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Autore: Hiraedd    25/09/2012    2 recensioni
A volte capita che il Capitano Grifondoro si ritrovi tra le mani uno strano enigma chiamato Dorcas Meadowes, che in sei anni gli ha rivolto la parola tre volte al massimo, tutte nel giro dell’ultima settimana.
Può anche capitare che un Serpeverde solitario e innocuo inciampi in una maschera che non nasconde solo un volto, ma un mondo intero. Perchè Benjamin odia Caradoc Dearborn, sia chiaro, e quegli occhi dorati non gli fanno alcun effetto. Forse.
Oppure può succedere che il Caposcuola sia innamorato da anni della sorellina del proprio migliore amico, che ha perso la testa per un Auror di stanza in Polonia, e abbia una fottuta paura che Edgar lo scopra e lo torturi perché no, quelli che fa verso Amelia sono tutto fuorché casti pensieri d’amicizia.
Per fortuna, però, che c’è Hestia Jones, deputato diario segreto degli studenti del settimo anno, che tutto osserva nonostante, a conti fatti, non distolga nemmeno per un secondo lo sguardo dal suo adorato fidanzato, il Prefetto Sturgis Podmore.
*
Siamo ad Hogwarts, è l’autunno 1969 e la guerra è già più vicina di quanto non sembri.
*
Altri personaggi: Gideon Prewett, Kingsley Shacklebolt, Sturgis Podmore, Amelia e Edgar Bones.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Benjy Fenwick, Caradoc Dearborn, Dorcas Meadowes, Fabian Prewett, Hestia Jones
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'oltre il fuoco comincia l'amore'
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Capitolo 11

 
 
 

Quando Dectera riprese a parlare, la sua voce era dolce e triste
-i ricordi sono come spine: si attraversa la vita portandoli tra le mani
e per quanto si tenti di gettarli via non si può farlo,
perché sono conficcati troppo in profondità-
[…]
Accorgendosi che Dectera stava vagando nella propria mente,
Emer accostò il proprio volto a quello di lei per attirare di nuovo la sua attenzione
e tentare un’ultima supplica disperata.
-quale nome non hai mai rivelato a Sualtim?[…]-
Dectera era al limite di una nebbia argentea, dalle cui profondità scaturiva
una luce opalescente che lei ricordava di aver visto, molto tempo prima.
Ancora un passo e si sarebbe definitivamente perduta tra la nebbia.
Aveva sempre saputo che la nebbia la stava aspettando
[…]
Dectera glielo disse, e poi scivolò perennemente, silenziosa e felice,
nella nebbia che l’attendeva*
 

 
 
 
A Dorcas il volo non piaceva.
 
Aveva detto sul serio alla Testa di Porco, quando Sturgis le aveva chiesto della sua paura di volare.
 
Non sopportava la velocità, l’aria fredda e sferzante sul volto, i vestiti che venivano battuti dal vento, i capelli che si agitavano come quelli di una gorgone inferocita, le lacrime agli occhi e la punta del naso che si arrossava.
 
Non sopportava non vederci con chiarezza, essere in bilico a metri da terra, non sentire il suolo duro e rassicurante sotto i piedi e rischiare di cadere ogni due per tre.
 
Essere completamente in balia di una scopa, un essere senza una mente e una coscienza.
 
No, decisamente volare non faceva al caso suo. E si, c’entrava anche quell’idiota di Malfoy, con il suo scherzo al primo anno e le sue fantastiche e sadiche idee.
 
Non piacendole il volo, di riflesso non l’aveva mai entusiasmata nemmeno il quidditch. Non era certo il tipo di persona, Dorcas Meadowes, da mettersi a strillare seduta in tribuna facendo il tifo per l’una o l’altra delle squadre della scuola, sventolando magari una sciarpa dei suoi colori.
 
Per quello che la riguardava, quindi, al posto del Campo di Quidditch di Hogwarts avrebbero potuto mettere una grande pista di pattinaggio o una voliera per Thestral.
 
La cosa che più di tutti l’aveva sorpresa, quando aveva comunicato a Benjy che avrebbe assistito ad una partita e che si sarebbe trascinata dietro pure lui, volente o nolente, era stato il tiepido sorriso di risposta che aveva avuto dal proprio migliore amico.
 
Per prima cosa, Ben era una di quelle persone che raramente si permettevano sorrisi che non fossero anche profondamente beffardi. Se a questo si aggiungevano i nomi “Prewett, Shacklebolt e Jones” si poteva ragionevolmente supporre di non vederlo sorridere mai più.
 
In secondo luogo, Benjy odiava che si prendessero impegni a suo nome. Era una cosa a cui, sul momento, Dorcas non aveva minimamente pensato, ma ragionandoci, con il passare del tempo, era giunta alla conclusione di dover attraversare parecchi momenti di criptico e testardo silenzio riprovevole prima di andare alla partita. Insieme.
 
Quando Ben si arrabbiava –a differenza di quanto si pensasse in giro, Benjamin Fenwick si arrabbiava molto di rado, anche se qualche volta vederlo preoccupato avrebbe potuto trarre in inganno- lo faceva senza grandi fiammate d’ira. Aveva un modo di farti capire la sua profonda inquietudine che metteva estremamente sottopressione.
 
-non so una regola di Quidditch, Ben- constatò mentre scendevano al campo, uno di fianco all’altra, Dorcas. Avvolta nel suo mantello più pesante, con i capelli legati in una lunga treccia e la gola riparata da una sciarpa dei colori di Corvonero, camminava tranquilla come sempre diretta verso il suo ignoto personale.
 
