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Autore: HamletRedDiablo    21/11/2012    3 recensioni
Al primo anno di Hogwarts, Albus Severus Potter aveva sperato in una tranquilla vita scolastica.
Al quarto anno, la sua utopia si era incrinata. Al settimo, era crollata definitivamente.
Ognuno sarà chiamato a combattere per evitare il definitivo crollo dei pilastri del mondo magico. Chi per riscattare il nome del casato, chi per non disonorare la famiglia, chi per dare prova del proprio coraggio: mille bacchette si leveranno sotto un unico simbolo.
Tuttavia...
"Non era necessario cercare nemici epocali per finire invischiati in un mare di guai. Bastava innamorarsi."
[AlbusScorpius, RoseNuovoPersonaggio]
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Albus Severus Potter/Scorpius Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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3

Magia Orientale

 

 

 

   «Tu e Albus avete litigato?»

   Scorpius interruppe i preparativi mattutini per fissare Macauley con fare interrogativo.

   «Non che io sappia» arginò.

   Nott si strinse nelle spalle, allacciando gli elastici della mascherina.

   «Di solito vi scambiate i microbi tutto il tempo…» Scorpius lo incenerì, tra il disgustato e l’offeso, e Macauley chiarì: «Siete sempre vicini, respirate la stessa aria, consumate lo stesso spazio: praticamente vivete in tandem

   Le dita di Scorpius terminarono di annodare la cravatta verde e argento, mentre le meningi lavoravano su quella nuova questione. Ciò che gli aveva appena fatto notare Nott non era sbagliato: ultimamente Albus sembrava imbarazzato in sua presenza, quasi temesse di disturbarlo semplicemente sbattendo le ciglia. Ed erano almeno tre settimane che non saliva nel suo letto per le loro chiacchierate notturne.

Si mise a sedere sul materasso e cominciò ad allacciare le scarpe. Che cosa era cambiato, in quel lasso di tempo?

La sua media scolastica non aveva subito grandi variazioni, e comunque dubitava che il malessere timido di Albus fosse collegato ad una questione di voti. Durante gli allentamenti di Quidditch non si erano registrati cambiamenti sostanziali: Albus era sempre il loro Cercatore, e Scorpius il Battitore. Non aveva litigato con Rose, quindi non era nemmeno un impaccio dovuto a guerre intestine al loro piccolo gruppo.

Le mani si congelarono sulle stringhe quando i suoi ragionamenti approdarono ad una conclusione: l’unico evento saliente delle ultime settimane era stata Margaret, la Gryffindor che ora era la sua ragazza.

   «Macauley» sondò, perplesso. «Albus aveva una cotta per Margaret?»

   «Non che io sappia» lo scimmiottò Nott.

   Scorpius trattenne il respiro come se gli avessero passato un cubetto di ghiaccio sulla schiena e replicò in un sibilo:

   «Macauley, ti hanno mai detto che dovresti fare teatro? Hai un talento spiccato per il melodramma.»

I capelli di Nott, vaporosi per l’accurato lavaggio, scintillarono sotto la luce della lampada quando il ragazzo voltò la testa.

   «Ti darò tre ottimi motivi per evitare il teatro» un indice avvolto dal lattice svettò nell’aria: «Primo: quinte polverose. Secondo: spogliatoi in comune. Terzo: costumi di seconda mano, quindi dove degli estranei hanno sudato

   «Anche nel Quidditch abbiamo gli spogliatoi in comune» gli fece presente Scorpius.

   «Ed è esattamente per questo motivo che non mi avvicino a meno di due metri da voi finché non vi siete fatti una bella doccia bollente» flautò serafico e sarcastico Nott. «E rinnovo il mio invito ad usare un bagnoschiuma a base di acido muriatico, in quelle occasioni.»

   «Ci scioglierebbe la pelle.»

   «Ma le vostre ossa sarebbero splendenti e disinfettate.»

Scorpius scosse la chioma bionda, arrendendosi alla crociata igienista dell’amico.

Il Cercapersone di Nott lanciò il suo grido di battaglia – “ogni microbo risparmiato oggi diventerà un’epidemia domani!” – e si slanciò verso il padrone, che lo sollevò da terra con due sole dita, quasi fosse ricoperto di fango: ogni suo oggetto personale era perfettamente sterilizzato, ma quell’ordigno elettronico aveva appena corso una maratona sul pavimento, ed era quindi infetto. Scorpius approfittò di quella momentanea distrazione per guadagnare la porta.

