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Autore: S o p h i e    24/09/2012    3 recensioni
Perché non è vero che non c'è nulla da raccontare, ci passano vite lungo la Route 66. Un giorno qualcuno decise di raccoglierle tutte, perché storie così non si perdono mica. Rimangono impresse sull'asfalto e continuano a viaggiare, per sempre.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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La prim stella del mattino  
Prima di lasciarvi leggere la storia, vorrei dire solo due cosucce:
1. La prima stella del mattino fa parte della mia personale collezione di racconti dedicati tutti alla Route 66. Avevo in mente di scrivere questa storia già da un pò, ma il concorso indetto da _BitterSweet_ sul forum di Efp, mi ha illuminato completamente.  Quindi volevo ringraziare la GiudiciA  anche qui.
2. Era la prima volta che partecipavo ad un concorso, e non avrei mai pensato di poter arrivare sul podio, aggiundicandomi il secondo posto (medaglia d'argento, quale onore), e vincere addirittura un premio speciale, ossia quello Miglior Notte *_* Troppo per il mio piccolo cuoricino.
Ora dopo avervi annoiato adeguatamente vi lascio alla lettura della storia ù.ù

Sophie -che ultimamente aveva perso un pò la fiducia nelle cose belle, ricredendosi.
                                                                                                                                

La prima stella del mattino
 
 
 
Era l’estate del 1955 quando Ruth Ellis, accusata di aver ucciso l’amante, venne giustiziata a Londra. La sua fama oltrepassò i confini nazionali, così com’era accaduto solo due anni prima, in America, per i coniugi Rosenberg, condannati per spionaggio alla sedia elettrica.
Fu un’estate strana quella del 1955, mentre Ruth veniva impiccata in una stanza di una vecchia prigione dalle pareti antracite, Ian percorreva la Turner Tumpike fra Oklahoma City e Tulsa.
Io e Ian c’incontrammo per la prima volta in una stazione di servizio lungo la Strada Madre, così come Steinbeck preferiva chiamarla. Avevo appena abbandonato un’allegra comitiva di vecchi contabili, su un pullman verde foresta sgangherato, loro diretti verso San Andrea, io ovunque ci sarebbe stata vita.
Quando lo vidi, Ian intendo, indossava un vecchio giubbotto di pelle nero e i suoi occhi chiari brillavano sotto l’insegna al neon della stazione, ma non furono quelli o il modo poco garbato che aveva avuto nel gettare per terra ciò che rimaneva della sua sigaretta ad attirare su di lui la mia attenzione quella notte.
Notti come quelle andrebbero conservate dentro barattoli di vetro, nasconderle infondo al più alto pensile della cucina e lasciarle impolverare fin quando non si ha voglia di sognare ad occhi aperti, e respirare le persone che sono rimaste imprigionate nei barattoli, per conservarsi.
Mi venne spontaneo avvicinarmi a lui con disinvoltura quando lo vidi alzare gli occhi verso le nuvole, ammassi di particelle d’acqua compresse in un unico corpo, e sorridere. Così, come se Ruth non fosse mai morta, come chi crede in una valle incantata dove abitano unicorni.
«Hai un posto vuoto in macchina?» gli domandai sollevando gli occhi sul cielo che piano si stava imbrunendo, lasciando intravedere le prime stelle.
Il suo corpo si mosse lentamente, intorpidito dal lungo viaggio, «dipende».
Mi voltai e per fissarlo negli occhi dovetti sollevare nuovamente la testa. Era alto il doppio di me, e se non fossi nata con la camicia forse quella sera invece di incontrare Ian il buono avrei incontrato Ian il pazzo e chissà che fine mi avrebbe fatto fare.
«Da cosa esattamente?» chiesi inarcando un sopracciglio.
C’è da dire che prima d’incontrare Ian, io ero una persona normalissima, forse un po’ svampita e con la testa troppo tra le nuvole, ma abbastanza ragionevole, fu dopo il nostro incontro che capii di non essere più la stessa.
Un sorriso sghembo si disegnò sulle sue labbra sottili, «bè prima di tutto, non so quanto sia sicuro far salire sulla Spyder una sconosciuta incontrata in un parcheggio quasi deserto di una stazione di servizio, chi mi assicura che non sei un male intenzionato?» Mi domandò canzoniere, accendendosi una seconda sigaretta.
Feci finta di riflettere prima di rispondergli, regalandogli così il beneficio del dubbio, «ehi James Dean, ho per caso la faccia di una pericolosa?» Gli domandai con disinvoltura.