Se la cultura di Dorcas Meadowes in alcuni campi sconfinava quasi nell’impossibile, in materia di Quidditch non raggiungeva nemmeno i requisiti minimi. Tutto quello che sapeva di Quidditch era che si giocava a cavallo di una scopa –attrezzi infernali, a parere suo- e che consisteva in due squadre avversarie che rincorrevano varie palle di diverse dimensioni. Stop.
 
Forse Benjy provò a soffocare quella risata quasi inconsulta nata da una battuta che di certo non voleva essere divertente, fatto sta che non ci riuscì a sufficienza. Accortasene, Dorcas gli rivolse un’occhiataccia decisamente poco tollerante e tornò a puntare lo sguardo sui tre anelli che adesso si trovavano a poco meno di duecento metri da loro.
 
-esulta quando lo fanno i nostri… accompagnatori, e vedrai che renderai tutti felici- borbottò il ragazzo simulando un’aria seria e stringendosi la sciarpa attorno al collo –e poi, tranquilla, il Quidditch è un gioco avvincente, ti sentirai coinvolta subito-.
 
Con un sopracciglio inarcato, scorgendo con lo sguardo il piccolo gruppo dei loro accompagnatori –come li aveva soprannominati Ben-, mostrò lo scetticismo di risposta alla frase di Fenwick.
 
Il più alto di tutti era Kingsley, che con la sua muscolosa corporatura sfiorava sicuramente il metro e novanta. Accanto a lui, comodamente seduta su uno dei gradini che portavano alle tribune, Hestia era intenta a rabbrividire di freddo e –pensò Fenwick rivolgendole uno sguardo vagamente divertito- a maledire il proprio ragazzo per essersi fatto incastrare da uno sport da giocarsi all’esterno. La sala delle Gobbiglie era perfettamente riscaldata, secondo le sue fonti. I gemelli Prewett completavano l’allegro quadretto, sfoggiando espressioni decisamente insonnolite indice di chi, alzatosi da poco, non vedeva l’ora di tornare a letto.
 
 

*

 
 
Il fischio di inizio non era arrivato a spezzare l’immobilità, come invece avrebbe fatto nemmeno un mese prima con una compagnia del genere.
 
Fin da quando aveva avvistato i due ragazzi, Hestia Jones si era prodigata per trovare argomenti di conversazione stimolanti per tutti, quasi ne andasse della sua stessa vita.
 
Avevano così impiegato i primi dieci minuti a spezzare il ghiaccio parlando di scuola e di fatti più o meno conosciuti: il banchetto atteso per Halloween, il Club dei Duelli, il non tanto desiderato appuntamento con il Lumaclub -di cui facevano parte sia Kingsley che Fenwick- per il martedì successivo.
 
-tu, Benjy, sembri gallese- aveva poi esclamato Shacklebolt quando erano giunti alle tribune corvonero, lasciando spaziare lo sguardo verso le tribune Tassorosso per individuare la figura piccola ma ben visibile di Amelia Bones. Quando l’aveva trovata –l’unica vestita normalmente in quell’alveare operoso che erano gli spalti dei Tassi- l’aveva salutata con un gesto della mano, presto seguito anche dai Prewett e da Hestia.
 
-si, abitiamo nella periferia di Holyhead- annuì il ragazzo sedendosi vicino al parapetto. In questo modo, si accorse troppo tardi, era separato da Dorcas dall’intera comitiva, che occupava una panca dalla cima al fondo.
 
-Le Holyhead Harpies sono di li, vero?- domandò Gideon, che dava le spalle al campo per poter più agevolmente parlare con loro, lasciando ancora per qualche minuto il proprio posto vuoto.
 
-mia sorella è una loro fan-assentì infatti –il loro campo d’allenamento non è troppo distante da casa nostra-.
 
-tu non tifi le Harpies?-.
 
La domanda arrivava da Hestia, seduta tra quello che sarebbe stato il posto di Gideon e quello in cui era già accomodato Fabian. Oltre Fabian, prima del parapetto successivo, Ben vide Dorcas rivolgere uno sguardo imperscrutabile al campo sotto di loro.
 
-no, io…- scosse il capo rivolgendo ancora un’occhiata a Dorcas. Tutto sommato sembrava piuttosto a suo agio, con vicino Prewett –tifo per i Montrose, come mia madre. Hanno un gioco più dinamico, è più divertente starli a guardare-.
 
-ed è sicuramente la squadra più forte della Scozia- gli diede manforte Kingsley, annuendo –io preferisco i Wanderers, ed ho assistito ad una loro partita contro i Montrose. È stata spettacolare, davvero-.
 
-sei scozzese? Dall’accento non si direbbe- osservò Fenwick scrollando le spalle. Se ad una prima occhiata Shacklebolt poteva sembrare tanto calmo da risultare snervante, era rilassante, alla fine, constatare quella calma in ogni situazione.
 
-inglese, in realtà. Ma ci siamo trasferiti a Fort William a causa del lavoro di mio padre quando avevo dieci anni. Io non ho minimamente preso l’accento, ci vivo solo tre mesi all’anno, ma nei miei genitori si sente di più-.
 
-Fort William? Dorcas abita non troppo distante da quella città- fece mente locale Benjy, socchiudendo appena gli occhi e indicando la ragazza, ora intenta a parlare con Prewett.
 
-davvero? Dorcas, sei scozzese?-.
 
