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Autore: Argorit    25/10/2012    4 recensioni
Meliandra, la principessa del regno di Ader, viene mandata da suo padre a compiere una missione essenziale per la sopravvivenza del popolo. Ad accompagnarla, Farin, un giovane mercenario, potente, spietato e dall'oscuro passato.
Insieme, dovranno salvare il loro mondo dalla minaccia di un essere millenario, una creatura fatta di odio e da esso alimentata.
Ma ce la faranno?
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[Cit]
-Andrà mai via?- chiese Meliandra, fissandosi le mani ancora grondanti d'acqua gelida.
Farin la guardò a lungo, con attenzione. Sapeva cosa avrebbe dovuto risponderle, ma se l'avesse fatto, di quella ragazza non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, un mero simulacro di quella che sarebbe potuta essere una magnifica regina.
Quindi, suo malgrado, si chinò su di lei, la avvolse con proprio mantello e le sussurrò -No, non lo farà. Solo gli stolti credono che il tempo lenisca ogni ferita-
-Ma allora cosa devo fare? Come posso convivere con questo? Io non sono forte come te, io non posso andare semplicemente avanti, dimenticando quello che è successo!-
Il ragazzo le rivolse il sorriso più gentile che poteva. -Allora combatti ancora, perchè il dolore che provi ora non sia vano-
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                                            L’Impiccato
                                                                                                                           Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
La disperazione cammina per le strade, qui. Questo pensava Meliandra mentre, avvolta in un ampio mantello che ne celava le morbide forme femminili, scivolava per i sudici vicoli dei sobborghi di Zavren, circondata da un marcescente lezzo di sterco, urina, sangue e altre cose alle quali preferiva non pensare.
La prima volta che era stata lì era stata troppo occupata a cercare Farin di taverna in taverna per rendersi conto della degradante realtà della città, ma ora essa le appariva manifesta in tutta la sua desolazione. I margini delle strade erano gremiti di mendicanti, sgualdrine e tagliagole. Erano questi ultimi, con i loro coltellacci bene in vista e i ghigni crudeli sui volti lerci, a preoccuparla maggiormente. Non le piaceva il modo in cui sembravano scrutarla, come se la considerassero una facile preda.
Il lungo pugnale d’acciaio temprato che Farin le aveva dato le pesava al fianco, rassicurandola e spaventandola al contempo, perché, se era vero che avere un’arma la faceva sentire più sicura e protetta, era vero anche che non ne aveva mai posseduta una, e non era certa che all’occorrenza avrebbe avuto il coraggio di usarla. Ovviamente ne aveva viste molte a corte, al fianco o alla coscia dei cavalieri di suo padre e dei loro scudieri, ma quelle erano da nobili, con else ornate di gemme e lame filigranate in oro e argento, più belle che letali. Il pugnale del mercenario, invece, era anonimo; un nudo pezzo di metallo affilato come un rasoio, con un’impugnatura di legno duro avvolta in una striscia di cuoio bollito. Un’arma per uccidere, non per intimidire.
Chissà quanto sangue ha versato, si chiese la fanciulla, richiamando alla memoria il ricordo dello scontro a Fresa e di Farin che volteggiava con Veheza in pugno, leggiadro e terribile come Orlon il nero, le cui immagini affrescavano la parete nord del tempio degli antichi dei a Rublia.
Con un sospiro, scacciò quel pensiero e prese la cartina che il suo compagno di viaggio le aveva lasciato sul tavolo della cucina, accanto ad un messaggio dove le ordinava senza troppe cerimonie di raggiungerla ad una birreria dal discutibile nome l’”Impiccato”. Non era molto distante dalla casa del ragazzo, tuttavia i tortuosi vicoli di Zavren erano così intricati e pieni di tornanti da rendere quasi impossibile orientarsi, e più di una volta si era ritrovata al punto di partenza, incerta su quale strada prendere. Era tutto il giorno che camminava, e cominciava ad avere fame, quindi accelerò il passo, ignorando le minacce e le proposte lascive che di tanto in tanto le giungevano alle orecchie.