Lui rimase immobile a fissarmi, e fu come se una tempesta tropicale mi si abbattesse contro, avrei dovuto immaginarlo a cosa stavo andando incontro.
«Sai dov’è possibile ammirare la prima stella del mattino in tranquillità?» Mi chiese sorprendendomi.
«A Est, verso le grandi pianure» risposi avvicinandomi. Lui sorrise e facendomi cenno di seguirlo, mi permise di salire a bordo della sua Spyder nera, scura come la notte che stava calando sul palcoscenico arido di quelle terre desolate.
«Come hai detto di chiamarti?»
Lo fissai truce, «non l’ho detto».
Annuì, «mi sembra doveroso presentarsi signorina temeraria, e se fossi un maniaco?» si voltò a fissarmi inarcando il sopracciglio destro.
«E se fossi io la maniaca?» Ribattei imitandolo.
Ian arricciò le labbra, «non hai una faccia pericolosa» rispose ripetendo le mie stesse parole.
«Io sono Dee» Sbuffai sprofondando dentro il sedile di pelle, freddo e ruvido.
«Io sono Ian, dov’è che scendi?»
Gli sorrisi divertita, «tu dov’è che vai?»
«A Est baby, l’hai detto tu». Rise, di una risata allegra e spensierata, di chi per tutto il giorno non ha fatto altro che sparare cazzate.
Ora, una brava ragazza non ci dovrebbe salire in macchina con uno sconosciuto. Una brava ragazza non indosserebbe calze sbagliate o magliette troppo corte solo perché “sono divertenti”. Una brava ragazza non sarebbe mai andata via di casa senza lasciare neppure un biglietto, ma soprattutto, una brava ragazza non sarebbe mai stata felice di trovarsi su una Spyder e di non voler più scendere. «Cos’è questa storia della prima stella del mattino?» Domandò chi sarebbe dovuta essere una brava ragazza.
«Una storia come tante altre, un giorno te la racconterò».
«Non ho mica detto che ti avrei seguito fino ai confini», era meglio precisare.
A lui sembrò piacere la mia risposta, «e fino a dove vorresti arrivare?»
«Proprio non saprei, tu intanto metti in moto, che qualcosa mi verrà in mente».
 
E la strada che scivolava sotto le ruote chissà cosa aveva da dire, chissà quante volte era stata calpestata, chissà se qualcuno le aveva mai chiesto scusa:
“Perdonami, ti ho fatto male?”
“Figurati ci sono abituata”
“Ti chiedo scusa ugualmente che non si sa mai, l’Highway non vorrei mai averla sulla coscienza”.
La ghiaia agli angoli, la vegetazione fitta e selvaggia, il sole all’orizzonte che non sorgeva mai, e poi la notte- la notte. Il buio fuori dall’Oklahoma sempre più in alto verso il Missouri, le stelle che ti guardavano amorevolmente, come mamme cantanti alla ricerca della ninna nanna perfetta, quella che ti faceva fare sogni tranquilli, quella che ti cullava e poi ti amava, senza metterti fretta.
Ian aveva sintonizzato la radio su una sola frequenza, su una trasmissione, dove non c’erano radiofonici, ma solo canzoni, una di quelle che t’invoglia a premere il piede sull’acceleratore e correre- verso l’infinito e oltre.
Elvis Presley faceva tremare il mondo sotto i suoi passi, erano i primi anni musicali di quello che Alan Freed denominò Rock’n’Roll. Quella notte i Platters intonavano Only you mentre Ian chiedeva scusa all’asfalto.
E al diavolo le stazioni che dividevano i bianchi dalla gente di colore, quella doveva essere una stazione pirata.
«Dee, me la spieghi una cosa?»
Rimasi a fissare il panorama che scorreva dal finestrino, «spara».
«Levami un po’ una curiosità, quanti anni hai?»
«Abbastanza».
Mi lanciò un’occhiataccia, «non si direbbe tesoro, comunque sia, esattamente da chi è che stai scappando?»
«Ma io non sto scappando mica».
«E allora cos’è che stai facendo?»
«Tu cos’è che stai facendo?» Sorrisi.
«Io sto guidando»
«Io sto guardando fuori dal finestrino, a proposito, ti conviene uscire dalla 66».
«E perché mai?»
«C’è solo deserto».
Ian sbuffò, «c’è storia bambina, dici di stare guardando fuori dal finestrino ma non stai osservando. Come fai a non vedere quella macchina ferma infondo alla valle, quella con i fari accesi?  Ci sono due vecchi innamorati. L’uomo sta cercando di capire che direzione prendere, mentre la moglie gli urla in faccia tutto il suo disappunto. “John te l’avevo detto, queste sono cose pericolose, torniamocene a casa”».