La domanda di Kingsley costrinse Dorcas a rivolgere uno sguardo al resto della combriccola. Relegata in un angolo, intenta a guardare il campo come se non ne avesse mai visto uno –cosa altamente probabile, tra l’altro, si disse Kingsley- aveva l’aria di qualcosa di totalmente fuori posto.
 
-per metà, si- annuì la ragazza con voce rauca, lievemente a disagio.
 
-di dove?- chiese la Jones interessata.
 
La domanda di Hestia cadde nel vuoto quando, proprio prima che la Meadowes si decidesse a rispondere, le squadre entrarono in campo.
 
 

*

 
 
Per primo, con la sua fedele e nuovissima Nimbus 1000 che aveva fatto arrossire d’invidia sia Sturgis che Edgar, procedeva in testa il Capitano più ammirato di Hogwarts.
 
Subito dietro di lui, in qualità di battitori, Sturgis Podmore e Reginald Cattermole –quinto anno- sfoggiavano le loro tranquille Scopalinda, molto meno appariscenti della scopa di Dearborn ma tutto sommato abbastanza fedeli.
 
Le tre cacciatrici, tre ragazze del terzo anno che solo l’anno prima avevano provato la selezione insieme, venivano alla coda delle due scopalinda, brandendo chi una Tornado 1 –Penelope Kirke-, chi le sempre adorate Comet 180 –Elinor Stebbins e Odette Reynolds-. Per ultimo, con la tipica corporatura sottile e agile, Max McKinnon chiudeva la fila in qualità di cercatore, settimo anno Corvonero nonché uno dei compagni di stanza di Caradoc Dearborn. E unico a condividerne il modello di scopa.
 
Per Podmore doveva essere una vera e propria tortura avere in stanza ben due Nimbus 1000 e non poterne usare nemmeno una.
 
Dal lato opposto del campo, stavano intanto entrando i Tassorosso.
 
Capitanati dall’impeccabile Edgar Bones, che nello stringere la mano a Dearborn quasi gliela staccò –perché si, era uno dei suoi migliori amici ma il quidditch, diamine, è pur sempre quidditch-, la fila continuava con una battitrice dai capelli rossi –Sophie Baddock, quarto anno, secondo il cronista- e un lui che occupava la stessa carica, tale Terence Midgen del settimo.
 
I cacciatori, le sorelle Zeller e Adam Wilkes, precedevano infine la cercatrice –piccola nuova risorsa del secondo anno- Amanda Higgs.
 
Due squadra talentuose, aveva detto il cronista, per una partita che sarebbe rimasta nei ricordi di tutti.
 
Il cronista, a parere di Dorcas Meadowes, parlava un po’ troppo la lingua del quidditch e un po’ troppo poco la sua, dal momento che di ogni minima frase riusciva si e no a centrare due parole su cinque.
 
Si maledisse all’improvviso per aver accettato l’invito di Hestia. Erano solo alla presentazione delle due squadre e lei si era già persa, maledetto quidditch.
 
Vide Edgar e Caradoc stringersi la mano, impiegando decisamente più tempo del previsto.
 
-quegli idioti- mormorò Hestia dandosi una pacca lieve sulla fronte, come a compatire i propri amici –stanno cercando di vedere chi prima dei due perderà la mano?-.
 
Gideon rise.
 
-io dico Caradoc- azzardò dando di gomito a Kingsley –è tutta apparenza, la sua. Non ha uno straccio di muscoli-.
 
-speriamo tu non abbia ragione- rispose Fabian a tono, ribattendo al fratello quasi istintivamente –altrimenti sai quanto si lamenterà poi? Siamo noi a doverlo sopportare. Edgar almeno parla di meno-.
 
Mentre i due fratelli ridevano, Hestia si alzò per vedere meglio.
 
Alla fine, solo alla minaccia di Madama Bumb di espellerli ancora prima del fischio d’inizio, i due si ripresero ognuno la propria mano per iniziare a giocare.
 
 

*

 
 
Dorcas Meadowes era nel panico più totale.
 
Non che lo desse a vedere in qualche modo, no. Stava seduta composta nel suo piccolo angolo di panca, con accanto Fabian Prewett e davanti uno sport di cui conosceva a stento una manciata di regole elementari.
 
Seduta a quattro persone di distanza da Benjy, la sua unica ancora di salvataggio in quello e in molti altri casi, si convinse presto di essere spacciata.
 
Il fischio d’inizio, era arrivato puntuale con lo scoccare delle undici e trenta, come da copione.
 
Visti dall’alto, i giocatori sembravano più strani insetti che persone in carne ed ossa.
 
-ma quella ragazza non è troppo piccola per giocare?- chiese sussurrando verso Fabian, indicando la più piccola giocatrice in campo, per dimensione come anche per età, probabilmente. Era tassorosso, ma Dorcas già non ricordava più in che ruolo giocasse, colpa della sua scarsa cultura in materia di Quidditch.
 
-non c’è una vera e propria età limite per il Quidditch- le rispose gentilmente il ragazzo, scostando lo sguardo dalla partita per puntarlo su di lei, vagamente divertito –in genere, i più piccoli non giocano nelle squadre a Hogwarts semplicemente perché ragazzi o ragazze più grandi sono più bravi. A volte, però, è completamente diverso per quel che riguarda i cercatori-.
 
Cercatrice. Ecco qual era il ruolo della ragazza.
 
Fabian si interruppe un attimo, per volgere lo sguardo al campo giusto in tempo per vedere Podmore colpire una palla animata con una mazza.
 
-Dio santo, ma è legale?-
 
Dorcas non riescì a trattenersi vedendo la palla animata, che prima si era diretta come impazzita verso Podmore con l’esplicito intento di disarcionarlo, volare ora velocemente contro uno dei giocatori avversari.
 
