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Autore: Elle Sinclaire    10/10/2012    3 recensioni
Quando il silenzio fa paura, quando si tenta di riempirlo di suoni e rumori, quando persino compiere i passi verso la vita sembra difficile, l'unico conforto che sembra trovare Martina è quello di rintanarsi in un angolo di se stessa, senza parole da dire né capacità di afferrare il tempo che gli scorre veloce di fianco.
Stefano, il dj di una delle serate più famose della città, sembra avvicinarsi con la stessa lenta apatia al suo mondo fatto di rumori, tenta di penetrare quell'anfratto buio. Poi c'è Rebecca, la sorella di Stefano e amica di Martina, studentessa di filosofia che tornerà a scontrarsi con il suo primo amore, Leonardo. E Irene, una pessima amica senza alcun interesse al di fuori di se stessa, Roma vista attraverso gli occhi di chi la vive ballando, attraverso i suoi vicoli e la sua musica, il rumore del traffico e il vociare di Trastevere.
Questa è una storia fatta di suoni e realtà che collidono, dell'incapacità di affrontare la morte, ma anche la vita.
[Dal primo capitolo: "Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso."]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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7. Nel vuoto per mano
a

A chi ha rubato spazio
dentro i miei vuoti.
A chi mi ha dato
il coraggio
di dormire di nuovo.

 

Giorgia soffriva di vertigini sin da quando era piccola: una volta a sei anni era quasi caduta dal balcone di casa dei nonni al mare, per sporgersi troppo mentre ammirava una farfalla che volava poco distante.
Io avevo solo quattro anni, ma ricordo ancora la paura negli occhi di mia madre e il sollievo quando si era accorta che non aveva un graffio e anzi si lamentava con il suo caratteristico broncio capriccioso del fatto che la farfalla fosse scappata.
Da allora poche volte l’ho vista affacciarsi a un balcone o a una finestra, non è mai salita su una scala né sulla cupola di San Pietro. Il vuoto la terrorizzava, l’idea che sotto di lei non ci fosse niente se non la possibilità di scivolare giù in caduta libera era una delle poche cose in grado di destabilizzarla.
L’anno del suo diciottesimo compleanno, decisi che avremmo dovuto provare a superare quella paura e la portai a fare bungee jumping, poco fuori Roma. Avevo sempre desiderato farlo, provare a lanciarmi nel vuoto, un modo come un altro per superare dei limiti che mi erano sempre andati troppo stretti.
Giorgia acconsentì riluttante, paralizzata dalla paura. Se mi concentro, sento ancora la stretta ferrea attorno a mio polso, in una richiesta d’aiuto che non le negai mai, ogni volta che potei.
Lei teneva gli occhi chiusi, le palpebre strizzate tra loro, io guardavo entusiasta sotto di me. Ci lasciammo cadere così, ancora per mano, insieme anche in quella follia.
Fu una delle giornate più belle della mia vita, ma se avessi saputo cosa avrebbe comportato il fatto che Giorgia superasse la sua fobia più grande, sarei rimasta a casa e le avrei regalato un gioiello, al massimo un viaggio. Perché quando saltò l’ultima volta, ormai immune alla paura e alle vertigine, non ci fu la mia mano ad accompagnarla nel vuoto e a trattenerla.
Solo, cadde.