Raggiunse la piazza indicata sulla cartina in circa quindici minuti e non si sorprese di trovarla piena fino a scoppiare di popolani urlanti. C’erano diversi carrettieri che cercavano di vendere la propria merce, in gran parte rinsecchita o avariata. Alcuni mercanti d’armi enumeravano le prodigiose doti dei loro prodotti, sebbene la maggior parte di essi fosse rovinata dalla ruggine e dallo sporco. In un angolo scorse una sudicia prostituta che si faceva montare da un uomo butterato dal vaiolo, incurante degli sguardi altrui. Era la prima volta che la principessa assisteva ad una scena del genere, e distolse lo sguardo, sperando che fosse anche l’ultima.
L’insegna dell’Impiccato – un cappio nero su sfondo giallo - era ben visibile anche da quella distanza, e lei s’infilò nella folla, schivando i popolani come meglio poté.
L’interno del locale era decisamente pulito rispetto alla media dei sobborghi, e l’odore di carne arrosto le raggiunse le narici, facendole gorgogliare lo stomaco.
Si avvicinò titubante al proprietario, una montagna d’uomo bionda e corpulenta alta quasi sette piedi intenta a lustrare il bancone con uno straccio liso, e, cercando di controllare il tremito nella propria voce, disse: «Devo andare al piano di sotto.» Le istruzioni di Farin erano precise.
Il bestione non la degnò di uno sguardo, ma le rispose ugualmente «Non c’è nessun piano di sotto. La birreria è tutta qui.»
Meliandra deglutì, la gola arida per la tensione «Ho bisogno di andare al piano di sotto.»
Stavolta l’uomo alzò il viso dal proprio lavoro, inchiodandola con due occhi di gelida acquamarina, cupi e profondi. Indicò gli avventori con un boccale «Quelli che stanno lì non sono idioti come questi qui o come la feccia la fuori. Ci vuole ben più di un mantello per fregarli signorina.»
Involontariamente, la giovane fece un passo indietro, e la sua mano corse all’elsa del pugnale, anche se dubitava di avere il coraggio o l’abilità di usarlo.
«Non essere sciocca ragazzina. Si vede lontano un miglio che sai a stento come s’impugna quell’arma.» Nei suoi occhi brillò un lampo di pacato interesse. «In ogni caso, cosa dovresti farci tu laggiù? Ci sono solo assassini e mercenari.»
«Devo incontrarmi con una persona.»
«Chi?»
«Farin.» Il nome del mercenario doveva possedere una sorta di potere magico, perché non aveva neppure finito di pronunciarlo che il proprietario sbiancò. Annuì con lentezza solenne e si voltò, facendole segno di seguirla nel retrobottega. Dubbiosa, la principessa gli andò dietro tenendosi a distanza di sicurezza.
Il gigante la condusse fino ad un’immensa botte scuro. Le sue dita si posarono sul legno, ben più in alto di un uomo normale, e pigiarono con forza, rivelando una rientranza di forma circolare. Girò rapidamente la serratura e, con uno scricchiolio sommesso, ai loro piedi si aprì una botola nascosta che celava una scalinata fiocamente illuminata da torce quasi completamente consumate.
Il piano inferiore era decisamente più piccolo di quello superiore, ma più caldo e ancor meno affollato. Nella grotta artificiale c’erano appena una ventina di persone intente a bere, ridere e discutevano pacatamente, non urlavano e non si minacciavano, eppure l’atmosfera che le circondava era un roboante vortice di pericolo. Per pura curiosità aprì il terzo occhio e fu sopraffatta dalla mefitica valanga di emozioni che turbinava intorno a quegli uomini; il verde rancido dell’avidità, il rosso cangiante della follia e della lussuria e il nero fumoso della ferocia le ferirono il cuore, minacciando di farla scoppiare in lacrime. Poi, come un raggio di sole che buca le nubi, un’onda di luce bianca la investì, riempiendola di calore e tristezza allo stesso tempo. Meliandra vi si aggrappò con tutte le sue forze, usandola come uno scudo per ignorare tutte le altre aure, e si lasciò condurre da essa verso il suo proprietario.
Proprio come la prima volta che lo aveva visto, Farin seduto ad un solitario tavolo in penombra, nel punto più isolato della stanza, con una caraffa d’acqua davanti. Non appena la vide le indicò la panca di fronte a sé. Lei si sedette.