Fabian scoppiò a ridere, attirandosi uno sguardo stupito da parte di Dorcas. Dopo giusto un battito di ciglia, il ragazzo si ricompose, battendosi una mano sulla fronte.
 
-non sei mai stata ad una partita, vero?- fece mente locale ricordando la precedente conversazione con Hestia –si, è decisamente legale-.
 
 

*

 
 
Come ogni volta, aveva decisamente sbagliato a giudicare Dorcas Meadowes.
 
Ormai era quasi un’abitudine. Puntualmente, forse spinto dal suo aspetto così dannatamente ordinario, lui la prendeva per una ragazza fin troppo banale e, puntualmente, lei gli dimostrava quanto precisamente lui si sbagliasse con quella sua idea tanto scontata.
 
Voltandosi ancora verso il campo, indicò la pluffa di cuoio rossa che ora si trovava tra le mani di Edgar.
 
-ogni squadra ha sette giocatori, anche se questo, in fondo, puoi vederlo da sola- le disse tornando a sedersi al suo posto, dal quale si era alzato vedendo Sturgis quasi colpito dal bolide –i portieri stanno davanti agli anelli, a parare i tiri dei cacciatori. I tre cacciatori devono passarsi la pluffa, la palla rossa, e lanciarla oltre gli anelli, per fare punto-.
 
-beh, fino a qua sembra un gioco civile- scrollò le spalle Dorcas, vedendo un sorrisetto divertito sfiorare le labbra del ragazzo.
 
-i due battitori, con le mazze, hanno la funzione di tenere sotto controllo i bolidi-
 
-ah, mai nome fu più azzeccato-.
 
Effettivamente, si accorse Fabian trattenendo una piccola risata, era vero quello che aveva affermato Hestia fin dall’inizio della sua conoscenza con la ragazza in questione. La Meadowes aveva un senso dell’umorismo sottile, percepibile solamente frequentandola da vicino, ma ce l’aveva. Non era affatto noiosa.
 
-non è troppo pericoloso, in realtà- le spiegò indicandole Sturgis –il suo compito, è quello di indirizzare i bolidi verso i giocatori avversari, e di proteggere quelli della propria squadra. In genere, i più colpiti sono i Portieri, per ovvi motivi, e i Cercatori-.
 
-perché i Cercatori?- chiese la ragazza istintivamente. La incuriosiva, sotto sotto, quello stupido gioco. Insomma, lo riteneva comunque un modo stupido di rischiare la vita, però aveva… un suo fascino, tutto sommato. Come tutto, nella magia, se provenivi da una famiglia di Babbani.
 
-il Cercatore ha il compito di trovare il Boccino d’oro, una pallina grande come un uovo di quaglia che vola velocissima- disse indicando McKinnon, che volava poco sopra alla linea dei loro occhi, ed era perfettamente visibile stagliato contro il cielo grigio –la cattura del boccino vale centocinquanta punti, e mette fine alla partita. Normalmente, la squadra che prende il boccino è quella che vince, poiché raramente si ha un distacco di punti tanto alto-.
 
-e se qualcuno che non è il Cercatore prende il boccino?-.
 
-è fallo- scrollò il capo Prewett, modulando una risata –in realtà, i falli a quidditch sono tantissimi, più di settecento. Non li conosco tutti, ovvio, ma quello è uno dei più conosciuti-.
 
Con gli occhi attenti, Dorcas tornò a seguire la partita. Era particolarmente attenta ai movimenti di Sturgis, che aveva appena tentato di disarcionare Edgar Bones.
 
-ma non sono amici?- chiese interdetta, restando per un attimo a fissare un Bones piuttosto riottoso, intento a maledire a parole uno dei propri migliori amici.
 
-il Quidditch è il Quidditch. Una volta Sturgis ha disarcionato anche me, in una partita contro Corvonero. Doveva essere due anni fa, più o meno. Ci ho messo due mesi, per tornare a rivolgergli la parola, ma alla fine non me la sono presa più di tanto-.
 
-non gli hai parlato per più di due mesi, e dici di non essertela presa?- chiese Dorcas con un guizzo ilare nello sguardo –parola mia, non vorrei mai esserti nemica. C’è da chiedersi come tu reagisca quando ti arrabbi-.
 
Proprio in quel momento, una splendida Penelope Kirke, pluffa alla mano, si dirigeva sicura e decisa verso Edgar Bones, che capì di essere fregato ancora prima di vedere la palla lasciare le dita della cacciatrice avversaria. L’urlo dei Corvonero, che ad una sola voce si alzò dalle tribune di bronzo e blu, liberò la tensione nell’aria.
 
Dorcas sentì appena il cronista, per cui aveva già sviluppato una sottospecie di antipatia, dichiarare il punteggio.
 
-tu in che ruolo giochi?- chiese voltandosi ancora verso Fabian, quasi dimentica della partita. Prewett parlava con termini più semplici di quelli del cronista, e anche una negata come lei poteva così seguire la partita.
 
-per i primi due anni ho giocato come battitore, con Gideon come compagno- spiegò scrollando il capo rassegnato –poi, quando abbiamo iniziato a lasciar perdere i bolidi e a tirarci le mazze a vicenda sono diventato cacciatore-.
 
 

*

 
 
Hestia Jones da tempo si era rassegnata alla passione che il suo ragazzo nutriva nei confronti del quidditch.
 
