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Autore: ericapenelope    16/09/2012    2 recensioni
[GDR Trama inventata.]
La storia viene ripresa da un *gioco di ruolo* su Hunger Games. Parla di più personaggi inventati da altri player che si ritrovano nell'Arena, ma non solo. Sono legati da qualcosa o qualcuno. E' un proseguimento diverso da come è andata davvero. E' il *mio* proseguimento di una storia che parla di combattimenti e di sentimenti non detti. E' tutto un gioco, d'altronde, no? Buona lettura.
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3
Coalizione

 

Quando Thomas Watson si sveglia, si accorge di essere ancora illuminato dall'abat-jour posta sul comodino. Non è mattina. E' ancora notte. Probabilmente notte fonda, a giudicare dal buio che viene riflesso solo da stelle e da quella grande palla che è la luna. Ha la fronte imperlata di sudore, la maglietta completamente bagnata e i capelli disposti in modo disordinati. Fa per alzarsi dal letto, lasciando cadere le gambe sul parquet. Thomas Watson ha appena fatto un incubo, ma non si ricorda assolutamente su cosa era incentrato. Si dev'essere addormentato all'improvviso, perché non ricorda nemmeno il suo ultimo pensiero. Logico, forse. Si passa una mano sul viso, asciugandosi con il palmo quel poco che basta per ricominciare a respirare. Si morde un labbro coi denti, accorgendosi solo ora di avere una sete pazzesca. Porta il suo corpo semi nudo al bagno, sciacquandosi la faccia e guardandosi allo specchio. Quando incontra la sua immagine, cerca di studiare ogni suo piccolo difetto. Studia la curvatura delle labbra, le occhiaie sotto occhi azzurri e stanchi, la fronte aggrottata, gli zigomi alti e le guance più scavate del solito. Thomas è stanco, se ne accorge solo adesso, guardandosi allo specchio. Thomas è stanco, se ne accorge solo ora, con lo sguardo piantato su quell'immagine che riconosce a stento. Caccia via l'evidenza levandosi la t-shirt, buttandola per terra e tornando in camera da letto. La finestra è ancora aperta; avverte un vento fresco che lo attanaglia al petto. Decide di infischiarsene, lasciando spuntare la testa al di fuori. Il cielo è tanto sereno quanto lui è sudato. Molto.
Quando guarda le stelle si ricorda una frase, citata da Oscar Wilde: La maggior parte di noi vive sguazzando nelle fogne, solo che alcuni lo fanno guardando le stelle. E quando si ricorda questa frase, si ricorda l'unica persona con cui ha condiviso davvero qualcosa di personale. Lilian Sole St. James è perennemente presente nella sua mente; la vede ogni istante che passa da solo. La vede ridere. La vede imbestialirsi con quel suo faccino arrogante per qualsiasi cosa. La vede puntargli gli occhi addosso. La vede. Vede solo lei.
Il pensiero lo fa distogliere dalla visione di miliardi di stelle. Costellazioni del Cigno, Leone, Lira, Aquila... niente lo riporta ad una lezione di astronomia. Tutto riporta a lei.
Decide di scendere al piano di sotto, perché tanto non riesce a riprendere sonno e ha troppi pensieri per la testa. Raggiunge la cucina a piedi nudi, punzecchiato dalle piastrelle fredde e dalla debole luce di una lampada. Afferra un bicchiere e lo riempie con acqua di rubinetto. Nel mentre, accende la TV. Quella TV che Capitol City ha disposto per ogni famiglia. Quella TV che gli ha fatto seguire la sua Lilian in queste settimane. Un Grande Fratello di Panem.
