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Autore: Northern Isa    19/10/2012    2 recensioni
C’è anche un bambino. Chi non si intenerisce di fronte a un piccolo che ha paura del buio? Non io; allora devo essere proprio disumano, concludo stampandomi sul volto il primo sorriso da mesi.
Immediatamente un ricordo piove su di me come una doccia gelata. Quando mio padre doveva punirmi, mi chiudeva in una stanza al buio per ore. Quando mia madre è entrata in depressione, tutto dentro di lei doveva essersi spento. È ora di estinguere qualche altra luce.

Cosa o chi ha portato Thorfinn Rowle a unirsi al Signore Oscuro? L’apposizione del Marchio Nero è davvero così dolorosa?
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
- Questa storia fa parte della serie 'Età di venti, età di lupi.'
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Uno di loro.


Cammino avanti e indietro sulla pelle d’orso che copre il pavimento di casa mia, intrecciando le dita dietro la schiena e digrignando i denti. Mastico lo spessore d’osso della mia mandibola mentre graffio la pelle intorno alle unghie; i lunghi capelli mi cadono davanti al viso, nascondendo in parte il tappeto che calco con decisione. Se solo i miei pensieri fossero altrettanto decisi, rifletto passandomi una mano sulla rada barba che mi copre le guance.
Lancio un’occhiata fugace all’orologio appeso sulla parete: tra cinque minuti dovrebbe iniziare la riunione, ma ancora non ho deciso se parteciperò. L’idea mi alletta eccome, ma c’è qualcosa che mi trattiene: forse è solo l’ansia per l’enormità di ciò che comporterebbe questa scelta. Stringo i pugni fino a scolorirmi le nocche: non è da me essere così ansioso, non devo esserlo, mia madre non avrebbe approvato. Peccato che si sia lasciata morire quando quel maledetto di Odinresk, mio padre, ci ha abbandonati per tornare in Svezia.
Quando ripenso a lui, il mio stomaco inizia a bruciare d’odio e mi viene immediatamente voglia di avere più osso da masticare e più pelle da graffiare. Dannato, come ha potuto essere così vile? Come ha potuto mentirci in tutto questo tempo? Dovrebbe sparire, lui e tutta la feccia che popola questo mondo schifoso. Dovrebbe sparire per mano mia, sì che dovrebbe.
Nonostante il nervosismo, un ghigno mi deforma le labbra. Su questa via il Signore Oscuro potrebbe aiutarmi, lo so bene. Potrebbe farlo lui, così come quel mago che ho incontrato qualche tempo fa, quello con la faccia pallida e storta. Dolohov, sillabano le mie labbra quando mi viene in mente il suo cognome, proprio lui.
Non c’è che dire, fin dalla prima volta che l’ho visto mi ha dato l’impressione di essere un uomo deciso, una guida. Effettivamente, negli ultimi tempi ho avvertito il bisogno una strada nuova, in cui incanalare l’energia che ho sentito accumularsi da quel lontano giorno in cui, mentre facevo colazione al tavolo dei Serpeverde a Hogwarts, mi arrivò la lettera che annunciava la fuga di mio padre e la morte di mia madre. Da allora mi sono sentito come un ricettacolo di scorie: sembravo attirare tutto lo schifo di questo mondo, che ha incominciato a costituire un peso insopportabile.
È stato quando mi sono accorto di sobbalzare per al minimo rumore, di non tollerare la compagnia di alcuna creatura vivente, di digrignare i denti tanto da consumarli, di imbestialirmi di fronte al minimo fastidio che ho capito che dovevo fare qualcosa.
Neanche l’avessi chiamato, Dolohov è arrivato dove il mio autocontrollo non ha potuto. È stata una sera di qualche settimana fa: ero pronto a bere l’impossibile per passare una notte sufficientemente disgustosa e distruttiva da non farmi ricordare quanto fosse pessima la mia vita. Il problema era solo uno: nelle vene mi scorre il sangue di Odinresk, vichingo d’origine. Prima di riuscire a ubriacarmi, la taverna L’Eroe Odo avrebbe terminato le sue scorte. Incerto se inveire contro l’oste o no, avevo notato una figura alta avvolta in un mantello nero, che mi aveva avvicinato poco più tardi. Aveva detto di chiamarsi Antonin Dolohov, e aveva fatto qualche battuta sugli alcolizzati. Avrei voluto affatturarlo per quello, ma poi avevo capito che non mi stava prendendo in giro. Era uno strano tipo, quel Dolohov, con un senso dell’umorismo tutto suo.