«Sei in ritardo» esordì il giovane, scrutandola da capo a piedi con i gelidi occhi smeraldini. I capelli bianchi sembravano scintillare alla luce delle fiaccole.
«Mi sono persa al bivio sui canali di scolo» si scusò la principessa. Un sonoro gorgoglio seguì le sue parole.
«Hai fame?» Il mercenario sghignazzò, alzando il braccio per richiamare l’attenzione di un servo di passaggio. Ordinò dell’anatra al limone.
«Dove sei andato questa mattina?» chiese la maga. «Sei sparito lasciandomi solo un pugnale, una mappa e un messaggio.»
Un’ombra attraversò i lineamenti di Farin, rabbia, dolore e delusione. Strinse così forte i pugni che il cuoio dei guanti gemette. «Avevo un impegno.» Il tono con cui lo disse lasciava intendere che non avrebbe aggiunto altro, perciò Meliandra non insistette. «Tra quanto partiremo per la Valle?» chiese invece.
«Domani. A quanto sono riuscito a scoprire, stamane è partita una compagnia di soldati di ventura diretti a Kaol Kan. Per raggiungerlo dovranno percorrere il Sentiero delle Serpi, che per una fortuita coincidenza è anche la strada che dovremo percorrere noi. Se tutto va bene, le belve saranno spaventate dal trambusto e spariranno per qualche tempo. Noi li seguiremo a qualche miglio di distanza.»
«Non potremmo viaggiare con loro?»
«No. Nessuno si reca alla Valle Nera se può evitarlo. Se ci unissimo a loro farebbero domande, e spero di non dover essere io a spiegarti che meno persone sanno della nostra missione meglio è. Se la notizia giungesse alle orecchie sbagliate, specie qui, vicino alla capitale, ci ritroveremo su una forca prima del tramonto.»
L’anatra fu servita proprio in quel momento da un servetto dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini che si avvicinò a Farin come se temesse di essere sbranato. Il mercenario se ne accorse e sorrise, facendo frusciare Veheza nel fodero mentre la sguainava lentamente. Il giovinetto impallidì, si inchinò in fretta e furia e si defilò in un lampo.
«Devi per forza essere così antipatico?» lo rimproverò Meliandra. Lui sorrise – uno di quei rarissimi sorrisi sinceri che gli sfuggivano ogni tanto – e cominciò a spartire l’anatra.
Mentre aspettava, la principessa allungò la mano per afferrare la caraffa e riempirsi la tazza. L’acqua aveva una strana tonalità azzurrina, ma non ci diede peso. Appena prima di servirsi, si ricordò delle buone maniere e chiese il permesso. Il mago si strinse nelle spalle con indifferenza.
Meliandra bevve con gratitudine. L’acqua le scese dolce e fresca lungo la gola…e fu allora che si rese conto che quella non era per nulla acqua. Una vampa di calore le risalì dalle viscere alla bocca, incenerendo ogni cosa sul suo cammino. Tossì, sputando sul tavolo parte del liquore, e gli occhi presero a lacrimarle senza controllo. Inspirò bruscamente, nel tentativo di calmare il bruciore, ma si accorse di avere il fiato corto, mentre uno strano senso d’intorpidimento le invadeva i muscoli.
Farin alzò gli occhi al cielo, ostentando una smorfia annoiata, e le porse un fazzoletto per pulirsi le labbra.
«Cos’era quella roba?» ansimò la giovane, stringendosi la gola. Lo stomaco tornò a gorgogliarle, stranamente stuzzicato da quel veleno trasparente.
«Acquafiamma. Un infuso ricavato dalle rape e mescolato con svariate erbe. È un po’ forte per chi non è abituato ai liquori.»
«Avresti potuto avvertirmi, infame traditore» ringhiò lei. Poi afferrò il proprio piatto e cominciò a mangiare l’anatra, stando attenta che l’olio caldo che grondava dalla pelle dell’animale non le colasse sul mantello.
Silenziosamente divertito dal suo risentimento, Farin piluccò distrattamente il cibo, immerso nei propri pensieri, finché un urlo furibondo e un boccale scagliato contro il suo viso non lo distrassero. Il dardo improvvisato non lo sfiorò neppure, ovviamente, ma lo sguardo del mercenario saettò all’istante sul nuovo venuto.
