeriggio di sole.
E così, ci si guarda sbiadire – inconsapevolmente, perché guardare non è per forza vedere.
Lucius Malfoy compariva qualche volta nei corridoi del Manor, quando la sbornia glielo permetteva, eppure se ne andava in giro come se non sapesse dove si trovava, i capelli annodati e l’ombreggiatura della barba, le camicie di seta macchiate di vino.
Lui aveva smesso di aggrapparsi alle illusioni: aveva imparato a nutrirsi di rimpianti.
Si comportava come un estraneo nella propria dimora, lo spettro di se stesso; abbassava lo sguardo quando s’incrociavano per sbaglio nei corridoi deserti, mentre un tempo l’avrebbe scrutato dall’alto in basso, e sembrava solo capace di chinare il capo e di fuggire come un ratto davanti a Riddle.
Harry pensava che non riuscisse nemmeno a guardarsi allo specchio, e in alcuni, terribili momenti temeva addirittura di somigliargli: c’erano volte in cui il proprio riflesso gli causava disgusto, e troppe verità scomode finivano sotto al tappeto con la speranza che scomparissero.
Non era normale per lui comportarsi così, ma doveva, o sentiva che sarebbe impazzito.
Ciò che pensava e faceva e diceva adesso era talmente diverso da ciò che aveva fatto e pensato e detto prima da sentirsi trasformato in un’altra persona, un contenitore vuoto come Malfoy, solo che lui non aveva perso la dignità e l’unico erede durante la guerra; no, lui aveva perso la sola casa che avesse mai avuto e un’anima la quale, una volta spazzato via il resto, si era rivelata risibilmente inutile.
A volte si chiedeva come fosse finito a trascorrere i suoi giorni davanti ad una lastra di vetro, studiando Oscuri tomi polverosi, costretto a fingere di non notare la presenza del suo peggior nemico che lo…teneva sotto controllo, o lo sognava morto, o comunque lo scrutava in un modo che non prometteva nulla di buono, indossando il suo miglior aspetto umano come un cadavere munito d’un sorriso.
In realtà non era completamente sicuro che fossero ancora nemici, ma quella era una delle cose che preferiva nascondere sotto al tappeto.
E se ne stava lì a cercare di rimandare gli eventi come l’ultimo dei vigliacchi, vivendo sospeso in un passato che era defunto, mentre tutto intorno a lui – dentro di lui – mutava radicalmente, crollava e perdeva significato goccia a goccia.
Realizzò consciamente tutto questo solo quando il vetro si ruppe e le lacrime non scesero; era cambiato, e molto più di quanto pensasse.


***


Le scarpe sprofondavano ad ogni passo. La terra lo voleva risucchiare all’interno del suo cuore melmoso; lo chiamava a sé, sotto, insieme agli altri. Lei era marrone, marrone così scuro da sembrare nero, ed era rossa. Il rosso non si vedeva a causa del buio, ma c’era, mischiato al pantano, e ciò che la terra non assorbiva lo lasciava in superficie, simile ad un rigurgito cremisi.
Pallidi spettri erano già di ritorno, incapaci di liberarsi delle spoglie passate. Presto l’alba avrebbe allungato le dita tiepide a sfiorarli, trovando nient’altro che vuoto e freddo. Li avrebbe resi trasparenti, nulla più di sospiri invisibili.
Ma i lamenti, i lamenti non sarebbero scomparsi con l’alba, quelli sarebbero rimasti. I corpi disseminavano il suolo, grigiastri e immobili. Ne conosceva alcuni, ma preferiva non guardarli, perché ciò che è morto non può risorgere. Il tanfo che emanavano era insopportabile; alcuni erano lì a marcire da giorni, non molti, ma abbastanza perché il loro odore sapesse di decomposizione.
Hermione era stata una ragazza intelligente, lo sapevano tutti. Prima di dilaniarle la carne tenera del ventre, Greyback e i suoi avevano discusso se spaccarle il cranio contro una corteccia per vedere se il cervello dei Babbani fosse davvero più piccolo del normale.
Ron li aveva caricati con gli occhi iniettati di sangue, filando loro addosso a testa bassa, bacchetta spianata, menando incantesimi come fendenti. Non aveva speranza. Loro erano in cinque, giganteschi mannari con zanne lunghe quanto il suo avambraccio. Harry gli era corso dietro appena aveva potuto.