   «Vado a cercare Albus» annunciò sbrigativo.

   «Credo che Albus stia cercando noi» lo mitragliò Nott.

Non fu tanto la replica dell’amico quanto il mezzo sisma del cassetto a farlo tornare sui suoi passi: Scorpius aveva dimenticato il suo Cercapersone dentro il comodino, e quella bestiola metallica stava ammattendo per riuscire ad aprire uno spiraglio da cui scappare. Il suo proprietario mise fine a quel  supplizio estraendola dal cassetto.

   «E credo che sia urgente» decorò Macauley, alzandosi per cercare il “kit di igiene istantanea”: dopo la lotta rocambolesca del primo anno, aveva preparato un piccolo marsupio per tutte le evenienze.

Scorpius non avrebbe usato le stesse parole dell’amico per descrivere la situazione, né il medesimo tono tra il pacifico e il rassegnato. Il messaggio che Albus gli aveva appena inviato si componeva di un’unica, terribile parola: aiuto!

   «Qual era la formula per rintracciare le persone?»

   «GPS.»

   Nott rispose con calma e freddezza alla sollecitazione dell’amico.

   «Come hai detto?» domandò Scorpius, disorientato.

   «GPS» scandì Macauley, indicando il Cercapersone. «Questi affari sono dotati di un dispositivo satellitare. In altre parole, puoi trovare chiunque, in qualunque momento» aggrottò la fronte, scontento dell’espressione smarrita del compagno: «L’ho sempre detto che vivi in una famiglia troppo antiquata.»

   «Siamo sostenitori della magia nella sua forma più alta» si difese Scorpius, lievemente inacidito.

   «Ma ogni tanto la tecnologia aiuta» minimizzò Nott, utilizzando lo stilo ipoallergenico per digitare una combinazione di tasti sul Cercapersone. «E ora andiamo a vedere in che guaio si è cacciato Albus.»

Scorpius cedette qualunque possibile reticenza, e seguì il collega fuori dalla stanza.

La Natura aveva creato uno dei suoi più grandi misteri con Macauley Nott: una persona che riusciva a gestire con freddezza un messaggio disperato da parte di un amico e che perdeva controllo e dignità alla vista di un germe solitario.

Decisamente inspiegabile.

 

***

 

   «Valentine?»

Louis fissò il suo tutore, sconcertato. Il Gryffindor non aveva mai addolcito l’aria scontenta con cui affrontava quelle ripetizioni: si sedeva con uno sbuffo, spiegava in modo chiaro ma incolore e lo scrutava svogliato mentre riempiva intere pagine di appunti ed esercizi. I suoi voti erano sensibilmente migliorati, ma avrebbe gradito una partecipazione maggiore da parte del suo personal trainer, come lo chiamavano i suoi compagni di corso.

Tuttavia, per quanto Valentine potesse essere abrasivo, non era mai arrivato ad una maleducazione simile: Louis gli stava ponendo una domanda, e all’improvviso il giovane aveva voltato il capo riccioluto e si era messo in ascolto dell’aria.

   «Valentine!» lo richiamò una seconda volta, spazientito.

   Il Gryffindor spostò lo sguardo assente su di lui, e gli occorsero alcuni secondi per rischiararlo dalla torbida vacuità che si era impossessata delle iridi scure.

Louis arricciò le labbra, una colorita ramanzina scalpitante sulla lingua: era solo un povero, piccolo studente del primo anno, ma meritava comunque un minimo di rispetto. Probabilmente Valentine non avrebbe capito una sola parola della sua invettiva, perché Louis, quando si infuriava, tendeva a strillare con tonalità eccessivamente acute e turbate dall’accento nasale ereditato dalla madre, ma gli avrebbe dato comunque soddisfazione sgridare il suo tutore.

Aveva appena preso fiato per cominciare quando Valentine ordinò:

   «Vai sotto il tavolo.»