Non avevo ancora deciso se mi piaceva o no. Avevamo bevuto insieme, lui continuando a parlare in modo volutamente poco chiaro, io continuando a trincerarmi dietro la mia diffidenza.
Ero tornato a casa poco prima dell’alba, tanto pieno di alcol da vedere sfocato, ma non abbastanza da sentirmi stordito e leggero.
Dolohov e io ci eravamo incontrati di nuovo il fine settimana successivo, sempre alla taverna L’eroe Odo. L’avevo trovato già seduto al bancone di legno grezzo con un boccale mezzo vuoto in mano e uno colmo a fianco a sé. Da come si era voltato a guardarmi quando avevo messo piede nel locale, avevo capito che si aspettava che sarei venuto. L’idea che quel mago conoscesse le mie abitudini non mi piaceva affatto, ciononostante mi ero seduto vicino a lui e avevo iniziato a bere l’Ogden Stravecchio e le parole che Dolohov mi aveva offerto. Qualche tempo e diversi boccali più tardi, il mago aveva iniziato a pormi una serie di domande, sempre più personali, alle quali avevo risposto in modo evasivo. Poi, dal nulla, aveva tirato fuori il discorso del Signore Oscuro. All’inizio avevo creduto che non ci fosse niente di strano: nonostante fosse creduto morto dai più, Lord Voldemort aveva mostrato di nuovo in suo volto al Ministero appena un mese fa. Ricordo di aver sbattuto il boccale di Ogden Stravecchio sul bancone con tanta violenza da farlo traboccare quando avevo detto a Dolohov di condividere gli obiettivi e i mezzi del Signore Oscuro. Con la coda dell’occhio avevo notato come le sue pupille avessero baluginato per un attimo; avevo dato la colpa all’alcol e avevo ripreso a bere senza preoccuparmene oltre.
Tornato a casa e buttatomi sul letto a peso morto, avevo trascorso le ore che mi separavano dall’alba in uno stato di dormiveglia in cui si erano alternate le immagini delle battute di caccia con mio padre, dei sorrisi di mia madre, del ciondolo a forma di Drakkar che Odinresk mi aveva regalato al mio diciassettesimo compleanno, insieme a tante belle promesse, poi mai mantenute.
Il fine settimana successivo avevo trovato Dolohov sullo zerbino di casa mia. Il fatto che sapesse tante cose di me mi infastidiva e inquietava, ma l’avevo fatto entrare senza storie. Il mago aveva detto di dovermi parlare di cose importanti; prima di fare qualsiasi altra cosa, aveva trafficato con la manica della sua blusa scura. Quando l’aveva sollevata, mi aveva mostrato il Marchio Nero. Non ne sono stato molto stupito: da quello che sapeva su Azkaban e sul Signore Oscuro, avevo capito che doveva parlare per sua esperienza diretta. Nonostante questo, però, quando Dolohov mi aveva mostrato il Marchio, sono rimasto al contempo colpito e attratto, come se i miei occhi avessero visto qualcosa di osceno e proibito e, per questo, tremendamente affascinante.
Dal momento che Dolohov aveva scoperto le sue carte, era diventato molto più facile intenderci. Proprio tre giorni fa è stato di nuovo qui, riferendomi che la sua opera di proselitismo per l’Oscuro Signore si stava intensificando, e che alla taverna L’eroe Odo avrei trovato altre persone come me. Come ci aveva definiti? Giovani promettenti. So che se dovessi presentarmi alla taverna, sarebbe come firmare un contratto con Lord Voldemort. Non ci sarà lui in persona, è ovvio, però in questo modo manifesterei apertamente quelle che fino ad ora sono state intenzioni astratte riferite a Dolohov e a lui soltanto.
Mi lascio cadere sul divano, sfregandomi le nocche. È un passo importante questo, devo rifletterci bene. Sento la voglia di violenza esplodermi all’altezza del diaframma, ho bisogno di sfogarla, altrimenti potrei morirne consumato. So che la voglia di vendetta nei confronti di mio padre anima ogni fibra del mio corpo. Ma un club di giovani promettenti e marchiati è proprio ciò che fa per me? Non ho niente contro i Mezzosangue e i Sanguesporco, dopotutto.
