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Autore: Graine    03/09/2012    3 recensioni
Song-fiction sulle note – e le parole – di “Lullaby” dei Cure (di cui ho messo il link all’inizio) e dall’ambientazione vittoriana.
Il giovane Charles Harris, di soli dieci anni, ama le storie del terrore. Per questo, durante ogni temporale, come nelle migliori tradizioni, chiede ad Amy, la giovane bambinaia che si prende cura di lui e della sorella, di narrarne loro una. Peccato che, questa volta, comprenderà che anche le fiabe possiedono un fondo di verità.
Questa storia si è classificata quinta al contest "Riscopriamo le edite" indetto da Layla84 sul forum di EFP, aggiudicandosi il Premio Brivido.
Genere: Mistero, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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http://www.youtube.com/watch?v=1aVesAlrtNM 
 



Di fiabe e incubi
 

 
 
«Per favore, Amy!».
«Ho detto di no, Charles. È tardi. Tu e tua sorella dovete andare a dormire».
Un fulmine squarciò il cielo in quel momento, accendendo il soggiorno elegante ma non eccessivamente sfarzoso degli Harris di ombre minacciose, diverse dalle morbide sfumature scure create dalla fiammelle che crepitavano nel camino, prima che il rombo del tuono sovrastasse il suono delle loro voci.
Charles e Abigail sobbalzarono e corsero a nascondere il viso nel grembo della loro governante, mentre quella sollevava gli occhi al cielo con un sorriso bonario sulle labbra.
«Ma non abbiamo sonno!», protestò Charles imperterrito, quando lo spavento fu passato e lo scrosciare costante dell’acqua sui vetri delle finestre e l’ululato acuto del vento tornarono a essere gli unici rumori che animavano la notte.
Era consuetudine, ormai, che il figlio maggiore di Jonathan Harris, affermato avvocato londinese e stimato membro del parlamento, e di sua moglie Lucy, figlia minore del colonnello Eric Smith e di sua moglie Emma – famiglia per generazioni dedita alla carriera militare finché la nascita di Lucy e delle sue sorelle non aveva posto fine a quella tradizione, sebbene tutti concordassero sul fatto che, se mai l’esercito fosse stato aperto alle donne, esse vi avrebbero ricoperto senza difficoltà il ruolo di generali –, in quel momento fuori per una serata all’Opera, la pregasse per aver raccontata una storia di fantasmi in uggiose e fredde serate invernali come quella; a suo avviso, il momento migliore per quel genere di racconti.
Quella sera, Amy aveva già provveduto a fornire la regolare dose di spavento – o così aveva creduto –, complice come sempre il temporale, leggendo loro Il racconto della vecchia nutrice, un classico del genere, mentre i piccoli l’ascoltavano seduti sul tappeto difronte al fuoco con le ginocchia strette al petto e lo sguardo attento a cogliere qualunque segno di presenze sovrannaturali lì con loro o in procinto di manifestarsi di colpo nell’ambiente caldo del salotto, attirate dalla voce melodica della loro bambinaia e dall’atmosfera della storia, certamente congeniale a quelle creature. Sfortunatamente per Amy, però, Charles non sembrava a conti fatti essersi spaventato abbastanza stavolta, perché ora l’assillava per un altro racconto. Quello che tutti in quella casa, dal lattaio che bussava alla porta della loro cucina ogni mattina, ai pappagallini di sua sorella Abigail, sapevano lo terrorizzasse di più, oltretutto: la storia del Mostro Ragno, un vecchio racconto popolare che era stata proprio la ragazza a narrargli per la prima volta.
Sinceramente, le riusciva ancora difficile comprendere perché a quel bambino piacesse così tanto essere spaventato a morte.
«Vi verrà quando sarete sotto le coperte. – ribatté l’altra – Ve la racconto domani, promesso. Adesso è ora di dormire».
Charles fece per protestare ancora, ma Abigail rivolse un sorrisetto ironico al suo indirizzo. «Non capisco perché insisti sempre con la storia del Mostro Ragno, se poi hai paura», affermò. Gli occhi azzurri animati da una luce divertita e i riccioli rossi simili a una cascata di fiamme, per via della luce del camino.
«Sta’ zitta, Abigail! Non è vero che ho paura!».
«Non rispondere così a tua sorella».
Il rimprovero di Amy giunse puntuale come sempre e Charles abbassò un momento la testa castana, in segno di scuse. I piccoli Harris sapevano che se c’era una cosa che la loro governante non tollerava, quella era la scortesia, nemmeno di quel tipo fraterno a cui, spesso, i due bambini si lasciavano andare fra di loro.
Un altro lampo e il tuono che lo seguì, e i fratelli tornarono a cercare riparo presso la giovane donna che si prendeva cura di loro da ormai oltre due anni.
Quando entrambi rialzarono il capo, Charles le scoccò uno sguardo supplichevole dalle iridi azzurre di una sfumatura appena più scura di quelle della sorella, facendole intuire che, di lì a poco, sarebbe riuscito a farla cedere in qualche modo. Un istante dopo, infatti, si ritrovò ad ascoltare la sua voce che, con tono volutamente più dimesso e piagnucoloso del solito, le diceva: «Per favore, Amy», con una faccia tale che si sarebbe detto gli fosse appena morto il cane.