Beve a lunghe sorsate, riempiendosi il bicchiere più volte di acqua di rubinetto. Al terzo bicchiere, però, la gola sembra volerlo strozzare. I muscoli, l'esofago, lo stomaco sembrano accartocciarsi su se stessi, diventando una pallottola di cemento, pesante e massiccia conficcata all'altezza del petto. La maggior parte di noi vive sguazzando nelle fogne, solo che alcuni lo fanno guardando le stelle. Gli occhi si sbarrano, vitrei. Gli occhi si sbarrano, vitrei e ghiacciati. Gli occhi si sbarrano, vitrei, ghiacciati e accecati. Vede solo lei. Vede Lilian. Vede Axel. Vede entrambi vicini, troppo vicini. Vede Lilian. Vede Axel. Non vede più solo lei. Vede le sue labbra che si avvicinano a quelle del compagno. Vede lo sfiorarsi con fare innocente. Vede quel contatto che pensava suo. Aveva sempre pensato come suo. Suo, suo, suo. Ed ora lo vede appartenente ad un altro uomo. Ora lo vede non più suo. Ora lo vede distante. Troppo distante per essere recuperato.
«Lilian Sole, forse ho rubato qualcosa che apparteneva a qualcun altro» Vede lei che lo fissa. Vede lui che sorride. Li vede entrambi, tranquilli e pacati, prima di spegnere la televisione e rimanere di nuovo con la bocca secca.
Watson, lo sai che sei irritante? Dovresti smetterla di ridere in quel modo.
Lui vorrebbe davvero ridere, adesso. Posa in silenzio il bicchiere sul bancone di marmo che ha davanti. Posa entrambe le mani, sorreggendo il peso asciutto ma troppo massiccio per quel greve pugno di cemento che sente ancora parte di sé, dentro di sé. Gli si conficca nel petto in modo più violento, mano a mano che rivede l'immagine nella sua testa. Lei con lui. Lei per lui. Lei e lui. Loro. Non vuole nemmeno crederci. Forse è solo una messa in scena per farsi amare dal pubblico. Lui li conosce bene i trucchetti che Capitol City sfrutta. E conosce bene soprattutto quelli architettati da vari Tributi. Ma forse non conosce bene Lilian Sole. D'altronde, il loro rapporto è sempre stato di poche parole e molti silenzi. Pochi fatti e molti sguardi. Pochi tocchi e molti riguardi. Forse non ha mai capito davvero un bel niente di quello che si era illuso di poter avere. E' tutto una questione di forse, se, ma, però, perciò, chissà. Non c'è mai stato niente di concreto. Non c'è mai stato niente che avesse potuto renderla effettivamente sua, nemmeno quando Allison Martins lo aveva minacciato di stare bene attento a ciò che le sue mani avrebbero toccato, e in cuor suo sapeva benissimo che non bisognava contraddire la Martins, soprattutto quando l'argomento era la sua migliore amica. Così ora si ritrovava stupito, confuso, adirato, negando perfino di percepire il leggero, anzi no, terribile e profondo, fastidio che aveva sentito all'altezza della bocca dello stomaco verso quel bacio casto, che avrebbe voluto dare lui. Verso quel bacio casto, che sarebbe dovuto appartenere a lui. Quel bacio casto, che non avrebbe più potuto dare a lei, come dimostrazione dell'affetto che provava, sentiva e avrebbe sentito sempre.
Lo sapeva che sarebbe stato così, ma non aveva mai fatto nulla per ottenere il suo consenso. Non aveva mai osato sfiorarla nemmeno con un dito, sebbene lo desiderasse più di qualsiasi altra cosa.
Siamo solo amici per un breve tempo, ma tutti prima o poi sono destinati a scontrarsi.
