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Autore: chi_lamed    16/09/2012    2 recensioni
Seguito di Conversazioni Notturne.
"E si rese conto, per la prima volta, che il mondo di dolore in cui si era rifugiato non era più soltanto una difesa. Impedirsi di provare emozioni per non soffrire ancora.
Era diventato una trappola da cui non era più capace di uscire."

Aberforth Silente e Severus Piton hanno in comune una vita di dolore. Uno è ben deciso a superarlo e lasciarselo alle spalle, l'altro invece si tiene la sofferenza stretta al cuore, impedendosi di vivere.
Storia di un'amicizia sincera.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Le stelle brillano di più, quanto più fonda è la notte'
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L’inventore di favole

 
Arrancò, sbuffando come una locomotiva in piena attività. La strada da fare non era molta, ma la troppa neve rendeva faticoso il cammino. In quel momento avrebbe pagato mille galeoni per tornare a rintanarsi comodamente al caldo di un caminetto, con una tazza di tè fumante in mano ed impegnato in un dolce far niente.
Stava decisamente invecchiando.
E invece no, niente tranquillità, gli toccava andare a pescare da qualche parte Severus Piton che nessuno riusciva a trovare.
Ma va?
Minerva a volte gli sembrava veramente ottusa. S’era aspettata che quel pover’uomo si sarebbe barricato a vita nella torre?
Aberforth si chiese quanto la strega conoscesse davvero il Preside. Di sicuro non poteva immaginare l’alto grado di autopunizione che il mago era capace di infliggersi, dato che non aveva pensato di andarlo a cercare nell’unico posto veramente sensato in quel momento.
Si fermò un istante a riprendere fiato. Con gesto rabbioso si scostò dal volto la pesante sciarpa di lana blu: ne aveva abbastanza di occhiali appannati ad ogni respiro.
Nel candido silenzio ovattato del parco pensò alla situazione del suo quasi amico e di se stesso. La crisi di qualche ora prima sembrava tranquillamente archiviata e posta nel dimenticatoio; sperare che non ne avvenissero altre era tempo sprecato, doveva soltanto persistere e non darsi per vinto: prima o poi avrebbe smesso di versare lacrime nel rimpiangere un perdono mai dato.
Sobbalzò all’improvviso.
Un inquietante crepitio sopra la sua testa lo mise in allarme ed ebbe la prontezza di riflessi di spostarsi di qualche passo con la bacchetta sguainata in mano.
Un cumulo di neve precipitò fragorosamente proprio nel punto in cui si era trovato poco prima. Fu presto seguito da un ramo spezzato, che cadde con un tonfo e sollevò schizzi di neve che gli arrivarono fin sul naso. Aberforth rabbrividì dalla punta dei capelli a quella dei piedi.
 
A portare troppo peso su di sé, prima o poi ci si spezza, se ci si rifiuta di scrollarselo di dosso.
 
Ripose la bacchetta nella tasca del mantello e contemplò quel ramo come un medico che studia un paziente affetto da una rara malattia, scuotendo d’in tanto in tanto la testa mentre una profonda ruga gli solcava la fronte da parte a parte. Considerò con crudo realismo che anche la sua vita si sarebbe potuta concludere così, spezzata dal troppo peso del rancore. La sua salvezza, inaspettata quanto una zattera di salvataggio per un naufrago in mare aperto, era sopraggiunta senza far rumore durante un’afosa notte estiva ed aveva le sembianze di un uomo dal nero mantello.
Senza volerlo, Severus Piton lo aveva spinto a lasciar andare ogni risentimento, anche quello verso se stesso. Era rimasta a fargli compagnia solamente una sottile vena di nostalgia, ogni tanto accompagnata da calde lacrime.
Scosse la testa ancora una volta: doveva smettere di pensare a se stesso. Presso una lapide bianca – ne era certo – c’era qualcuno che rischiava seriamente di spezzarsi senza possibilità di ritorno.
Merlino, adesso gli toccava sul serio fare da balia a quell’orso vestito di nero.
Sospirò.
No, non era Severus ad essere prevedibile in quel momento. Era lui, Aber, che poteva comprendere senza troppo sforzo cosa significasse ancora provare dolore nel sopravvivere.
Rabbrividì ancora, osservandosi le mani e flettendo le dita intirizzite per il freddo. Indossava guanti di pelle di drago, ma il gelo non aveva pietà nemmeno di quella protezione. E se lui, bardato di tutto punto, stava quasi battendo i denti, in che situazione poteva trovarsi quel pipistrello che se ne stava là fuori in solitudine da… quasi due ore? Altro che cuore di ghiaccio, se non si sbrigava rischiava di trovarsi di fronte un vero e proprio essere umano congelato!
Decise di rimettersi in marcia, sul volto una smorfia dettata dalla fatica e dal freddo.
Poco lontano il tonfo di altra neve che cadeva dagli alberi si udì distintamente nel silenzio.
E l’ondata di ricordi lo invase come l’alta marea sommerge la spiaggia.
 