○○○

Martina quella sera non vorrebbe uscire; la mattina dopo deve aprire il blockbuster ed è una settimana che dorme poco e male, tra ricordi e strani sogni che la tengono sveglia fino a tardi. Rebecca però le ha chiesto di accompagnarla al Brancaleone e lei la vede ancora scossa da qualcosa che non riesce a capire cosa sia, come un sottile senso di disagio nel sangue, che la spinge a chiudersi tra le pareti della sua stanza e in un mutismo che Martina non riesce davvero a sopportare.
Come quel silenzio che la imbriglia nei pensieri più spaventosi, anche quello di Rebecca la angoscia tanto da preoccuparsi per lei e accettare un invito indesiderato, per una serata che preferirebbe passare davanti a un film o ascoltando una canzone alla radio, di quelle che non le ricordano niente e nessuno, dai testi tanto frivoli da non avere alcuna presa sul suo umore altalenante.
Il pomeriggio lo passa sdraiata sul divano, con il telecomando in mano, ma la televisione spenta, il cellulare vicino all’orecchio, nella speranza di sentirlo suonare una canzone diversa da quella assegnata a Irene che la cerca ancora per il famoso aperitivo e per raccontarle del nuovo ragazzo con cui esce.
Quando suonano al citofono, si alza svogliata, senza l’ombra di un sorriso su nessun tratto del volto annoiato; apre senza chiedere chi è, aspetta che lo scocciatore salga le quattro rampe di scale e atterri sul suo zerbino nero e sfilacciato, su cui il gatto della vicina si fa sempre le unghie. Quando dallo spioncino scorge i capelli scarmigliati di Stefano, il sorriso tenta di sfuggire dalle sue labbra, ma lei lo imbriglia tra i denti, nella finzione che il telefono non fosse rimasto accanto a lei tutto il pomeriggio nella speranza di un messaggio che non era arrivato.
La mattina dopo il loro ultimo incontro si era svegliata nel suo letto, ma lui era già in radio e non si erano neanche salutati; aveva faticato qualche minuto a ricordare come fosse arrivata in stanza sua e ancora più tempo a spiegare a Rebecca cosa ci facesse lì, quando l’aveva trovata ancora avvolta nelle lenzuola, con uno strano sorriso sulle labbra.
Enigmatica come la Gioconda, Martina non aveva dato alcuna spiegazione, aveva fatto colazione di nuovo stretta nel suo silenzio umorale, ticchettando i tacchi degli stivali sul parquet e girando rumorosamente il cucchiaino nella tazza e poi era andata via, certa che Rebecca non desiderasse la sua compagnia quella mattina, troppo presa da pensieri e sensazioni che custodiva con gelosia in un angolo della sua testa.
Ora che Stefano è davanti a lei, con un sorriso aperto e gli occhi brillanti, Martina è contenta di non averlo trovato in casa al suo risveglio, perché sarebbe stato imbarazzante spiegare il buon umore che la sua presenza le infonde. Come una scarica di adrenalina doppia, come quando hanno ballato sul palco, come quando l’alcol la porta a uno stato mentale altro.
“Ciao,” la saluta, con un bacio sulla guancia e il sorriso inestinguibile. Martina non può far a meno di rispondergli con semplicità, come se fosse normale vederselo piombare in casa senza avvisi né messaggi.
“Potevo non essere in casa, lo sai?”
Lui si stringe nelle spalle, in un gesto di noncuranza che la farebbe ridere se riuscisse a vederlo dalla cucina dove già ha messo su l’acqua per un tè, il terzo del suo pomeriggio, quello che la dirimpettaia le porta ogni volta che torna a trovare i suoi genitori in India.
“Ti ho portato un film…”
“Te lo ricordi che lavoro in una videoteca?”
“Non me l’avevi detto, ma lo sapevo già.”
Stefano si avvicina e si guarda intorno, nella sua cucina, con l’aria di chi si sente a proprio agio in ogni situazione. Sembra quasi che quello sia il suo posto, come un utensile appeso sopra l’angolo cottura.
“A Rebecca non piacciono certi film.”
“Lo so.”
Martina sbuffa e si sposta una ciocca di capelli dall’occhio destro con il respiro. Per un momento vorrebbe cacciarlo e rintanarsi nella sua bolla casalinga, lontana dalle sue insistenze e le sue gentilezze, ma in qualche modo sotterraneo l’indiscrezione di Stefano le fa piacere. Come una compagnia inaspettata, ma mai invadente, come una mano tesa nel vuoto a guidarla.
Non è però come avere Giorgia accanto, mentre guardano in silenzio le immagini scorrere sullo schermo; non è il respiro della sorella a confondersi con i dialoghi e le musiche né la sua lontananza ha la consistenza dei ricci castani di Giorgia sparsi sulle gambe, su cui era solita sdraiarsi per comodità.
Stefano è solo una mano tesa nel vuoto, nell’attimo passato di una caduta libera.
 
Il Brancaleone sembra esplodere più degli altri venerdì, in una scia di corpi che si muove senza ritmo e senza senso, l’uno contro l’altro. Sta ancora suonando un gruppo semi sconosciuto che è riuscito a racimolare abbastanza adepti per un concerto solo, gente che inventa parole su melodie mai sentite prime e applaude a ogni pausa, nella speranza che finiscano presto e possano andarsi a ubriacare o a casa a dormire, per recuperare la stanchezza di una settimana lavorativa.
Stefano batte un piede per terra, al ritmo della batteria troppo lenta suonata da un ragazzo in carne e con i capelli tirati indietro da troppo gel; accanto a lei, Martina si guarda intorno, osserva la gente con falso disinteresse, incuriosita da una ragazza che si avvicina senza vergogna a un ragazzo che balla con una moretta, poi da un buttafuori che illumina le facce di qualcuno in cerca di sigarette che dovrebbero essere spente, ma che formano sempre una condensa di fumo palpabile sulle loro teste, e ancora una ragazza magrissima e dai capelli rosa che da sola, in un angolo, balla ad occhi chiusi, con una borsa a tracolla che ondeggia a ogni suo movimento.
Il ritornello della canzone di quel gruppo ormai lo conosce a memoria, al secondo ascolto e si morde le labbra per non canticchiare una canzone che non le piace; Stefano la guarda sorridente e divertito, come se non esistessero problemi al mondo all’in fuori della poca voglia di ridere di Martina.
In mano tiene un bicchiere pieno di liquido verde che puzza di alcol a chilometri di distanza, forse è addirittura assenzio, ma sembra ancora lucido, gli occhi svegli e attenti che non perdono un suo spostamento, neanche quello dei suoi occhi.
“Il batterista era un mio collega all’università… ”
Indica con gli occhi il ragazzo robusto che dietro il suo strumento è a mala pena illuminato dalle luci stroboscopiche, circondato da un alone di fumo giallastro. Le bacchette scattano sui tamburi con difficoltà, Martina nota il suo sguardo annebbiato e vuoto.
“Lui invece,” Stefano ora sta indicando il ragazzo che ballava con la moretta, che ora parla con la ragazza dai capelli rosa, in modo concitato, quasi arrabbiato. “Prima veniva sempre con degli amici più grossi di lui, parevano gorilla. Adesso sta sempre da solo ed è sempre incazzato, pronto a menare qualcuno.”
Martina lo guarda curiosa, un sorriso ironico che gli illumina il volto che sparisce quando le luci si spengono per l’ultima canzone. “Sei un pettegolo del cazzo.”
La musica copre la risata di Stefano, ma lei la sente infiltrarsi ovunque, tra i capelli sciolti sulle spalle, nelle orecchie liberi di rumori rassicuranti, tra tutti quei vuoti che non colma, ma copre, come un telo di plastica posato su una buca, dove puoi sempre cadere, ma che non è più visibile. Martina sente quel vuoto sempre lì, pronto a inghiottirla, ma vede anche la mano di Stefano davanti a lei, tesa e pronta in un invito.
“Andiamo a ballare?”
Guarda la folla, Rebecca in pista, tra la vita che pulsa nei corpi di tutti, accatastati l’uno sull’altro in un horror vacui esistenziale che non gli lascia scampo. Gli occhi di Stefano non la lasciano un attimo, spiano le reazioni, scoprono le carte; vorrebbe dirle qualcosa per convincerla, scrollarla per le spalle, urlare fino a sovrastare l’assordante canzone dei DeadMau5 che vuole solo che sorrida ancora, che lo sfiori ancora, che parli ancora.
Deve aspettare qualche secondo di troppo, ma alla fine Martina, quella mano, la afferra.