Ma non c'era niente di così falso, a risentire la voce dei suoi pensieri. Lo avevano dimostrato Axel e Lilian, baciandosi davanti l'intera Panem. Qualcos'altro, oltre lo scontro, c'era stato. E lui, come gli altri cittadini, era stato solo un inerte spettatore a guardarsi la scena. Lo spettatore che aveva scelto lui stesso di diventare.
Vorrei dirle tante cose, ma non credo di essere in grado di sopportarne le conseguenze.
Le conseguenze le sta sopportando comunque e nel modo che non avrebbe pensato di vivere.
Gli occhi guizzano da una parte all'altra della stanza, rendendosi conto di essere più sudato di prima, ma di non avere più sete. Questa volta procede il passo verso il retro di casa sua, appiattendosi contro la parete in pietra e cercando di ascoltare i suoni della notte. Non c'è niente di più sbagliato in quello che ha visto, ma d'altronde il cervello non gli ha mai suggerito qualcosa di giusto. Forse perché in questo genere di cose, sono solo i sentimenti a prevalere e ad avere una voce in capitolo. Forse perché in questo genere di cose, non è abituato a far prevalere il cuore al cervello. Forse perché in questo genere di cose non è mai stato capace di sopraffare le sue vere volontà. E dire che l'ha sempre voluta, Lilian Sole. Da quando le aveva mostrato quegli occhi celesti. Da quando si sono incontrati. Da quando niente è diventato così ovvio. Ed è solo ora che pensa di essere stato tradito, di essersi auto-punito ma di non avere mai meritato una punizione del genere. Lui non le aveva mentito mai, aveva solo ovviato la verità. Ma lei? Lei aveva mentito più di tutti. Si era lasciata trapelare quell'atto di gelosia quando Thomas aveva baciato Victoria. Si era lasciata soffocare un gemito di tristezza, quando lui l'aveva presa tra le braccia e le aveva confidato che era meglio così. Si era lasciata sfuggire una promessa che ora non avrebbe potuto mantenere più. Lilian Sole St. James aveva tradito le parole di Thomas e se stessa. Lilian Sole St. James aveva dimenticato quello che gli aveva promesso, lasciandolo tristemente a guardare la scena. Lilian Sole St. James era la donna che aveva lasciato andare ancor prima di poterla toccare, ma questo era solo colpa sua.
Thomas non può incolpare Lilian di quell'atto. E se anche lei gli ha mentito, lui deve riconoscere che l'ha fatto per proteggerlo da quello che sarebbe stato un dolore lancinante.
Aveva architettato tutto alla grande, Lilian. Aveva architettato tutto con i migliori mezzi disponibili. Sapeva che se Thomas avesse visto quel bacio, sarebbe stato più facile dimenticarla. Sarebbe stato più facile sopportare la sua morte.
Non è forse così?
La verità è che lei si sarebbe lasciata morire, senza combattere. Perché adesso, affrontare Thomas sarebbe stato più atroce che affrontare una dozzina di ibridi inferociti ed affamati. La verità è che lui non riesce a capirci più niente, ha bisogno di pensare e di restare solo. Ha bisogno di riflettere sulle mille congetture che gli balenano il cervello. Ha bisogno di capire perché ha scelto Axel, piuttosto che la solitudine.
Non è poi così difficile accettarlo, quanto capirlo. E lui di queste cose capisce ben poco, solo... perché lui?
Di queste cose lui capisce ben poco, tanto da spegnere la TV, sbarazzandosi di quell'immagine, sapendo benissimo, invece, che quell'immagine non avrebbe potuto lasciarlo mai.