Attraverso la finestra mi giungono canti di ragazzi già mezzi ubriachi e bagliori di fuochi d’artificio. Nelle orecchie mi risuonano gli scoppi come cannonate di sorprendente potenza. Basta, mi dico premendomi una mano sugli occhi, ho deciso: non ci andrò.

Mi alzo dal letto trascinando i piedi e domandandomi perché il malessere post sbornia sia più intenso ora, quando ieri sera non ho toccato una goccia d’alcol, rispetto a quando scolo di tutto e di più. È domenica, penso giungendo in cucina, una giornata morta. Più tardi potrei provare a cacciare: uccidere qualcosa potrebbe farmi stare meglio.
Sono immerso in queste riflessioni quando sento bussare alla porta. Quando vedo Dolohov sulla soglia, non riesco a trattenere un’esclamazione sorpresa. Il mago entra in casa senza aspettare il mio permesso, poi sprofonda sul mio divano e mi rivolge un’espressione a metà tra lo scontento e il divertito.
«Mi aspettavo di vederti ieri sera alla taverna. C’erano anche Gibbon, Rookwood, Selwyn e Yaxley».
Mi siedo davanti a lui, ma evito di guardarlo in faccia. Una vena mi pulsa sul collo: che diavolo vuole da me? Che sparisca e la smetta di controllare cosa faccio o non faccio.
«Non avevo voglia di venire» borbotto.
Dolohov mi guarda come un insegnante che ha davanti a sé uno studente che non ha fatto i compiti. Anche io non riesco ad impedirmi di sentirmi colpevole e infantile di fronte a quella occhiata.
«Rowle, di tutti i babbei che sarebbero dovuti venire ieri sera, tu eri l’unico che mi interessava davvero presentare agli altri. Si può dire che li abbia portati in questo paesino schifoso per te, e tu non ti sei neanche degnato di venire?» Non c’è rabbia o astio nella sua voce, anzi, Dolohov mi rivolge un sorriso sghembo ed enigmatico. «Devo forse pensare che non ti interessa più unirti al Signore Oscuro? Dopo che sei venuto a cercarmi…»
«Io non ho cercato proprio nessuno» sbotto saltando in piedi. Anche Dolohov si alza, seguitando a sorridere in quel modo strano.
«La tua sete di vendetta lo ha fatto! So chi sei e cosa vorresti fare. So dei tuoi genitori mezzi matti, so quanto odi Odinresk! Se così non fossi stato, non mi sarebbe mai venuto in mente di cercare seguaci dell’Oscuro Signore proprio in quest’angolo di mondo. Tu gli appartieni, Rowle, anche se non lo sai. Non è una riunione o un Marchio sulla pelle a fare di te un uomo del Signore Oscuro: la tua rabbia e la tua violenza inespressa ti hanno reso suo».
Boccheggio per alcuni secondi, cercando qualcosa da rispondere, ma non mi viene in mente nulla. Serro di nuovo le labbra, riprendendo a digrignare i denti, continuando ad assimilare le parole di Dolohov.
«Sei fortunato, Rowle» dice ancora il Mangiamorte, affondando le mani nelle tasche con aria sorniona. «Gli altri sono ancora da queste parti. Le riunioni non fanno per te, questo ormai l’ho capito, ma per oggi avevo in mente qualcosa di diverso».
Lo osservo senza capire mentre Dolohov aggira con pochi passi la pelle d’orso e va a posizionarsi sotto le teste di animali impagliati appese alla parete. Alza un dito nella loro direzione, un gesto che vuole sembrare casuale.
«Ti piace la caccia, non è vero? Non era la specialità di tuo padre?»
Serro i pugni, percorso da un fremito di irritazione per il fatto di essere stato appena associato a Odinresk. Come fa a sapere così tante cose di me e della mia famiglia? Dolohov continua:
«Interessante, davvero. Ti piacerà allora quello che sto per proporti: una caccia al Babbano. È per stasera, e vedi di non mancare».