Quella piccola peste sleale, si ritrovò a pensare Amy, sapeva benissimo come sfoderare le proprie armi migliori, quelle a cui sapeva lei non era in grado di resistere; aveva imparato i suoi punti deboli in fretta, dopo che lei aveva preso servizio presso gli Harris, e non mostrava mai alcun remore nello sfruttarli.
Amy roteò allora gli occhi al cielo e sospirò, rivolgendo poi un’occhiata ad Abigail che le rispose con un’alzata di sopracciglio eloquente, seguita da un mezzo sorriso. La giovane governante ricordava bene come l’avesse sorpresa tante volte, i primi tempi, con quel modo di fare che spesso aveva davvero poco d’infantile; Abigail aveva solo sette anni, ma l’umorismo tagliente, quasi adulto, di cui era capace e quell’espressione sveglia e furba, come di qualcuno che la sapesse lunga sul mondo, conferivano ai suoi lineamenti una buona dose di fascino già a quell’età. Non dubitava che, una volta più grande, avrebbe fatto girare la testa a parecchi giovanotti di buona famiglia.
Spostò di nuovo lo sguardo su Charles, che continuava a fissarla con quell’espressione da lutto, e sospirò di nuovo. «Oh e va bene», disse infine. «Ma a patto che nel frattempo vi prepariate per dormire», aggiunse sollevando l’indice della mano destra.
Charles si aprì in un largo sorriso. «Grazie, Amy!», esultò senza più traccia di sofferenza alcuna nella voce o sul volto.
Amy sollevò un sopracciglio: certamente il cane era appena resuscitato.
La risata argentina di Abigail fece risuonare l’aria di un dolce scampanellio. «Scommetto che tremerai di paura prima ancora di arrivare a metà», disse. Il fratello le fece la linguaccia, «E io scommetto che tu sarai la prima a gridare!».
«Mai prima di te! Cosa vuoi scommettere?», lo sfidò la sorella.
Charles le sorrise furbo, «Se vinco io dovrai prendere il tè con Louise Lloyd e le sue amiche per una settimana».
Abigail storse il naso in un’espressione disgustata; suo fratello sapeva quanto detestasse quelle quattro viziate più grandi di lei di un paio d’anni, interessate solo ai vestiti, le buone maniere e a prendere in giro chiunque non rispecchiasse i loro canoni di buon gusto ed eleganza, in perfetta emulazione degli atteggiamenti boriosi delle loro genitrici, indigeste a sua madre Lucy quanto le figlie lo erano a lei. Inoltre, trascorrere del tempo a casa Lloyd – sette interminabili pomeriggi – significava dover avere a che fare col fratello quattordicenne di Louise, Alfred, il quale si divertiva a infastidirla in ogni modo, che si trattasse di tirarle i capelli oppure minacciarla di distruggere la sua bambola preferita.
La bambina assottigliò quindi lo sguardo: dal momento che quella era la posta messa in gioco da Charles, lei non poteva che rilanciare con qualcosa di altrettanto arduo per lui. «D’accordo», disse con un tono che non fece presagire nulla di buono al fratello. «Ma se urlerai tu per primo, scriverai una lettera d’amore che recapiterai e leggerai personalmente a qualcuno scelto da me».
Charles sgranò gli occhi e sbiancò, intuendo già chi sarebbe stato il probabile destinatario designato dalla sorella. Amy lo vide esitare per qualche istante, indeciso se il gioco valesse o meno la candela. Ma lo conosceva e non aveva dubbi su quale sarebbe stata la sua ultima decisione: a dieci anni era già estremamente orgoglioso, proprio come suo padre; troppo per tirarsi indietro e dimostrare di avere timore di perdere. Per quel motivo, infatti, il bambino alzò infine il viso con espressione di stoica fierezza – come un soldato pronto ad andare incontro al suo destino – e porse la mano alla sorella. «Affare fatto», dichiarò, e l’altra gliela strinse per sugellare l’accordo preso.
Amy sorrise osservando le due pesti che si fronteggiavano serie difronte a lei, entrambe decise a vincere la scommessa per non essere costrette a pagare i pegni che si erano imposti l’un l’altra. Quelle due pesti che si erano fatte voler bene così in fretta, dopo il suo arrivo.
Buona parte della sua felicità attuale la doveva agli Harris, pensò.
I signori Jonathan e Lucy l’avevano accolta in casa loro e le avevano offerto un lavoro – badare ai loro figli, riponendo nei suoi confronti una cieca fiducia fin dal primo momento benché fosse, a conti fatti, un’estranea – solo perché era la nipote della vecchia bambinaia di Lucy e questo, per entrambi, fungeva da garanzia nonostante la ragazza fosse appena ventiduenne e quasi senza esperienza sulla carta; in realtà, essere la secondogenita di sei figlie le era valso una buone dose di pazienza e inventiva, così che sapeva cavarsela bene con i bambini.
Quando il padre era morto e la madre si era ammalata, le tre figlie maggiori dei Collins erano state costrette a cercare degli impieghi che consentissero loro di mantenere se stesse e le sorelline più piccole, oltre che pagare le cure mediche per la madre; lavorare come governante presso gli Harris era stata una manna dal cielo, un miracolo in cui Amy non avrebbe mai sperato.