Era un uomo alto e massiccio. L’armatura che indossava era logora e arrugginita, e la malconcia celata dell’elmo gli copriva il volto, lasciando fuoriuscire solo un ciuffo di capelli neri. Nel pugno guantato stringeva una spessa spada a due mani dalla lama sporca di grasso e sbeccata dall’uso.
Urlò qualcosa nella parlata strascicata degli ubriachi e si lanciò all’attacco. Meliandra non ebbe né il tempo di rendersi conto della reazione di Farin, né di pregarlo di essere clemente. Il mercenario agì come suo solito: con efficienza spietata e brutale; si mosse alla velocità di un lampo, rapido come un baleno. Il fendente dell’uomo attraverso l’aria con un sibilo, ma il giovane si gettò a terra, lasciandosela passare innocua sopra la testa, e rotolò alle spalle dell’avversario. Prima ancora di essersi risollevato, il suo pugno si abbatté di traverso sul ginocchio del nemico, spezzandoglielo con un tremendo schianto di ossa e metallo che fece stringere i denti alla principessa.
L’uomo cadde urlando come un forsennato, stavolta di dolore, e la spada gli cadde di mano, ruzzolando via.
Rialzandosi, Farin gli assestò un calcio nelle costole e tornò a sedersi senza degnarlo di ulteriore attenzione. Due servi si precipitarono verso il cavaliere e lo portarono via di peso.
«C-chi era?» domando Meliandra, scioccata. Il guerriero fece spallucce «Non ne ho idea. Forse gli ho ucciso un parente, non ricordo.»
«Che posto è questo Farin? Perché mi hai fatto venire qui?»
Il giovane ingollò un’abbondante sorsata di Acquafiamma, svuotando il boccale. «L’Impiccato è un luogo di ritrovo per mercenari e assassini di professione. Ci riuniamo qui per scambiarci informazioni l’un l’altro. La Valle Nera è un luogo strano, ragazzina, strano e pericoloso. Non è mai uguale, cambia continuamente, come per capriccio, quasi avesse una volontà propria. Le bestie che ci vivono sono temibili anche per una compagnia ben equipaggiata, e noi siamo da soli. Mi sono dovuto informare sulle sue attuali condizioni.»
Si sistemò più comodamente sulla panca. «Per quanto riguarda il farti venire qua, volevo vedere se ne saresti stata capace.»
«Cosa?»
Lo sguardo di Farin inchiodò il suo con una tale intensità da bloccarle il respiro in gola. «Principessa» disse, «d’ora in avanti entreremo nel vivo della tua missione. A quest’ora Alner avrà saputo dell’assalto alla biblioteca di Fresa. Se non è completamente idiota, impiegherà poco a capire cosa c’era in quel cassetto nascosto e avrà preso provvedimenti. Se davvero il re vuole trovare i Catalizzatori, noi e il libro rappresentiamo una minaccia non indifferente. Non posso proteggerti da tutto e tutti, anch’io ho i miei limiti, per quanto vasti, e se tu non sei neppure in grado di muoverti senza dare nell’occhio ci farai ammazzare. Chiaro?»
La sua espressione era così seria, così severa che Meliandra poté solo annuire. L’oca tutto ad un tratto sapeva di cenere.
«Partiremo domani al calar della sera e cavalcheremo per qualche miglio prima di accamparci. Uno dei miei fornitori mi ha procurato due buoni cavalli e delle provviste.»
La principessa annuì nuovamente, poi si ricordò di avere ancora il pugnale di Farin legato al fianco. Fece per restituirlo, ma lui rifiutò «Tienilo. Potrebbe servirti.»
Lei fissò per un lungo istante la lama e, pur sapendo che la risposta non le sarebbe piaciuta, non riuscì a trattenersi dal chiedere: «Farin, e…e se mi fossi fatta scoprire?»
Il mercenario gettò una manciata di monete di rame sul tavolo «In quel caso, nella migliore delle ipotesi saresti stata violentata e uccisa, e io mi starei cercando un nuovo lavoro. Ricordalo ragazzina, io sono la tua spada, non la tua balia.»