 

 

******

 

Ambrosia non è solita uscire di casa dopo le ventuno di un venerdì sera. E' una schizzata pazza - quantomeno è considerata tale – ma odia la marmaglia di gente e giovani che si raduna in piazza per festeggiare, chissà cosa poi, la fine della settimana. Ama invece starsene seduta davanti al suo ampio specchio e riflettersi assiduamente, con meravigliosa foga. I suoi meravigliosi boccoli hanno un meraviglioso colore e via dicendo. Tutto in lei suscita quel tocco di bellezza che, sebbene molte abbiano, lasciano trapelare in spocchiose ed irriverenti frasi. Lei non si è mai vantata di ciò, non con evidente consapevolezza. La sua dispotica mania ossessivo-compulsiva la fa tacere la maggior parte nel tempo. Trova la possibilità di parlare solo in brevi situazioni, come il lunedì mattina con Watson. Chissà perché, ma quel ragazzetto sembra più spocchioso di alcune bamboline di porcellana. Ha la voce irritante e riesce a scongelarla in quell'imperterrita situazione di silenzio glaciale. Ma sebbene sia una situazione solita a trasformarsi in un passionale e motivato rapporto, Ambrosia non è minimamente interessata a circuirlo per arrivare a catturarlo. Non in quella maniera. Ad Ambrosia non è mai minimamente interessato fingersi innamorata o innamorarsi. Non ha mai capito la differenza, in realtà. Come potrebbe innamorarsi di un'altra persona al di fuori di se stessa? Non potrebbe, non ci riuscirebbe, vorrebbe dire guarire. La sua malattia la soggioga totalmente e ne è consapevole. Se non ne fosse consapevole, non sa se le piacerebbe davvero essere come tutti quegli sciocchi molluschi che si ritrova ad ascoltare ogni santo giorno. Non sa se riuscirebbe a sopportare determinati sguardi, determinati tocchi, determinati sguardi con tocchi. Non lo sa. E non se lo chiede nemmeno. Come potrebbe mai davvero pensare di poter amare se non sa nemmeno provare? A parte odio, invidia e sicuramente superbia, Ambrosia non conosce la realtà di tutto quel mondo fatto di cose normali che condivide il resto dell'esistenza, normale agli occhi degli altri, insensato ai suoi. La sua più che normale malattia la classifica come un soggetto con handicap di personalità. Ma per lei, tutto questo, è assolutamente normale. Sarebbe insensato se non fosse così. E' come se vivesse in un mondo parallelo, dove chi è normale viene considerato un pazzo insensato e viceversa. Un bel mondo dove rifugiarsi, quando ci si sente incompresi.
Ma lei il venerdì sera non è solita uscire di casa, ed è per questo che se ne sta rinchiusa in camera sua a fissare la sua immagine riflessa in quel grande specchio dinanzi a sé. Si tasta il viso, lievemente piegato, addentra le dita tra i boccoli annodati, lisciandoli. Si tasta gli zigomi, le labbra, la punta del naso e l'inarcatura delle sopracciglia. Si tasta il collo, le clavicole sporgenti e le spalle ampie. Si tasta il seno, prendendoselo in mano, accarezzandolo come accarezzerebbe una lama gemella. Si tasta le costole, l'addome e l'ombelico, non sorridendo mai. Nemmeno quando piega la schiena per tastarsi perfino le anche e le ginocchia. I polpacci tesi e mai rilassati e la pianta del piede, arrivando a rimanere seduta davanti lo specchio. Nuda. Con gli occhi torna a fissare lo sguardo riflesso, circuendo con le iridi quel neo appena sotto l'occhio sinistro e lo sguardo, riflesso e reale, più miele che mai. E' in pure adorazione verso il suo corpo, verso se stessa. Si tratta di vanesia, si tratta di lussuria, si tratta di amarsi e perdersi completamente nella sua figura. Si tratta di volersi e di lasciarsi. Si tratta di pazzia e di comprensione.
Amarsi e perdersi.

 

 

***

 