Buona parte della sua felicità attuale la doveva a loro.
Si alzò dalla poltrona accanto al fuoco, lo scialle stretto sulle spalle dritte e la mano che sistemava una ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio in un gesto abituale, e prese il lume dalla mensola del camino.
«Coraggio, bambini, di sopra», disse loro ancora sorridendo e si avviò fuori dal soggiorno. Marion, l’ultima cameriera ancora sveglia nonché la più recente assunzione degli Harris, avrebbe provveduto a spegnere il fuoco nel camino.
Charles e Abigail superarono la loro balia per restare giusto a un passo da lei nel buio della casa e poi su, lungo le scale. Continuando con le loro piccole schermaglie come di consueto, mentre Amy cercava di trattenersi dal ridere troppo forte per non svegliare il resto della servitù ormai già a letto.
Erano a metà della seconda rampa, quando un altro lampo cadde, stavolta appena dietro la casa degli Harris, e squarciò l’oscurità fino a quel momento rischiarata appena dal lume che la giovane donna reggeva con la destra, mentre un tuono più forte degli altri zittì il vociare dei bambini che si attaccarono immediatamente alle sue gonne, nascondendovi il viso tremanti dopo aver lanciato entrambi un urlo di spavento. Amy riuscì a non cadere per miracolo, reggendosi al corrimano con l’unica mano libera, mentre i due fratelli si stringevano sempre più a lei.
Quando il rombo cessò e quelli si staccarono dal suo sobrio abito azzurro cielo, che in quell’oscurità appariva grigio come l’argento appena ossidato, trovarono i suoi occhi dolci e il sorriso caldo e rassicurante che rivolgeva loro.
«È passato. State bene?».
Entrambi annuirono, i volti su cui si riflettevano sentimenti a metà fra quelli che erano i postumi dello spavento appena preso e l’imbarazzo per aver gridato dopo la scommessa da poco fatta.
Charles si volse verso la sorella e quella gli restituì uno sguardo d’assenso. «Questo non lo contiamo», affermarono entrambi.
Amy represse a stento l’ennesima risata che le saliva alle labbra quella sera nel tentativo di non fare altro baccano, e riprese a salire i gradini con i piccoli Harris, ora in silenzio davanti a sé.
Mentre i bambini si preparavano per la notte, sistemandosi ambedue nel letto di Charles, come di consueto durante temporali di quel tipo, come promesso Amy prese a narrare loro la storia del Mostro Ragno.
Nonostante le ripetute assicurazioni di Charles su quanto quella storia non scatenasse in lui nemmeno il minimo timore, neanche mezz’ora dopo il bambino, seduto dentro al letto insieme alla sorella e stretto come lei nelle coperte pesanti e calde, già tremava come una foglia per la paura, benché cercasse in tutti i modi di non darlo a vedere. Tentativo inutile, dal momento che Abigail sogghignava già da un pezzo.
Alla fine, Charles era talmente preso dal racconto – quel sentore di allarme che lo prendeva ogni volta alla bocca dello stomaco per poi avvolgerlo nelle sue fredde spire come una trapunta, quello sgomento strisciante che solo una storia del terrore ben raccontata sa dare –, che quando Amy terminò, già dimentico della scommessa, nemmeno si era accorto che la sorella minore, le braccine fuori dalle coperte, lentamente si era sporta dietro di lui, di modo che, quando quella mimò l’improvviso attacco del Mostro Ragno alle sue spalle, il bambino sobbalzò spaventato mentre un breve ma chiaro urlo gli usciva dalla gola.
«Abigail, sei la solita stupida!», si lamentò con rabbia prima di colpirla con un cuscino. Ma Abigail era troppo presa a reggersi la pancia con le braccine sottili, scossa dalle risa che l’espressione terrorizzata del fratello le avevano provocato, per anche solo pensare di rispondergli. Nemmeno Amy riuscì a frenare un sorriso, che però nascose in fretta dietro il dorso della mano per non mettere ancora più in imbarazzo il bambino.
«Intanto hai urlato, quindi devi pagare pegno!», gli disse infine la sorella, quando finalmente riuscì a controllare quello scoppio di ilarità.
Charles incrociò le braccia al petto contrariato, arrossendo come raramente Amy lo aveva visto fare. Sapevano tutti e tre che non si sarebbe mai sottratto alla tortura che lo attendeva, per quanto desiderasse il contrario; l’orgoglio e il senso dell’onore, istillatogli questo dal militaresco ramo materno, non glielo avrebbero permesso. E vedere Charles con quella faccia da cucciolo bastonato dissuase, per quell’occasione, Amy dal riprenderlo per il modo in cui aveva chiamato la sorella e per la cuscinata che le aveva riservato.
Dopotutto, stava già soffrendo abbastanza.