«Mmmhhh… ‘ncora una fetta… favooore…»
La voce impastata di Albus gli aveva fatto spalancare gli occhi.
Nella camera avvolta dalla penombra, il focolare incantato per durare tutta la notte gettava sul soffitto bagliori rossastri. Nel letto accanto suo fratello stava sicuramente sognando la sua torta preferita, quella di lamponi.
Era stato costretto a soffocare una risatina tappandosi la bocca con entrambe le mani.
Non era ancora ora di alzarsi, così indicava l’orologio a pendolo appeso sopra il caminetto: gli uccelli dipinti al posto delle ore dormivano beatamente con il capo sotto l’ala. Era sveglio solo il gallo che segnava le sette, intento a lisciarsi il variopinto piumaggio e ad acconciarsi la cresta. Di lì a poco avrebbe svegliato tutta la casa.
Albus lo detestava, lo ripeteva ogni sera prima di mettersi a letto: lui stravedeva per la Fenice di mezzogiorno e per il suo canto dolce, sommesso e prolungato.
Beh, che fare adesso?
Rimettersi a dormire?
Aveva ancora poco più di dieci minuti prima del canto del gallo. Dieci preziosissimi minuti in cui poteva comodamente starsene al calduccio sotto le coperte, riaddormentarsi e sognare tanti grossi fiocchi di neve come quelli caduti la sera precedente.
La neve!
Come aveva potuto dimenticarsene?
Lui, Albus ed Ariana erano rimasti per tutta la serata con il naso incollato alla finestra, dimentichi perfino della cena, progettando di fare uno splendido pupazzo nel giardino il mattino seguente.
L’emozione gli aveva ormai tolto ogni residuo di sonno. Gli rimaneva solo di trovare il coraggio di uscire dal letto.
Uno… due… e tre, via le coperte!
Era rabbrividito per lunghi ed interminabili secondi.
Ma la curiosità aveva avuto il sopravvento su tutto.
Ed in punta di piedi aveva aperto le imposte.
 
Un enorme dolce al cioccolato decorato con deliziosa e candida glassa.
A questo assomigliava la loro casa di legno scuro, con il tetto spiovente ricoperto da uno spesso strato di neve. Naso all’insù, Aberforth la contemplava ad occhi sgranati e con la bocca semiaperta.
 
Aber dalla fervida immaginazione, che incantava il fratello e la sorella per ore con storie inventate dal nulla.
Aber e Albus, due bambini che la sera fingevano di addormentarsi non appena papà e mamma rimboccavano loro le coperte. Poi sgusciavano furtivamente dal letto alla poltrona vicina al caminetto. Era lì che Aber ideava favole con draghi cattivi, ragni giganti e l’immancabile Fenice, che interveniva sempre all’ultimo momento e salvava il coraggioso eroe di turno che aveva combattuto contro un nemico terribile e malvagio.
 
L’idea di fare un pupazzo di neve aveva ormai perso ogni attrattiva. Una nuova storia si stava già affacciando alla mente di Aber e già pregustava il momento in cui l’avrebbe raccontata al fratello maggiore.
 
Aber, il piccolo inventore di favole.
 
Aber dalle mille storie, che non s’era accorto di due vispi occhi azzurri che lo stavano fissando da dietro il ciliegio.
 
Splat!
 
Il primo istante era stato di completo sbigottimento. I brividi di freddo erano arrivati solo poi, quando la neve era scivolata giù dal cappello di lana, tramutandosi in minuscole goccioline ghiacciate che si insinuavano perfidamente sotto la sciarpa e lungo il collo.
 
Splat!
 
Un’altra palla di neve, questa volta in pieno viso.
Il freddo intenso quasi gli aveva tolto il respiro.
«Albus, non vale!» aveva provato a protestare, ma senza risultato. Il fratello maggiore stava già raccogliendo altra neve e non sembrava minimamente intenzionato a deporre le armi.
E così era stato.
Un’ora ed infinite risate dopo la battaglia era giunta al termine. Albus ne era uscito come sempre vincitore incontrastato, forte dei suoi tre anni in più.
«Fratellino, ti arrendi?»
Albus gongolava, dritto in piedi e con le guance arrossate, il respiro affannato che si condensava in tante nuvolette. La sciarpa arancione gli penzolava scompostamente di lato e terminava sulla neve per una buona metà, bagnandosi tutta. Il fratello minore non era certo messo meglio di lui: seduto a  terra, aveva il cappotto completamente fradicio così come i guanti ed il cappello verde cupo.
Si sarebbero guadagnati entrambi un raffreddore ed un sonoro rimprovero, questo era certo.
«Non ci penso nemmeno!»aveva protestato Aberforth rimettendosi in piedi.
 
Per tutta risposta Albus aveva raccolto tra le mani un’altra grossa manciata di neve.
Aber lo aveva imitato, con sguardo fiero.
 
Albus l’aveva appallottolata ben benino, pregustando la vittoria.
Aber era indietreggiato di qualche passo, pronto al contrattacco.
 