«Vattene».
Ambrosia lo sta dicendo in maniera ancora calma.
«Ti ho detto di andartene!»
Anche se poi basta poco per farla infuriare.
«Mamma, ti ho detto di sparire dalla mia vista!»
Fino a farle scaraventare un vaso in porcellana contro un muro, frantumandolo in mille cocci. Che poi, cosa ci fa un vaso in porcellana all'interno della sua palestra, è cosa da chiedersi.
Mai fare arrabbiare Ambrosia Julia Adams. Ma nemmeno sua madre, Gloria, è mai riuscita a capirlo. Le orecchie di tutti sembrano ovattate da cotone invisibile. Nessuno comprende. Nessuno capisce. Ma soprattutto nessuno sente. Perché non ci andrebbe molto, se solo qualcuno la considerasse diversamente da quello che effettivamente è. E non potrà essere considerata diversamente, soprattutto quando si ritrova nella sua personale palestra ad allenarsi fino a notte fonda. Perdendo la concezione del tempo, delle persone, perdendo la concezione persino di se stessa. Soprattutto di se stessa. Ma è stata creata per questo: per essere una macchina da guerra, per essere instancabile, per essere tutto, tranne che umana. Perché lei non lo è. Non è, infondo, umana.
«Lasciami in pace. Allenarsi. Volevi questo, giusto? E allora andate tutti al diavolo. Mi sto allenando. Devo sconfiggerlo», proferisce senza smettere di sventolare per aria quelle due lame che ormai le sono diventate migliori amiche.
«Ambrosia, va bene allenarsi. Ti abbiamo spinto noi a farlo, ma se non dormi almeno un paio d'ore, sarai più stanca di prima. Sarà facile batterti. Ascoltami», è lo zio a interferire questa volta. E per quanto odia ammetterlo, è anche uno degli unici due uomini al mondo che rispetta.
«Bones, pure tu. Vai al diavolo. Sai meglio di me che non c'è niente che potrebbe fermarmi ora», risponde lei di rimando.
«Proprio per questo, ti stiamo chiedendo di ascoltarci. Perché lo so meglio di te che non sarebbe molto produttivo se continui di questo passo». E dovette credergli.
Ambrosia smette con la rotazione da ninja stile Kill Bill e si volta di rimando verso Bones. In realtà non è proprio suo zio, ma da quando era una poppante l'ha sempre considerato tale. Forse uno zio troppo giovane. Forse uno zio troppo audace. Forse uno zio che sa troppe cose di lei. Bones non è certamente l'ultimo arrivato in famiglia, ma Ambrosia non si è chiesta mai il vero motivo della sua presenza. Probabilmente è un vecchio amico di famiglia. Probabilmente è uno zimbello che sua madre porta alle sue grazie quando suo padre non c'è. Possibile, ma alquanto improbabile. Bones in passato non aveva mai mostrato quell'interesse verso Gloria, ma nemmeno l'aveva del tutto ignorata. Semplicemente si scambiarono e si scambiano tutt'ora parole, come due colleghi di lavoro. Forse è questo che effettivamente sono: due vecchi colleghi di lavoro.
«D'accordo», sospira infine. «Ma basta con questi avvertimenti da finto interessato. Andate via». E fu di nuovo sola.
E' frustrata, forse perché sono due giorni che non esce dalla sua personale palestra multi-uso. Forse perché è lunedì e questa mattina non ha visto Thomas. Forse perché aveva bisogno di vedere Thomas. Di sfogarsi e di prenderlo in giro con quella novità che aveva spopolato negli ultimi giorni.
La sua bella Lilian Sole l'ha tradito. E sebbene il resto del popolo ignori totalmente la relazione che c'é – o forse c'era - tra i due, la Adams sa meglio di lui, meglio di loro, che qualcosa svolazzava nell'aria già da un po'. E quel nome pronunciato dopo che si sono baciati ha provato tutto quello che Ambrosia già sapeva. Già intuiva. Già sognava. Già sperava. Non l'ha visto direttamente, ma sua madre, oltre che a prepararle il pranzo, la informa nel dettaglio di chi vive, chi muore, chi sopravvive ad un attacco, cosa sfruttano per combattere e qual è il loro ingegno quotidiano nelle vicissitudini dell'Arena. E come ogni donna, vecchia e pettegola, le informa anche dei più recenti dettagli inutili. Come il bacio tra la piccola Lilian e il giovane Axel. Ambrosia non ha fatto altro che sorridere, tutto il tempo. E sorniona, questo lunedì mattina, si aspettava d'incontrare un Thomas affranto o arrabbiato, deluso o angosciato, triste o sollevato. Invece non ha trovato nessuno. Nemmeno Keener, il suo istruttore. Si è infuriata parecchio, ricapitolando in palestra tanto da riversarla da capo a piedi, distruggendone la maggior parte. Naturalmente non ne è uscita illesa, portando sulle sue spalle una multa di parecchi quattrini da sborsare entro la fine della settimana. E le è andata ancora bene.