«Forza, piccole pesti, ora a nanna». Amy si alzò dal letto e li fece stendere sotto i pesanti strati di trapunte morbide, lanciando poi uno sguardo fuori dalla finestra, dove il temporale imperversava e il vento agitava violentemente le fronde degli alberi davanti i lampioni lungo la strada, creando inquietanti giochi di luci e ombre. Fortuna che i bambini non potevano vederli, pensò, o ne sarebbero stati ulteriormente spaventati. «Sogni d’oro e a domattina». Rimboccò loro le coperte, depositò un bacio sulla nuca di ognuno e un altro sulla guancia di porcellana di Harriet, la bambola di Abigail, calda del suo calore, quando la bambina gliela porse perché augurasse la buonanotte anche a lei. Poi prese il lume allontanandosi verso la porta. «E mi raccomando», aggiunse prima di chiudersela alle spalle. «Se sentiste dei rumori non muovetevi e rimanete a letto. Fingetevi morti. Potrebbe essere il Mostro Ragno venuto a mangiarvi», scherzò ripetendo l’avvertimento che concludeva il racconto.
Quando Amy li ebbe lasciati da soli in stanza, sparendo oltre la porta, Charles rimase ad ascoltare i suoi passi che si muovevano lungo il corridoio verso la sua camera da letto. Quando la sentì chiudere la porta anche di quella, si concentrò sugli altri rumori della notte: il martellare della pioggia, il fischiare del vento, lo sbattere di un cancelletto in lontananza dimenticato aperto da qualche parte nel vicinato.
Abigail lo sentì muoversi a disagio accanto a sé, come d’abitudine dopo che ascoltava quel particolare racconto, e sorrise con gli occhi chiusi. «Attento, Charles», lo ammonì divertita e con la voce assonnata, «devi restare fermo o il Mostro Ragno ti prenderà».
Il fratello grugnì, «Finiscila, Abigail. Non ho paura: lo so che è solo una fiaba». Ma l’altra ridacchiò piano, perfettamente consapevole che mentisse.
In tutta onestà, Abigail non capiva perché il fratello avesse tanto timore di quel racconto. Dopotutto, si disse mentre già il sonno prendeva possesso delle sue membra, i ragni reali erano piccoli. Molto più di lui. E per nulla difficili da schiacciare, nell’eventualità. Sì, facevano certamente ribrezzo, ma nulla di più, in fin dei conti.
Nel giro di alcuni minuti, Charles si agitava ancora nervosamente tra le lenzuola profumate di pulito. Lanciò un’occhiata alla schiena della sorella, «Abigail?», chiamò sommessamente, ma quella già dormiva. Sbuffò, una strana ansia che si faceva strada strisciando dentro di lui.
Sospirando si voltò sul fianco e chiuse gli occhi, nella speranza che il sonno accogliesse anche lui fra le sue braccia.
Fu una speranza vana: il temporale sembrò peggiorare col procedere della notte, togliendogli il sonno e costringendolo a rannicchiarsi ancora di più nel letto a ogni tuono che si abbatteva sulla casa, con una violenza tale che sembrava volessero farla a pezzi.
Quando, stanco e sconsolato, da sotto le coperte sbirciò verso l’orologio e vide che lancette segnavano la mezzanotte passata, sospirò di frustrazione.
Doveva cercare di addormentarsi in qualche modo, ma come? Contare le proverbiali pecore? Era convinto di poter arrivare anche a mille, ma dubitava che questo lo avrebbe tranquillizzato abbastanza da farlo cadere addormentato.
E poi c’era quell’ansia – quel sentore di allarme che lo prendeva alla bocca dello stomaco per poi avvolgerlo nelle sue fredde spire come una trapunta – che non l’aveva abbandonato un solo momento e lo rendeva inquieto.
Lanciò l’ennesima occhiata alla sorella, che nel sonno si era voltata verso di lui: il visino rilassato piacevolmente da un riposo sereno, un sorriso appena accennato sulle labbra rosee, e mai come in quel momento la invidiò. Le si avvicinò sistemandosi meglio sui cuscini e le prese una mano fra le sue, nella speranza che la sua vicinanza potesse tranquillizzarlo almeno un po’. In ultimo, riprese ad ascoltare i suoni notturni della casa, così da convincere le proprie paure che non avevano motivo di esistere. Il martellare della pioggia, il fischiare del vento, lo sbattere di un cancelletto in lontananza dimenticato aperto da qualche parte nel vicinato. E poi ancora: il respiro lieve e ritmico di Abigail, il russare sommesso di Mr. Roberts, il maggiordomo, proveniente dal piano di sotto; l’occasionale guaire di Tommy, il loro Cocker Spaniel, che dormiva sul pianerottolo in cima alle scale, luogo che aveva decretato da subito come propria cuccia; una specie di picchiettio, il cigolio leggero di una porta lasciata aperta in fondo al corridoio.
Si fermò.
Un specie di picchiettio?
Tese meglio l’orecchio, in ascolto. I secondi passavano, ma non udiva alcun che. Probabilmente se l’era immaginato.
Riprese ad ascoltare il suono della pioggia, quando di nuovo quello strano rumore attirò la sua attenzione. Come di tacchetti che, veloci, scivolavano lungo la tappezzeria del corridoio.
Ora ne era certo: lo aveva sentito davvero.
Corrugò la fronte e ascoltò quel suono arrestarsi davanti la sua stanza, dietro la porta chiusa.
Il respiro gli si fece lento e pesante, mentre aspettava attento. Poi un suono diverso: il clic della maniglia che si abbassava e il lento lamento dei cardini che avevano bisogno di una buona oliata. Di nuovo quel picchiettio veloce e poi la porta che si chiudeva dietro di esso.
Smise di respirare.
Qualcuno era entrato.
 
