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Autore: keska    23/09/2012    5 recensioni
Capitoli EXTRA della storia "CULLEN'S LOVE".
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE '
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Giorno 6: 6 Settembre. Bella ricomincia a parlare (corrisponde al capitolo 30 “Fra le sue braccia”).

 

«Edward».

Quel sussurro aveva squarciato il silenzio. No, non poteva essere. Era un’illusione della mia mente quella che richiamava il suono della voce di mia moglie. Così basso, flebile, così lontano…

Mi bastò un secondo, chiudendo gli occhi, per vedere l’immagine del suo corpo riverso al suolo, un denso rivolo di sangue e colarle fra le braccia. Gli occhi, vitrei, quasi neri, impressi nell’ultima immagine prima della morte. Quello che poche ore prima aveva visto mia sorella Alice. Il suo suicidio.

Come poteva essere così disperata da pensare di porre fine alla sua vita?

Ansimai, spostandomi nella stanza sfidando le leggi del tempo. I suoi occhi, ora, marroni, mi guardavano. Era vigile. «B…Bella…» balbettai, incredulo. «Tu… tu mi hai…chiamato?».

Ma le sua pupille erano fisse e ferme, e in alcun modo lasciavano presagire che avrebbe risposto. Che dovessi fidarmi di Carlisle? Mandarla da uno psichiatra? Sentii un brivido di dolore al solo pensiero. Dov’era finita la mia Bella?

In quell’istante, come a rispondermi, mosse il capo, annuendo.

Ansimai, sgomento, stupendomi che no, non c’erano lacrime di gioia a scendere sul mio viso. Portai una mano tremante alla bocca, avvicinando l’altra al suo viso, pur senza osare toccarla. «Hai bisogno di qualcosa, c’è qualche problema amore? Dimmi, tutto quello che vuoi…» sussurrai velocemente, agitato, pronto a darle qualunque cosa. Mi chinai al suo fianco, inginocchiandomi sul pavimento, scrutando il suo sguardo sempre più stanco. Aspettavo di sentire anche il più debole fremito frusciare dalle sue labbra. L’osservai, scrutando nel suo viso il motivo del suo sussurro. «Che hai tesoro?» domandai ancora, tormentandomi per ricevere una risposta. «Bella…».

Chiuse e aprii le palpebre, facendo incontrare i suoi occhi nei miei. E parlò. Ancora. Un flebile sussurro: «…sonno…».

Ansimai, non riuscendo neppure ad articolare una parola per la gioia che provavo. «Hai sonno? Non riesci a dormire?».

Scosse il capo, e l’odore umido delle lacrime si diffuse nella stanza.

Le sorrisi tristemente, promettendole che l’avrei aiutata a dormire. Ma quando feci il nome di Carlisle la sua espressione divenne più cupa e spaventata. Fu quando sollevò una mano per sfiorare la mia, che capii che voleva solo me. Fu in quel momento che, preso da un’euforia pari solo a quello in cui avevo scoperto il mio amore per lei, commisi un grave errore di valutazione. Decisi che, se mia moglie aveva bisogno solo di me, le avrei dato solo me.

Attento a non turbarla, rannicchiata com’era nel grande letto, scostai appena la manica della sua vestaglia. Strofinai con delicatezza il batuffolo con il cotone idrofilo sulla sua pelle bianca. Non potevano tremarmi le mani, ero un vampiro. Ma in quel momento quasi non riuscivo a tenere dritta la siringa senza romperla. Ripassai in un attimo, nella mente, tutti i consigli di genere teorico su come eseguire al meglio un’iniezione, e vagliai velocemente tutte le esercitazioni fatte su arance e cuscini durante il mio praticantato in medicina.

Sospirai, e inclinando l’ago lasciai che le pungesse la pelle.

Immediatamente scostò il braccio, disegnandosi una linea rossa sulla pelle.

«Bella…» la chiamai sgomento.