Li avevano afferrati, scaraventandoli di qua e di là come pupazzi. Gli incantesimi non valgono nulla senza il tempo per reagire. Avevano agguantato Hermione per i capelli.
Il modo in cui il tronco si era impiastricciato di fluidi vitali – rosso grigio marrone, rosso grigio marrone, come in una girandola dell’orrore. Non si sarebbe mai dimenticato il colore grumoso, simile a vomito.
Ricordava a sprazzi, poi.
Vedeva Hermione dare un colpetto di bacchetta ai suoi occhiali prima della partita contro Tassorosso e mormorare Impervius. L’aveva persa, quella partita, precipitando nella tempesta. Baston si era quasi strozzato nella doccia, gli avevano detto i gemelli, ma nessuno se l’era presa con lui. Ron era stato solidale, regalandogli una pacca sulle spalle e assicurandogli che sarebbe andata meglio la volta successiva. Avevano vinto la Coppa, quell’anno.
Ricordava quando avevano Schiantato Piton nella Stamberga Strillante; Piton, l’untuoso doppiogiochista che era stato freddato da Voldemort proprio nella medesima, vecchia casa infestata – un Avada Kedavra, semplice e pulito, non gli aveva neanche lasciato il tempo di pensare. Aveva desiderato intensamente che morisse, quel vigliacco assassino.
Ricordava anche gli allenamenti prima del Tremaghi e le lezioni con l’ES, Dobby che li avvertiva dell’arrivo della Umbridge, Sirius che mangiava una coscia di pollo raccontando della Prima Guerra Magica, Sirius che gli chiedeva di venire a vivere con lui e poi spariva oltre il Velo.
Sirius…
Ecco Ron che lo guardava incredulo e sorridente dopo aver scoperto che nel suo Succo di Zucca non c’era la Felix, e che sì, aveva vinto tutto da solo. La Coppa del Mondo di Quidditch, le coccarde canterine e le Veela danzanti, le risate, le canzoni da stadio, Krum che si lanciava in picchiata e prendeva il Boccino. A Ron non era più piaciuto quando aveva saputo che Hermione e lui uscivano insieme, aveva rotto il braccino di plastica del bambolotto la sera del ballo. Da quando Fred e George gli avevano regalato quel libro assurdo, lui e la ragazza andavano molto d’accordo, o forse era qualcos’altro; probabilmente era qualcos’altro, eppure gli erano sempre rimasti accanto, non l’avevano mai escluso…mai, erano andati a caccia di Horcrux insieme e Ron era tornato, erano scampati a Malfoy Manor ed arrivati fin lì, giunti così vicini a farcela…
Il sangue gli imbrattava i vestiti; c’erano due occhi azzurri che lo fissavano. Fissavano lui o fissavano il vuoto? Ron aveva la stessa espressione di quando aveva visto le Acromantule per la prima volta.
Dunque aveva iniziato a camminare e non si era più fermato.
La fronte bruciava e aveva l’impressione di dover essere da un’altra parte, anche se non sapeva dove, mista alla sensazione d’oppressione al petto e allo stomaco, alla voglia di vomitare. Avvertiva qualcosa di umido e caldo sulla faccia. La cicatrice pulsava, ma la testa era leggera, come se non mangiasse da giorni e giorni.
Il richiamo della saetta era quasi dolce. Camminando, infranse il patto con se stesso e sbirciò di lato – ciò che è morto non può risorgere, ciò che è morto non può risorgere. Vide solo cadaveri. Sarebbero rimasti lì fino a quando i vermi non li avessero mangiati oppure qualcuno li avrebbe seppelliti? Non poteva permettere che finissero a quel modo, sepolti in tombe di fango senza nome; doveva pensarci lui, o nessuno l’avrebbe fatto.
Gli serviva una vanga, come con Dobby. Fu così che trovò lei: apprestandosi a scavare, confuso e sotto shock, anche se scavare era inutile in quella palude. Stava in una fossa, sporca di fango e imbrattata di sangue. C’era un uomo. Le era addosso.
“Non sapevo cosa ti sarebbe servito. Niente di troppo grande, perché non puoi portarlo con te.”
In seguito, fu difficile ricordarne il viso; ricordava le mani, però, mani grandi, dita che l’abbrancavano, unghie incrostate. Non aveva riflettuto. Un grosso sasso a terra e la sua nuca davanti. La nuca era fragile, rosea, morbida, non pareva neanche far parte di lui, e quello si dimenava senza riguardo, emettendo suoni orribili, e Harry non aveva mai provato tanto orrore in vita sua. La pietra di punta, dritta contro la tempia, con tutta la propria forza, nemmeno un secondo a pensarci, solo l’attimo che aveva impiegato il gomito a ruotare e il braccio a piombare giù in trasversale.