On candystripe legs the spiderman comes,
softly through the shadow of the evening sun.
 
Il picchiettio riprese, muovendosi rapido e a tratti in fondo alla stanza.
Era veloce, troppo.
Lo sentiva ovunque: sul pavimento, sulle pareti, in cima al soffitto.
Tutto intorno a sé.
E quando s’interrompeva, un altro suono lo sostituiva: una sorta di debole strofinio – come di un insetto che sfregasse le zampe una sull’altra, osservando in attesa.
 
Stealing past the windows of the blissfully dead,
looking for the victim shivering in bed.
 
Rabbrividì, mentre le immagini del racconto ascoltato poche ore prima si facevano crudelmente strada nella sua testa.
No, si disse scuotendo appena il capo. Era solo la sua immaginazione. Non poteva essere vero, sicuramente stava sognando.
Lentamente mosse una mano e si diede un pizzicotto, per dissipare ogni dubbio, ma quando il dolore lo colpì con acuta chiarezza, sgranò gli occhi.
Era completamente sveglio.
Ancora quello strofinio in fondo, vicino alla porta.
Ingoiò a vuoto, mentre quel sentore d’allarme lo faceva tendere come la corda di un archetto; era sveglio, questo lo aveva appurato, ma magari la sua immaginazione gli stava ugualmente facendo vedere qualcosa che non c’era. Dopotutto, si trattava di pura invenzione; un racconto per spaventare i bambini creduloni come lui. Creature del genere non esistevano davvero.
Quindi chi avrebbe potuto entrare nella sua stanza nel bel mezzo della notte?
Un nome balenò nella sua mente.
Ma certo: Amy.
Era la loro bambinaia, dopotutto. Probabilmente, era preoccupata che i bambini non riuscissero a dormire a causa del temporale ed era venuta a controllare che stessero bene. E, magari, aveva svegliato anche Tommy, e il picchiettare sulla tappezzeria era solo il suono delle unghia del cane.
Sì, era sicuramente così.
Prese pertanto coraggio e decise di far mostra di ciò che era: un Harris. «Amy?», sussurrò per non svegliare la sorella, ma a voce alta abbastanza di modo che chiunque vi fosse in stanza potesse sentirlo.
Lo strofinio cessò di colpo e lui rimase in attesa.
Poi il rumore di quegli strani passi veloci sul soffitto, finché non si arrestarono, praticamente sopra la sua testa.
No, forse non si trattava di Amy.
Strinse gli occhi prendendo un respiro profondo, il cuore che batteva sempre più veloce nel suo petto di bambino, mentre si malediceva per aver aperto bocca. Eppure, pensò, doveva farsi coraggio una seconda volta: qualunque cosa vi fosse in stanza, ormai sapeva che lui era sveglio e, oltretutto, Charles doveva pensare anche a proteggere Abigail.
Per quel motivo, lentamente, iniziò a scostare le coperte che aveva alzato fin sopra la testa, setacciando cauto la camera con lo sguardo. I suoi occhi azzurri corsero da un lato all’altro, ma, a parte il mobilio e le ombre delle fronde agitate dal vento, non sembrava esserci nulla nell’oscurità.
Era sul punto di sospirare di sollievo, quando un fulmine cadde praticamente davanti la finestra che aveva alle spalle, proiettando sul letto la sagoma di qualcosa, enorme e immobile, sulla parete sopra di lui.
Alzò di colpo il viso e sbiancò in preda al terrore, mentre l’urlo che lanciò si perdeva nel boato del tuono che si abbatteva sulla casa.
Si nascose nuovamente sotto le coperte, stavolta tirandole in modo coprissero anche la sorella, e tremando come mai aveva fatto in vita sua; i muscoli scossi da spasmi violenti che non riusciva a controllare, senza poter scacciare quell’immagine marchiata a fuoco nella sua mente.
Un sorriso di zanne, talmente bianche da potervisi specchiare.
L’unico dettaglio che aveva notato con chiarezza nell’oscurità.
Una risata sommessa, sibilante, e di nuovo quei passi sul soffitto che, ora, si allontanavano da lui. Con gesto improvviso, qualcosa afferrò le coperte e gliele strappò di dosso, scagliandole lontano dal letto.
Charles sgranò gli occhi in preda al panico e soffocò l’urlo contro le mani che si era portato d’istinto alla bocca.
Lacci fini e appena appiccicosi lo afferrarono alle caviglie e ai polsi, costringendolo a stendersi supino sul materasso.
Con gli occhi animati da puro terrore lanciò uno sguardo verso Abigail, ancora addormentata, ma costretta anche lei in quella posizione. Fece per chiamarla, ma non un suono gli uscì dalle labbra, come se il buio se ne fosse cibato. Spostò freneticamente lo sguardo da una parte e dall’altra della stanza, finché il susseguirsi di quei picchiettii veloci non attirò la sua attenzione verso l’angolo a sinistra del suo sguardo.
 
Searching out fear in the gathering gloom and,
Suddenly!
A movement in the corner of the room!
 
Di nuovo quello strofinio di zampe.
Ancora una volta quel sibilo sommesso, mentre i lacci che aveva agli arti si stringevano dolorosamente per impedirgli di muoversi.
 
And there is nothing I can do…
 
Sudore freddo gli imperlava la fronte, mentre lunghe serie di brividi gli correvano lungo le membra.
 
…when I realise with fright…
 
Un altro fulmine fuori dalla finestra gli premise di vedere la consistenza lattea di quei lacci dai riflessi brillanti, mentre altri gli venivano riversati addosso, fino ad avvolgergli per intero le gambe in un bozzolo di ragnatela vischiosa e liscia come la seta.
 
…that the spiderman is having me for dinner tonight!
 
Lacrime calde iniziarono a scendergli lungo le guance senza che potesse controllarle. Guardò di nuovo verso la sorella che giaceva immobile, il respiro regolare del sonno, e un’espressione innaturalmente serena in confronto all’orribile incubo che stavano vivendo.
Un pensiero gli sfiorò allora la mente.
Era impossibile che con tutto quello che stava accadendo, Abigail dormisse ancora; fin da neonata aveva avuto un sonno incredibilmente leggero, tanto che anche il semplice avvicinarsi alla culla rischiava di destarla. Era già un miracolo che il temporale non avesse tenuto sveglia anche lei. Come lui, adesso, la bambina era avvolta fino alla vita da spesse ragnatele, mentre altre la tenevano ferma per i polsi; che dormisse ancora mentre era in quello stato andava ben oltre le sue capacità.
Una risata più acuta delle precedenti gli ferì le orecchie con un sibilo doloroso.
«Immagini bene, Charles».
Una voce divertita parlò dall’oscurità e lui si immobilizzò.
Puntò gli occhi nel buio di fronte a sé, battendo le palpebre per scacciare le lacrime che gli appannavano la vista, e corrugò la fronte allarmato.
«Abigail continua a dormire perché io lo desidero», spiegò la voce a conferma della sua intuizione.
La cantilena era diversa da quella a cui Charles era abituato, le esse più marcate e le altre consonanti più dolci del normale; le parole un susseguirsi di sfrigolii fastidiosi per i suoi timpani, ma era certo avrebbe riconosciuto quella voce ovunque.
«Amy…», gli sfuggì dalle labbra in un sussurro sconcertato. Nemmeno fece caso al fatto che, adesso, riusciva a parlare.
Un sorriso di zanne, talmente bianche da potervisi specchiare, custodito da labbra rosso sangue, lampeggiò nel buio della notte, prima che un volto pallido – molto più di quanto ricordasse, molto più dell’ultima volta che lo aveva visto, ore prima, molto più di quanto avrebbe dovuto – entrasse nel suo campo visivo.
I lunghi capelli che ricordava biondi e che era abituato a vedere ordinatamente appuntati sulla nuca, erano invece bianchi e sciolti sulle spalle; la piega rassicurante delle labbra aveva lasciato il posto ad un ghigno crudele; la dolcezza dei suoi occhi castani era stata soppiantata da una sinistra sfumatura più torbida.
Charles aveva davanti a sé il volto della sua bambinaia, eppure, se glielo avessero chiesto, avrebbe giurato che non si trattasse di lei; faticava a riconoscerla, faticava ad accettare che la ragazza che si prendeva cura di lui e della sorella con affetto da più di due anni, fosse la stessa creatura che gli stava ora difronte.
Quella allargò il ghigno lasciando luccicare maggiormente le zanne nella luce dei lampioni che filtrava appena dalla finestra. «Quasi», rispose.
Un’altra risata dolorosa per l’udito uscì da quelle labbra rosse di morte, mentre la creatura scuoteva la testa in modo naturale. Di nuovo il picchiettio dei suoi passi rapidi sul pavimento e subito fu ai piedi del letto del bambino.
 