Si era sollevata in piedi, lasciando cadere, scomposte, le coperte. I suoi occhi erano spaventati, spiritati. Il cuore le batteva velocissimo nel petto, il fiato le usciva ad ansiti. Era terrorizzata, come mai l’avevo vista.

«Scusami… Non volevo spaventarti…» sussurrai.

Fece un passo indietro, guardandomi come se fossi una minaccia.

Deglutii, e posai, senza mai smettere di guardarla, la siringa. Sollevai le mani perché… non avesse paura di me. Spezzato in due dal dolore mi avvicinai a lei, pur vedendola indietreggiare verso il muro. Non c’era più, allora, nessuna speranza?

Strillò appena il calorifero le sfiorò un braccio. E strillando il suo terrore si fece più vivo e forte. Crollò a terra, prendendosi la testa fra le mani.

In un attimo ero davanti a lei, intento a rassicurarla. Intento a sorridere. Intento a dimostrarle il mio amore, malgrado dentro sentissi solo dolore e paura.

«Non sono pazza…» farfugliò fra le labbra, gli occhi sgranati e persi.

Il suo sussurro sinistro mi fece fremere. «Nessuno pensa questa Bella, davvero…».

Singhiozzò, gli occhi pieni di lacrime, le mani strette contro le braccia. Scosse il capo, dondolandosi avanti e indietro e sussurrando parole sconnesse. Premendo le unghie contro la carne.

Non ci riuscivo. Non riuscivo ad essere suo marito. La mia fede, il mio impegno, il mio amore, erano stati piagati tutti dal dolore e distorti dalla pazzia. Forse perché non ero abbastanza capace. Forse perché, proprio come pensavano i miei familiari, pur senza osare dirmelo, per Bella ormai era troppo tardi. Cosa mi stava succedendo? Cosa mi rimaneva?

Niente.

«Smettila!» sibilai, in un moto di dolore e rabbia.

Le sue unghie si infilarono sotto la pelle, lacerandola.

Non toccarla. «Basta Bella, ti prego! Smettila, smettila!».

«Sporca… sono sporca… non sono pazza… non lo amo… chi è?... non può farlo, no… sono sporca». Il sangue scivolò lungo gli avambracci in rivoli rossi.

Non puoi toccarla. «Smettila, Bella!».

«È così sporca… non puoi toccarla… è pazza… dove sta andando?... la voce… non sente la voce… non parla… Bella…».

«Basta!».

Toccala. Afferrai entrambi i polsi, sollevandola di peso e schiacciandola contro il muro. Mi sembrava insieme di ricominciare a respirare e morire.

Sgranò gli occhi, sgomenta, e annaspò. Il sangue, cremisi, scivolava in rivoli dai numerosi tagli sugli avambracci. Urlò, dibattendosi come una forsennata per liberarsi dalla mia presa, sbattendo con le gambe e la testa contro la parete. Deglutii il dolore, ricacciandolo indietro.

«Carlisle!» gridai, quando la porta della stanza si aprì. «Sul letto!» esclamai, lasciando che i suoi occhi incontrassero la siringa posata sulle lenzuola.

«Che diavolo è successo?» pensava la sua mente. Cacciai via Jasper, prima che si avventasse sulle braccia escoriate di mia moglie.

Strinsi le labbra, chiudendo la mente. «Ti lascio Bella, ti lascio. Calmati» le sussurrai, sapendo, comunque, che non mi stava ascoltando. Sollevai un suo braccio e lo distesi lungo la parete, lasciando che il rosso del sangue la macchiasse. Rosalie entrò nella stanza, e le sue parole coprivano appena il suono delle urla di mia moglie. L’ago penetrò nella sua carne.

Spostai lo sguardo negli occhi persi di Bella. In pochi secondi la sua debolissima forza si annullò. I suoi movimenti si fermarono, i suoi occhi divennero più chiari. Il suo viso pallido, incorniciato da ciocche di capelli appicciati dal sudore, si rilassò.