Federica è dietro il palco, nascosta al pubblico, che parla tranquilla con Stefano che si è avvicinato da pochi minuti; ha un bicchiere di coca-cola in mano, perché non beve e vorrebbe che non lo facesse mai neanche Leonardo, perché la puzza di alcol non le piace e lui diventa troppo sfacciato quando è brillo.
Ha quel vestito verde che le ha regalato qualche settimana prima la madre, che gli stringe la vita e slancia di più le gambe, senza tacchi alti o accessori vistosi. È semplice e bella e si guarda intorno, sorridendo di tanto in tanto a Leonardo che sul palco è troppo concentrato sulla musica e se stesso. Non si lascia mai sfiorare da lei in quei momenti, come se quel palco fosse un limite per lei invalicabile, una barriera che li tiene divisi, al di là di un muro fatto di silenzi tra loro sempre più frequenti.
Leonardo guarda ovunque ma non lei, alla ricerca di qualcosa che Federica ormai pensa di non poter più trovare per lui. Nessun palliativo né cura per quella solitudine di cui in realtà è lui stesso artefice e vittima.
Come se la sua presenza, tra le mura del suo bilocale fosse quasi accessoria, come il vecchio vaso nascosto tra i libri o le tendine rumorose che separano le stanze. Meno importante della foto incorniciata sulla parete delle scale.
“Fede, tutto ok?”
Stefano la distoglie dai suoi pensieri e lei allontana lo sguardo dall’uomo di cui vorrebbe essere la compagna e non solo una passeggera compagnia silenziosa, quando i rumori esterni diventano troppo forti e il ragazzo ha bisogno di pace. Stefano ha lo sguardo preoccupato, forse sa qualcosa, forse si è accorto di quel malessere sotterraneo che occupa lo sguardo del migliore amico. Forse ha soltanto notato le lacrime accalcate tra le sue ciglia coperte di mascara.
“Sì, tutto ok. Senti, io vado, dì a Leo che lo chiamo domani, ok?”
Stefano prima di annuire esita, tra pensieri sconnessi e sempre altruistici e un sorriso che profuma di comprensione. Ma prima che Federica possa andarsene, Leonardo saluta il pubblico, sulle note di Tarantula, e li raggiunge, con il sorriso entusiasta e gli occhi luminosi di chi la sua dimensione la trova lì, dove c’è chi lo acclama e balla con lui, per lui. Dove la sua solitudine diventa un privilegio e non un peso.
Dove persino essere solo con se stesso è meglio che stare con lei.
Il bacio con cui lo saluta è lento, ma ha il sapore di un addio che i suoi denti mordono in continuazione per non lasciarlo uscire e decretare la fine. Per aggirare ancora la propria paura di rimanere sola, gemella di quella di Leonardo, quella paura che ha assimilato con lui, per condividere anche quella.
Quella paura che lei interpreta come bisogno. Strisciante e disperato bisogno di non lasciarlo mai.
“Non è che tu sia molto presente con lei…”
Leonardo la guarda andar via perplesso, mentre ignora le parole di Stefano che risuonano come un piccolo allarme da qualche parte; ancora non ha dimenticato il sapore di Rebecca né l’esatta sfumatura dei suoi capelli tra le dita e ricordare il piacere di guardare un film sul divano con Federica appoggiata al petto è troppo difficile.
Rebecca però non ha risposto alle sue chiamate, se non per dirgli una volta sola di non chiamare più, in un sussurro rabbioso che lui ha sentito anche troppo forte. L’ha vista tra la folla, minuti prima, ballare con Martina dopo che Stefano le ha salutate, muoversi ignara del suo sguardo addosso, tra gli altri corpi, semi nascosta dai capelli disordinati e dalle mani altrui alzate al soffitto. Non può cercarla o salutarla tra la gente, avvicinarsi per un abbraccio veloce o scivolare con lo sguardo sul suo sorriso. È lontana pochi metri, amplificati da un errore commesso che li divide più delle persone che tra loro si agitano a tempo di musica. E allora decide di tornare a casa, Leonardo, dopo poche parole con Stefano, ammirato da lontano da una moretta con gli occhi chiari che gli sembra di aver già visto, ma di cui ha dimenticato il nome. Qualcuno che al suo amico non piacerà mai, troppo alta, troppo provocante, troppo truccata, ma a cui nonostante tutto da corda tra un sorriso e l’altro.
Li lascia alle spalle entrambi e anche Rebecca. In una fuga che profuma di rimpianto, ma anche di salvezza.
Il vuoto tra loro sembra pieno di gente, ma è sempre più vasto.