Quietly he laughs and shaking his head.
Creeps closer now,
closer to the foot of the bed.
 
Ancora un lampo e Charles sgranò gli occhi di terrore, alla vista di quanto aveva davanti. Indifferente per la prima volta al rombo di un tuono, perché troppo era lo spavento dovuto ad altro, una minaccia più seria e crudele.
Il peggiore dei suoi incubi, responsabile dei suoi numerosi e improvvisi risvegli nel cuore della notte, col corpo madido di sudore gelido e scosso da brividi. Mani bianche le cui unghia erano sostituite da lunghi artigli neri come la pece, i capelli che Charles comprese in quel momento essere, in realtà, le ragnatele che lo avvolgevano talmente stretto che ormai non riusciva a sentire più le gambe, zampe scure di ragno che avevano sostituito la parte inferiore del corpo.
«No…», scosse la testa piano, mentre la disperazione si faceva strada in lui con tagliente precisione, toccando tutti i punti deboli del suo animo d’infante, bruciando ogni certezza su cui spargeva il suo veleno di desolazione.
«Che ti succede, piccolo? Si direbbe tu abbia visto un mostro», fece Amy.
Una mano pallida si sollevò per sistemare una ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio nel gesto abituale, e Charles seppe che era vero.
Quel mostro davanti a lui era la sua governante.
Panico puro gli corse nelle vene, il cuore che batteva come un maglio sull’incudine dentro la cassa toracica. Si agitò, cercò di ribellarsi, di strappare via le ragnatele che lo tenevano imprigionato, di scappare via di lì. Tentò con tutto se stesso di urlare e chiamare aiuto mentre le lacrime gli sgorgavano di nuovo giù dagli occhi, ma le sue suppliche si riducevano a meri sussurri che nessuno avrebbe udito, come se qualcosa glieli bloccasse in gola – come se il buio se ne stesse cibando.
Amy rise ancora una volta e la sfumatura torbida delle sue iridi si accese di famelica eccitazione. In un istante gli fu addosso, avvolgendolo con le braccia e le zampe mostruose, coprendolo di altre ragnatele fino al petto, mentre gli passava la lingua umida e rossa – troppo rossa – sul profilo del viso.
Assaggiando la consistenza delle sue lacrime di terrore.
 
And softer than shadow and quicker than flies,
his arms are all around me and his tongue in my eyes.
 
«Mi deludi, Charles. Dopo tutte le volte che hai ascoltato Amy raccontarti di me, ora ti comporti in questo modo? Hai dimenticato che così non fai altro che piacermi di più?». La sua voce lo accarezzava come una lama, burlandosi di lui. Cibandosi di quella paura come di un frutto proibito.
Mi raccomando, se sentiste dei rumori non muovetevi e rimanete a letto. Fingetevi morti. Potrebbe essere il Mostro Ragno venuto a mangiarvi.
 
“Be still, be calm, be quiet now, my precious boy.
Don't struggle like that or I will only love you more.”.
 
Cercava disperatamente una scappatoia, una via di fuga. Ma non c’era nulla lì. La porta era troppo distante e non aveva modo di raggiungerla e non vi era nulla che potesse usare come un’arma, qualora fosse stato in grado di muoversi.
Non c’era nulla lì. Neppure un lume per fare un po’ di luce.
 
 “For it's much too late to get away or turn on the light…”.
 
«Sai», fece il mostro sorridendogli con le zanne crudeli, «in realtà Amy nemmeno sa di me. Io vengo fuori quando lei dorme, in genere. La notte è più congeniale a quelli della mia specie», spiegò. Sovrastava Charles col suo corpo di ragno, mentre le tele lattee lo avvolgevano ora più lentamente, come volesse godersi quella caccia attimo dopo attimo. Gli artigli neri come ossidiana e affilati come lame lo carezzavano con finta delicatezza sulla pelle morbida del viso e del collo, indugiando attimi di troppo sulle arterie esposte della gola delicata. «È una cosa di famiglia, la nostra. Viviamo coi Collins da generazioni, ormai. Quelli come noi si legano agli umani, si insinuiamo dentro di loro, e da quel momento la loro prole è anche la nostra, la porta in sé», ghignò ancora. «Siamo bravi a non farci scoprire. Nessuno si accorge mai di noi. Eppure… forse i ricordi sbiaditi delle nostre caccie, forse la consapevolezza istintiva di avere un parassita al loro interno, fa sì che per chi ci ospita qualcosa rimanga delle notti in cui giriamo liberi per le campagne e le città. Ma la mente umana crede solo a ciò che vede e tocca con mano, così finisce per considerarci come meri mostri immaginari delle favole per spaventare i bambini». Rise con un sibilo basso, diverso dai toni acuti e taglienti che gli avevano ferito l’udito prima. Con una parte della mente, il bambino comprese che doveva essere in grado di modulare la propria voce nel modo che preferiva, evitando le intonazioni che le sue orecchie non potevano sopportare. Semplicemente, prima non aveva voluto farlo.
«Siete degli sciocchi, voi umani – riprese il mostro –, persino un bambino come te percepisce l’ombra minacciosa della verità che è presente nel fondo di ogni fiaba».
Quel sentore di allarme che lo prendeva ogni volta alla bocca dello stomaco per poi avvolgerlo nelle sue fredde spire come una trapunta, quello sgomento strisciante che solo una storia del terrore ben raccontata sa dare.
Le ragnatele si strinsero ancora, intorno al corpicino di Charles. Ormai immobilizzato fino alle spalle. «Meglio per noi, – commentò il mostro – così abbiamo modo di nutrirci indisturbati».
 