L’uomo cadde di lato. Harry lo colpì ancora, ancora, ancora. Temeva che si rialzasse e riprendesse a farlo. Aveva registrato vagamente il dettaglio dei suoi occhi; non il colore né la forma, ma quanto si fossero dilatati prima di sbiadire. Quando terminò, la pietra era viscida e lui ansimava. Solo allora ricordò chi era.
Scabior. Il suo nome era Scabior.
Poi andò da lei. Il petto non sembrava neppure alzarsi, ma era ancora viva; il cuore palpitava debole, lontano. Mentre cercava di rianimarla e mormorava piano suppliche insensate, udiva la sua voce, come un disco rotto.
“Non sapevo cosa ti sarebbe servito. Niente di troppo grande, perché non puoi portarlo con te.”
Pensava di aver già varcato il confine del dolore. L’aveva incontrato tra le preghiere di una madre morente e una risata malvagia quando era ancora troppo piccolo per capire; l’aveva riconosciuto nel tonfo attutito di Cedric accanto a lui sull’erba; gli aveva urlato contro mentre Sirius spariva ridendo e l’aveva osservato quando Silente si era spezzato al suolo. Dopo, la soglia del dolore si era infranta negli occhi di Ron e nel sangue di Hermione, nella battuta a metà di Fred, nelle dita intrecciate di Remus e Tonks. Colin non l’avrebbe mai più importunato lungo i corridoi per avere una foto con lui, Luna non avrebbe mai più raccontato storie strampalate su Eliopodi e Nargilli. Erano tutte quelle persone la cui presenza aveva dato per scontata durante l’intera sua esistenza, tutti i suoi amici e coloro cui voleva bene, ma fu la vista di Ginny a incrinargli l’anima – un sinistro scricchiolio inudibile nel torace, qualcosa che andava in pezzi senza emettere rumore.
“Sapevo che non saresti stato contento se non fossi andato a caccia di Voldemort. Forse è per questo che mi piaci tanto.”
Gli era venuta incontro. Aveva sentito le urla, il fragore delle maledizioni, forse aveva guardato fuori e aveva assistito al dilagare della follia. Quando tutto era stato perduto, i ragazzi troppo giovani per combattere, quelli che non erano fuggiti, si erano precipitati ad aiutare. A farsi uccidere.
La sua bocca era ancora calda. Ed era bella anche lì, con le ferite e i lividi, con i vestiti che quel bastardo le aveva strappato di dosso e gli occhi socchiusi sul vuoto. Il castano nebbioso era fango, ormai, e i capelli, i suoi capelli profumati di fiori odoravano di sangue, terra e sudore, l’odore della paura coraggiosa e di una fine senza scampo, l’odore della sofferenza. Cercò di coprirla, di ricucire assieme quei lembi di stoffa inutili, cercò di svegliarla.
“Sapevo che non saresti stato contento se non fossi andato a caccia di Voldemort.”
La cicatrice somigliava ad una scheggia appuntita che gli incideva il cranio a intervalli regolari. Le parole di Ginny avevano risvegliato qualcosa in lui oltre all’inevitabile senso di colpa: un sentimento d’odio, non l’odio feroce e lampante che aveva sempre provato, quello che gli faceva gridare all’ingiustizia, ma un odio diverso, meno palese, più profondo. Si scavava la strada verso la sua anima, le si radicava all’interno.
Non lo sapeva ancora, ma era l’inizio di una spirale discendente, di un processo lungo, faticoso e straniante.
Passarono giorni, mesi, anni di gemiti attutiti da un’angoscia sorda e letale. Quando si accorse che lui era lì e lo guardava, lieve sorriso d’ironico sprezzo su una bocca priva di labbra, il sole illuminava uno scenario di tragedia e la terra era di nuovo rossa e marrone come il giorno prima e quello prima ancora. Riddle era lì davvero, non si trattava del sussulto malato di una mente in preda alla febbre.
“Alzati, ragazzino. Devi morire, non ricordi?”