Mi voltai incuriosita, rimanendo delusa quando non vidi nessuno. «Non c’è nessuna macchina, Ian».
«E quell’enorme bisonte alla tua sinistra? Sta cercando disperatamente di prendere sonno, ma non ci riesce, il frinio delle cicale gli impedisce di dormire». Scoppiò a ridere, alzando il volume, «quanto amo questa canzone, My baby she’s gone, I’m in misery, Dee guarda che notte».
Scoppiai a ridere, era matto, quell’uomo era tutto matto.
«Dee guarda che sono serio, come fai a non vedere?» Si voltò a guardarmi, sollevando gli angoli delle labbra, «hai degli occhi meravigliosi, non dovresti avere problemi».
Lo fissai inclinando leggermente la testa, Sadie avrebbe detto Sexy, ma forse era troppo presto. «Non ce l’hai una famiglia?»
«Certo che ce l’ho, è che mi piace viaggiare leggero», rise abbassando nuovamente il volume quando B.B.King terminò la canzone.
«E tu bambolina?» Mi domandò di rimando lanciandomi una fugace occhiata senza malizia.
Annuii, «solo che non mi va proprio di parlarne questa notte, capisci quello che voglio dire?»
«Sei uno spirito libero, proprio come me, è per questo che ti ho fatto salire a bordo». Sorrise agitando la testa, «hai fretta?»
«Di fare cosa?»
Sorrise di nuovo, questa volta con gli occhi, «hai fretta questa notte?»
«Sono in macchina con uno sconosciuto e a guidare non sono io, non ho libertà di parola, giusto?».
«Ti va di fidarti di un completo sconosciuto?» Continuò come se non avessi aperto bocca.
«Non l’ho già fatto?»
«Dee, bambina, stanotte sarà la notte più bella della nostra vita, te lo prometto».
E lo fu davvero, la notte più bella della mia vita.
Corremmo per quello che sembrarono miglia e miglia, quintali di strada mai coltivata fino a una stazione di servizio, più popolata rispetto alla prima.
Scendemmo dalla Spyder con la gola in fiamma per tutte le canzoni che avevamo cantato. Entrammo nel locale verso l’una di notte, con ancora la musica nelle orecchie. Ian comprò due birre ghiacciate, allungandomene una come se fossimo due vecchi amici.
«Dee, guarda lì».
«Dove?» Mi voltai, seguendo la direzione del suo indice.
Avevo capito cosa lo faceva andare fuori di testa: la musica.
«Un Jukebox?»  Domandai voltandomi nuovamente verso di lui. La cameriera che ci aveva servito le birre si avvicinò al nostro tavolo, puntando i suoi occhioni scuri su Ian.
«Bel maschione ti va di ballare?» Gli domandò con voce sensuale avvicinando le labbra rosse all’orecchio del mio compagno di viaggio. Ian mi lanciò un’occhiata prima di mettersi in piedi, mi sorrise persino mentre cingeva con il braccio i fianchi della donna e, come se volassero, si avvicinarono al centro del locale, muovendosi insieme con altre tre coppie, a ritmo di musica folk.
Non c’era molto da fare in quel momento, potevo rimanere a fissare il corpo femminile e formoso della cameriera strusciarsi su quello muscoloso di Ian, come una gatta in calore, oppure potevo alzarmi dalla sedia e iniziare a ballare come se non avessi fatto altro in vita mia. I primi passi non te l’insegnano mica mamma e papà, tutte bugie. Sei tu che un bel giorno, stanco di strisciare il culo sulle mattonelle decidi di mettere in moto le ginocchia. Non l’hanno ancora capito i genitori? E tutti quanti, che, quando ci si mette in piedi per la prima volta, non lo si fa per camminare, ma per esigenza vitale, il sangue ti fluisce dritto dritto nei piedi e tu sei costretto ad alzarti. I bambini non camminano, i bambini ballano.
Mi misi in piedi raggiungendo il centro della pista con la birra che mi scorreva nelle vene e allungandomi verso uno sconosciuto, lo costrinsi a ballare con me.