Le luci si accendono e spengono, colorate, psichedeliche, senza un senso. I corpi si muovono a rallentatore, come bloccati dal tempo, forse solo sconnessi, ubriachi, stanchi. I Justice pompano nelle casse, battiti potenti che feriscono la pancia, cadenzati, urla. Il pavimento trema sotto i suoi piedi, macchiato di alcol e bicchieri, sotto i salti della folla e della musica troppo alta, si ferma nel silenzio dei cambi canzone.
Sul palco un Dj sta cambiando dischi, con le cuffie appoggiate al collo e un sorriso ubriaco impigliato nelle labbra, circondato da qualche ragazza che balla senza pudore e vestita di sola pelle scoperta, ammiccando verso di lui, o Stez poco lontano o Moretti che sta andando via.
Rebecca, in pista, lontana dal palco, ha sentito lo stomaco contrarsi nella dolorosa disillusione di un bacio che Leonardo non ha dato a lei, ma alle labbra più carnose di Federica, stringendo i suoi fianchi più stretta e carezzando i suoi capelli più morbidi.
Un senso di inferiorità che la annichilisce sotto il peso di una speranza di nuovo uccisa, alimentata da uno scontrarsi di bocche che poi è stata proprio lei a rinnegare, perché ancora spaventata, perché non può fidarsi, perché, nonostante tutto, lui è ancora lì con Federica e non a ballare con lei in mezzo alla pista, non a combattere per qualcosa che lei ha sempre voluto ma che per lui è stato solo un gioco.
C'è il vuoto che si spalanca sotto i suoi piedi, mentre si sente precipitare, scivolare tra i ricordi di una vita, degli abbracci sul divano a sedici anni, le vacanze al mare, le guance arrossate di ingenuità ai primi complimenti, le sue dita a sfiorare il polso e tra i capelli.
Vorrebbe riempirlo, quel vuoto di lui che ha rubato ogni spazio e poi lo ha lasciato incustodito, abbandonato all'incuria e al decadimento della propria assenza, ma non sa come fare, a chi chiedere, con chi confidarsi.
Raffaele è di nuovo lontano, in quella Londra che a volte assomiglia al proprio desiderio di casa, ai disegni che faceva da bambina di case dai portoni colorati e dei sogni dell'adolescenza, tra le strade di Camden. Vorrebbe prendere un aereo e parlare con lui, fino al mattino, con la tazza di tè che si raffredda tra le loro mani, senza che loro bevano perché ubriachi della reciproca compagnia, e fotografarsi a vicenda con la vecchia analogica di loro padre, fino alla fine del rullino.
L'assenza di Leonardo sarebbe ancora lì, ad aprire baratri indesiderati, ma non ci sarebbe quel ronzio persistente a intasarle l'udito, a sovrastare la musica e a chiederle di essere colmato.
Sta ancora ballando, vicino a Martina, lontana da Stefano che ora è dietro al palco, quando vede una nuvola di capelli rosa in un angolo della sala, con la sua borsa tracolla, mentre dondola negli anfibi spaccati in più punti. Ha gli occhi incavati, cerchiati di trucco nero sbafato fino alle sopracciglia e occhiaie violacee; sembra quasi sparire nei vestiti fluo che porta, nella maglietta larga che lascia vedere le clavicole sporgenti, nelle calze che cadono male sul ginocchio coperto di lividi.
Lei e Fedra andavano insieme al liceo, quando l’altra aveva ancora i capelli scuri e un po’ di carne sui fianchi, studiavano insieme dopo scuola e ascoltavano musica nel silenzio delle loro stanze.
Ora Rebecca la incontra saltuariamente a qualche serata, scambiano poche parole, frasi di circostanza e pochi sporadici sorrisi. Si allontana da Martina, con un gesto di avvertimento e si avvicina a lei che pala con un ragazzo dai bicipiti tatuati e muscolosi.
‎"Ciao Bec!"
La saluta con aria stralunata e gli occhi arrossati, spostando da parte quello che sembra essere un incontro sgradito. Si passa un dito sotto al naso, strofinandolo con lentezza e le regala un sorriso aperto, prima di abbracciarla, in uno scontro di ossa troppo sporgenti e grovigli di capelli colorati.
Puzza di vodka ed erba tagliata male.
"Ciao Fè."
Le sorride anche lei, memore ancora degli anni di amicizia condivisa e pomeriggi chiuse in camera a cantare o solo parlare di ragazzi, musica e sogni. Non è come fermarsi e chiedersi come procede la vita, gli studi, il lavoro; ora Fedra è sempre al Brancaleone, tra le gambe di qualcuno nei bagni o a inghiottire pasticche della felicità in un angolo.
"È bello vederti, dovremmo prenderci una birra un giorno di questi."
Le dice sempre così, Fedra, ma è sempre una promessa che il giorno dopo dimentica tra gli strascichi di un'altra serata sul filo sospeso a cento metri di altezza, dove Rebecca non c'è davvero. Ma quella serata vorrebbe, solo per riempire un po’ di quel silenzio di sentimenti corrisposti, per avvicinarsi all’oblio, mossa dal bisogno di divertirsi senza di lui e i suoi sorrisi a tormentarle i pensieri o gli occhi.
“Sicuramente.”
Le sorride ancora, felice nonostante tutto di vederla ancora respirare, seppure a fatica tra le narici che pizzicano ancora per quello che ha sniffato poco prima.
“Volevo chiederti però se hai qualcosa per me…”
Fedra non si scompone, come se non avesse davvero capito la sua domanda, senza sapere che non l’ha mai fatto; tira fuori una bustina trasparente dalla borsa borchiata e le posa sul palmo della mano una pasticca tonda e verde, mentre Rebecca deglutisce, elettrizzata e spaventata, nella paura di finire svenuta in un bagno e nella speranza di poter non pensare per una notte sola.
La prima e ultima follia, si dice, la prima e ultima scorciatoia per non scivolare nel vuoto.
“Offro io.”