Quello andava fatto: uccidere Voldemort, almeno provarci, strappare un brandello di vendetta a un dio inclemente, perché tutto era fallito, Nagini era viva e la Bacchetta era in mano sua. Aveva deluso il Preside esattamente come aveva deluso chiunque altro, non era servito a niente e Ginny stava morendo in una pozza di sangue.
“A quanto sembra, il Ragazzo Che è Sopravvissuto non riesce a sopravvivere alla cruda realtà” commentò Voldemort quando lui non si mosse. “Io ho vinto questa guerra, ho superato gli sciocchi ostacoli che il tuo beneamato burattinaio ha posto sul mio cammino…e tu non lo sopporti. Ti sei trascinato qui con la speranza di assolvere al tuo compito, e ora che l’hai miseramente mancato non trovi nemmeno la forza di alzarti per abbracciare il destino. È così, Harry?”
Era così? No, certo che no. Se avesse avuto qualcuno per cui lottare, non avrebbe esitato. Se avesse creduto ci fosse speranza, luce, un motivo, sarebbe morto contento in nome di un mondo migliore, ma un mondo migliore era un mondo in cui coloro che conosceva erano vivi e la vittoria di Voldemort non appariva così ineluttabile. Se Ginny fosse rimasta sana e salva al castello, non avrebbe esitato a sacrificarsi per lei. Gli sembrò di vederla guardarlo con disapprovazione. “Non ti sarai arreso, Harry?” C’erano anche Ron e Hermione, Remus e Tonks, Fred e Sirius e i suoi genitori, tutti con lo stesso sguardo marrone fango che un tempo era stato splendente e determinato, tutti con la fronte aggrottata dal biasimo.
“No” si sentì rispondere ad alta voce. Si alzò in piedi, la bacchetta di biancospino in pugno e l’odio segreto che ardeva lento. Si erse a fronteggiare Voldemort perché era giusto così. Andava come andava. Almeno doveva provarci. Forse il pensiero di tutti loro, la forza che sentiva risorgere dentro di lui sarebbero bastati. Non aveva mai scagliato un Anatema Che Uccide, ma non vedeva alternative.
Lanciò la maledizione. Riddle non tentò d’evitarla né di risponderle. Non accadde niente. Harry sentì il nulla, l’eco del vuoto sotto di lui, negli occhi castani di Ginny, e il pulsare della cicatrice, quasi indulgente nel suo scavargli la pelle. Come essere distante anni luce.
“Non sei in grado di lasciar scemare il dolore abbastanza affinché l’odio prenda il sopravvento. Chi ama non uccide, una delle tante debolezze di voi uomini…o almeno, lo credevo. Gli hai quasi spaccato il cranio. Così è come uccidono le bestie, ragazzino.” Sorrise, un vago sguardo al cadavere di Scabior, e qualcosa si agitò inquieto nello stomaco di Harry. “Come ha potuto Silente commettere la terribile leggerezza di credere in te?” Scandì l’ultima frase come credendo che potesse servire a devastarlo.
Non esisteva nulla da devastare. Le fiammelle di speranza e di coraggio che i suoi amici avevano tenuto in vita fino a quel momento si erano spente insieme a loro. Eppure c’era Ginny, a terra, il fragile cuore che resisteva imperterrito. Era forte, la sua Ginny. Non l’aveva mai vista versare una lacrima.
Il bisogno di agire esplose all’improvviso, travolgente, sconfiggendo la spossatezza e riportandolo sul campo di battaglia. Doveva salvarla. Aveva già ucciso un uomo. Doveva uccidere Voldemort. Doveva morire per mano di Voldemort. Fare qualcosa, qualsiasi. Se fosse riuscito ad avvertire Aberforth attraverso lo specchio e a tenere occupato Riddle, l’oste avrebbe potuto portare lei al sicuro. Harry sarebbe morto, ma forse lei sarebbe sopravvissuta. Prese la decisione.
“Che cosa aspetti, Tom?” chiese. La voce uscì alta, assurdamente sicura. Attorno a loro solo macerie. “Uccidimi e falla finita. O ti piace troppo sentirti parlare?” Le sue dita s’insinuarono nelle tasche sudicie del mantello, tastando i bordi dello specchietto.
Voldemort gli si avvicinò, parlando con leggerezza. “In realtà, recentemente mi sono reso conto che la tua morte, per me, rappresenterebbe tutt’altro che un vantaggio. Penetri nella mia mente, conosci i miei segreti e tenti d’intralciarmi: motivazioni più che sufficienti per farmi desiderare la tua dipartita, vero? Eppure, Harry, ci sono cose che il Preside non ti ha rivelato e che io ho compreso, cose che mi fanno dubitare di quanto ho sempre voluto.”