Allentai la presa sui suoi polsi.

Cadde contro il mio petto. Il suo capo sulla mia spalla, le mie braccia a circondare il suo corpo.

«Ti amo» sussurrò, dunque svenne.

Mi lasciai andare sul pavimento, stringendola a me. E piansi, singhiozzi asciutti e secchi, senza acqua a sfogare il mio dolore, ma piansi, scuotendo il mio e il suo corpo insieme, senza lasciare che nessuno, nessuno, potesse separarci.

Carlisle le ricuciva la pelle delle braccia mentre la tenevo stretta al mio grembo. Le tenevo il polso, distendendo l’avambraccio. La ricuciva, con ago e filo. Sorrisi, un sorriso stanco e folle, pensando a come la volessi ricucire con il mio amore.

Se ci fu un momento in cui avevo dubitato del mio compito accanto a lei, un momento in cui mi ero sentito vacillare, in cui avevo pensato di cedere, quel momento c’era stato proprio quel giorno. Il giorno in cui avevo pensato che l’unica cura possibile per mia moglie fosse uno psichiatra.

Poche ore dopo, mentre mio padre faceva frusciare il filo sintetico fra la sua pelle, sorridevo. Se mia moglie era folle, lo sarei stato con lei. Perché mi amava.

 

Giorno 9: 9 Settembre.

 

«È tranquilla?» domandai, ravvivando i capelli scomposti per la pioggia. Sfilai il soprabito, posando i biscotti che avevo appena preso per Bella. Speravo di invogliarla a mangiare qualcosa.

Rosalie annuì. «È rimasta lì da quando te ne sei andato. All’inizio ho provato a convincerla a venire via, ma credo che si sentisse al sicuro» mormorò sottovoce.

Feci una smorfia, osservando alle sue spalle. «Rose, non sono convinto della tua idea di farci separare, anche per poco tempo. Lo sai che si comporta in questo modo per questo motivo».

Mia sorella spostò il peso su entrambi i piedi, in modo da sembrare più alta. «Edward, ti rendi conto che per lei non è salutare sviluppare attaccamenti malsani? Inoltre ti sei assentato solo per poco, e per andare a prendere dei biscotti che potrebbe mangiare più di buon grado sapendo che sei andato a prendere personalmente».

«Non penso che proprio adesso dobbiamo preoccuparci di questo». Scossi il capo, sospirando. «Fammela tirare fuori di lì», dissi, arrotolando sui gomiti le maniche della camicia.

Mia sorella mi bloccò, osservandomi incerta. Diresse un’occhiata alle sue spalle. «Senti, Ed… ho preparato i suoi tranquillanti, prima non voleva prenderli, e… in caso servisse, ho pronta una siringa» sussurrò eloquentemente.

Premetti le labbra una contro l’altra, biasimando mia sorella per non avermi detto immediatamente quanto grave fosse la situazione.

«Lasciaci soli» dissi, avvicinandomi al baldacchino. Mia sorella si era già chiusa la porta alle spalle quando mi chinai sulle ginocchia, osservando sotto il letto. «Guarda chi c’è qui» sorrisi, guardando mia moglie.

Pareva tranquilla, anche se molto silenziosa. Aveva piegato una mano sotto la testa e una sul ventre.

Le tesi una mano «Vuoi venire fuori? Ti ho comprato i tuoi biscotti preferiti. Sono andato personalmente».

Scosse il capo, senza muoversi altrimenti.

Inclinai il mio da un lato, osservandola meglio. «Perché no?».

Chiuse e aprì gli occhi, poi abbassò lo sguardo sul lembo di moquette accanto a lei. Si allontanò appena, e batté la mano minuta contro il pavimento, invitandomi a raggiungerla. Sospirai, e mi lasciai scivolare sotto al letto, accanto a lei. Adesso i nostri respiri si confondevano. Lasciò che le carezzassi appena il viso, sistemandole i capelli.