Stefano ricorda Fedra quando ancora aveva i capelli neri e le guance piene, confezionata nei vestiti sempre scuri e larghi. Si fermava spesso a pranzo a casa loro, si sedeva al tavolo in salotto e parlava con il cibo in bocca, ciancicava storie e aneddoti da cui la loro madre rimaneva affascinata ogni volta. Si chiudeva in stanza con Rebecca a studiare o a girare su internet, le consigliava canzoni hard rock che facevano venire il mal di testa al loro padre.
Sorrideva sempre, luminosa come non sarebbe dovuta essere nei suoi vestiti neri.
Ora l'ex compagna di banco di Rebecca ha le guance incavate e i denti gialli. È magra come un chiodo dalla testa rosa, indossa magliette colorate e attillate e calze a rete sempre distrutte. Ha una borsa a tracolla con le borchie che probabilmente ha rubato a qualche ragazzina che compra solo vestiti da Zara.
Tutti al Brancaleone conoscono il contenuto della borsa, bustine trasparenti e flaconi tintinnanti, contenitori di trip e sogni che lei non ha più, ma che vende agli altri sotto forma di cocaina e cristalli.
La nuvola rosa mangiata dall'anfetamina è a qualche metro dal palco, alla sua sinistra. Stefano la guarda curioso, scheletrica e pallida imitazione della ragazza sveglia che conosceva, mentre sorride con sguardo assente a un interlocutore che lui non vede. Tiene una pasticca tonda e rosa tra due dita ossute, tira sul con il naso, ciondola la testa a tempo di dubstep.
Quando la musica si ferma e la gente davanti a loro smette di muoversi, lui può guardarla meglio, un solo secondo per accorgersi a chi sta vendendo la droga. Ricci capelli rossi si stagliano di fronte a Fedra, la pusher più conosciuta di Roma, quella che Stefano l'anno prima ha riportato a casa in braccio in uno squallido appartamento a Centocelle, in cui vive da sola, tra vomito rappreso e carta da parati strappata.
Quando Fedra lascia la pasticca sul palmo aperto di Rebecca, Stefano corre.
“Offro io.”
“Non offre proprio nessuno.”
Rebecca si irrigidisce sul posto, chiude il pugno e tra esso l’ecstasy, schiacciata tra il palmo e le dita e quasi sbriciolata. Sente lo sguardo del fratello perforarle la nuca, non vorrebbe girarsi né guardarlo, far finta che non ci sia nessuno dietro di lei, che lui non abbia sentito né visto niente.
Ma lui attira ancora la sua attenzione, le colpisce con poca gentilezza una spalla, la chiama urlando il suo nome, mentre Fedra si allontana con un sorriso vacuo tra le labbra e indifferenza chimica.
“Cosa cazzo stai facendo?”
Si è avvicinata anche Martina, forse li ha seguiti o si è ritrovata lì per caso, forse anche lei vuole farle la paternale. Rebecca non risponde, ma lo fissa con sfida negli occhi, senza espressioni particolari, se non una voglia di scappare da lui, di raggiungere Londra, di fotografare il Tamigi, bere quel tè con Raffaele.
“Rebecca, rispondi!”
Sembra loro padre, quando le parla così, quando usa quel tono di voce; le ricorda quando scopriva che non andava a dormire da nessuna amica, quando non tornava a casa, ma usciva con lui e Leonardo a ballare, anche a quindici anni. Lei non rispondeva mai, a nessuna sfuriata, non alimentava rabbia con parole superflue, con scuse false. Rimaneva in silenzio, ad ascoltare ciò che doveva dire perché si sentiva in dovere, come lei era convinta di dover disubbidire, per affermare la propria indipendenza e autonomia.
“Ste, stai calmo…”
Martina tenta di calmarlo, posa una mano sulla sua spalla, in un’intimità che le è estranea, un gesto inconsueto: lo sente tendersi sotto le sue dita, come se stesse trattenendo il respiro e poi lo rilasciasse tutto insieme, in un sospiro fremente rabbia. Stringe i pugni, si tocca i capelli e morde le labbra.
“Non è successo niente,” dice alla fine, Rebecca, con indifferenza ostentata. Sente la pasticca ancora tra le dita, pulsare e bruciare, scavare un solco nella pelle, pesante come un macigno.
“Non è successo niente? Cristo, hai comprato dell’ecstasy, Rebecca!” Urla ancora, non solo per sovrastare la musica, ma per la paura e lo sconcerto. “Hai idea di che cazzo è?”
Rebecca sbuffa infastidita, nervosa per la scenata davanti a Martina e a qualche sconosciuto interessato ai fatti loro, non lo guarda in faccia e lascia scivolare dalle dita sul pavimento la pasticca.
“Non fare l’ipocrita, ti ho trovato in bagno fatto della peggio merda un sacco di volte,” sibila. Non può accettare un rimprovero da chi gli chiedeva cibo alle ore più impensabili della notte, quando la fame chimica disfaceva il suo stomaco. A volte capitava, quand’era più piccolo e lui chiedeva aiuto a lei, per non farsi beccare dai genitori né rimproverare dal sempre troppo responsabile Raffaele. Lei non ha saputo se anche lui aveva qualcosa da riempire, se fosse solo bisogno di distrarsi o voglia di provare, se si sentiva più interessante quando assumeva qualcosa ai concerti o nei centri sociali di Roma; non ha mai chiesto e ora vorrebbe che lui facesse lo stesso, la lasciasse andare via a mani vuoti, stomaco vuoto, cuore vuoto, senza possibilità di riempimento. In silenzio, tra la folla, scomparire per una notte e basta.
“Proprio perché lo so!” Stefano ancora urla, furioso anche con se stesso per non essere un esempio irreprensibile da seguire, per essere stato il ragazzino problematico, lo scapestrato della famiglia. “Il fatto che io sia stato un coglione non ti da diritto di esserlo a tua volta! Questa roba ti può ammazzare, Bec!”
“Lasciami in pace, Ste, non sei nostro padre! Fatti i cazzi tuoi!”
Stefano prova a ribattere e a fermarla, quando gli da le spalle, ma la perde di vista nella calca, all’uscita del Brancaleone, dove qualcuno lo ferma per salutarlo.
Martina, che lo ha seguito, rimane al suo fianco, in silenzio, beandosi di chiacchiere inutili, accorciando un po’  la distanza tra i loro corpi perché la sera fa ancora freddo e Stefano emana un calore naturale e piacevole.
Quando Stefano congeda il ragazzo tarchiato dai capelli rasati, le sorride dispiaciuto, nello sguardo la preoccupazione viva per la sorella. Non sa cosa le stia capitando, nelle ultime settimane, cosa la spinge a rinchiudersi in camera o nelle aule dove si svolgono le lezioni, chiudendo fuori lui, Martina e Leonardo. Addirittura Raffaele lo ha chiamato preoccupato, ma lui non è mai stato come il fratello: non sa come farsi ascoltare e farsi raccontare i problemi, sa solo come farla divertire e l’unica cosa che sente di averle insegnato è come masticare ecstasy per fuggire da un disagio di cui non si riesce a parlare.
“Sono senza passaggio,” dice Martina, per spezzare il silenzio sceso tra loro, ancora a pochi centimetri dal suo fianco. Sfiora appena una sua gamba con la propria e cerca con la solita discrezione e la poca capacità che ha di comunicare la propria presenza di risollevarlo da quella che è stata una fine serata da dimenticare.
“Ti accompagno io.”
“Starà bene.” Martina appoggia una mano sul suo braccio, in un contatto a cui nessuno dei due è ancora abituato e che li rende improvvisamente impacciati.
Lui annuisce e le sorride anche con gli occhi questa volta. Poi afferra di nuovo la sua mano e la porta via.