   Louis batté le palpebre sugli occhi acquamarina, disorientato come una persona che ha appena visto una gelatina di palude esibirsi in un balletto classico. Non ebbe tempo di dissipare la sua confusione che essa crebbe a livelli esponenziali: Valentine ringhiò qualcosa di incomprensibile e si lanciò su di lui, ficcandolo a forza sotto il tavolo e avvolgendolo con il proprio corpo. Le labbra di Louis boccheggiarono di nuovo, inaridite dallo stordimento, e si spalancarono in un grido non appena un rombo sordo percosse tutte le mura dell’edificio, facendo tremare l’intera stanza. Louis ebbe l’impressione di trovarsi in un enorme scatolone scosso da un gigante, e si rifugiò istintivamente nella stretta del tutore.

Valentine gli coprì la testa con le mani quando le finestre della sala di lettura improvvisamente esplosero, scagliando ovunque pericolose schegge di vetro.

Nella biblioteca regnarono alcuni minuti di caos totale: sedie rovesciate, rumore di studenti gettatisi sotto i tavoli e urla strozzate, il sibilo dei frammenti delle finestre, libri che si schiantavano al suolo e quel costante rombato di sottofondo che scuoteva tutto il palazzo.

   Una formula recitata da una voce femminile pose fine a quel delirio: i vetri rotti si immobilizzarono e fluttuarono a terra con grazia, gli scaffali e le mura tornarono solidi e fermi, e dopo qualche secondo alcune teste esitanti spuntarono dai tavoli.

La signorina Eeriemay troneggiava al centro della stanza, la crocchia sulla nuca scomposta per via della corsa precipitosa con cui aveva raggiunto la biblioteca e le labbra schiuse per il fiato ingrossato dallo sforzo. Una mano reggeva le scarpe con il tacco, vezzosità femminile cui aveva rinunciato per soccorrere i suoi studenti più agevolmente, e l’altra sfoderava la bacchetta con cui aveva sedato quello sfacelo.

   «Avete degli ottimi riflessi, ragazzi» si complimentò in un ansito affaticato.

   «Cos’è stato?» soffiò a stento Louis, la bocca e le gambe semiparalizzate dallo spavento.

   «Niente di buono» mormorò Valentine, lasciando la presa su di lui.

   La Eeriemay incrociò il suo sguardo, ed entrambi annuirono impercettibilmente nel tempo di un battito di ciglia.

   «Valentine, ti affido questi studenti: porta i feriti in infermeria e chiama il custode per ripulire questo macello» comandò rapida la donna, uscendo senza infilare i tacchi: aveva ancora molte scale e molti corridoi da percorrere.

Il ragazzo fu lesto a rispondere all’appello della professoressa: aiutò gli allievi ad uscire dai loro rifugi improvvisati, analizzò velocemente le condizioni di ognuno e radunò un gruppetto da condurre in infermeria.

Louis, sebbene non si fosse ferito in alcun modo, seguì ugualmente Valentine lungo le scalinate che conducevano al reame di Madamina, come avevano soprannominato l’erede di Madama Chips. Valentine lo aveva mascherato con l’ampia giacca rosso mattone della sua Casa, ma Louis se ne era accorto ugualmente quando l’aveva abbracciato in preda al panico, e aveva sentito una sostanza viscosa bagnargli le mani: il giovane si era ferito alla schiena.

Assistere alle sue cure era il minimo che potesse fare per quello zotico che lo aveva appena salvato.

 

***

 

   «Senza offesa, ma non eccelli negli incantesimi.»

   «Non sono offeso, Weasley-san.»

   «Offenditi, invece. Ti sto insultando.»

   «Non sono comunque offeso, Weasley-san.»

  «Come studente sei assolutamente mediocre. Per me è un mistero come tu sia riuscito ad ottenere quella borsa di studio.»

   «Non dovevi prendere le mie parole un incoraggiamento ad aumentare la dose, Weasley-san.»

   «Per cui non credo che abbandonare a metà la lezione di Incantesimi sia stata una buona idea. Anzi, è stata una trovata del tutto idiota

   «Tu invece puoi permetterti di perdere delle lezioni perché sei un’ottima maga, Weasley-san.»

   «Perdo una lezione perché il mio compagno di Incantesimi mi ha piantata in asso a metà! E smetti di chiamarmi Weasley-san, Harunobu

   L’ultima stoccata fu quella decisiva per arrestare il giapponese.