 
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                                                                    Regno di Ader. Confine Nord Orientale. Anno 1859  
 
Le ossa incrostate di sangue secco scricchiolavano sinistramente sotto i pesanti stivali di ferro del comandante Montgomery, responsabile della sicurezza del Passo dei Lupi.
Ho fallito, pensò osservando la piazza gremita di cadaveri. Anche dopo due giorni, molti dei morti giacevano ancora insepolti, dilaniati e smembrati. Erano anni che il vecchio soldato non provava una tale sensazione di disgusto e d’impotenza. Qualunque cosa avesse attaccato i suoi uomini era stata spietata. A gran parte dei cadaveri mancavano gli arti o erano stati sventrati in due come capretti, in alcuni casi entrambe le cose. Le loro interiora lordavano tuttora il suolo.
Le sue labbra, screpolate dal freddo intenso, si curvarono in una smorfia sofferente, spaccandosi a sangue. A cosa serviva un comandante che non riusciva a proteggere i propri uomini? A cosa serviva un lord incapace di difendere i propri domini?
Gli venne in mente il volto del giovane soldato che aveva sorpreso a letto con sua figlia. Come si chiamava? Mitchell? Owen? Non riusciva a ricordarlo. Avevano trovato il suo cadavere fuori dalle mura, trafitto da frecce avvelenate e col cranio spaccato dall’impatto con il terreno gelato.
Esper era scoppiata in lacrime quando l’aveva saputo. Forse si sentiva in colpa, forse lo amava davvero, chi poteva dirlo. Troppe donne avrebbero pianto in quei giorni, troppi padri, troppe madri. Trecento uomini perduti in una notte, trecento vite spezzate, trecento spade mancanti.
Mai come ora, il Passo dei Lupi era vulnerabile ad un assalto in forze, e i rinforzi dalla capitale non sarebbero arrivati prima di una settimana.
A passo lento, Montgomery s’incamminò verso il cancello principale. La pesante barriera di legno e acciaio era stata fusa da una sorta di potentissimo acido, il buco era così grande che potevano passarci due uomini affiancati, ma i suoi mastri costruttori spergiuravano di poterla riparare. Finora, il massimo che erano riusciti a fare era stato tapparlo per impedire ai lupi di entrare.
Un corvo calò in picchiata su un cadavere e cominciò a beccargli gli occhi. Un soldato di passaggio lo uccise con una freccia.
Il lord sospirò e diede ordine di accelerare le operazioni di sgombero dei corpi: i mangia carogne cominciavano a farsi più audaci, spronati dall’odore del sangue e della carne.
In lontananza si levò il suono di un corno. Il richiamo riverberò per le gole del Passo, e qua e là si staccarono pezzi di ghiaccio e cumuli di neve fresca.
Il comandante s’irrigidì e mise mano alla spada che portava al fianco, in attesa. Quella mattina aveva inviato una squadra di esploratori a perlustrare il valico, in modo da individuare eventuali aggressori. Un solo segnale voleva dire “campo sgombro”, due una pattuglia, tre un esercito.
L’eco del primo suono non si era ancora estinto, che un secondo lo seguì.
Montgomery imprecò, sguainando l’arma. Per fortuna quel giorno era uscito dalla caserma indossando l’armatura. «Alle armi!» urlò. La sua voce possente, allenata dal comando, raggiunse ogni angolo della piazza. «Fanteria, prepararsi al confronto. Arcieri, sui camminamenti. Voglio che quei cani non riescano a vedere il sole.»
I suoi uomini obbedirono all’istante, quasi ottocento soldati corsero ad indossare corazze, schinieri ed elmi, ad affilare spade e ad accumulare dardi. In pochi, sferraglianti minuti davanti al cancello principale era ammassata una forza sufficiente a respingere un modesto assalto. Le pareti superiori del Passo erano gremite di arcieri e balestrieri, che da quella posizione potevano abbattere un uomo a circa centottanta piedi di distanza.
