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Autore: Chara    16/09/2012    9 recensioni
Phoebe è una semplice ragazza inglese, dal carattere un po' spigoloso e una modesta esperienza di uomini imbecilli. L'incontro con Joseph Morgan le aprirà gli occhi su quanto non sia il caso di fare di tutta l'erba un fascio, anche se ci vorrà un bel po' di tempo prima che il suo cervello accetti che quella che prova nei confronti dell'attore non è semplice attrazione fisica.
STORIA DA REVISIONARE!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Joseph Morgan, Joseph Morgan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II

 

 

 

Per quasi tutto il tragitto non aprii bocca, infischiandomene completamente del pesante silenzio che si era creato. Non volevo essere cordiale, era stato lui stesso ad impormi la sua presenza. Per cui, se non altro, potevo comportarmi come più mi veniva naturale: da apatica e stronza. Non potevo farci nulla se ero fatta così, o se lo ero diventata dopo relazioni turbolente – che peraltro avevano sempre avuto i propri lati negativi in superficie, per cui probabilmente la mia ruvidità era dovuta al biasimo verso me stessa per non aver capito che sarebbe stato meglio se mi fossi fatta gli affari miei.

C’era da dire che, anche se così saputo e superiore, Joseph non si degnò di cominciare una conversazione se non nel momento in cui, ad una fermata, due ragazze iniziarono ad agitarsi dopo averlo riconosciuto. E, per sviare i sospetti, fece la cosa più sleale del mondo: mi trasse a sé, infilando le mani nelle tasche posteriori dei miei jeans e seppellendo il viso tra i miei capelli.

«Prima che ti vengano le crisi epilettiche – sbuffò sarcastico, prevedendo già il momento in cui avrei iniziato a divincolarmi – Aspetta almeno che la metro riparta. Quelle due continuano a fissarmi e al momento non ho tempo di firmare autografi.»

«Sì che ce l’hai il tempo – sibilai, costringendomi a passargli le braccia al collo, in cerca di credibilità. Non avrei potuto sopportare una sua critica sul mio mancato spirito di recitazione – Nessuno ti obbliga qui a stressarmi l’anima.»

Ringraziai il cielo che i suoi occhi non potessero vedermi, perché quelle mani sul mio fondoschiena avevano avuto il potere di farmi arrossire, così come i suoi fianchi contro i miei. Forse non ero più abituata a trattare con gli uomini, era più di un anno che non uscivo con nessuno, ma quella reazione mi sembrava comunque esagerata. Doveva essere colpa del suo profumo, decisi.

Quando la metropolitana ripartì fummo sbilanciati all’indietro, complice la mancata furbizia di appenderci a qualche sostegno. Dio, ma come poteva essere così vuota la mia testa?

Finii con la schiena contro la porta e lui addosso a me. Un bruciore acuto mi avvolse la schiena, lasciandomi un senso di nausea potentissimo. Dovetti mordere qualcosa per impedirmi di urlare, e guarda caso a portata di denti c’era solo la maglietta di Joseph.

«Non ti facevo così focosa» mormorò divertito quando infine lasciai la presa. Come osava? Aveva capito benissimo perché l’avevo fatto. Dio, avevo una voglia immane di ridurre la sua faccia come la mia schiena! Non mi sarebbe affatto dispiaciuto, poi, constatare l’effettiva efficacia del trucco di scena e di tutte quelle porcherie che avevano in faccia per mostrare vent’anni meno.

«Stai per caso dicendo che sono frigida?» lo accusai, inarcando scettica un sopracciglio. Non accettavo critiche da qualcuno che mi conosceva da un quarto d’ora. Anzi, cosa diavolo stavo dicendo? A ripensarci bene nemmeno mi conosceva!

«Com’è che ti scaldi tanto? – mi provocò, tirandomi un ciuffo di capelli. Gli arrivò uno schiaffo sulla mano, ma riuscì a cogliere al volo l’occasione per intrecciare le dita con le mie e tirarmi verso un posto libero, e mi obbligò a sedermi sulle sue ginocchia – Ti senti punta sul vivo, forse?»

«Mi sembri un po’ troppo presuntuoso» mormorai, cercando di concentrarmi su ciò che dicevo e non sul calore che emanava il suo petto, a contatto con la mia spalla. Non potei, però, esimermi dal notare come fosse attento a quelle che, in quel momento, potevano essere considerate le mie esigenze: mi aveva fatta sedere in modo che la schiena non fosse a contatto con nulla e persino il suo braccio, che mi circondava i fianchi per aiutarmi con l’equilibrio, era messo in modo da non arrecarmi fastidio. E mi resi conto che, probabilmente, non si trovava nel massimo del comfort.

«Sei sicuro di essere comodo?» gli domandai, voltando il capo vero di lui. Facendolo, il suo naso si scontrò con il mio e sussultai. Non mi ero resa conto che il suo viso fosse così vicino.