Per tutto il resto della giornata non ho fatto altro che ripensare alle parole di Dolohov. D’accordo, mi metteva ansia l’idea di associarmi a qualcosa di più grande di me, dato che sono stato sempre abituato a far affidamento solo su me stesso. Mi seccava l’idea di entrare in contatto con altre persone, anche se Mangiamorte. Mi preoccupava che gli obiettivi del Signore Oscuro e miei non coincidessero perfettamente. Ma Dolohov mi ha chiarito come stanno davvero le cose. Forse avevo bisogno della sua scrollata per uscire dall’isolamento, per capire che tutta la rabbia e l’energia che ho dentro devono essere sfogate all’interno di un piano più grande, o le mie azioni sarebbero solo le gesta di un pazzo isolato. Sono quasi pentito di non essere andato alla taverna ieri. Ma adesso sto per rimediare.
Mi sbatto la porta di casa alle spalle, avvertendo il vento notturno investirmi la faccia con una piacevole sferzata. Mi Smaterializzo subito e, pochi istanti più tardi, appaio davanti ad una porta di legno marrone, scrostata in più punti: è l’edificio che mi ha indicato Dolohov. Mi sono Materializzato proprio nell’unico spazio vuoto lasciato nel semicerchio che avvolge la porta, come preparandosi a morderla: accanto a me ci sono degli uomini con dei lunghi mantelli neri e delle maschere sul volto. Non so chi tra questi sia Dolohov, né dietro quale maschera si nascondano Yaxley, Rookwood o gli altri che ho sentito nominare. So solo che, ritrovandomi improvvisamente in mezzo a loro, mi sono sentito come l’ultima tessera incastrata per completare un puzzle.
«Direi che possiamo iniziare» dice una voce profonda alla mia destra; gli altri Mangiamorte annuiscono.
«Un momento» dice un mago, sollevando una mano. Dalla voce lo riconosco: è Dolohov. «Rowle non è mascherato».
Sto per rispondere che non mi interessa, che non ho intenzione di coprirmi il volto e che non mi importa se i Babbani possono vederci, dato che siamo lì per ucciderli, quando un altro Mangiamorte trae da una tasca del mantello un involto e me lo porge. Con la punta delle dita sposto i lembi di tessuto per svelare una maschera dalla superficie lattiginosa e percorsa da segni d’argento che ricordano le ossa di un teschio. Le mie mani agiscono da sole quando mi portano la maschera sul volto e, quando i miei occhi riescono a farsi largo tra i fori della stessa, mi sento una persona diversa, come se i Mangiamorte mi avessero dato un’altra pelle.
Qualcuno all’interno del nostro semicerchio ridacchia, poi, senza alcun preavviso, il mago che mi ha fornito la maschera scaglia un incantesimo contro la porta, facendola saltare in aria. Entriamo uno dopo l’altro nell’ingresso buio dell’abitazione, mentre le urla degli abitanti iniziano a scendere le scale e a giungerci alle orecchie.
«Che è successo? Che scoppio!»
«Tesoro, sarà una fuga di gas?»
«Mamma? Ho paura, non si accende la luce».
C’è anche un bambino. Chi non si intenerisce di fronte a un piccolo che ha paura del buio? Non io; allora devo essere proprio disumano, concludo stampandomi sul volto il primo sorriso da mesi.
Immediatamente un ricordo piove su di me come una doccia gelata. Quando mio padre doveva punirmi, mi chiudeva in una stanza al buio per ore. Quando mia madre è entrata in depressione, tutto dentro di lei doveva essersi spento. È ora di estinguere qualche altra luce.

È trascorso un mese esatto dalla mia prima caccia al Babbano e devo ammettere che, nonostante le mie iniziali riserve, è stata molto più soddisfacente di quella a un qualsiasi animale del bosco. Per la prima volta da anni mi sono sentito appagato. Quando l’ho detto a Dolohov, è scoppiato in una fragorosa risata e mi ha dato una pacca sulla spalla.
Quasi senza sapere come e perché, mi sono trovato davanti al cancello della villa di uno dei Mangiamorte che fino a qualche tempo fa era tenuto in maggiore considerazione, ma sono sicuro che ci sia lo zampino di Dolohov. Il mago infatti è ritto accanto a me, e scruta il cancello con aria interessata.
Il sole è tramontato da poco, il cielo ha ancora qualche striatura pervinca mentre le tenebre iniziano ad allungarsi intorno a noi. Da qualche parte in lontananza, un gufo sta lanciando il suo cupo verso monosillabico.