«Sono al sicuro qui» sussurrò a bassa voce, come se avesse paura di farsi udire da qualcuno.

«Al sicuro?» chiesi, perplesso. «Sei sempre al sicuro».

Abbassò lo sguardo, prendendo a giocare con un’asola della mia camicia. «Sono al sicuro quando sono con te. Ma non preoccuparti per me. Quando non ci sei… posso trovare un posto sicuro» sollevò il viso, e mi sorrise, come una bambina. Una bambina appena rimasta orfana di entrambi i genitori. «È sicuro, qui» mormorò, gli occhi brillanti.

Sorrisi a mia volta, ignorando il peso che mi stringeva la gola. Le baciai la fronte, per darmi il tempo di parlare senza che la voce mi tremasse. «Puoi stare in ogni posto, e sei il sicuro. La prossima volta potresti stare in compagnia di Rose. Anche con lei è sicuro. Che ne dici?».

I suoi occhi si fecero più tristi e spaventati. «È troppo aperto lassù» ansimò, serrando le palpebre «è tutto così aperto… non posso proteggermi, non posso vedere arrivare nessuno… sono troppo veloci… sono… sono…».

«Shh…» mormorai, stringendola fra le braccia per impedirle di tremare ancora. «Va bene, va bene, shh… non c’è nessuno da cui ti devi proteggere» la rassicurai, «nessuno».

«Ho paura» fremette, gli occhi grandi e spalancati dal terrore. Strinse una mano contro la manica della mia camicia. «Ho paura, ho paura».

Strinsi le labbra. Ci voleva solo calma. Non era la prima volta che mi trovavo a fronteggiare una situazione simile. Quando aveva ripreso a parlarmi, avevo pensato che tutto si sarebbe ormai risolto. Non avevo previsto neppure questo. Ma ero di fede forte, e determinato a portare in salvo mia moglie e tenere fede ai miei doveri coniugali. In salute e in malattia, nella gioia e nel dolore…

«Amore» la chiamai, lasciando che i suoi occhi spaventati si spostassero su di me «devi prendere le medicine, va bene?» le sussurrai dolcemente «le medicine ti aiutano a capire che la paura non è vera. Che non c’è motivo di averne. Per questo devi prenderle, va bene?».

Tremò, aprendo e chiudendo la bocca. Si aggrappò a me con entrambe le mani. Aveva gli occhi lucidi, e sudava. «Non posso. M-mi sento male».

Corrugai la fronte, carezzandole una guancia. «Cos’hai?» chiesi, avvicinandomi per posare le labbra contro la sua fronte, per sentire la sua temperatura. Tutti i miei sensi si stavano allertando per cogliere dettagli che non avevo precedentemente notato.

Le sue dita tremanti e bianche si posarono contro le mie labbra. Posò l’altra mano sulle sue, scuotendo il capo.

Sospirai, tirandomi fuori dal letto e portandola con me. Si aggrappò alle mie spalle, lasciando che la prendessi fra le braccia. La strinsi a me, e respirai il suo odore. La sua costante nausea era diventata qualcosa con cui convivevamo. Il problema era che lo accettasse, e non, piuttosto, che ce lo nascondesse come una vergogna.

L’adagiai sul pavimento del bagno, spostando il tappeto in modo che le ginocchia non fossero a contatto con le piastrelle. Le sollevai i capelli, carezzandole con l’altra mano lo stomaco e intanto sorreggendola. Il suo viso assunse più volte tonalità vicine al verde e al grigio, mentre rimaneva ferma, le mani posate sui bordi del water.

Deglutì, agitata. «Mi dispiace… non… mi sento male, ma non ci riesco…».