Le truppe nemiche impiegarono poco a comparire all’orizzonte, vestite con le stesse armature imbottite che usavano i difensori del valico per impedire al gelo di saldare il metallo alla carne. Purtroppo per loro, le loriche che avrebbero dovuto difendere il petto e la schiena erano più sottili e fragili di quelle normali, e la sola cotta di maglia non era in grado di arrestare una freccia a breve distanza. Per ovviare a questo problema portavano scudi larghi e spessi, ma il loro peso li avrebbe svantaggiati durante i combattimenti.
«Incoccare» urlò Montgomery, sovrastando il clamore del campo. Gli arcieri presero gli strali dalle proprie faretre. Il comandante attese che i bersagli fossero a duecentocinquanta piedi, poi ordinò: «Mirare. Tendere.» Gli archi furono tesi e i difensori scrutarono il nemico, valutando la traiettoria del tiro.
Le prime fila degli invasori notarono i preparativi, esitarono, dopo di che sollevarono gli scudi e ripresero ad avanzare, spinti dai compagni alle proprie spalle. Vogliono portarci allo scontro fisico, costatò l’ufficiale con un sorriso tetro. Beh, sognare non costa nulla. «Scoccare!» Trecento dardi si levarono in cielo all’unisono, precipitando come un’unica, compatta massa di acciaio sibilante.
Gli scudi di legno fecero il loro dovere, ma anche così le vittime nell’avanguardia furono numerose. I loro corpi intralciarono i commilitoni, rallentandoli e rendendoli più vulnerabili alla salva che cadde loro addosso. Ben prima di essere a cento piedi dalle mura, l’ala sinistra del loro schieramento era scomparsa, e il centro era ridotto ad uno sparuto gruppo di testuggini crivellate di colpi. L’ala destra era in condizioni migliori, tuttavia, anche così, non superavano le duecento unità.
Quando giunsero a cinquanta piedi, Montgomery ordinò ai suoi di sterminare i superstiti, catturando chiunque si fosse arreso di sua spontanea volontà.
Avanzò in testa alla colonna, mulinando la spada con consumata abilità. La sua lama si aprì facilmente la strada nella gorgiera di un fante, un fiotto cremisi sgorgò dallo squarcio, lordando il metallo di sangue. Il cadavere non aveva ancora toccato terra che il vecchio soldato si era già avventato su un altro uomo. Le loro spade cozzarono l’una contro l’altra per cinque volte prima che una freccia vagante sfiorasse la guancia di Montgomery e si conficcasse nell’occhio del suo avversario, sprofondando fino a metà dell’asta. Il secondo uomo che uccise di suo pugno usava un pesante spadone a due mani. Calò un fendente trasversale mirato alla sua spalla destra, ma il comandante era troppo esperto per farsi colpire da un attacco così goffo.
Spiccò un balzo all’indietro, lasciando che la punta dell’arma nemica gli sfiorasse il pettorale, poi mosse il braccio ad arco e gli trafisse il fianco nel punto in cui la corazza era più sottile. Impresse una rotazione per aggravare la ferita e strappò con forza la lama dalla carne.
Alla fine di quella scaramuccia, venti dei suoi erano morti, tuttavia avevano catturato sei persone, di cui due erano ufficiali. Impugnò personalmente i ferri da interrogatorio.
 
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                                                                                         Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
Lo stilo acuminato di Alner incise con cura la morbida pelle su cui stava lavorando. Rune sottili ed antiche, dimenticate dal mondo, cariche di un potere perduto che lui aveva riportato alla luce secoli prima dalle cripte del palazzo.
Una leggera sbavatura di sangue fresco rovinava la composizione sulla spalla destra, così lo ripulì con un panno imbevuto nell’aceto. Il suo esperimento emise un debole lamento, segno che la pozione soporifera che le aveva somministrato stava cominciando a perdere effetto. A breve avrebbe dovuto riportarla in cella, ma per sicurezza la avvolse in un potente incantesimo di paralisi.
Oren scivolò nella stanza, silenzioso come nebbia ed altrettanto sfuggente. Aveva un bell’aspetto ora che aveva ripreso a mangiare regolarmente, i muscoli erano tornati tonici come un tempo, gli occhi dorati erano tornati al fulgore che avevano un millennio prima. I capelli erano di un argento più scuro di quanto ricordasse, ma in fondo non aveva importanza.