 

Non sa perché è lì, Rebecca, ma è stato l'unico posto dove ha pensato di poter andare. Neanche casa di Martina le era sembrata adatta, troppo silenziosa e cupa.
C'è una porta chiusa davanti a lei, il numero cinque è disegnato accanto e un quadretto con scritto "attenti al gatto" è esattamente davanti ai suoi occhi. Pensa che potrebbe averlo comprato Federica, che magari lei è dentro, che forse stanno facendo l'amore o anche solo guardando la televisione abbracciati, su un divano su cui migliaia di volte si saranno addormentati insieme.
Deglutisce il groppo di lacrime, il dito ancora ben chiuso nel pugno, troppo orgogliosa per alzarlo e premere il pulsante del campanello, posto proprio sotto il nome Leonardo Mengacci.
Non sa perché ha scelto proprio quel posto, Rebecca, dopo avergli detto di non volerlo rivedere né sentire, dopo essere fuggita per la seconda volta dal suo bisogno di lui. Sa solo di voler essere proprio lì, davanti quella porta. Non importa se rimarrà chiusa per sempre, se lui non la aprirà mai per lei, se dietro di essa lui non è da solo, ma con Federica. Ha sentito il bisogno di arrivare a quel punto, dove a volte ha anche dormito, quando era ancora piccola e Stefano la portava di nascosto ai genitori alle serate di Leo. Ha sentito il bisogno di percorrere quel filo su cui cammina con una gamba sola, sospeso a troppo metri da suolo.
E ormai che è lì, decide di muoverlo, quel dito, e di poggiarlo sul pulsante rettangolare, un istante solo, veloce, come se subito si fosse già pentita di averlo fatto. Vorrebbe girarsi e andarsene, ma sente dei passi, al di là della porta e forse non farebbe in tempo a non farsi vedere o forse questa è solo la scusa che si racconta per non giustificare il suo essere lì, con le zeppe ancorate a uno zerbino peloso rosso scuro.
Gli occhi di Leonardo si sgranano, vedendola, perché è l'ultima persona che avrebbe mai pensato di trovarsi davanti quella sera, in quel momento. Sono le tre del mattino e gli sembra quasi di poter vedere le lacrime che tenta di nascondere, sotto lo strato doppio di mascara e le parole che è sicuro non gli dirà.
Non risponde alla sua muta domanda, solo si fa da parte e la fa entrare, spostandosi in cucina e preparando un tè ai mirtilli, il suo preferito. Ne tiene una scatola nella credenza da quando è andato a vivere da solo, nell’eventualità che lei ancora varchi quella soglia e si fermi per due chiacchiere, un film, una canzone da ascoltare dal vecchio giradischi.
Lei sembra più piccola e minuta di quanto lo sia di solito, stretta in una felpa enorme, probabilmente di Stefano, raccattata chissà dove per ripararsi dal freddo; si toglie le scarpe che le stanno uccidendo i piedi, si siede sul divano su cui cinque anni prima ricorda sin troppo bene di aver dormito accanto a lui, porta le gambe al petto.
Leonardo si siede accanto a lei, nell’attesa che l’acqua bolla, e la copre con la coperta piena di peli di gatto in fondo al divano. Non sa cosa dire, se dovrebbe parlare, anche solo per chiedere quanto zucchero vuole nel tè. In realtà se lo ricorda, tre cucchiaini e una spruzzatina di limone.
“Non volevo tornare a casa.”
Inaspettatamente è lei la prima a parlare, a nascondersi dietro scuse che non interessano a nessuno dei due, consci del solo bisogno di vedersi. Litigare con Stefano  è stata solo la scusa perfetta.
“Puoi stare qui.”
Rebecca annuisce e chiude gli occhi, appoggiando la testa alla spalla di lui con uno sbuffo.
“Lo so.”
Ha sempre saputo che lui la avrebbe accolta, fatta addormentare, abbracciata. Come ha fatto per anni, quando non era altro che la piccola sorellina di Stefano, la pel di carota quattr’occhi che lui si divertiva a istruire musicalmente. Per questo è andata lì, perché sa che potrebbe capirla solo lui che la ascolta da quando ha tredici anni, la ascolta veramente, con le parole sempre pronte a colmare i suoi vuoti, a occupare gli spazi dentro di lei.
Vorrebbe dirgli che le dispiace per averlo ignorato, che vorrebbe solo baciarlo, tornare indietro nel tempo e accettare quell’invito anni prima; vorrebbe che non ci fosse Federica tra loro, che Stefano potesse capirla, che Martina si aprisse con lei e che Raffaele tornasse dall’Inghilterra, la abbracciasse e le dicesse che andrà tutto bene.