«Ti preoccupi per me, ragazzina?» sorrise divertito, vedendo come fossi quasi spaventata dalla sua vicinanza. Girai definitivamente il volto dalla parte opposta, pentita di essermi interessata a lui anche solo per un momento. Perché diavolo mi stavo preoccupando per uno sconosciuto? Solo perché era famoso? Non era certo da me un comportamento del genere, avrei dovuto farmi psicanalizzare da Amber, ma se le avessi detto in braccio a chi ero seduta forse avrebbe perso la decenza e tanti saluti alla psicanalisi. Già, perché, in barba all’imminente laurea in psicologia, era ancora una ragazzina in preda agli ormoni e con un sacco di attori da soap opera appesi alle pareti della stanza. Soap opera, serie TV da scompenso ormonale, cose così insomma. Era una cosa a cui pensavo spesso, perché non riuscivo a togliermi dalla testa la sua immagine di adorazione per lo schermo di un televisore: da brividi.

«Pura educazione» sibilai in risposta, tenendo il capo ostinatamente fisso davanti a me.

«Non mi sembrava che fino a pochi minuti fa ti importasse dell’educazione» ribatté di nuovo. Dio, poteva una sola persona darmi così tanto sui nervi? E dire che quel braccio attorno ai miei fianchi sembrava così innocuo…

Mi alzai, senza più degnarlo di uno sguardo, scendendo al volo non appena le porte si aprirono. Mi raggiunse quasi di corsa, prendendomi un polso per farmi voltare. Quell’odioso sorriso aleggiava ancora sulle sue labbra piene e non accennava ad andarsene. Era irritante.

«E dai – mi riprese, passandomi con calma un braccio attorno alle spalle. Il mio stomaco fece una capriola, sembrava quasi che mi considerasse di vetro – Non stavi scappando, vero?»

«Niente affatto – risposi a tono, camminando a passo spedito, incurante della sua ingombrante presa sulle mie spalle – Questa è la fermata, genio

«E io che pensavo stessi provando a seminarmi» sogghignò, scompigliandomi i capelli. Si prese la mia peggior occhiata al vetriolo, ma non fece altro che ridere. Se era furbo anche solo la metà di quello che sembrava, sapeva già abbastanza cose di me da scriverci un libro. Che poi, perché diavolo di motivo gli interessava?

Chiamai la signora Flynn mentre percorrevamo il breve tragitto dalla fermata della metropolitana fino all’appartamento in affitto che dividevo con Amber e la informai sull’ormai lampante ritardo che avrei avuto, assicurandole che per le undici sarei arrivata. Fortunatamente era una signora molto comprensiva, si era solamente preoccupata per la mia salute, ma non avevo perso tempo a spiegarle cosa fosse realmente successo o le sarebbe preso un attacco di cuore.

Durante tutta la telefonata Joseph si era comportato quasi bene, non aveva fatto battutine di sorta e si era limitato ad osservarmi con interesse, le mani sprofondate nelle tasche della tuta e lo sguardo assorto. Più volte persi il filo del discorso con la signora Flynn, perché troppo presa a domandarmi per quale motivo si fosse tanto fissato con me.

«Ma non hai qualche film da girare tu? – sbuffai alla fine, cercando le chiavi nelle tasche del cardigan di Amber – O qualche copione da studiare?»

«Niente da fare ragazzina, sono in pausa» mi rinfacciò soddisfatto. Sembrava stesse godendo come un riccio solo dicendomi quella frase. Si accontentava di poco.

«Amber Staveley e Phoebe Prentice – lesse poi, lo sguardo fisso sul citofono – Chi è Amber?»

«La mia coinquilina» risposi secca, non dicendogli nulla di più di quanto non avesse dedotto già da solo. Insomma, perché diavolo voleva sapere tutte quelle cose?

«Non potresti essere un po’ meno scontrosa?»

«No – soffiai, chiudendogli inaspettatamente in faccia il cancelletto – Devo ancora capire quale insulso motivo ti abbia portato fin sotto casa mia. E tutto ciò ignorando il fatto che sei più appiccicoso di una cozza e che non ci conosciamo

«Perché – divenne serio improvvisamente, stringendo le sbarre di ferro con le mani – Quella schiena ha bisogno di una disinfettata e no, da sola non ci arriveresti.»

«E perché non avrei potuto chiedere a Amber?» gli domandai, retorica. Però scosse il capo, come se fosse ovvio il motivo per cui non avrei potuto.

«Vorrei ricordarti che ti sei buttata più o meno spontaneamente sotto una macchina – si stizzì, sbattendo la mano contro il cancelletto – Come maledizione facevo a sapere che non saresti svenuta nel bel mezzo di Londra? Smettila di fare la sostenuta e apri questo dannato cancello!»

Boccheggiai un momento. Non credevo si fosse preso così a cuore la mia salute. Pensavo davvero fosse solamente un modo per stressarmi l’anima, anche se il motivo mi rimaneva oscuro. Invece ero partita prevenuta, ma la verità era che avevo smesso da tempo di fidarmi degli uomini.