Fu una sfida quella che intrapresi in quel locale, ma non verso Ian e la sua cameriera. Era una sfida contro la vita e le sue regole, contro la famiglia che ti voleva accasare, contro le riforme. Contro chi non capiva che le bionde, si forse erano stupide, ma il senso del dolore lo conoscevano. Ero, invece, con tutti quelli che quella notte avevano deciso di essere se stessi. E si, forse il mattino dopo qualcuno mi avrebbe riportato a casa, ma nel frattempo, quella notte, quel preciso istante, sarebbe rimasto mio per sempre.
Sentii le braccia dello sconosciuto sostituirsi con quelle di Ian, e il sorriso imbarazzato dell’uomo che avevo ingiustamente sottratto dal bancone, con il suo sorriso strafottente.
«Piccola ti muovi che è una favola», rise facendomi contorcere sotto i suoi occhi chiari.
Ballammo per quello che sembrò un’ora intera, prima che il proprietario della stazione di servizio ci cacciasse fuori a calci, sgridandoci per il troppo baccano.
Ci avvicinammo alla macchina l’uno accanto all’altro, mentre ancora ridevamo e ballavamo in un modo tutto nostro.
«Allora, me lo vuoi dire da cos’è che stai scappando?» Mi domandò a un certo punto Ian, cingendomi le spalle con un braccio, attirandomi sul suo petto.
Scossi la testa, liberandomi dal suo abbraccio e con il sorriso sulle labbra mi misi a correre verso la macchina, cercando di non farmi acciuffare. Ero però troppo lenta, al contrario di Ian, che non impiegò molto tempo prima di raggiungermi. Forse ero ubriaca, forse ero solo felice, fatto sta che quando sentii la sua pelle nuovamente vicina alla mia mi voltai a baciarlo.
Non fu per nulla un bacio appassionato, tutt’altro, forse neppure le sfiorai le mie labbra con le sue. Ricordo solo che quello fu il nostro primo contatto e che fu un pezzo di vita che mi scivolò via dal corpo, un pezzo di me che stavo cedendo a un completo sconosciuto.
«Ian, guarda lì, ci sono due uomini fermi sul ciglio della strada, sai cosa stanno facendo? Stanno aspettando, come Beckett, ci pensi, tutti aspettano qualcosa, tu cos’è che aspetti?» Gli domandai, abbassando il finestrino per far entrare un po’ d’aria fresca.
«Aspetto la prima stella».
Mi voltai sorridente, «ancora? Cos’è questa storia?»
Ian scosse la testa, divertito, «te la racconterò solo se tu mi dirai da cos’è che stai scappando?»
«Allora non la voglio sapere», dissi stringendomi le braccia sotto il seno.
«Abbiamo tutta la notte, puoi sempre cambiare idea». Sorrise sghembo, rimettendo in moto la sua Spyder.
 
Alla fine uscimmo davvero dalla Route 66, non perché stanchi di tutto quel deserto, ma perché per raggiungere Springfield bisognava abbandonare la Strada Madre e percorrerne una secondaria, più sottile, meno conosciuta. Il cambio di panorama alla fine non fu un granché, abbandonammo semplicemente i granuli sabbiosi per raggiungere interi viali circondati da alberi e cespugli- cercate forse una volpe? Per di qui, prego.
Lentamente il sapore amaro della birra era scivolato via dalla mia bocca e ciò che rimaneva era solo il ricordo di un ballo con uno sconosciuto, tanti con Ian e un quasi bacio, che sembrò non interessargli minimamente. Non parlammo molto dopo esserci messi in macchina, diverse volte chiusi gli occhi, riaprendoli in luoghi diversi. E utilizzando quel bizzarro metodo mi ritrovai vigile una volta usciti dall’Oklahoma.
 Ian guidava silenzioso nella notte, la stazione pirata trasmetteva musica di sottofondo, forse un blues. Se chiudevi gli occhi, riuscivi quasi a vederla quella coppia dietro la tenda della finestra, in uno di quei vecchi quartieri nel New Orleans. Le note accompagnavano i movimenti lenti delle dita, mentre facevano scivolare via la sottoveste dal corpo della donna, così silenziosamente, senza fare rumore, come un fluire di sogni che scivolavano via, cadendo a peso morto sul pavimento di legno.
«Bella canzone», sussurrai osservando i movimenti aggraziati e veloci di Ian mentre cambiava le marce.
Lui annuì, «il meglio deve ancora venire. Arriverà un giorno in cui non esisterà più distinzione, sarà tutto solo una questione di musica, capisci?» disse voltandosi verso di me, «bianchi e neri si uniranno, faranno persino l’amore, già me l’immagino».
Scossi la testa, «Ian tu sei tutto matto».