Non aveva idea di ciò che intendeva. Il riferimento a Silente risvegliò la sensazione di tradimento che aveva già provato nei suoi confronti – perché non era stato sincero con lui fino in fondo e fin da principio? – ma si rifiutava di cadere nel tranello del mago. Aveva uno scopo parlandogli a quel modo. Ebbene, anche lui aveva uno scopo: quello di guadagnare tempo.
Lo fissò con disgusto. “Forse non hai capito, Riddle… Io ti ucciderò o morirò nel tentativo. Se pensi di poter stabilire una tregua con me,” e badò a sottolinearlo insieme a tutti i sottintesi, “dopo quello che hai fatto…”. Incapace di mantenere la calma, la mano chiusa a pugno ebbe un tremito violento.
Dai tratti serpentini, l’aria disinvolta scomparve, lasciando spazio ad un’inespressività inquietante, indecifrabile. “Questo è precisamente ciò che prevedevo avresti detto. Triste come la tua mente risulti monotona e ripetitiva, ti rende un bersaglio facile. Dovremo porvi rimedio...”
Harry si sentiva pronto per mettere in atto il suo diversivo, perché ancora un’altra parola e avrebbe perso il controllo causando la fine dei suoi piani. Puntò la bacchetta e scagliò un attacco imprecisato contro Voldemort, il tempo necessario a guardare nello specchio e a chiamare aiuto. Un lampo, e lo specchio gli volò di mano, polverizzandosi a mezz’aria e cadendo al suolo, ridotto ad un pulviscolo brillante.
Riddle aveva levato la bacchetta in un gesto pigro, e appariva tremendamente annoiato dall’intera vicenda. “Parliamo, Potter” ordinò.
Harry avvertì la disperazione farsi largo, il pensiero di Ginny che gli vorticava nella mente come un mantra. “Expelliarmus!” urlò.
Riddle parò, parò e parò ancora. “Ora basta” decretò, gli occhi tramutatisi in gelide schegge scarlatte. Un movimento del polso e Harry si ritrovò avviluppato da funi invisibili, impossibilitato a fuggire.
Come il volto di Voldemort si era contratto, quasi nel medesimo istante si ridistese, i tratti scolpiti nell’alabastro. “Non era in tal modo che desideravo cominciare, ma vedo che non mi lasci altra scelta” esordì. “Credi di poter vincere, forse? La battaglia prosegue da tre giorni, tra ritirate e contrattacchi. I miei Mangiamorte hanno ucciso coloro che ti hanno difeso prendendo prigioniero chi si è arreso, ed ora ti trovo a vagare tra i cadaveri in stato confusionale quando nessuno ha tue notizie da ieri pomeriggio. Sei stremato, sporco e sofferente; al contrario, io sono nel pieno delle mie forze. Dimmi, Potter: qual è il tuo piano per uccidermi, se ne hai mai avuto uno?”
Harry si sentì morire. Era vero, non aveva alcun piano, alcuna speranza di sopravvivere a tutto ciò, ma non era per se stesso che avvertiva quel nodo alla gola; era per Ron, Hermione e gli altri, e soprattutto per Ginny, Ginny che era ancora viva e poteva essere salvata.
Voldemort si aprì nel suo sorriso inquietante, come un taglio di traverso sul volto cereo, compiaciuto della reazione del giovane. “Vedo che iniziamo a ragionare. Sei solo, devastato dalle perdite, non ti è rimasto nessuno cui fare affidamento… Sai che cosa vive nella tua anima, Harry? Silente non ha reputato necessario rivelarlo al suo pupillo, sarò io a riferirtelo: tu sei un Horcrux, ragazzino, ed è per questo che la tua misera vita non si è già conclusa sotto l’impatto del mio Anatema Mortale.”
Per un attimo si dimenticò di respirare, orripilato. Le visioni che aveva riguardo Riddle, l’aggressione del signor Weasley davanti alla porta dell’Ufficio Misteri, la maledetta connessione mentale che lo tormentava da anni…e il Serpentese, i nuclei gemelli delle bacchette…
“Perché?” esclamò. Diede uno strattone all’incantesimo che lo avviluppava rischiando di slogarsi una spalla. “Quando mi hai fatto questo?” Ma la risposta venne alla sua mente nello stesso istante in cui poneva la domanda.