Poi però lui la bacia di nuovo, nell’attimo esatto in cui lei lo guarda negli occhi per poterlo ringraziare, per dire qualcosa, una cosa qualsiasi per giustificare il suo essere lì, quasi in lacrime, dove aveva giurato non sarebbe più tornata.
E quella notte non ha il coraggio di allontanarsi, uscire di casa e montare di nuovo in motorino, per dormire chissà dove. Non ha la forza di rifiutare quel bacio, quella mano tesa verso di lei, quel cemento che può coprire la voragine nel suo stomaco e nella sua testa. Lo trasforma quindi in anestetico, il placebo della mente, malattia e allo stesso tempo cura. E vorrebbe che quel bacio fosse un inizio, una promessa, che fossero sentimenti ancora troppo acerbi per poter essere espressi ad alta voce, o sussurrati all’orecchio, e allora si stringe al suo collo e al suo corpo, senza più distanze tra loro, niente che li tenga lontani più dei pochi centimetri che servono loro per respirare e spogliarsi dei vestiti.
Calze che si strappano, ossa che si scontrano, baci che divorano, occhi aperti sull’altro, nella certezza che siano proprio i loro respiri a confondersi e i loro ricci a intrecciarsi, unghie che incidono pelli.
Quasi impacciati, troppo affamati per godersi ogni istante, smaniosi di arrivare ovunque, insieme, fino alla fine, tra le coperte di un letto che dovrebbe ospitare un’altra donna, tra i sospiri che li mantengono vivi, tra le lacrime che vorrebbero versare sulle guance dell’altro, felici e colpevoli e insieme, fino alla fine.
Marchiati fino in fondo, a fuoco sulla pelle, nei segni dei denti e delle mani, lì dove la pelle è arrossata dai baci e le labbra tumide e gli occhi lucidi di piacere e felicità e rimpianto.
Rebecca lo stringe, Leonardo si muove su di lei, non allontana il suo sguardo dai suoi occhi, compensa con le mani, le tocca i capelli, quel rosso che ama sfumato nei ricci ribelli, sempre più disordinati. Pezzi di entrambi dispersi sul letto, tra di loro, riflessi negli occhi, nasi, denti, mani, in una Guernica emozionale che li spezza e ricompone insieme, l’uno sull’altro e l’uno nell’altro, come un puzzle sbagliato che si incastra alla perfezione.
Le bacia le labbra, il collo, le spalle, una spinta, ancora una e poi un altro bacio e poi i colori che esplodono insieme, come l’arcobaleno di quel giorno nella sala da tè, la sintesi del bianco quando chiude gli occhi e la bacia ancora, in una pace infine trovata, ma impossibile da afferrare.
Le si sdraia accanto affannato e Rebecca prova a ritrarsi, ancora scossa, con le ciglia umide d’emozione.
C’è il lembo di pelle del polso, lo stesso che già aveva sfiorato, ma che gli era sfuggito tra le dita che ora giace accanto alla sua mano, vicino ai suoi boccoli sparsi sulle lenzuola bianche in un contrasto fiabesco che lo incanta. Respira pesante accanto a lui, stesa sulla pancia a occhi chiusi, in una veglia pigra. Vorrebbe afferrarlo quel polso, prenderlo tra due dita e baciarlo, sospingere quel corpo verso di sé e abbracciarla di nuovo, come poco prima, ma senza la ricerca spasmodica di nudità, come se finalmente potessero abbandonarsi al silenzio, regolare i respiri l'uno sull'altro, senza vuoti da riempire o baci da rubare; nessun senso di colpa a schiacciarli, nessun altro a cui tenere conto.
La alza, la mano, Leonardo. Striscia sul letto, lenta, fende l'aria con docilità e alla fine la sfiora e la porta vicino a sé, la mano e poi Rebecca, entrambi ancora in silenzio. Lei trema, spaventata dal rumore del suo cuore e del futuro che incombe, incapace di rilassarsi davvero, neanche tra le sue braccia, dove da sempre avrebbe voluto abitare.
Poi lui in uno sbuffo sorride tra i suoi capelli, in un gesto così intimo e inopportuno che anche lei vorrebbe ridere, se non fosse troppo impegnata a contenere l’emozione di essere lì. Però in quel suono ovattato, in quello spiffero d’aria sulla nuca, vede le sue paure dissolversi e addormentarsi con loro.
Ancora per mano.