«No bambina, ti stai sbagliando, in quello che dico ci credo davvero. Succederà che un giorno ci sveglieremo e tutto sarà diverso. La donna di colore che prima ti faceva le pulizie, adesso è diventata tua moglie, madre dei tuoi figli». Lo disse con naturalezza, come chi ci credeva sul serio in quello che diceva. «Si chiama fede, e non nella religione, che quella è buona solo ad ingozzarci tutti di letture mistiche e di miracoli al limite dello scientifico. No, tu devi credere agli occhi della gente, quelli non mentono mai». Sorrise guardandomi. «Io ti guardo negli occhi e sai cosa vedo?» Mi domandò alternando lo sguardo dai miei occhi alla strada.
«Cosa vedi?» Gli chiesi dolcemente.
«Vedo una ventenne paralizzata che cerca di uscire da questa paralisi. Dee tu sei uno spettacolo, dove ti eri nascosta per tutto questo tempo, cosa stavi aspettando?»
«Non puoi parlarmi in questo modo. Noi neppure ci conosciamo». Offesa ecco come mi sentivo, era entrato senza chiedermi il permesso, senza che me ne potessi accorgere.
«Tu sei venuta da me, non ti ho cercato io, ricordi?»
«Io avevo solo bisogno di un passaggio».
«Tu hai solo bisogno di divertirti. Ti ho visto sai? Mentre ballavi, con che occhi guardavi il mondo. Come se ti avessero tenuta prigioniera per tutta la vita, come chi guarda la luce per la prima volta».
Inumidii le labbra secche, bagnandole con la punta della lingua prima di parlare, «ero solo felice Ian, niente di più e niente di meno.»
Non mi credette, «quante altre volte sei stata felice nella tua vita?»
«Abbastanza» risposi lapidaria.
«Abbastanza non è un numero» Mi fece notare con gentilezza.
«Perché tu le hai contante, tutte le volte che lo sei stato?» Domandai sprezzante.
Tornai con lo sguardo fuori dal finestrino, tenendomi alla larga dai suoi occhi, troppo ipnotici, troppo sicuri. Come se lui avesse capito tutto, come se conoscesse le risposte a tutti i perché.
«Otto».
Mi voltai, inarcando un sopracciglio insospettita,«otto?»
«Le volte in cui sono stato realmente felice» precisò guardando dritto davanti a sé.
«Non ti credo». Era impossibile ricordare tutti i momenti felici, alcuni si vivevano persino senza rendersene conto.
Ian non sembrò d’accordo, «le ricordo tutte».
«Dimmele», lo sfidai.
Sorrise sghembo, «eh eh troppo comodo così, non lo sai che quando si racconta a una persona i suoi momenti felici automaticamente si diventa importanti per quella persona?»
«Non correrò il rischio di innamorarmi di te» lo rassicurai, sorridendo leggermente.
La luna di alabastro ci accarezzava dolcemente, accompagnandoci lungo il nostro viaggio.
«Ma se mi hai baciato», mi canzonò guardandomi divertito.
Arrossii involontariamente alle sue parole, speravo che non se ne fosse accorto, «quello non era un bacio, e comunque ero brilla, non conta». Borbottai voltandomi dall’altra parte, sentendolo ridacchiare.
Lungo i confini del Missouri, a qualche kilometro di distanza da Springfield, Ian parcheggiò la sua Spyder in un campo di grano e di pannocchie.
«Che ore sono?» Gli domandai, una volta spento il motore.
«Quasi le quattro», rispose stiracchiandosi sul sedile.
«E’ ancora presto per l’alba».
«Vorrà dire che aspetteremo. Hai fretta di raggiungere la città?»
Scossi la testa, «no. E’ la stessa cosa».
«E’ Springfield la tua meta?»
«A dire la verità non ho una vera destinazione», confessai a bassa voce.
Si voltò incuriosito,«vaghi così? Di questi tempi non è il massimo spostarsi senza qualcuno accanto»
«Tranquillo non permetterò che ti violentino» Gli dissi sorridendogli.
Ian sollevò gli occhi al cielo, rimanendo in silenzio.
«Che ne dici di scendere?» Suggerii, «il cielo si vedrà molto meglio lì fuori». Ridacchiai indicando fuori dal finestrino.
Sogghignò, condividendo però la mia considerazione.
Scendemmo dalla Spyder lasciando il tepore artificiale dei sedili, per buttarci nel caldo afoso della notte nei campi. Le coltivazioni di granturco superavano il metro, mentre le rivestiture naturali delle pannocchie si aprivano alla luna, mostrando i loro tesori gialli.