 “…the spiderman is having you for dinner tonight!”.
 
«Oh, non temere, Charles», la sua voce era veleno dalle fattezze del miele. Lo carezzava con quel nuovo tono leggero, per poi colpirlo per mero e spietato diletto. Giocava con lui come una normale aracnide avrebbe fatto con una mosca intrappolatasi nella sua tela, e preoccupandosene ancor meno. «Non ho intenzione di uccidere né te né tua sorella. Sarebbe un gesto estremamente poco conveniente: non si ammazza una gallina dalle uova d’oro. E io ho un debole per il sapore dei bambini», gli sorrise di nuovo. «Inoltre, non è di carne e ossa che abbiamo fame, né di sangue. Abbiamo gusti più sottili noi. Una notte a settimana è sufficiente per assorbire la giusta quantità di energie dai vostri corpi. Certo, in genere facciamo in modo che continuiate a dormire e al vostro risveglio ricordiate solo degli incubi vaghi e confusi, mentre avvertite le membra appena intorpidite; nulla che una notte di sogni agitati non possa giustificare. È stato un caso che stanotte tu mi abbia scoperta, credevo dormissi già da un pezzo, ma il temporale deve averti tenuto sveglio più del dovuto. Poco male: ho sempre amato vedere il terrore negli sguardi dei bambini. Dà un gusto più intenso al mio pasto».
Le ragnatele continuavano ad avvolgerlo nel loro abbraccio soffocante e adesso gli salivano sul viso.
«Ora, però, sta’ fermo e non agitarti. Finirà in fretta, promesso».
Gli strisciavano sulle guance, sopra il naso, sugli occhi. Lo chiusero in un bozzolo bianco in cui gli mancava l’aria per respirare. E stringevano. Gli aderivano addosso come una seconda pelle, finché la pressione di quelle strette non fu tale che cominciò a bruciare.
Dolore.
Acuto e sordo insieme.
Come fosse infilzato da centinaia e centinaia di aghi ustionanti e acuminati.
 
And I feel like I'm being eaten
by a thousand million shivering furry holes.
 
E mentre le forze lo abbandonavano lentamente, comprese che era davvero quello il modo in cui essi mangiavano. Che quel mostro lo stava divorando.
I tremiti convulsi delle sue membra si acquietarono poco a poco, privati, istante dopo istante, di ogni energia. Le palpebre che aveva tenuto ostinatamente aperte fino alla fine in quel bianco vischioso, si fecero più pesanti, finché non nascosero del tutto le sue iridi azzurre dietro le ciglia scure. Solo la sua mente conservava ancora un’ultima briciola di ardore. Non avrebbe ceduto con rassegnazione, fino all’ultimo avrebbe tentato di opporsi: come una scintilla improvvisa nella cappa uniforme del buio, radunò le ultime energie di cui riusciva ancora a disporre e diede voce ad un urlo silenzioso che risuono, come una fiammata abbagliante, nei meandri della sua mente.
E con l’eco del proprio grido nelle orecchie, spalancò gli occhi nel freddo della mattina.
 
And I know that in the morning I will wake up
in the shivering cold.
 