«Shh» mormorai al suo orecchio, «tranquilla, non ti agitare. Prenditi il tempo che vuoi. Guarda» feci, sollevandomi appena sul lavabo per prendere un gancio per capelli, «mettiamo questo qui, così posso tenerti» feci, sistemandole i capelli in una crocchia. Magari avrei dovuto imparare a fare di meglio. La presi fra le braccia, sedendomi sul pavimento, la schiena contro il muro. Posò il capo contro il mio petto, stringendo una mano sulla mia camicia. «Ma guarda come sei carina, così…» le sussurrai, sfiorandole una ciocca e cullandola appena.

Sorrise, contro il mio petto.

Le strofinai la schiena con una mano. «Se vuoi possiamo andare in camera. Puoi metterti a letto e prendiamo una bacinella…».

Scosse il capo, facendosi più piccola fra le mie braccia. «Voglio rimanere qui» ansimò spaventata.

Annuii, baciandole il capo. «Va bene, va bene. Rimaniamo qui» la rassicurai, stringendola.

Rimase in silenzio per qualche istante. La fronte era imperlata da qualche gocciolina di sudore. Volevo chiedere a Carlisle che trovasse un modo per risolvere questa nausea. Se non fosse migliorata entro breve l’avrei probabilmente chiamato.

«Non voglio prendere le medicine» sussurrò dopo un po’. Respirò piano contro il mio petto. «Rose dice che mi fanno venire la nausea. Non voglio prendere le medicine, e… non voglio questo».

Le strinsi il capo con una mano. «Tesoro, non credo che dipenda completamente dalle medicine, va bene? Anzi, credo che le medicine ti facciano bene, in questo caso. Vorrei che le prendessi, e provassi a dirmi se stai meglio. E vorrei che mi dicessi sempre quando stai male, così possiamo capire cosa possiamo fare per aiutarti».

Non rispose. Si sollevò di scatto dalle mie braccia, aggrappandosi al bordo del water e vomitando lo scarso contenuto del suo stomaco. Le sostenni la fronte, tenendola anche per l’addome. La tosse convulsa la scuoteva, e le lacrime le colavano dagli occhi alle guance per lo sforzo.

Sollevò una mano solo per aggrapparsi alla mia camicia. «E-ed…» farfugliò fra i conati.

«Shh, shh, lo so. Va tutto bene. Adesso sale Carlisle, okay? Voglio solo chiedergli qualcosa». Mi strinse più forte, aggiungendo i singhiozzi ai conati. «No, no, va tutto bene. Va tutto bene tesoro, tutto bene» la rassicurai.

Le passai un’asciugamani, pulendole il volto e la bocca. Le presi le mani con le mie. Teneva il viso basso, ancora bagnato e pallido. Lasciava che le sistemassi le maniche del pigiama e che le aggiustassi i capelli senza muoversi.

Le carezzai la tempia. «Carlisle» chiamai, il tono abbastanza alto perché potesse udirmi. Lo sentivo, sapevo che era di sotto. «Potresti venire qui, per favore?».

Abbassai il viso per intercettare lo sguardo di Bella. Le sorrisi, e me la sistemai sulle ginocchia, assicurandomi il suo capo sul petto con una mano. Mi sedetti sul bordo della vasca.

Mio padre bussò alla porta. Bella tremò. «Entra» lo chiamai.

Scivolò dentro, chiudendosi la porta alle spalle. Ci osservava cauto.

«Credo che» cominciai, accarezzandola «credo che Bella abbia bisogno di te. Ha paura che la sua nausea sia dovuta ai farmaci che assume».

Carlisle cercò il mio sguardo, poi annuì. «Beh, Bella» cominciò, pur senza avere l’attenzione di mia moglie, rannicchiata contro il mio petto, «potrebbe essere dovuto ai farmaci, ma anche al fatto di non assumerli. Quello che provo a dirti è che stare calma e pensare lucidamente ti aiuterebbe sicuramente a combattere episodi come questo».

Bella gemette, strizzando gli occhi. «Voglio andare in camera» mi supplicò, premendo una mano contro il mio petto «mi sento male. Voglio andare in camera».