L’antico demone s’inchinò rispettosamente, attendendo il permesso di parlare. Il sovrano glielo concesse con un’unica domanda: «Dunque?»
«La pattuglia che avete inviato al Passo dei Lupi è stata sterminata come previsto. Attraverso lo sguardo dei Marchiati ho potuto valutare che le forze nemiche di stanza al forte non superano le mille unità. Non ho percepito la presenza di maghi o guaritori. Probabilmente dalla capitale invieranno delle truppe di rinforzo, ma per ora sono alquanto sguarniti.»
«Rammento bene il Passo dei Lupi. Già quand’ero ancora umano quel buco schifoso era maledettamente difficile da espugnare. Mille uomini possono bloccarne cinquantamila lassù.»
«Ma sire A…Alner» gli risultava ancora strano chiamarlo con quel nome, dopo che per quasi vent’anni ne aveva usato un altro, «perché assaltarlo allora? Potevamo far passare le truppe sul Ponte dell’Abisso e poi sfondare per le città limitrofe, oppure attraversare le Grandi Pianure e mirare direttamente alla capitale, anche se in quel caso avremmo dovuto affrontare in campo aperto la cavalleria di Ader, che è di gran lunga superiore alla nostra.»
Alner sorrise e agitò lo stilo, facendo cadere piccole gocce di sangue sul pavimento di marmo scuro. «Quegli uomini erano solo un diversivo.» Indicò la bambina stesa sul tavolo. «Mi occorre ancora del tempo perché la ragazzina sia pronta, e non posso richiamare l’Orda prima dell’eclissi, quindi ho bisogno di tenerli occupati con qualcosa di grosso. E cosa c’è di meglio che attaccarli dove credono di essere più forti?» Lo fissò con i penetranti occhi neri, lucide gemme di tenebra profonde come gli Inferi. «Per te ho un altro incarico. I discendenti di Gar e Lena sono nel mio regno. Sono ancora troppo debole in questo corpo mortale per rintracciarli con precisione, ma sento il puzzo della loro presenza, un lezzo flebile ma persistente. Trovali e uccidili. Puoi usare qualsiasi mezzo, incluso il Sindrai Rakr Lath.»
Oren annuì, e senza aggiungere altro svanì in un soffio, troppo veloce perché l’occhio potesse scorgerlo.
Non mi intralcerai stavolta Gar, né tu né quel tuo maledetto drago. Lo stilo affondò con rabbia, disegnando una runa crudele e slabbrata, latrice di odio e morte. La bambina urlò, cercando di contorcersi, ma l’incantesimo con cui il re la teneva avvinta era troppo potente, e la bloccava in una presa ferrea. Poteva solo piangere e pregare, anche se ormai aveva esaurito sia le lacrime che la fede; se c’erano degli dei, di certo non l’avrebbero ascoltata.
Riponendo lo strumento aguzzo, il re prese una caraffa di acqua e aceto, la riscaldò con la magia e la rovesciò sulle ferite della piccola. Poi, stiracchiandosi, chiamò un servitore che la riportasse in cella e un altro per farsi preparare la cena. Entrambi entrarono nel laboratorio muti e silenziosi, col capo chino e gli occhi bassi, palesemente disgustati dalle condizioni della bambina ma troppo spaventati per darlo a vedere. Nell’osservarli, il volto di Alner rimase impassibile, ma la creatura dentro di lui sorrise: quanto gli piaceva essere di nuovo un re.




Ehm...cough, cough. Salve! =) Si, sono ancora vivo. Cominciavate a dubitarne, nevvero? E invece no, è solo che tra le guide per la patente, i compiti, il computer che ogni tanto decide di morire e poi resuscita di sua sponte e la mia preside/reincarnazione di Hitler intenzionata a trasformare il mio liceo nel quarto reich non ho avuto proprio tempo per scrivere il capitolo in cartaceo e digitalizzarlo. Col prossimo non dovrei metterci tutto sto tempo (le ultime parole famose), anche perchè in ogni caso è già in cantiere.
Detto ciò, vi ringrazio per la pazienza che avete dimostrato non fanculizzandomi dalle vostre liste dopo il terzo mese di assenza e vi saluto.
Sayonaraaaaa

  
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