Fa per uscire, ha bisogno di una boccata d'aria che il loco sotterraneo proprio non riesce a darle, finendo con l'inciampare sui suoi passi. Si ferma poco dopo aver sorpassato il proprio giardino, superando la cancellata in ferro battuto e individuando raggi caldi e bassi.
«Watson», il suo è puro stupore. Il ragazzo le si presenta dinanzi con le solite mani dentro i tasconi dei pantaloni, con il solito sguardo indecifrabile, con il solito occhio indagatore e sbruffone a caratterizzargli il viso. E' pulito, di tutto punto e sembra stare bene. Anzi, sembra stare benissimo. Nessuna pietra sembra avergli scalfito il cuore. Nessun masso sempre essergli pesato addosso. Non come pochi giorni fa, almeno. Oggi Thomas Watson si presenta lindo e rilassato, come uno che ha dormito nove ore di fila e ha fatto tre pasti caldi e completi.
«Adams», risponde lui a una domanda che Ambrosia non ha mai fatto. Lei è solo sorpresa di vederselo davanti casa. E' sorpresa persino di comprendere che lui conosce il suo indirizzo. Insomma, non è poi così grande il Distretto numero 2, ma nemmeno troppo piccolo. Ci si può anche perdere nei meandri del Villaggio.
«Pensavo stessi progettando un suicidio degno di te».
«Io invece pensavo che profumassi di rose, ma evidentemente entrambi siamo rimasti delusi».
I due si guardano, si scrutano e continuano a lanciarsi battutine di questo calibro. Le palpebre sono due fessure, l'espressione è cagnesca, ma non sanno perché vi è tutta questa tensione, nell'aria. O forse lo sanno meglio di tutti.
«Cosa vuoi?», chiede lei.
«Parlare», risponde lui.
Ambrosia inarca un sopracciglio, scettica. «Preferisco combattere, Watson. Dovresti saperlo».
«Questa volta io non ho bisogno di combattere».
«Ed io me ne fotto altamente di quello di cui tu hai bisogno».
Avanzano, l'uno verso l'altro, in circolo. Ambrosia è sudata, sporca e sente l'adrenalina in corpo più di prima. Watson vuole parlare. Watson è venuto a cercarla per parlarle. Cos'è? Il suo nuovo strizzacervelli? Non spettava forse a Keener, alla bella Martins o a chiunque altro per parlare? Oppure... oh.
«Ti manca», si ferma. Ambrosia ha scoperto l'acqua calda e, parole come quella, non le escono molto spesso dalla bocca. Sgrana le palpebre, arrivando ad un'unica e sola conclusione. «Non posso parlare con te, Watson», pronuncia piccata. «E tu non puoi parlare con me», continua, ma si corregge: «Non vuoi parlare con me».
D'altronde è tutta una questione di volere, dovere e potere. Non vuoi. Non puoi. Non devi. E' tutta una questione di forse, se, ma, però, perciò, chissà.
«No». Lui avanza deciso, senza toccarla, ma diminuendo le distanze. La fissa, senza malizia, senza provocazione. C'è solo Thomas Watson davanti a lei. «Io ho bisogno di parlare con te, Adams». Le ultime parole che sente, sembrano accarezzarle l'orecchio in modo invitante. «Devo raggiungere l'Arena», incomincia così, senza smettere di fissarla. «Devo raggiungere Lilian», continua a biascicare, senza interrompere il contatto visivo. «Mi devi aiutare, Adams».
Ambrosia lo ascolta, senza batter ciglio. E Watson parla, senza battere ciglio. Senza accorgersene, lui le ha stretto il braccio destro. Senza accorgersene, lei ha abbassato lo sguardo. Senza accorgersene lei parla, esprimendo solo una parola. Sette lettere. Una convinzione.
«Andiamo».

   
 
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