Sospirai, annuendo alla volta di mio padre. La sollevai fra le mie braccia. Era leggerissima, come carta. Aveva perso peso in questi giorni, ma non avevo il cuore di insistere per farle mangiare i biscotti che le avevo appena comprato. Quando tornammo in camera c’era anche Rose ad attenderci: stava sistemando le coperte in modo che potessi far stendere Bella. Ma quando arrivò il tempo di lasciarla andare si aggrappò con tutta la sua minuscola forza alla mia camicia, scuotendo il capo.

«Bella, vieni qui sul letto. Carlisle ti deve visitare» la chiamò Rose.

Di tutta risposta scosse il capo con più forza, il viso nascosto nella mia camicia.

«Bella, avanti. Per favore, non fare i capricci. Sai anche tu che non vuoi stare male. Vieni qui».

Tremò, rannicchiandosi con le ginocchia fra le mie braccia. L’umido delle sue lacrime mi stava bagnando la camicia, lo sentivo perfettamente. Sospirai. Poi sorrisi, baciandole la fronte. Per andare avanti apprezzavo quello che avevo conquistato, checché ne dicesse Rose: mia moglie mi chiedeva il suo aiuto. E magari lo faceva in maniera insana e disperata, ma io, dal canto mio, non potevo che esserne contento.

«Lasciala stare, Rose. Bella rimarrà con me, ma si farà visitare comunque da Carlisle» feci, eloquentemente, sottolineando il compromesso che avevo trovato.

Rose serrò la mascella. «Per favore, Edward. La prossima volta che vorrai fare di testa tua dimmelo prima» sbottò, pensando che stessi facendo, col mio modo di fare, più passi indietro che avanti.

Il senso di colpa durò per un attimo. Quello in cui Bella non fece niente per opporsi a quanto avevo appena detto. Carlisle si avvicinò. Provai a tenerla quanto più dritta possibile, nonostante si ostinasse a nascondere il suo volto sul mio petto. Le tastò l’addome, causandole appena un fremito.

«Sei stata male prima, Bella? Hai altri sintomi?» le chiese.

Ma era inutile parlarle, perché non avrebbe risposto, neppure sotto la spinta dei ragionamenti logici di Rosalie. Sapevo che per quel giorno era ormai troppo spossata e stanca per poter dar retta a qualcuno.

Quando Rose insistette per farsi dire qualcosa, feci lo stupido errore di mettermi dalla sua parte, spronandola anch’io a parlare. Scoppiò a piangere, e si allontanò bruscamente dalle mie braccia, rifugiandosi, in singhiozzi, sotto le coperte.

Rose strinse le labbra. Questa situazione le piaceva davvero poco. «Avanti, Bella. Non fare la bambina. Esci da quelle coperte».

Non le rispose neppure, continuando a piangere più forte di prima.

«Edward, non penso che abbia davvero qualcosa» mi richiamò mio padre con i suoi pensieri «possiamo cambiare il tipo di tranquillanti, ma preferirei prima che assumesse quelli che le ho prescritto».

Rose incrociò le braccia, richiamandola. «Stai facendo la pazza, te ne rendi conto? Non è un comportamento maturo. Avanti, tesoro. Vieni fuori. Lo so che hai paura, ma adesso ti aiutiamo».

Osservai desolato la scena, lasciando che i pensieri di mio padre mi invadessero di nuovo la mente. «Se starà male li cambieremo. Ma io credo sia tutto dovuto alla sua ansia. Deve calmarsi, e starà bene. E in questo i tranquillanti la aiutano».

Annuii, seppur malvolentieri. Vedere mia moglie drogata, anestetizzata, privata della sua grinta, era come vivere con l’amaro in bocca.

«Bella, avanti!» gridò Rose, strattonando appena le coperte.