○○○

Buongiorno da Dj Stez, anche oggi in diretta da Radio Cacofonia!
Spero abbiate passato una buona serata o almeno migliore della mia che si è risolta con liti e motorini che non sono partiti all’uscita del Branca… Per fortuna ci hanno dato un passaggio, ma ora sono appiedato e non credo di esserlo più stato da quando ho sedici anni!
Perciò stamattina il viaggio fino alla radio l’ho fatto in metro e come se non bastasse la mia sfiga, sono dovuta scendere tre fermate prima perché un tizio si era buttato sotto un vagone.
E mentre camminavo per quella mezz’ora, a passo svelto per non arrivare in ritardo, per le vie trafficate di Roma, mi sono chiesto cosa possa spingere qualcuno a saltare. Forse sono solo stato fortunato nella vita, sempre circondato da chi i vuoti che mi porto dietro da quando sono ragazzo trovava la forza di colmarli, di fare un passo verso di me, a mano tesa, e tirarmi fuori da lì… Forse è una cosa che noi fortunati ragazzi medi non potremmo mai capire, che non vivremo mai sulla nostra pelle.
Vorrei poter far qualcosa a volte per ciò che invece non posso controllare; far sì che chi ne abbia bisogno si possa nascondere nei miei vuoti, piuttosto che rimanere da soli in quell’anfratto che si sono costruiti con le loro mani e da cui non riescono a riemergere.
Forse un giorno qualcuno farà questo per voi e sarete pronti a lasciarvi aiutare. Fino ad allora, provate ad aspettare, a rinchiudere le paure da qualche parte dove non potranno darvi fastidio.
A volte basta trovare un motivo.

#Dentro i miei vuoti

 

Note di una ritardataria affetta da horror vacui

Buon mercoledì, gente!
Allora, mi scuso terribilmente per il ritardo, come prima cosa, ma è un periodo un po' così a livello personale e questa storia non è sempre facile da portare avanti.
Intanto voglio ringraziare chi ha aspettato con pazienza ed è ancora qui a leggere i vaneggiamenti di questi quattro piccoli idioti - a cui probabilmente si stanno per aggiungere altri, devo ben capire - che io amo veramente tanto, ma a volte mi creano problemi mentali non indifferenti.
Mi dispiace se questa storia può risultare lenta, ma purtroppo non ci saranno grandi scossoni, perché l'ho pensata così. Stefano e Martina si avvicinano in modo lento e almeno per ora solamente come amici, nessuno dei due ha interessi altri a tal proposito. Però questo non li rende meno amorevoli ♥
Rebecca e Leonardo come avete potuto vedere invece bruciano qualche tappa - tra cui quella che sta sotto la voce "lasciare Federica" - ma anche loro voglio creare una specie di contrasto con l'esasperazione a cui portano quegli altri due.
Non sono convinta il capitolo mi piaccia, sicuramente mi piace verso la fine, prima ho qualche dubbio a riguardo. Spero non lo troviate noioso o altro e spero di aggiornare presto con il prossimo, ma comunque ho già scritto qualcosina quindi i tempi dovrebbero essere più brevi. 
Fedra, la nuvola rosa spacciatrice amorosa che io amo alla follia e che tornerà per forza anche qui, appare anche in questa oneshot "Respiravamo forte, come se stessimo morendo"
Al prossimo capitolo, sperando che ancora vorrete seguirmi in questa triste avventura,
Elle

*Il titolo del capitolo è anche il titolo di un album dei Subsonica.
*DeadMau5 è lo pseudonimo di Joel Zimmerman musicista di Electro/Progressive house
*Tarantula è una canzone dei Pendulum (Qui)
*I Justice sono un gruppo di musica elettronica/dance rock francese.

   
 
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