Non ne era mai stata gelosa -anche se sentirsi spiattellare tutte le tecniche da gioco che avrebbero usato nella partita successiva proprio durante un momento romantico tra le braccia del suo lui non era proprio il massimo- ma spesse volte si era spazientita.
 
Dopo tre anni di intensivi sforzi, proprio per l’ultimo che avrebbe passato ad Hogwarts, era riuscita a trovare un accordo con Dearborn, che quando era sul campo di Quidditch cambiava completamente volto e da sciocco vanesio diventata il gemello cattivo di Grindelwald: il suo ragazzo sarebbe stato impegnato solo una sera a settimana nei periodi in cui non erano previste partite, mentre alla vigilia di partite importanti –ossia tutte- aveva allenamento tre sere su cinque.
 
Quello che le piaceva, nel vedere Sturgis giocare a quidditch, era scoprirlo totalmente felice, in mezzo al nulla con il niente sotto ai piedi ed una mazza in mano.
 
Lei non giocava affatto a Quidditch: l’unica volta che Sturgis le aveva dato in mano la mazza da Battitore, era quasi riuscita nel mirabolante obbiettivo di far cadere a Caradoc Dearborn tutti e otto i denti davanti. Impresa che le era costata il muso lungo del ragazzo in questione per tutto il mese successivo e una punizione non indifferente con la McGrannitt, donna che di punizioni se ne intendeva.
 
Alla sua destra, Gideon teneva gli occhi fissi sulla pluffa, rispondendo appena alle poche precisazioni che Kingsley era intento a fare più che altro a se stesso –Shacklebolt, quando vedeva gli altri giocare, non era proprio capace di rimanere zitto-.
 
Tuttavia, il moro, dovette ricordarsi piuttosto alla svelta della poca pazienza che i Prewett provavano nei confronti di chi parlava loro durante un incontro di quidditch: potevi disturbarli anche davanti a Merlino in persona, che ti avrebbero prestato tutta l’attenzione del mondo, ma le partite di quidditch erano sacrosante e intoccabili, per quei due gemelli. Dovevano essere seguite in religioso silenzio, analizzate mentalmente in ogni piccola parte e poi discusse al termine della partita quasi fossero un esercizio di comprensione del testo.
 
Si stupì e non poco, quindi, quando vide notò l’espressione stupita dipinta sul volto di Kingsley. Aveva lo sguardo puntato oltre lei, fisso sul secondo ragazzo Prewett.
 
Voltandosi, lo vide tutto intento a parlottare con la Meadowes, forse così sottovoce ispirato dal tono rauco della ragazza o magari per non disturbare gli altri presenti, ma per il resto quasi completamente dimentico della partita.
 
Da quando in qua Fabian parlava nel pieno svolgimento della partita, se non per avvisarti che lo stavi disturbando chiacchierando come una gallina?
 
La sua attenzione venne calamitata dall’urlo di Gideon, alla sua destra, e dal sospiro brusco tirato quasi all’unisono da Kingsley e Fenwick, che nonostante tutto pareva capire di Quidditch ben più di quanto non si sarebbe detto ad una prima occhiata.
 
Hestia si voltò in modo talmente veloce da dover soffocare una smorfia di dolore per la fitta che gli era saltata al collo.
 
Niente che facesse sussultare così Fenwick poteva passare inosservato a tutti gli altri.
 

*

 

Mentre la pluffa era a centro campo, diretta agli anelli Tassorosso nelle abili mani della Reynolds, al lato opposto Sturgis Podmore volava basso a pochi metri dal suo Capitano.
 
-Stur, prendi di mira quella Baddock e vedi di toglierle quella mazza dalle mani, sta arrivando fin troppo vicina a Max. Per poco prima non l’ha buttato giù da quella scopa-.
 
-ha messo su una bella squadra, Ed- gli gridò in risposta, alzando la voce per farsi sentire nonostante il vento che gli soffiava nelle orecchie –vedrò cosa posso fare-.
 
-non la mollare un secondo, quella ha capito come si gioca- si sentì rispondere dalle parti di Caradoc, intento a scrutare con pessimismo il resto dei giocatori, che stavano ora tornando dalla loro parte del campo.
 
Una delle sorelle Zeller –riuscire a riconoscerle bardate da giocatrici era una cosa particolarmente difficile, viste l’identica corporatura e i capelli uguali raccolti nella stessa coda di cavallo- conduceva la partita con la testa abbassata verso di loro, quasi fosse un ariete. Dietro di lei, Reginald Cattermole brandiva minaccioso la mazza di ferro, in attesa del fortuito bolide che gli avrebbe permesso di disarcionare la cacciatrice e far riprendere il gioco ai Corvonero.
 
All’arrivo del bolide, la mazza oscillò nelle mani di Cattermole, che però sbagliò il tiro sfiorando appena la Tassorosso. La Zeller, presa alla sprovvista poco sopra al polso sinistro, fu costretta a lasciar cadere la pluffa, aggirando il bolide ora diretto contro la Baddock.
 
Questa, munita di mazza e con le conoscenze adeguate per usarla al meglio, fece la cosa più istintiva del mondo.
 
Rilanciò. E il pensate bolide, puntuale come la McGrannitt quando chiedeva i compiti, centrò in mezzo al petto Caradoc Dearborn.
 
 

*

 
 
-Santo Merlino, è ancora vivo?-.
 
In qualsiasi altro contesto, se posta da chiunque altro, la domanda non avrebbe attratto tanti curiosi. Tuttavia, sentire la voce di Fenwick con un tale tono, doveva essere uno shock bello e buono.
 