Raggiungemmo con non poca difficoltà la fine della coltivazione, trovando uno spazio pianeggiante sulla cima di una piccola collinetta, dalla quale era possibile osservare le luci della città.
«Adesso me li puoi anche dire, i tuoi otto momenti felici», sorrisi sdraiandomi con la schiena sull’erba umida.
 
Il cielo quella notte era un ammasso di corpi gassosi che lentamente si lasciavano assorbire dall’oscurità di quelle terre. Il buio silenziosamente portava via le stelle, facendole scivolare sotto il suo manto. Mentre i primi lampi chiari di luce sorgevano lentamente all’orizzonte.
«Te ne dirò solo tre», disse Ian, usando il suo giubbotto di pelle come cuscino. Con un sorriso mi permise di sdraiarmi accanto a lui, puntando i nostri occhi al cielo.
«Sono tutta orecchie», lo schernii facendo sfiorare involontariamente le nostre teste.
Ridacchiò, «il primo è stato diversi anni fa, quando vivevo ancora a casa dei miei genitori. Ricordo di essermi svegliato una mattina con una nuova consapevolezza, come se sentissi di essere diverso, non mi sentivo più lo stesso ragazzo della sera prima. E tutto questo scalpore era stato causato da degli stupidissimi peli che mi crescevano sul viso», sghignazzò scuotendo la testa.
«Era barba Ian», gli feci notare con un sorriso.
«Lo so, signorina so-tutto-io. La mia felicità nacque quando quella mattina mio padre, tutto orgoglioso, mi mise un braccio intorno alle spalle e m’insegnò a radermi, solo io e lui, come due veri uomini».
Mi strinsi le braccia al petto, «che cosa carina».
«Vedi Dee, mio padre era malato. Troppi anni sotto il sole furono fatali per la sua salute, morì pochi mesi dopo a causa di un tumore alla pelle». Mi confessò.
Sgranai gli occhi sorpresa, nel tentativo di mettermi seduta costrinsi anche lui a sollevarsi da terra.
«Io lo sapevo che non sarebbe vissuto a lungo, per questo mi sono sentito davvero felice quel giorno, ero diventato uomo sotto i suoi occhi», disse con un sorriso a trentadue denti.
Rimasi sconvolta da quella rivelazione.
«Cosa c’è?»mi domandò fissandomi.
Scossi la testa, «e che non so bene cosa dire».
«Chiedimi un altro mio momento felice», sorrise dolcemente, sdraiandosi di nuovo sull’erba.
 Annuii stendendomi un'altra volta accanto a lui. «Prima volevo dirti che mi dispiace tanto, magari non servirà a nulla, però ci tenevo a dirtelo», borbottai impacciata.
 Sentì Ian voltarsi per guardarmi, ma se mi fossi girata, avrei avuto i suoi occhi troppo vicini ai miei.
«Allora, raccontami il tuo secondo momento felice», l’incitai a continuare cercando di smorzare la tensione che si era venuta a creare.
Lo sentii sospirare, «quando ho preso la patente. Perché mi sono sentito realmente libero, quello stesso anno ho abbandonato gli studi per seguire il mio più grande sogno: le automobili», disse tutto orgoglioso.
«Bè direi che ci sei riuscito, hai una macchina fantastica. Devi averla pagata un casino, e per essere uno che non ha neppure terminato gli studi, sei arrivato davvero in alto. Cos’è che fai? Lavori come progettista?» Domandai incuriosita.
Ian scoppiò in una fragorosa risata, e dovette mettersi seduto per poter riprendere a respirare regolarmente.
«Cosa c’è di tanto ridicolo?» Chiesi leggermente offesa.
«Dee davvero tu credi che io sia ricco?» mi domandò sorpreso.
Annuii titubante, «non tutti si possono permettere una Spyder».
«Tesoro guarda che quella macchina non è mica mia».
«Che cosa?» domandai sconvolta, «se non è tua allora di chi è? Non dirmi che l’hai rubata?»
Il sorriso di Ian svanì dalle sue belle labbra, «certo che no bambolina, non sono un ladro. Lavoro come aiuto meccanico in un’officina dell’Oklahoma e ogni tanto mi ritrovo a fare consegne a domicilio, chiamiamole così. Il proprietario della Spyder vive a Springfield e devo consegnargli la macchina domani mattina».
«Ed io che ti credevo un milionario», dissi sospirando.
«Di certo non mi dispiacerebbe esserlo» Ridacchiò sdraiandosi per la terza volta.