Durante l’addestramento di sortilegi in coppia, Haru aveva improvvisamente sollevato il viso, come un segugio che fiuta la pista, dopodiché si era precipitato fuori dall’aula, non prima di aver porto le sue più sentite scuse all’insegnante con tanto di inchino. Rose, rimasta senza compagno, non aveva potuto fare altro che seguirlo nella sua assurda corsa, senza negarsi il piacere di ingiuriarlo in tutti i modi possibili.

Il sopracciglio sinistro di Haru si inalberò verso l’alto nell’appuntarsi sulla figura scomposta della giovane: i capelli increspati erano sfuggiti in buona parte all’elastico e ricadevano sul volto accaldato, da cui lo fissavano due infuriati occhi nocciola.

   «Non potevo rimanere in aula» terminò lui, dandole le spalle.

   «Perché?» insistette lei. «Non avevi un Diavolo della Lava alle calcagna.»

Rose si reputava una persona mediamente paziente: non faceva mistero delle proprie simpatie o antipatie, ma erano rari i casi in cui si dimostrasse realmente villana. Quella volta, però, non riuscì a trattenersi: afferrò lo studente nipponico per un braccio costringendolo a voltarsi. La manovra fu così brusca che il ragazzo batté la nuca contro la parete, ma Rose non vi badò e lo investì con le domande che le ribollivano nella testa da quando aveva conosciuto quell’indecifrabile straniero:

   «Sei qui da due mesi, e non sappiamo niente di te. Nessuno sa niente di te. Non sappiamo niente dei tuoi genitori, della tua famiglia, dei tuoi amici. Eri morto prima di arrivare qui, per caso?»

   «Sono una persona riservata…» si discolpò Haru, ma non servì a placare il fuoco della giovane:

   «No, tu sei ermeticamente sigillato in te stesso! Non ti è mai sfuggita una singola parola, e quando parli con gli altri non fai che rigirare i loro discorsi in modo da non rivelare niente di te. Di cosa hai così paura? Credi che saremmo pronti a pugnalarti alle spalle?»

Rose quasi si morse le labbra per quell’ultima invettiva: il lampo ferito che attraversò le iridi di onice del giovane la fece pentire dell’infelice scelta di vocaboli.

   «Succede molto più spesso di quanto si possa pensare» sorvolò Haru, la solita compostezza appena intaccata da un alone malinconico. «Vuoi conoscere qualcosa di me, Weasley-san? Allora seguimi.»

Il giapponese le negò di nuovo la sua attenzione e squadrò il soffitto, apparentemente assorto. Frugò con una mano nelle tasche e ne estrasse un finissimo rettangolo di quella che si rivelò essere carta di riso. Sussurrò qualcosa sulla punta della sua bacchetta, che si colorò di nero, e con quella vergò uno strano ideogramma sul foglio.

Rose osservò con meraviglia il foglietto che si scuoteva a mezz’aria e che cominciava a piegarsi da solo, frenetico ma preciso, fino ad assumere la forma di una piccola gru. L’uccello di carta batté un paio di volte le ali, poi partì spedito verso una destinazione nota solo a lui. I due giovani si affrettarono a seguirlo.

   «Cos’era quello?» sbuffò Rose, correndo al massimo delle sue forze.

   «Un origami cercatore» spiegò Haru. «È una delle magie di base orientali.»

   Un occhio di pece la fissò da sopra la spalla, mondato da qualunque ombra di derisione o superiorità.

   «Hai detto che non sono bravo con gli incantesimi occidentali, Weasley-san. Infatti, la mia specialità è un’altra. Tra poco la vedrai.»

 

***

 

   Albus inalberò la sciarpa contro il freddo dicembrino, e innalzò l’orlo del cappotto fino alle orecchie.

Quel pomeriggio si sarebbero congelati durante gli allenamenti di Quidditch; forse Bartold gli avrebbe concesso di finire prima, se il meteo si fosse rivelato troppo ostico.

Fece mentalmente l’inventario dei capi invernali presenti nel suo armadio mentre percorreva il sentiero che lo avrebbe riportato a scuola.

Hagrid non era più giovane come una volta, e nelle giornate umide come quella le sue vecchie ossa cigolavano. Albus aveva preso l’abitudine di recarsi a casa sua prima dell’inizio delle lezioni per aiutarlo a prepararsi un the bollente da bere a colazione e un altro da mettere in un thermos e che il gigantesco guardiacaccia avrebbe consumato nel corso della giornata.