Caradoc Dearborn, dopo essere stato centrato in pieno petto da un bolide , era precipitato per quelli che ad occhio e croce potevano sembrare circa diciassette metri. Aveva passato l’anello centrale con il corpo, malamente aggrappato alla sua Nimbus, e quando il bolide era tornato indietro, di riflesso, lo aveva colpito poco sopra alla gamba.
 
A quel punto, tutti gli sforzi della squadra per riprendere il Capitano poco prima che cadesse erano stati vani. Solo Podmore, volando quasi avesse Tom Riddle alle calcagna, era riuscito ad abbrancare Dearborn per la maglia, azione quasi del tutto inutile dal momento che la maglia si era strappata e Dearborn era caduto lo stesso sulla sabbia ai piedi degli anelli.
 
Per un attimo, oltre al sussulto globale degli spettatori, nessuno aveva fiatato.
 
Solo Madama Bumb, probabilmente abituata da anni a incidenti del genere, era scattata in piedi aiutata da due studenti e, evocando una barella, aveva portato quel che restava di Dearborn a bordo campo.  
 
Quando, in mezzo ad un sospiro collettivo, Caradoc Dearborn si era effettivamente mosso, risvegliandosi dal colpo che doveva aver preso, l’intero stadio aveva tirato un sospiro collettivo.
 
E Tassorosso –ormai non più molto preoccupato- aveva segnato il suo terzo punto.
 
 

*

 
 
Con quella che a tutti gli effetti era stata una caduta dalla scopa con i fiocchi, la partita era degenerata nello strazio più totale.
 
Sebbene decisamente versati nel gioco, i componenti della squadra Corvonero non erano stati capaci di far fronte ad una tattica che prevedeva la totale assenza del portiere, e in meno di dieci minuti si erano ritrovati sotto di più di centottanta punti.
 
A porre fine a quel massacro legittimato altrimenti detto partita, Max McKinnon di Corvonero aveva afferrato il boccino nell’esatto istante in cui Tassorosso segnava il proprio trecento ventesimo punto, sancendo la fine della battaglia con un punteggio pari a trecentoventi a duecentodieci.
 
I vincitori, sorprendentemente, erano risultati essere i Tassi, con grande gioia di Edgar Bones per la sua prima vittoria a capo della squadra in questione. Certo, la grande gioia veniva in realtà offuscata dal sapere il proprio migliore amico steso sul letto in infermeria con più ossa rotte che dita nelle mani, ma per quanto il bonaccione Bones tentasse di sentirsi in colpa, non riusciva a soffocare quel piccolo sorriso che gli curvava le labbra al pensiero della vittoria.
 
A quanto aveva capito Benjy dai discorsi successivi di Dorcas, i Corvonero avevano passato il pomeriggio a consolare uno sconvolto Dearborn, facendo a gomitate con le duemila ammiratrici del Capitano e con un’infuriata infermiera, che aveva tentato di tutto per farsi valere fino a riuscire a spingerli fuori dalla stanza.
 
-Signor Fenwick, lei adesso ha lezione di Antiche Rune, se la memoria non mi inganna-.
 
Il ragazzo interpellato dovette sforzarsi per non alzare gli occhi al cielo, notando il tono usato dal suo Capocasa nel sottolineare qualcosa di così irrilevante. Ovviamente la domanda doveva celare l’inghippo, si disse.
 
-si, Professore- mormorò alla fine trovandosi costretto ad assentire, chiedendosi cosa mai potesse volere Lumacorno da uno dei suoi allievi prediletti, nonché più abili pozionisti.
 
-immagino che non ti dispiaccia, Benjamin, passare allora in infermeria per lasciare queste fiale di Pozione a Poppy**- sorrise Lumacorno di quel suo sorriso un po’ untuoso, indicando un ammasso di sei o sette ampolle piene di liquido colorato –sai, Ossofast e altri piccoli rimedi-.
 
Ingoiando una risposta decisamente poco lusinghiera Ben si limitò ad annuire, prendendo in mano la folta varietà di ampolle e dirigendosi all’ingresso.
 
Due minuti dopo, salendo le scale che portavano all’infermeria con una gran quantità di fiale tra le braccia e la borsa che pesava più di un macigno in bilico attaccata ad una spalla, Benjy Fenwick si ritrovò a maledire indistintamente sia Lumacorno che Dearborn –perché era ovvio che l’ossofast fosse per lui, dal momento che si era rotto talmente tante ossa che nemmeno a contarle sarebbe stato capace-.
 
L’infermeria, una grande sala al primo piano, connessa all’ufficio della Madama Infermiera, rimaneva giusto alla fine di un corridoio lungo ben illuminato da torce appese alle pareti. Arrivando giusto all’inizio del corridoio, Fenwick si stupì di sentire alcune voci tonanti provenire dall’infermeria, luogo in cui normalmente vigeva il più mortale dei silenzi.
 
-non ti azzardare a parlare con questo tono a tua madre, ragazzo-.
 
Quella frase, in quel particolare contesto, in quel luogo e a quell’ora, non avrebbe potuto suonare più strana. La voce, quella evidentemente di un uomo adulto, era ben più alta del normale tono da conversazione, ed era dura e fredda come il metallo.
 
-non potete chiedermi…-
 
Quella, invece, era certo che fosse la voce di Dearborn. Suonava scontenta, delusa come non l’aveva mai sentita, e sofferente più di quanto non si sarebbe mai aspettato. Ma era certamente Dearborn.
 