Sospirai fingendomi sconvolta, «non so, mi ero già fatta un’idea della tua vita e ora scopro che sei tutt’altra persona».
Rise, «bè capita. In realtà provengo da una famiglia di coltivatori, ho vissuto per ben sedici anni in una fattoria. Dopo la morte di mio padre mi sono trasferito a Lawton ed è lì che ho iniziato a lavorare, da prima come cameriere in un vecchio pub, poi come assistente meccanico. Diciamo che non è stato tutto rosa e fiori, però la mia vita mi piace. Presto aprirò un’officina tutta mia nella capitale», mi spiegò giocherellando con le ciocche dei mie capelli.
Ian aveva dei sogni, e per realizzarli non avrebbe mai avuto bisogno di stelle cadenti.
«E il resto della tua famiglia?» chiesi trovando il coraggio per voltarmi e guardarlo negli occhi.
Sorrise, «li vado a trovare ogni mese. Mia madre ha impiegato dieci anni per riuscire a innamorarsi nuovamente, ora vive con il nuovo marito, un brav’uomo del Colorado, a Tulsa. Mio fratello si è sposato tre anni fa e vive nella nostra vecchia casa con sua moglie e due fantastici bambini».
«Sembra essere un bel lieto fine», dissi fissando il cielo.
«Siamo sempre stati una famiglia unita, anche se viviamo lontani sappiamo di poter contare in ogni momento l’uno sull’altro».
Era una cosa bella, e l’invidiavo per quello.
«E tu, invece, non hai alcuna intenzione di sposarti e avere dei bambini?» gli chiesi accarezzando dei ciuffi d’erba.
«Sono nato con uno spirito libero, anticonformista, non credo di essere portato per queste cose. E qui arriva il mio terzo momento felice», disse stiracchiandosi.
Mi voltai incuriosita, «quale?»
«Assistere al sorgere del sole con la ragazza più bella del mondo». Canzonò divertito.
Gli diedi uno schiaffo leggero sulla spalla, facendolo ridere.
«Sbruffone», biascicai, finendo poi per unirmi alla sua allegra e contagiosa risata.
«Magari un giorno ti dirò gli altri cinque», sorrise tornando a fissare il cielo, non più nero.
La consapevolezza di trovarmi sdraiata su un prato forse privato, sopra una collinetta lontana kilometri dalle luci della mia camera da letto, mi fece sorridere di cuore. Forse non avrei mai più provato un senso di libertà così forte in tutta la mia vita. Decisi così di viverlo a pieno, respirando a pieni polmoni l’aria acre del mattino.
«Sono scappata da casa», dissi senza pensare, continuando a fissare il cielo.
Sentii Ian ridacchiare, «l’avevo immaginato».
«E come?» chiesi, voltandomi per osservare le sue labbra tremare leggermente mentre respirava.
«Profumi di buono». Rispose come se non ci fosse bisogno di un’ulteriore spiegazione.
Ma un perché ci doveva essere, non poteva non esistere una risposta comune.
«Profumo di buono?»
«Si». Continuò, rispondendo questa volta a monosillabi.
«Non capisco, cosa c’entra?»
Ian voltò il capo per guardarmi dritto negli occhi, continuando a sfiorare alcune ciocche dei miei capelli. «Piccola, i tuoi capelli sanno di fragole, sono talmente morbidi da poter essere benissimo scambiati per fili di seta. La tua pelle emana una luminosità diversa quando illuminata dalla luna, sei pallida, ma le tue guancie s’imporporano facilmente donando colore al tuo viso. Provieni da una famiglia ricca, non è così?» Chiese, conoscendo già la risposta.
Poteva essere tutto così semplice, per una sera sarei potuta essere chiunque avessi voluto, magari una donna fragile e sperduta come Marilyn nel film La tua bocca brucia. Forse avrei dovuto studiare meglio la mia parte, ma non avendo alcun copione dovetti improvvisare, cosa non facile con due occhi così che ti fissavano in quel modo. Ian era un mistero e forse, chissà, quella sera lo ero anch’io, e sdraiata con lui su dell’erba umida lasciai che i pantaloni si sporcassero.  «L’hai capito semplicemente guardando la mia pelle?»
«Guardando te, che è diverso. Io ti ho visto tutta. Ti ho osservato per tutto il tempo, anche quando ancora non eri venuta da me per chiedermi un passaggio, io ti avevo già notato. Cosa ci facevi con tutti quei vecchi su quel pullman?»
Non so come faceva la gente a respirare dopo parole così, sul serio, non l’avrei mai capito. «Ho chiesto loro un passaggio». Risposi semplicemente.