Un pallido sole faceva capolino dagli strati di tende bianche ancora accostate davanti la finestra. Il letto era vuoto, accanto a lui, ma i cuscini profumavano ancora dei riccioli rossi di sua sorella Abigail.
Si mise a sedere, il petto che si alzava e si abbassava velocemente per via del respiro allarmato, e osservò la sua camera da letto, in nulla diversa da come era stata la mattina prima. Puntò lo sguardo sulla tappezzeria, lo spostò sulle pareti e, in fine, sul soffitto, e da nessuna parte trovò i segni delle zampe della creatura. Il cuore gli correva ancora rapido nel petto, segno di uno spavento realmente preso, ma non vi era nient’altro a confermare quanto era convinto di aver vissuto.
Un sogno.
Possibile si fosse trattato davvero solo di quello?
Lanciò uno sguardo alle proprie gambe sotto le coperte, libere sul lenzuolo chiaro. Nulla. Non vi era traccia di quello che era accaduto.
Possibile davvero?
Un bussare sommesso alla porta lo fece trasalire.
«Ti sei svegliato, finalmente. Cominciavamo a pensare fossi entrato in letargo».
Quella voce.
Amy entrò in stanza reggendo il vassoio d’argento con la colazione fra le mani, seguita da Abigail che balzò sul letto accanto a lui, allungandogli un bacio sulla guancia per dargli il buongiorno.
Charles fissava la ragazza con una paura a stento trattenuta, le spalle rigide e incapace del più piccolo movimento. Quando la bambinaia si volse verso di lui e se ne accorse, corrugò la fronte allarmata. «Tesoro, ti senti bene? Sei pallido, hai forse la febbre?». Allungò una mano per sentirgli la fronte, ma il bambino si ritrasse di scatto, impaurito. «Charles, va tutto bene? Cosa ti prende?», gli chiese ancora Amy, col consueto tono caldo e rassicurante ora animato da una nota di sincera preoccupazione.
Il bambino puntò gli occhi in quelli di lei, ritrovandovi la dolcezza che li aveva accompagnati negli ultimi due anni dacché la conosceva. Osservò la ruga di turbamento fra le sue sopracciglia, la riga morbida e gentile delle sue labbra e il colorito rosato della pelle; abbassò le iridi sulle sue mani e le trovò prive di artigli.
Un sogno.
Volse lo sguardo sulla sorella, la quale gliene restituì uno confuso e preoccupato anche lei.
«Sì», si affrettò quindi a dire. «Solo un incubo».
Abigail sollevò un sopracciglio e accennò un sorrisetto ironico, «Il Mostro Ragno è venuto a mangiarti?», lo canzonò.
Lui non le rispose, limitandosi a volgere l’attenzione al vassoio che indicò con un cenno del capo. «Cosa c’è per colazione?», chiese a Amy. La fissava ancora un po’ circospetto, ma era deciso a lasciarsi alle spalle il terrore di quel brutto incubo il più in fretta possibile. Quella gli sorrise – nessuna traccia di crudeltà sulle sue labbra, nessun biancore innaturale sui suoi denti – e afferrò il coperchio, rivelando un piatto di zuppa d’avena fumante dall’aspetto invitante. «Mrs. Phillips ha preparato il porridge come piace a te».
Gli porse il vassoio e quello mangiò con voracità, di colpo affamato.
Mentre il calore dell’avena gli scivolava in gola, Charles iniziò a rilassarsi e la tensione dei suoi muscoli a sciogliersi. Rise per alcune battute della sorella e scherzò insieme a lei, mentre Amy usciva dall’armadio i vestiti che avrebbe dovuto indossare per andare in chiesa, dal momento che era domenica mattina.
Un sogno.
Li posò sulla poltroncina accanto al letto, rivolgendo poi a entrambi uno dei suoi caldi sorrisi.
Soltanto un orribile incubo.
Quando il bambino terminò la colazione gli tolse il vassoio dal grembo. «Su, vestiti in fretta o faremo tardi per la messa», gli disse. Abigail scese dal letto e si diresse, insieme a lei, verso la porta. Charles annuì e le rivolse il primo sorriso sereno da quando si era svegliato.
Era stato uno stupido a credere che Amy potesse essere qualcosa di diverso dalla giovane donna piena di premure e calore che era.
Scese dal letto con un piccolo balzo, mentre la bambinaia accostava la porta per permettergli di cambiarsi. Quando però fece per spogliarsi, qualcosa attirò la sua attenzione. Corrugò la fronte e scostò la manica del pigiama, rivelando tre sottili fili bianchi e vischiosi intorno a polso.
Il respiro gli si fermò in gola mentre il cuore riprendeva a martellare furioso.
«Ci rivediamo fra una settimana, Charles».
Una risata che gli ferì l’udito, quel tono basso e sibilante che lo aveva terrorizzato in quello che aveva sperato fosse stato solo un incubo nella notte appena trascorsa.
Un rivolo di sudore freddo gli corse lungo la schiena.
Persino un bambino come te percepisce l’ombra minacciosa della verità che è presente nel fondo di ogni fiaba.
Alzò gli occhi spaventato e incontrò quelli castani di Amy, ora privi della consueta dolcezza e animati da una sfumatura più torbida. La bambinaia gli restituì un sorriso del tutto privo della gentilezza di prima; il lampeggiare momentaneo di una zanna innaturalmente bianca su quel ghigno crudele, prima di chiudere la porta della sua camera.
 
And the spiderman is always hungry...
 
 
 

FINE
 

  
 
 


Angolo autrice:
radiocazzona
vi augura un buon pomeriggio, gente!
Oggi pomeriggio ho combattuto valorosamente contro l’html bastardo che aveva deciso di rompermi i cohones – problemi inerenti ai dialoghi che sparivano per il tipo di virgolette che usavo, con conseguenti istinti omicidi –; neanche a dirlo: ha vinto lui. Motivo per cui sono stata costretta a postare e cancellare la storia più volte, senza riuscire a trovare una soluzione. Dei disagi causati a chi aveva iniziato – o tentato – di leggere questa OS, mi scuso.
Ma quella da me persa è stata solo una battaglia, adesso ho vinto la guerra! Muahahahahah!!! E devo ringraziare l’aiuto logistico di Ato(pika) xD <3
Detto questo, cercherò di dare una parvenza di serietà a queste note.
L’idea per questo breve racconto è nata giusto quattro giorni fa e la mia cara ispirazione – dotata, come sempre, di volontà propria – ha voluto onorarmi della sua presenza, così da permettermi di scriverlo velocemente. Tanto che ne sono io stessa abbastanza stupefatta.
E’ un racconto davvero senza pretese, ma mi sono divertita tanto a scriverlo, motivo per cui spero piaccia anche a voi. E devo ammettere che una piccola – minuscola – parte di me si augura anche di avervi fatto venire un bricioli di strizza xD
Andando al testo: il Mostro Ragno e il suo “racconto popolare” sono mero frutto della mia fantasia. Una storia del genere, che io sappia, non esiste. Ma devo ringraziare i Cure e Lullaby per avermela ispirata. In quanto song-fic, ho cercato di coordinare la narrazione e il testo della canzone il più possibile, mi auguro di esserci riuscita. In fine, ci tenevo a precisare che ho qui usato più volte ii termini governante e bambinaia praticamente come sinonimi; so che è un uso improprio, dal momento che non lo sono, ma spesso in Italia – quantomeno nei film e simili – vengono usati come tali e siccome sono lagnusa (traduzione: pigra) mi sono attenuta a ciò xD comunque sia, si tratta della nanny inglese – e anche qui, la nanny è generalmente più matura, in quanto a età, mentre Amy è molto giovane ma la spiegazione di ciò l'ho data all'inizio del racconto stesso. In ultimo - e forse avrei dovuto dirlo prima! - questo racconto vuole rifarsi, per stile e atmosfere - o almeno, ci prova -, ai racconti del terrore dell'800.
E niente, insomma, spero di avervi fatto passare un quarto d’ora piacevole xD bacioni!
 
Graine 

   
 
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