“La cicatrice” spiegò Voldemort accennando alla sua fronte “non è semplicemente una ferita da maledizione come credevo. Quella notte, la mia anima si divise dal corpo, e una parte di essa si legò alla tua. Troppe lacerazioni devono averla resa instabile, pronta a spezzarsi ad ogni minima oscillazione di magia nera…”. Procedette verso di lui, studiandolo con interesse scientifico. “Hai distrutto la maggior parte dei miei Horcrux, ragazzino, ma mi ritrovo nella spiacevole situazione di non potermi vendicare su di te. Oh, certo, potresti anche dimostrarti così recalcitrante all’idea di seguirmi da costringermi a regalarmi tale soddisfazione…”
“E allora uccidimi, perché se speri che io ti segua sei solo un illuso, Riddle!” esplose Harry con passione, la gola in fiamme mentre prendeva atto della follia della situazione. Un Horcrux! Doveva farsi uccidere, ecco la soluzione, doveva morire… Silente non gliel’aveva rivelato, perché? Non voleva credere alle insinuazioni di Voldemort nei suoi confronti, era ovvio che stesse solo tentando di persuaderlo; non voleva e non doveva. L’idea di morire non era così spaventosa se serviva ad annientare una parte dell’uomo che gli aveva rovinato l’esistenza nella speranza di renderlo mortale.
Poi, il volto inumano di colui che un tempo si era chiamato Tom Riddle fu accanto al suo, bianco come gesso, il contrasto stridente della veste nera e delle scaglie di sangue che erano i suoi occhi. “So che cosa stai pensando, ragazzino” gli sussurrò, carezza soffiata sulla sua pelle. “Vuoi spingermi ad ucciderti, uccidendo con te la mia anima lacerata. Ma non riuscirai a farmi perdere il controllo, quando la calma è parte di me e il tempo non ha significato alcuno. Sono ancora mortale a causa tua, però esistono altre strade inesplorate, e i Naga come Nagini, il mio ultimo Horcrux, possiedono una durata di vita molto superiore a quella dei comuni maghi.”
Lasciò che le parole scorressero lievi, senza alterazioni nel tono, permise ai loro sguardi d’incontrarsi.
“So che cosa volevi fare, con quello specchio magico. La tua fidanzata respira ancora.”
Harry raggelò e ricominciò ad agitarsi. La minaccia implicita che aveva avvertito in quelle parole lo stava straziando. “NON TOCCARLA!” ruggì, protendendosi verso di lui finché le catene invisibili che lo imprigionavano si torsero attorno alle membra. “Non osare toccarla, Riddle, o io…”
Voldemort gli sfiorò una guancia. “Shhh.” Era come se lo stesse prendendo in giro, ma nello stesso istante la morsa dell’incantesimo si tramutò in una stretta delicata, conturbante, come se invece di manette d’acciaio a ghermire i suoi arti vi fossero lacci di velluto. Li percepì massaggiargli i polsi, le caviglie, fino a slegarsi piano facendolo scivolare dolcemente a terra. Pur consapevole dell’illusione e orripilato dalla sensazione di conforto che provocava, non poteva impedire a se stesso di sentirsi come se qualcuno – Ginny, Hermione o addirittura sua madre – l’avesse appena abbracciato. Il paragone gli diede la nausea.
“Non intendo donarle il colpo di grazia, Harry, pur se questo sarebbe un atto di clemenza a giudicare da com’è ridotta. Anche se tu fossi riuscito a chiamare i soccorsi, nessun incantesimo potrebbe riportarla indietro da dov’è diretta…” Sorrise, lo scintillare dei due frammenti cremisi era l’unica luce in mezzo alla melma in cui si era tramutato il parco di Hogwarts. “Nessun incantesimo che loro conoscano.”
Harry era a terra, il fiato bloccato a metà strada tra il petto e la laringe. Una mano aveva raggiunto le dita di Ginny, tanto sottili che temeva si spezzassero. Non l’aveva mai vista così vulnerabile. Nessun incantesimo che loro conoscano… Nessun incantesimo che loro conoscano…
“Io sono Lord Voldemort,” enunciò l’uomo, in piedi davanti a lui, “il mago che è giunto più vicino di chiunque altro a sconfiggere la Morte. Sono l’unico che può –”
“Hai ucciso i miei genitori” lo interruppe Harry in un ringhio sordo, il sangue che gli rombava nelle orecchie. “Hai sterminato tutti coloro che conoscevo e a cui volevo bene!” Alzò lo sguardo su di lui, il verde limpido, diretto, privo di fini reconditi. Perdonami, Ginny, ma non posso salvarti, pensò, il palmo a contatto con il suo polso freddo. Perdonami, ma se questo è il prezzo non posso pagarlo. “Vuoi solo ingannarmi.”