Era molto affezionato ad Hagrid, che trattava alla stregua di uno zio, e quello era il suo modo per dimostrarglielo; il guardiacaccia aveva provato quanto tenesse a lui mascherando alcune marachelle del gruppo di Albus negli anni precedenti.

Alitò sui guanti di lana con i colori della sua Casa, sfregando i palmi tra di loro. Il profilo della scuola si stagliava indistinto nella bruma della mattina, e Albus soffiò una nuvoletta di fiato condensato.

L’inverno stava raggiungendo il proprio cuore: si stendevano davanti a lui almeno altri due mesi di freddo gelido, passati a tremare per gli spifferi e a cercare ristoro in un bagno bollente.

Si consolò pensando che Natale era vicino, e con esso le vacanze e i festeggiamenti per l’anno nuovo. Avrebbe dovuto scegliere un giorno per vagabondare per i negozi assieme ai suoi amici, e si sarebbe ripetuta la scena di tutti gli anni in cui ogni tanto qualcuno strillava a qualcun altro di voltarsi per comprare il regalo senza essere visto dal diretto interessato.

Si bloccò di colpo, folgorato da un altro pensiero. Forse Scorpius avrebbe portato anche Margaret.

Quella ragazza non suscitava la sua simpatia, e nemmeno il suo risentimento; era semplicemente un pezzo stonato nel puzzle formato dal loro gruppetto. Pensare che sarebbe stata presente anche lei al loro rituale natalizio – che probabilmente avrebbe tenuto Scorpius per mano tutto il tempo, e forse avrebbe fatto quei versetti scemi che aveva visto fare dalle ragazze in fase di corteggiamento – gli procurava la sensazione fastidiosa di una carezza contropelo.

Stava per emettere un sonoro sbuffo, ma una figura intravista nella caligine acquosa gli fece morire il respiro in gola.

   La foschia su cui si stagliavano le ombre degli alberi rendeva l’atmosfera simile ai boschi spettrali di alcune storie dell’orrore, e Albus attribuì a quell’ambientazione lugubre il primo brivido che gli percorse la schiena.

L’uomo sfocato di fronte a lui non sembrava risentire del gelo invernale: i suoi abiti parevano più leggeri della nebbia che lo attorniava, eppure non era scosso nemmeno dal più piccolo fremito. Le maniche ampie e lo scollo sovrapposto gli ricordarono i vestiti di Haru, ma quelli dello sconosciuto erano più scuri e funerei, lo stesso colore degli stracci dei Dissennatori. Inoltre, il loro compagno indossava sempre i jeans sotto le sue particolari maglie; l’abito di quell’uomo, invece, cadeva dritto fino a terra, lasciando scoperti un paio di sandali di corda del tutto inadatti a sopportare l’aria da neve di quel giorno.

Albus stava per riprendere la sua strada quando l’individuo sollevò un braccio. Fino a quel momento aveva tenuto le mani nascoste nelle larghe maniche del suo vestito, e il giovane desiderò che avesse continuato a farlo: le dita che ne emersero erano ossute e nodose come se una sanguisuga le avesse spolpate di tutta la carne, lasciando solo una patina di pelle sull’osso.

Mosse un passo all’indietro, ed un ramo scricchiolò sotto la suola dei suoi scarponi.

L’uomo ruotò la testa a scatti fino a comprendere il tremante Slytherin nel suo campo visivo. Albus impugnò istintivamente la bacchetta quando il ghigno dell’individuo fendette la nebbia. Il sinistro sconosciuto non smise di sorridere in quel modo perverso nemmeno quando chiuse la mano a pugno, in una strana malia che fece deflagrare i vetri della biblioteca.

Lo spavento piegò le ginocchia ad Albus e gli sbarrò gli occhi, ma non sortì alcun effetto sull’uomo, che infilò nuovamente il braccio nella manica come se nulla fosse successo.

Lo sconosciuto rialzò il viso su di lui, e Albus dovette ingoiare il suo stesso grido. Aveva capito cosa lo avesse agghiacciato di quell’essere, ancor prima di metterlo a fuoco: i suoi capelli assomigliavano a serpenti di catrame, divisi in corpose ciocche che scendevano fino al petto, e il loro colore tenebroso risaltava ancora di più la pelle, talmente diafana da apparire azzurra, e gli occhi in cui il bianco della cornea si era espanso fino a comprendere iride e pupilla, creando un orribile specchio cieco.