«Bene, Rowle, possiamo entrare» dice Dolohov dopo qualche istante.
Gli lancio un’occhiata interrogativa: dove spera di avviarsi se il cancello non si apre? Invece il Mangiamorte oltrepassa le sbarre scure come se, anziché di ferro, fossero fatte di fumo. In qualche modo quel fenomeno mi ricorda la barriera a King’s Cross per raggiungere il binario 9 e ¾ .
Il mago dirige un guizzo di bacchetta verso il cancello, che si apre lasciandomi passare. Mentre calpestiamo il tappeto di foglie che ricopre il sentiero di ciottoli che porta alla villa, Dolohov mi spiega:
«Il cancello funziona in quel modo per chi ha un Marchio Nero. Non è il tuo caso, perciò l’ho aperto solo perché sei stato invitato. Ma non ti preoccupare: presto ovvieremo a questo piccolo inconveniente e anche tu potrai attraversare le sbarre».
A quelle parole, una sottile morsa mi attanaglia lo stomaco. Rispondo con un involontario gesto stizzito: emozioni del genere sono per gli idioti e i deboli. Eppure, mentre attraverso i saloni di Villa Malfoy accanto a Dolohov, non riesco ad impedirmi di sentirmi debole e febbricitante.
Il mago che mi accompagna si ferma in un salone ricoperto da marmo verde, con un camino sovrastato da uno specchio dalla cornice elaborata e un grande tavolo di legno scuro al centro del pavimento. Tutte le sedie intorno al tavolo sono occupate, tutte tranne due.
«Dolohov, bentornato» dice una voce fredda e carezzevole che mi fa drizzare i peli delle braccia. È Lord Voldemort; il suo aspetto è ancora più impressionante di come lo si descrive in giro. «E hai portato anche un amico!»
Il Signore Oscuro ci rivolge un ghigno senza labbra nel pronunciare quest’ultima parola. Tutti gli altri Mangiamorte sono in attesa, sembrano quasi bestie pronte a saltare sulla preda.
«Mio Signore» dice Dolohov, chinando reverenzialmente la testa. «Lui è Thorfinn Rowle, ha espresso il desiderio di unirsi a voi».
«Lo so, lo so!» afferma con una voce che è poco più di un sibilo, alzandosi dal tavolo e venendoci incontro con un frusciare della sua veste nera. «Lord Voldemort sa molte cose di te, Rowle. E tu certamente sarai qui per una ragione ben precisa».
Quando il mago oscuro posa su di me i suoi occhi rossi, mi sento come pietrificato. Solo pochi istanti più tardi riesco a riprendermi, a chinare la testa imitando Dolohov e a mormorare:
«Sì, mio Signore. Non desidero che servirvi».
Lord Voldemort getta il capo all’indietro e prorompe in una risata perforante.
«Molto bene. Non so se il nostro Dolohov ti ha messo al corrente di come funzionano le cose qui. Il Marchio Nero è un privilegio, un regalo solo per chi mi è più vicino. Alcuni dei miei Mangiamorte» dice, interrompendosi per lanciare un’occhiata obliqua ai padroni di casa, ai Lestrange e a un uomo dai capelli neri e il naso adunco, «ritengono che tu sia parte del gioco da troppo poco tempo per meritarti un simile onore. E in parte credo che abbiano ragione».
Un brivido di umiliazione e irritazione mi percorre la colonna vertebrale, ma non oso interromperlo. L’Oscuro Signore continua:
«Ma credo anche che, allo stato attuale delle cose, sia necessario tutto l’apporto energetico di chi voglia fornirlo. E perché sprecare un giovane così entusiasta e promettente?»
Le stesse parole di Dolohov, penso socchiudendo gli occhi. Lord Voldemort continua a camminare intorno a me, come uno squalo che traccia cerchi mortiferi intorno a una carcassa.
«Dammi il braccio, Rowle» dice d’un tratto, fermandosi bruscamente davanti a me.
Non credevo che sarebbe stato così rapido, né che l’Oscuro in persona avrebbe voluto marchiarmi. Non mi aspettavo che sarebbe successo adesso. Non credevo che mi sarei sentito nuovamente tramutato in pietra.
Dolohov fa un cenno nervoso della testa in direzione del mio avambraccio sinistro, tutti gli altri attendono con il fiato sospeso. Lord Voldemort socchiude appena la bocca; so che sta per dire qualcosa, ma il Signore Oscuro non ripete mai due volte un invito, perciò mi affretto ad obbedire e a tendere il braccio verso di lui.