“Tutti morti, Harry, è vero” attestò Riddle girandogli attorno, la lunga veste che strisciava al suolo macchiandosi di terriccio. “Non ti è rimasto nessuno. Solo io…e lei.” Si fermò davanti a lui, guardandolo dall’alto. “Sono l’unico che può donarle nuovamente la linfa vitale. Ci vorrà del tempo, non lo nego, ma perché permettere al mondo di abbatterci? Perché farsi limitare dai comuni impedimenti terreni? Essi sono posti di fronte al cammino del mago solo per invitarlo a superarli, a polverizzarli… Si tratta di ostacoli che vanno annientati, barriere che vanno oltrepassate per raggiungere un traguardo superiore.”
Harry avrebbe voluto disprezzare, odiare ogni singola parola che fosse uscita da quella bocca, avrebbe desiderato ridere di disgusto, insultarlo, condurlo all’esasperazione costringendolo ad ucciderlo; eppure una parte di lui, una minuscola zona egoista e spregevole di lui sognava di una Ginny viva come si brama l’ossigeno da respirare o il sole sulla pelle. Lui non credeva davvero a Voldemort l’assassino, a Voldemort il mostro – però voleva credergli.
Finalmente capiva perché i Mangiamorte si univano a lui, capiva che cosa e quanto aveva da offrire. Concedeva Speranza, dispensava pillole di lieta follia, e capirlo e credergli ed essere sedotto da ciò che diceva portava Harry a chiedersi quanto quell’ennesima battaglia avesse cambiato il suo essere.
Chi era lui, Harry Potter, e fin dove era disposto a spingersi? Quesito che gli regalò brividi d’orrore e fremiti di tentazione.
“Tu menti… Nessuno può tornare indietro una volta che…”
“Non è ancora spirata, ragazzino. Possiedo conoscenze che ti permetterebbero di tenerla in vita abbastanza a lungo perché si riprenda; in cambio, desidero solo che tu –”
“…che io combatta per te?” L’esclamazione venata di collera risuonò incredula nel silenzio. No, era semplicemente assurdo che avesse pensato di patteggiare con Voldemort; quei giorni concitati e terribili erano trascorsi nel caos e nella morte proprio a causa sua, e Ginny avrebbe preferito morire piuttosto che vivere sotto la dittatura di quell’essere.
Riddle lo esaminò divertito. “Combattere? Tu? Con il rischio di perdere l’ennesimo frammento della mia anima?” Diede in una breve risata raggelante. “Silente ti ha cresciuto senza neppure insegnarti ad usare una bacchetta in duello… No, non si tratta di questo.”
“E allora di cosa?
“Bada bene, Harry,” lo ammonì Voldemort in tono serico, “non ti sto offrendo la scelta tra seguire me o tornare da dove sei venuto – ammesso che esista un luogo a cui tu possa fare ritorno; la scelta che ti propongo è quella tra venire di tua volontà, mantenendo un margine di dignità, o essere costretto ed umiliato.”
Harry sussultò. Aveva davvero creduto che Riddle gli stesse dando una possibilità? Se aveva parlato di Ginny era stato solo per addolcire il veleno e non doversi disturbare a Schiantarlo.
“Io non ti appoggerò mai” dichiarò senza esitare, punto nell’orgoglio.
Il mago Oscuro sospirò. “Dunque mi costringi a trascinarti via urlante come un marmocchio, condannando per di più la tua amica a morte certa?” Davanti al suo sguardo tormentato, sorrise. “Non avrai creduto di poterla salvare e al contempo negarmi una collaborazione pacifica.”
Mi rifiuto! Infrangere le promesse fatte a Silente, ridursi a questo solo per egoismo? Harry guardò Ginny, settima figlia dopo sei fratelli, e le carezzò il volto un’ultima volta, preparandosi a dirle addio per sempre prima di farsi uccidere…
…e trovandosi impreparato di fronte alla richiesta di un sacrificio così grande. Aveva visto morire tutti coloro che amava, ma veder morire lei lo avrebbe spezzato, lo stava già facendo.