-basta- esclamò in risposta l’uomo, interrompendo il ragazzo con un tono ancora più brusco del precedente –fino a che vivrai sotto il nostro tetto, Caradoc, farai esattamente ciò che ci si aspetta da te. Non accetto discussioni su questo punto, e sono certo che non ce ne saranno. Smettila con queste stupidaggini, pensa alla tua vita-.
 
-la mia vita è questa, papà- rispose la voce di Dearborn, con una tale stoccata da indurre Fenwick ad avvicinarsi incuriosito. Non voleva essere sorpreso ad origliare, ma c’era anche da dire che i due non stavano esattamente conversando come due pacifiche persone all’ora del tè –non potete chiedermi di lasciare la squadra solo perché…-
 
-Caradoc, sei caduto da diciassette metri di altezza- si intromise la voce inaspettata di una donna. Lieve, nulla più che un fruscio, un sussurro rauco e sorprendentemente vuoto. Era così basso che Benjy dovette avvicinarsi ancora per ascoltarlo. Se davvero quella era la madre di Dearborn, Fenwick si sorprese a pensare che tutto poteva avere, fuorché il tono di una madre. Sembrava parlare da una grande distanza, senza imprimere troppo peso sulle proprie parole.
 
-succede!- esclamò Dearborn in risposta, e questa volta il tono era fortemente esasperato –possono capitare disgrazie del genere, possono…-
 
-no, non se ne parla- sentenziò alla fine l’uomo, tornando a prendere il sopravvento –parlerò io stesso con Filius, e tu lascerai la squadra. Non voglio essere richiamato il mese prossimo perché un altro bolide ti avrà disarcionato, non voglio che tua madre sia costretta a rivivere l’ansia e la preoccupazione, non sono sentimenti che si adattino al suo stato-.
 
-sono maggiorenne!-.
 
-maggiorenne? Ma sentilo, l’uomo navigato- l’ironia e la scontrosità del tono erano decisamente fuori luogo, quasi agghiaccianti –senza di noi tu non vai da nessuna parte. Finchè dipenderai da noi, ragazzino, le cose andranno come decidiamo io e tua madre. Devo tornare al lavoro, se hai domande serie mandami un gufo-.
 
Paralizzato dalla curiosità, e inchiodato da ciò che aveva udito, Ben non fu abbastanza lesto da nascondersi. Quando le due persone uscirono dall’infermeria –il Signore e la Signora Dearborn, immaginava-, ebbe appena il tempo di riprendere a camminare come se non fosse stato fermo ad ascoltare la conversazione ma avesse, al contrario, una gran fretta.
 
Il Signor Dearborn era più vecchio di quanto Ben non supponesse. Doveva ormai essere sulla soglia dei cinquantacinque, ma dimostrava comunque un’età più avanzata. Aveva gli stessi occhi del figlio, ma uno sguardo più duro, e i capelli un tempo neri erano ora screziati di grigio sulle tempie e alla radice. Sul volto, rughe precise gli segnavano il contorno di occhi e labbra.
 
-buongiorno-.
 
Completamente rilassato, l’uomo sorrise glaciale a Benjy salutandolo cortesemente. Stupito, il Serpeverde non poté far altro che annuire in risposta, mentre con lo sguardo raggiungeva la Signora Dearborn.
 
Era bella. Era da lei, più che dall’uomo, che Caradoc doveva aver ereditato i lineamenti avvenenti.
 
Aveva i capelli dello stesso castano chiaro del figlio, lasciati cadere sciolti oltre le spalle. Con uno sguardo attento, Ben notò che li portava lunghi a più di due spanne dalla vita, mossi e fluenti. La figura dritta, snella e nobile, era fasciata da una veste da strega di un pallido azzurro, che ben si intonava con il colore chiaro dei grandi occhi sgranati.
 
Ma aveva qualcosa di strano, quella donna. Era come se avesse perso il contatto con la realtà. Sguardo completamente trasognato, con un braccio si accompagnava al marito, e da lui si faceva completamente guidare.
 
Era forse cieca?
 
No, pareva sapere esattamente dove andare.
 
Forse era semplicemente pazza.
 
 

*

 
 
Caradoc Dearborn aveva moltissimi ricordi belli della propria infanzia.
 
I suoi genitori, entrambi purosangue, venivano da generazioni ricchissime di maghi molto in vista –sua madre era infatti una Burke***-. Si erano sposati a soli vent’anni, una delle poche coppie della loro generazione ad amarsi di vero amore, quasi senza alcun interesse pecuniario.
 
Per i primi anni della sua vita, Dearborn era cresciuto nella bambagia più completa, così come si conveniva ai rampolli dell’alta società inglese.
 
Più o meno fino agli otto anni, era stato esattamente quello che avrebbe dovuto essere, e che ancora adesso era, agli occhi di tutti: un bambino felice, stupido e felice.
 
Erano passati anni, tuttavia, dall’ultimo sorriso spensierato. Dall’ultimo abbraccio della mamma.
 
Aveva affrontato molte cose, e molte sapeva di doverle ancora vedere. In fondo al cuore, sperava alcune di non doverle vivere mai, nell’arco della sua intera esistenza.
 
Talvolta si divertiva ad immaginare il suo futuro, e si ritrovava a pregare segretamente una qualche ingombrante potenza di non farlo assomigliare mai al cinismo di suo padre, o all’eterno dolore di sua madre. Pregava una qualunque grande presenza di non concedergli mai un tale peso da portare, non era certo in cuor suo di saperlo affrontare. Temeva di perdersi, così come avevano fatto i suoi genitori, così come era successo alla sua infanzia.
 