«Persone gentili?» Sorrise.
Annuii,«molto educate».
Non c’era più niente nel cielo, solo colori. La notte stava giungendo al termine.
«Perché sei scappata da casa?» Domandò incuriosito incrociando le braccia sotto la testa.
«Per vivere un’avventura».
Chissà perché decisi di raccontargli la verità. Forse l’avrebbe capito meglio di chiunque altro.
«Perché, i ricchi non vivono mai avventure? Potevi farti comprare un pony di solito vi eccita parecchio», non lo disse con cattiveria, solo con ironia, come se avesse visto così tanto e sentito fin troppo per sorprendersi ancora.
«Ma io non sono mica una ragazzina normale sai? Io volevo vivere una vera avventura, fatta di emozioni, di brividi che scivolano sulla pelle. Fatta d’incontri, di risate, di balli proibiti, di baci rubati. Tutte quelle cose che a chi è come me non sono permesse di vivere perché non è opportuno, capisci?» Sospirai, chiudendo gli occhi, «io invidio quelli che possono essere liberi».
«Tutti hanno il diritto di essere liberi».
«Non per i miei genitori», ridacchiai.
«E così sei scappata da casa per fargli un dispetto?»
Voleva capire perché gli interessava sul serio o la sua era semplice curiosità?
«No di loro non mi preoccupo. Hanno sempre avuto una figlia un po’ pazza, diversa da tutte le altre ragazze dell’alta società. Sono quella che dalle mie parti si definirebbe un cavallo mezzosangue. Non vado bene per le corse, quindi cercano di vendermi al miglior offerente».
«Matrimonio combinato?»
Sorrisi senza sorprendermi della sua perspicacia.«Non sposerò mai un uomo che non amo».
Di buono c’era che forse avrebbe capito, forse no. Era uno sconosciuto dopo tutto, e non era forse vero che la gente si apriva realmente solo con chi non conosceva?
«Quando sei andata via?»
«Ieri pomeriggio, dopo pranzo».
Fischiò divertito, «decisione improvvisa o piano ben architettato?» Chiese mettendosi seduto, l’imitai per sgranchire un po’ le ossa, stiracchiandomi.
«Tutto improvvisato», risposi schietta. La conversazione avvenuta durante il pranzo era solo un pretesto, da mesi mi bazzicava in testa l’idea di scappare. Tutti i figli, almeno una volta nella loro vita, tentavano la fuga, lo disse anche James Barrie. Non che io avessi intenzione di rimanere eternamente una ventenne, solo che andava fatto. Le migliori storie avevano sempre un inizio complicato. Si sarebbe trattata solo di un’avventura, un universo parallelo della mia vita: come sarebbe stato, non essere stata questa Dee ma un’altra, senza pensieri, magari con delle ali sulla schiena per poter volare libera.
«Tornerai a casa domani?»
«Tu mi riporterai a casa?» Gli domandai dolcemente.
«C’è una qualche ricompensa per il tuo ritrovamento?» Sorrise sghembo.
«Potrebbe esserci se assicuri ai miei genitori la mia completa integrità». Ridemmo, scambiandoci una lunga occhiata.
«E cosa succederebbe se ti portassi a casa con qualcosa in meno?» Chiese quasi sussurrando, avvicinandosi impercettibilmente.
«Ti costringerebbero a sposarmi» risposi sghignazzando.
«E se a casa non ti ci portassi?» Sollevò gli angoli delle labbra.
«Sarebbe un bel problema».
«Che figlia sconsiderata» sussurrò divertito. Poi mi spinse delicatamente sul prato, facendomi sdraiare supina, coricandosi accanto a me. Continuò a guardarmi per diversi minuti senza dire nulla, forse alla ricerca di qualcosa, e quando si voltò, tornando con gli occhi sul cielo non più nero ma di un temperato celeste, sorrise soddisfatto.
«Eccola lì, la prima stella del mattino», disse tutto eccitato, indicando il cielo.
Inarcai un sopracciglio, osservando il punto indicato, «lo sai vero, che quella non è una stella, ma il pianeta Venere?», controbattei confusa.
Ian continuò ad ammirare quel pianeta come se non ci fosse cosa più bella al mondo, «certo che lo so. Ma non te l’hanno mai detto che le cose migliori sono quelle che si sanno nascondere bene?» Chiese con un sorriso radioso disegnato sulle labbra. Poi avvicinò la sua mano alla mia, facendo intrecciare le nostre dita.


FINE





     
  
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