Albus s’era preparato al lancio.
Aber invece aveva chiuso gli occhi, desiderando che una enorme palla di neve piombasse per una buona volta sulla testa del fratello.
 
SPLAT!
 
 
Aberforth si avvolse nuovamente la sciarpa attorno al collo. Sotto la lunga barba grigia, le labbra cominciarono ad incurvarsi all’insù. La pioggia di ricordi proseguì, assieme al suo cammino. Non riusciva a fermarla.
Non voleva fermarla.
 
 
«Aber… ce l’hai fatta!»
Gli occhi sgranati di Albus brillavano di una gioia mai vista prima. Il piccolo Aber, invece, sembrava non aver ancora capito, mentre la neve gli si scioglieva tra i guanti.
«Sei un mago, Aber, finalmente. Sei un mago, capisci?» sussurrava Albus all’orecchio del fratello. Lo aveva preso in braccio e portato in trionfo per tutto il giardino innevato. La piccola Ariana, dalla finestra della cucina, li osservava con la punta del naso schiacciata sul vetro appannato a metà.
Niente più fatica, niente più freddo, niente più voglia di vincere nella battaglia innevata.
Aberforth aveva fatto la sua prima magia.
 
Quello era stato l’ultimo inverno. L’ultimo, condito di abbracci, sorrisi, torte di mele e cioccolata calda sorseggiata accanto al caminetto con tutta la famiglia.
 
«Aber, dormi?» la voce di Albus da sotto le coperte era giunta ovattata.
«No.» aveva risposto lui alzando di poco la testa dal cuscino.
«Sei felice?»
«Sì.» era stata la candida confessione sul finire di quella memorabile giornata.
«Anch’io, Aber, tanto.»
 
Una lacrima solitaria scese a rigargli la guancia. Aberforth diede la colpa al freddo pungente, sapendo perfettamente di mentire.
Se ne concesse una ed una sola.
Dove diamine era stato quel ricordo per tutti quegli anni? Nascosto sotto il mantello dell’invisibilità?
No, sepolto da qualche parte e sapeva anche dove.
 
Un tempo siamo stati felici, Albus.
 
È incredibile quanto la felicità sia spesso veloce a scivolare via, come una goccia di pioggia su un vetro.
Sarebbero bastati pochi mesi ed il loro idillio di bambini si sarebbe dissolto al pari di una fragile bolla di sapone. Infranto senza rimedio.
Albus avrebbe preso la sua strada e non ci sarebbe stato verso di riportarlo al buonsenso, se non troppo tardi.
Aber sarebbe rimasto l’inventore di favole. Per necessità e disperazione.
C’era una volta…” e la magia che era in Ariana sembrava acquietarsi come l’onda che, docile, torna al mare dopo essersi infranta sulla spiaggia.
C’era una volta…” e la piccola e fragile sorella sorrideva dolcemente e senza protestare mangiava ed ascoltava.
C’era una volta…” e le capre strusciavano il muso contro la piccola mano di Ariana che stringeva una manciata di sale, mentre Aber dava loro da mangiare.
 
Poco lontano, Aberforth vide l’inconfondibile sagoma di Severus, elegante ed austera anche di spalle.
Albus aveva fatto tanto per lui. Gli aveva dato fiducia incrollabile ed amore paterno. Ma gli aveva anche chiesto in cambio sacrifici non da poco.
Era giunto il momento di dare senza chiedere a quell’uomo nulla in cambio.
 
Un tempo siamo stati felici, Albus.
 
D’improvviso comprese.
Severus era come l’eroe delle favole che aveva inventato.
Era il guerriero solitario che un giorno lontano aveva smarrito la sua strada, ritrovandola in seguito, a caro prezzo. Era il guerriero che aveva sempre lottato in silenzio ed in disparte, guardato da tutti con diffidenza e talvolta con ostilità, ma che non si era mai perso d’animo. Che aveva sempre combattuto a testa alta contro un nemico crudele e malvagio. E che alla fine era stato salvato proprio da una Fenice, giunta in tempo perché l’eroe finalmente potesse ricevere il suo premio: una vita da vivere senza più rimorsi e rimpianti.
Sorrise apertamente sotto la sciarpa, facendosi prossimo alla meta.
Quella sera, seduto nella poltrona accanto al camino, avrebbe raccontato ad Albus e ad Ariana la favola di un eroe dal nero mantello.


***

Angolo autrice: lo so, sono in un ritardo mostruoso, ma ho una miriade di motivi. Il primo è stato un bel "blocco dello scrittore" (uè, che parolona nel mio caso!) che non sembrava avere termine.
Che ve ne pare? Non so voi, ma io voglio credere a tutti i costi che ci siano stati davvero momenti felici nella famiglia Silente, prima del dramma di Ariana.
Per le età dei ragazzi mi sono informata sul Lexicon, ma se per caso riscontrate errori di Canon vi sarei grata se me lo diceste, poichè desidero mantenermi sempre IC.
E come sempre, oltre alle recensioni, sono ben accette anche critiche costruttive riguardo stile e trama.
Chiara

  
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