Prese fiato lentamente, distogliendo gli occhi dalla ragazza con profonda vergogna. “Non hai mentito quando hai detto di poter far sì che…?”
“No, Harry: non ho mentito. Esiste una varietà di studi su pazienti in fin di vita, ed esistono modi che la medicina legale non approva…” Lasciò sfumare la frase con avversione. “Ma ciò non significa che non siano efficaci.”
“Lo giuri?” Il suo fu un sussurro appena percettibile. Non aveva mai provato tanto disgusto per se stesso.

***


Era stato un bambino pallido e dinoccolato, con tanti capelli e le guance incavate. Quando l’aveva visto, la prima volta, aveva pensato che il mondo girasse proprio dalla sua parte, perché tanta fortuna non poteva essere un caso: un infante in culla, giusto all’età per reggersi in piedi barcollando e balbettando incoerenze.
Doveva essere Destino.
Aveva riso, si era sentito come se ogni cosa gli fosse offerta – perfetta, pronta.
Poi c’era stato l’Avada Kedavra
– i tredici anni d’inferno e il darsi dello sciocco, il cercare di rimanere aggrappato al terreno senza dormire mai mai mai, che il sonno era labile e pericolosamente simile a svanire, perdersi nell’aria – morire – e le notti erano come i giorni e i giorni troppo uguali alle notti, e vedeva attraverso occhi di rettile e respirava aria che sapeva di polvere, di terra brulicante di vita, di linfa di pioggia d’ossigeno, e lui era vapore, fumo danzante, puro spirito dilaniato – se avesse potuto sconfiggere quello stato di veglia perenne, trovare un modo –
– doveva essere Destino.
Tutte le volte se lo ritrovava davanti, anno dopo anno dopo anno, e gli sfuggiva sempre, inspiegabilmente. Non pensava più che il mondo girasse col vento che soffiava Lui, ma continuava a comportarsi come uno sciocco e a dirsi che quella situazione maledetta fosse inconcepibile – un ragazzino, solo un ragazzino con più fegato che cervello.
Forse si era rifiutato di capire, forse aveva solo tralasciato le variabili. Ora aveva imparato. Ne era valsa la pena, tutti quegli anni?
Era stato un bambino pallido e dinoccolato, ma adesso era quasi uomo – quasi – e aveva lo stesso sguardo. I pugni stringevano, e c’erano lacrime disseccate sulle guance sporche dei colori della guerra.
Le dita gli tremavano accanto al viso di quella ragazzina, tra il rosso dei capelli – del sangue, sulla pelle macchiata d’efelidi, annaspando nel tentativo di coprire le vesti strappate. Era una cosa turpe, una cosa squallida, ma lui aveva gesti così delicati, e negli occhi aveva solo lei.
Poi l’aveva guardato, stringendosi al petto una misera manciata di sogni morenti. “Lo giuri?” La sua voce era suonata ferma, come se non avesse pianto fino ad un attimo prima, come se nei suoi occhi non brancolasse la follia – e Voldemort aveva capito d’aver vinto.
Allora, solo allora si era sentito deturpare il volto da un ghigno, il sapore dolce di quella resa agognata. “Sul mio onore.”
Doveva essere Destino – il caso non aveva mai avuto nulla a che vedere con la sua vita – e il Destino, finalmente, gli aveva sorriso.


Note di Ero

Questa non era pronta per essere pubblicata. Dovevo rivedere delle cose, sfoltire l'introspezione e farla un po' meno angst, ma spero che sia leggibile nonostante la...pesantezza (?) del primo capitolo. Non ne ho idea. Trattasi di What if Harry fosse un egoista? (lol) e di What if Piton fosse morto prima di potergli dire la verità? e di What if...? va beh, ce ne sono molti. Perché non l'ho fatta betare? *coff* Comunque mini-long (non so quanto mini) in cui Harry riscopre lentamente un AMMMOOOORE per la sua nemesi. Voldemort riacquisirà la sua faccia umana più avanti per amor di slash. Non che Harry lo possa odiare meno solo per il suo aspetto, ma comunque...*rotola*. Mi dicono che il mondo è bello perché è vario, ma ce ne sono così poche di LV/HP su questo sito... Se capita commentate pure, avete tutto il tempo, tanto il prossimo aggiornamento avverrà in un futuro indeterminato. :)) 

   
 
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