Qualche istante dopo aver visto le figure dei genitori uscire dall’infermeria –il passo marziale che ormai caratterizzava suo padre accompagnato dal peso piuma della moglie-, aveva sentito l’uomo salutare qualcuno con voce freddamente cortese. Insomma, la voce che usava con chiunque per… com’era, la solfa? Ah, si, salvare le apparenze.
 
D’altronde, immaginò, forse le risposte tonanti di suo padre non erano passate inosservate in quell’angolo di castello che più degli altri si avvolgeva nel silenzio quasi perpetuo.
 
Poco male, chiunque fosse ad aver sentito, presto si sarebbe dimenticato tutto, specialmente se lui stesso avesse fatto per primo finta di niente. Era una cosa che gli riusciva sempre piuttosto bene, fare orecchie da mercante.
 
-vogliono che lasci il Quidditch?-.
 
Ecco, quello che non si era per niente aspettato era un attacco così diretto da qualcuno che solitamente di diretto non prendeva nemmeno la strada per andare a lezione.
 
In caso non fosse bastata la voce, così atona, a rivelargli l’identità dell’interlocutore, alzò appena gli occhi dal rotolo di pergamena che stava leggendo.
 
-Fenwick, non dovresti essere a lezione?- sorvolò esibendosi in quella commedia che era ormai la sua vita agli occhi dei più. Nascondendo un sorrisetto, si fece i complimenti da solo.
 
Il ragazzo scosse le spalle come a segnalare l’idiozia di una tale puntualizzazione. Ovvio che avrebbe dovuto essere a lezione.
 
-garantisce Lumacorno- mormorò svogliato –vogliono che lasci il Quidditch?-.
 
Dearborn quasi scoppiò a ridere, divertito dalla tattica assunta dal Serpeverde. Ripetere a ruota la domanda fino ad ottenere una risposta era una tecnica infallibile, se usata contro le persone giuste.
 
-vogliono tante cose- si scoprì a mormorare, scrollando le spalle –la maggior parte solo per soddisfare se stessi-.
 
Fenwick si fece più freddo, in un atteggiamento che forse stava ad indicare stupore.
 
-si preoccupano solo per te-.
 
Questa volta, la risata da parte di Dearborn fu decisamente tonante, ma non troppo divertita. Sarebbe stato davvero squallido, ridere delle proprie disgrazie.
 
-oh, che si preoccupino è più che chiaro- sussurrò in un tono più aspro del dovuto –ma credo sia più egoistico, il sentimento. Si preoccupano per se stessi-.
 
Lo stupore, negli occhi di Fenwick, ora non era per niente travestito da gelo, ma semplice e puro come quello di un bambino.
 
-sai, Fenwick- si sentì mormorare, e davvero, doveva mettere fine a quella confessione a ruota libera. Non era semplicemente normale, provare quella voglia assurda di riversare tutto su un’altra persona, specie se si parlava di Benjy Fenwick. Non era normale, e non era astuto –perdere un figlio è disgrazia, perderne due è negligenza-.
 
Gli ci volle molta più forza di quanto non avrebbe mai creduto, per muovere la propria bacchetta verso il paravento. Con uno scatto secco, lo portò tra se e il ragazzo –ancora inchiodato dallo stupore- fermo all’ingresso dell’infermeria. Si dovesse fermare un attimo per riprendere quel fiato che una fitta al fianco, dolce ricordo della partita, gli aveva spezzato.
 
-Madama Chips è nel suo ufficio- borbottò poi voltando le spalle al punto esatto in cui Fenwick doveva ancora trovarsi e a quel paravento che aveva preferito porre tra se e tutto il resto. Un sipario calato a chiudere quella commedia di cui forse era il protagonista, ma di certo non l’attore consumato che mostrava al resto del mondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Morgan Llywelyn, I guerrieri del Ramo Rosso. Non so quanti di voi abbiano letto questo libro, comunque, in poche parole, è tratto dal Ciclo dell’Ulster, forse il ciclo di mitologia irlandese più famoso insieme a quello su Fionn Mac Cumail. Deichtine, o Dectera che dir si voglia, è la madre di Cu Chulain, il Mastino dell’Ulster. Deichtine è pazza, lo è diventata dopo aver partorito il figlio del Dio Lugh. La pazzia della signora Dearborn non è generata dalla stessa causa, ma fin da quando ho pensato per la prima volta al suo personaggio me la sono immaginata esattamente come Dectera, dalla mente annebbiata, sempre ad un passo dall’oblio.
 
**la Rowling non ci ha detto quando Poppy Chips diventa infermiera ad Hogwarts, e per semplice comodità preferisco farla comparire anche in questa storia.
 
***con l’apertura della seconda parte della Camera dei Segreti, su Pottermore, si sono svelati parecchi altarini. Uno fra tutti, quello dei Purosangue. In poche parole, ho sempre immaginato tutto sbagliato. Gli Shacklebolt fanno parte dei “Sacri Ventotto” ossia le ventotto famiglie più purosangue eccetera eccetera, come i Malfoy, i Nott e altre venticinque famigliole più o meno felici. Amen, nella mia ff Kingsley continuerà ad essere nato babbano, cambiare tutti i piani a questo punto non mi piacerebbe nemmeno un po’. I Burke –da cui discende la madre di Caradoc- sono una di queste famiglie.
 
 
 
 
NOTE: non ho nulla di importante da dire, su questo capitolo, oltre a ciò che è scritto sopra. Ora vado a rispondere alle recensioni, spero di risentirvi. Conto di pubblicare lunedì prossimo, se non domenica.
Buona lettura,
Hir
 
 
 
 
 
 

   
 
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