Dopo tre secondi i singhiozzi si fermarono, lasciando il silenzio. Assoluto. «Dannazione!» sbottai, lanciando per aria le coperte. «Dannazione, dannazione!» ripetei agitato, stringendo il volto di mia moglie, teso in una smorfia di soffocamento. «Respira! Respira!» le intimai, scuotendola per far passare più che rantoli dalla sua bocca.

«Edward, ho la siringa pronta!» mi chiamò Rosalie, cercando nel cassetto.

«Lasciaci in pace Rose! Accidenti!» proruppi, osservando agitato il viso di mia moglie «lei ce la fa. Ce la fai a respirare, va bene? Ce la fai. È solo la tua testa che ti dice il contrario» le intimai.

Sgranava gli occhi, affannandosi per portare le mani alla gola.

Mio padre mi venne vicino, prendendole un polso fra le dita. «La saturazione d’ossigeno sta scendendo».

«Edward, falle questa dannata iniezione!».

«No… no, n-no» biascicò terrorizzata fra le labbra.

«No» ripetei, scuotendo il capo «no, no» feci, prendendola fra le braccia per farla stare dritta con la schiena. «Rose, passami il bicchiere con le gocce. Avanti. Passamelo».

Perplessa mia sorella fece come le dicevo. Sollevai il mento di mia moglie, mettendole con l’altra mano il bordo del bicchiere fra le labbra. Tremando, ne prese appena un sorso, tossicchiando subito dopo. «Shh» la rassicurai, riavvicinandole il bicchiere alle labbra «bevi, bevi. Va tutto bene. Bevi, avanti» la incoraggiai, facendole prendere piccoli sorsi, finché il bicchiere non fu vuoto.

Si tenne stretta a me per qualche minuto, tremando, finché il cuore non frenò i suoi battiti e il respiro non divenne nuovamente regolare. Il suo corpo diventava più freddo. Quando lasciò cadere la testa nella mia direzione seppi che i tranquillanti avevano ormai fatto effetto.

Le sorrisi, provando a mascherare il terrore che provavo nel vederla così sedata.

Batté le palpebre, sfregando il viso contro la mia camicia. Mosse le labbra, umettandole. «Acqua…» biascicò, chiudendo gli occhi.

«Certo» mormorai. La sollevai, sistemandola sotto le coperte, la schiena sollevata dai cuscini. Le tenni la mano, rispondendo alla sua debole presa, mentre le versavo un bicchiere d’acqua. Glielo sistemai sulle labbra, invitandola a bere. «Vuoi mangiare qualcosa?» le domandai quando ebbe finito.

Mi osservò, come se non avesse capito la domanda che le avevo appena fatto. I capelli si aprivano a ventaglio sul cuscino bianco, le ampie maniche della vestaglia, verde pallido, sfregavano contro le lenzuola. «Mangiare…» sussurrò.

Annuii, sentendo le labbra tremare. Dov’era mia moglie?

«Biscotti» sussurrò. Sorrise. «Voglio i tuoi biscotti».

Lì, da qualche parte, dietro la paura e le medicine.

 

 

 

 

Ciao ragazze.

Sono davvero orgogliosa di questo pezzetto (mi riferisco in particolare all’ultimo). Amo fare piccole esplorazioni nella mente di Edward, è sempre un tanto caro ragazzo ;). E amo davvero il tema della follia (forse dovrei pensare di fare psichiatria xD).

Sono una perdigiorno, e devo finire l’ultimo pezzo di questo primo extra prima di pubblicarlo… vedo che posso fare! Vi do l’autorizzazione a torturarmi e farmi sentire in colpa finché non l’avrò pubblicato!

 

Prima di lasciarvi rinnovo l’invito (cortese) a fare un salto alla mia quattro mani scritta con tsukinoshippo, l’autrice di Bambola. Si chiama The Woodmore Sisters. Si tratta di un ff storica, piena di gonne vaporose e amore, che parla di due sorelle, delle loro vite da sposate e dei figli appena nati o in arrivo.

 

Spero di riscrivervi presto! Un bacione,

Chicca.

 

   
 
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