Infilai la chiave nella toppa, sempre tenendo gli occhi bassi. Sapevo di avere il suo sguardo addosso, ma non avevo il coraggio di alzare il viso. Mi sentivo terribilmente in imbarazzo.

Così aprii la serratura, lasciando che fosse lui a spingere il cancello verso di me. Mi giunse davanti, sollevando il mio mento con due dita, e mi ritrovai catapultata nei suoi occhi celesti. Era un mondo a parte, non credevo fossero così profondi.

«Andiamo a sistemare quella schiena» sogghignò, tornando odioso come sempre. Gliene fui immensamente grata, era mille volte più facile detestarlo se metteva su quell’espressione così da schiaffi. E di non detestarlo non volevo nemmeno saperne.

Lo guidai dentro il palazzo, lasciando che mi seguisse per le due rampe di scale che feci rapidamente, com’era mia abitudine. Quando aprii la porta di casa fui investita dall’atmosfera accogliente e caotica che vi regnava, segno tangibile della presenza di Amber. Abbandonai le chiavi sul muretto della cucina, insieme al piccolo bonsai che la mia coinquilina insisteva a dire che portasse tanta fortuna.

«Che buon profumo» disse Joseph, fermo sulla porta.

«Cos’è, devo invitarti ad entrare?» borbottai, avvicinandomi al frigorifero per leggere il post it che vi era appiccicato, tenuto fermo da una calamita a forma di porcellino.

«Allora mi segui in televisione» insinuò, avvicinandosi dopo aver chiuso la porta. Roteai gli occhi, infastidita. Era troppo vanesio, non l’avrei sopportato ancora a lungo.

«No che non ti seguo in televisione – replicai, credendo a stento alle mie orecchie – Ma seguirò la tua traiettoria quando, con un calcio, ti avrò fatto volare fuori dalla finestra.»

«Dio, quanto sei intrattabile – sbottò, correndo subito a leggere il bigliettino che avevo appena posato sul tavolo – Amber dice che non tornerà stasera perché rimane da Drew a dormire.»

«Lo so, l’ho appena letto – gli feci notare mentre lanciavo sul bancone della cucina il cotone e del disinfettante – Forza, disinfettami questi due graffietti sulla schiena così poi, finalmente, sparirai dalla mia vista e dalla mia vita

D’accordo, ero stata troppo brusca e me ne ero perfettamente resa conto. Immaginai non fosse piacevole per Joseph sentirsi dire una cosa del genere e lo intuii anche dal silenzio che seguì quell’affermazione. Aprì la busta dell’ovatta con uno strappo secco, che mi fece sussultare, e non parlò fino a che, una volta tolta la maglietta, non gli mostrai la schiena.

Dio, lo stavo trattando malissimo.

«La scapola sinistra è pessima» mi informò atono, prendendo a tamponare la mia pelle. Strinsi i denti per impedirmi di urlare, ma un ringhio frustrato sfondò le mie difese e mi voltai stizzita, fulminandolo con gli occhi.

«Potresti fare più piano? – sbottai, le guance lievemente imporporate d’imbarazzo – Fa male.»

«Anche gli ingrati fanno male – rispose a tono, per poi lasciar cadere lo sguardo per un attimo sul mio corpo seminudo. Sospirò di frustrazione, facendomi un cenno vago con la mano – Voltati.»

Le sue dita erano leggere sulla mia schiena e mi sfioravano in carezze apparentemente casuali, accompagnate dal suo alito caldo che mi solleticava ininterrottamente. Socchiusi gli occhi, godendomi il suo tocco, e non parlai più fino a che non ebbe finito.

«Puoi rivestirti – mormorò ad un certo punto. Infilai la maglietta rapidamente, ma mi bloccò a metà – Ferma, non così veloce.»

Sentii il suo palmo aperto posarsi al centro della mia schiena, la stoffa della benda tra la sua pelle e la mia, e cercai di ignorare i brividi che mi avevano colta impreparata, scuotendomi da cima a fondo. Era impossibile che non se ne fosse accorto, ma apprezzai il suo silenzio. Doveva essere ancora arrabbiato per la mia uscita infelice di poco prima, e aveva ragione.

«Grazie» sputai tra i denti. Fu faticoso dirlo, ma subito mi sentii più a posto con me stessa. Lo meritava, gliene avevo dette di ogni tipo era ancora lì. E non era poi così male, la stronza ero io.

«Fai cambiare i cerotti da qualcuno questa sera – mi disse, avviandosi alla porta – Se la pelle rimane idratata si formeranno croste meno spesse.»

«Ehi, aspetta…» provai a chiamarlo ma, con ultimo sorriso sofferto e appena accennato, uscì dalla porta. E dalla mia vita, come gli avevo chiesto.

O così credevo.

   
 
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