   «Tu… conosci… Harunobu?»

Albus non riuscì a rispondere, troppo traumatizzato dall’aver sentito parlare una creatura che aveva l’aspetto di un cadavere.

L’uomo si avvicinò di qualche passo, lasciando dietro di sé una scia di orme: qualunque cosa fosse, era reale.

La mano di Albus rintracciò febbrilmente il Cercapersone nella tasca del cappotto e premette il tasto laterale, quello delle emergenze: un messaggio di allarme rosso sarebbe stato immediatamente inviato ai suoi amici.

   «Tu… conosci… Harunobu?»

   Le labbra livide dell’uomo faticavano ad articolare le parole, quasi dovessero costruirle una ad una con enorme fatica. L’inglese non era la sua lingua madre, come era ovvio dai suoi vestiti.

Le sopracciglia dell’individuo si congiunsero per esprimere rincrescimento e, un secondo dopo, Albus poté vederle da una distanza molto ravvicinata: senza emettere un suono, senza spostare un filo d’aria, lo sconosciuto si era improvvisamente accostato a lui.

   «Tu… conosci Harunobu?» sillabò irritato.

   La gola si rifiutò di collaborare, e Albus non poté fare altro che annuire, augurandosi che quelle pupille morte lo vedessero. Così fu, e una delizia scellerata stese i lineamenti dell’uomo.

   «Dove… è… adesso?» scandì, dopo essersi umettato le labbra.

   «Non lo so…» esalò Albus, terrorizzato.

   «Tu… hai detto… di conoscerlo…» si sforzò di dire l’altro, gli occhi vuoti di nuovo ribollenti di collera.

   «Non so dove sia…»

   «Tu hai…»

   Albus nemmeno si accorse di quello che stava facendo; la sua mano sgusciò fuori dalla tasca, puntò la bacchetta dritta al petto dell’uomo e la sua bocca strillò:

   «Stupeficium

   Non aspettò nemmeno di vedere l’effetto del suo incantesimo; sentì il corpo dell’altro allontanarsi con uno schianto, e le sue gambe presero a correre più furiosamente che mai.

Il portone di Hogwarts non era lontano: sarebbero bastati pochi minuti per raggiungerlo.

Il respiro affannato si condensava in una scia di nuvolette dalla sua bocca, che all’improvviso si interruppero contro qualcosa di compatto e tiepido. Ancora prigioniero nella rete del panico, Albus si dibatté forsennatamente per liberarsi di quell’impiccio sul suo cammino: la creatura d’oltretomba poteva avventarsi su di lui da un momento all’altro.

   «Siamo noi!»

   Una voce ripeté quella frase per quattro volte prima che Albus riuscisse finalmente a recepirla. Il giovane batté le palpebre per liberarsi della paura che gli impediva di vedere con correttezza la realtà, e si accorse finalmente di aver sbattuto contro a Scorpius e Nott, giunti fin lì in risposta al suo messaggio.

Si sentì travolgere da un sollievo totale, che traboccò dal suo cuore e invase tutto lo spazio circostante, e avrebbe probabilmente abbracciato i suoi amici fino a spezzare le loro spine dorsali se il terrore di poc’anzi non fosse stato così radicato in lui.

   «Dobbiamo andarcene!» si agitò, spingendoli verso la scuola. «C’è un uomo…»

Macauley lanciò uno strillo convulso e puntò un indice tremante verso di lui tartagliando, allucinato:

   «Hai… hai un lombrico… sulla spalla…»

   Albus fece appena in tempo a guardare nel punto indicato da Nott che Scorpius notò in un sibilo atterrito:

   «Non sarà quello il tuo maggiore problema…»

Scorpius rimase freddato sul posto, e Albus era ormai troppo sconvolto per avere una qualsiasi reazione; Macauley invece si esibì in una sequela di squittii disgustati e di saltelli atletici per evitare lo schifo che si stava radunando attorno a loro.

Vermi e insetti di ogni specie, forma e colore avevano stretto un orribile cerchio semovente, intrappolandoli con i loro orridi corpi. Non erano normali artropodi: la loro sagoma ricordava quelli che anche i ragazzi conoscevano da una vita, ma vi era sempre un dettaglio sbagliato, che fosse la tonalità, la grandezza o la bellicosità dimostrata dalle loro tenaglie frementi.