Il Signore Oscuro me lo artiglia, come sperando di procurarmi più dolore possibile, ma dalle mie labbra non sfugge neanche un gemito e continuo a tenere lo sguardo fisso su un punto imprecisato sopra il suo cranio bianco. Avverto le mie vene pulsare nella sua stretta, come prossime all’esplosione. Un istante più tardi, la punta della sua bacchetta è sulla mia pelle.
Non c’è più tempo per domande, per dubbi, per elucubrazioni. Ci ho già pensato, ho bisogno di sfogare la mia rabbia, di manifestare la mia aggressività. I Mangiamorte mi hanno dimostrato, nell’ultimo mese, che su questa via è possibile. Non c’è più spazio per pensare, ora bisogna agire.
«MORSMORDRE!»
Una scarica di dolore puro si irradia lungo il mio braccio partendo dalla punta della bacchetta. Come al rallentatore, le mie labbra si schiudono in un grido senza suono. Stringo i pugni così forte che temo di sentire fuoriuscire le ossa. Il tempo sembra essersi dilatato e scorrere lentamente tra una scarica e l’altra che brucia la pelle come lava. In tutta la mia vita non ho mai provato un dolore così annientante da farmi desiderare la morte pur di farlo cessare.
Quando il Signore Oscuro solleva la sua bacchetta dal mio avambraccio, l’eco della sofferenza appena provata continua a scartavetrarmi la pelle. Chissà se mia madre, morendo, abbia sofferto così tanto. È solo in quel momento, a dolore cessato, che una vergognosissima capocchia di lacrima mi punge una palpebra. La voce di Lord Voldemort mi riporta al presente:
«Molto bene, Rowle. Non hai strillato neanche una volta, mentre c’è stato chi non ha fatto altro per tutto il tempo».
Alla risata del Signore Oscuro si aggiungono tutti gli altri Mangiamorte. Solo uno serra le labbra, imporporandosi: è basso e pingue, e la sua chioma è in più punti diradata.
Il Signore Oscuro allarga le braccia e riprende a parlare.
«Continuerai a seguire le mie direttive e a fare ciò che hai fatto negli ultimi tempi. Verrai affiancato da Dolohov, visto che ha mostrato così interesse per la tua introduzione tra i Mangiamorte, così imparerai da lui  tutto quello che è necessario sapere».
Dolohov china di nuovo la testa e ringrazia Lord Voldemort; io non riesco a muovere un muscolo.
Solo qualche tempo più tardi, come svegliato da un lungo sonno catalettico, mi rendo conto che il Signore Oscuro ha sciolto la riunione e i Mangiamorte stanno lasciando Villa Malfoy.
«Tornatene a casa» mi dice Dolohov, affiancandomi. «Hai una cera tremenda».
Annuisco stupidamente e mi appresto ad uscire dal salone, quando la sua mano sulla spalla mi trattiene.
«Non l’hai neanche guardato».
Quelle parole aprono la mia mente alla consapevolezza di quanto è successo e all’eco del dolore che continuo a provare. Chino la testa e poso il mio sguardo sull’avambraccio.
È lui, rosso come il sangue, impresso a fuoco, indelebile, immortale: il Marchio Nero. Ogni pensiero continua ad essere paralizzato dalla sofferenza recentemente provata, ma uno solo riesce a raggiungere le labbra, che si schiudono in un sussurro:
«Sono uno di loro».




NdA: amo Thorfinn! Come potevo non parlare del momento in cui ha ricevuto il Marchio Nero?
Originariamente questa storia partecipava a un contest, che si è perso però nelle nebbie dei tempi. Dal momento che sembrano tutti spariti, ho deciso di postare la storia.
Ho creato anche la mia prima serie, che è incentrata su Thorfolo e che al momento accorpa questa storia, La verità degli JotnarIl vostro incubo. Il titolo della serie, Età di venti, età di lupi, è una citazione dell'Edda, in particolare della parte dedicata al crepuscolo degli dei. Dove c'è Thorfinn, non posso non inserire mitologia norrena. Inoltre mi piace associare a un personaggio così poco equilibrato le calamità del Ragnarok.
   
 
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