   Albus non perse tempo e fece scattare la bacchetta davanti alle labbra: il terrore aveva raggiunto il punto di saturazione, lasciando dietro di sé una mente spaventosamente fredda e tremendamente bisognosa di una via di fuga.

   «Focaia» recitò, soffiando sulla punta. Quella era una delle tante magie che non avrebbero dovuto conoscere, e che loro avevano imparato durante la lotta per la sopravvivenza con Achill Scholz: un fungo di fuoco si gonfiò dall’apice della verga e investì una schiera di invertebrati, carbonizzandoli all’istante.

Non vi fu bisogno di parole: tutti e tre imboccarono quella strada di fortuna alla massima velocità, ma dovettero frenare poco dopo.

Muto come uno spettro, il misterioso uomo si era materializzato davanti a loro. Osservò la devastazione dell’esercito degli insetti, e il collo stridette come se le ossa e i muscoli fossero da tempo in disuso.

   «I miei… servi» barbugliò, in compianto per la sua truppa sacrificata. Il lutto lo abbandonò presto: rizzò il capo e ripeté, per l’ennesima volta: «Dove… è Harunobu?»

   «Io… io lo strozzo, quando lo vedo!» esacerbò isterico Macauley. Aveva una reazione di rigetto verso tutte le cose che riguardavano il giapponese, ma l’essere accerchiato da un esercito di artropodi e minacciato da un tizio fresco di tomba per causa sua gli fece odiare lo studente straniero con tutte le sue forze.

   «Non lo sappiamo» prese la parola Scorpius, seguendo l’esempio di Albus e stendendo la bacchetta davanti a sé.

   «Voi… siete… di Hogwarts» brancolò l’uomo.

   «Non siamo informati di tutti i suoi spostamenti» ribatté Scorpius.

L’individuo lanciò un grido così bestiale da annullare tutti i loro pensieri e le loro reazioni; per questo Scorpius non riuscì a muoversi quando l’uomo allungò una mano sepolcrale verso di lui e gli scagliò contro un’ondata di energia malefica. La forza oscura lo colpì al centro del petto, scagliandolo contro l’albero alle sue spalle come una bambola rotta; la testa assunse un’orribile angolazione nell’urto, e la schiena produsse un rumore così forte da scuotere perfino la corteccia del vegetale.

Lo sconosciuto non poté però infierire: gli altri due studenti si pararono di fronte al loro compagno ferito, tenendo l’uomo sotto il tiro della bacchetta.

   «Dove… è… Harunobu!» ululò quello, picchiandosi la testa cava con le mani ossute.

   «Stai offrendo uno spettacolo vergognoso.»

Il viso dell’uomo parve liquefarsi e solidificarsi di nuovo come cera in una maschera di gioia distorta che raggelò il cuore a tutti i presenti. Si voltò festoso, e ignorò completamente la ragazzina dalla chioma ramata che accompagnava il giovane tanto a lungo chiamato.

Haru si guadagnò il rispetto istantaneo di Albus per la freddezza altera con cui osservò lo spettro che si avvicinava a lui.

Scorpius, dietro le schiene dei suoi amici, si issò faticosamente in piedi, le orecchie ottenebrate dall’urto che risuonavano di un discorso aspro in uno strano idioma: l’individuo misterioso e lo studente straniero si stavano affrontando in una schermaglia dialettica nella loro lingua madre.

Più l’essere tombale si infiammava, più Haru raggelava lo sguardo e le parole: anche se il significato delle loro frasi era sconosciuto, i ragazzi di Hogwarts si sentirono quasi lacerare dal tono folle dello sconosciuto e pietrificare dalle repliche atone del giovane giapponese.

   Quel giorno, il quartetto sperimentò sulla propria pelle una teoria che avevano sentito rimbalzare in molti libri e in molti discorsi: gli eventi possono degenerare con la velocità di un fulmine.

Haru disse qualcosa di particolarmente offensivo nei confronti dell’essere immondo: i suoi occhi ciechi si sbarrarono per l’ira, e i suoi artigli repellenti svettarono contro il cielo di fumo.

Rose, sebbene fosse al fianco di Haru, non riuscì a cogliere né i suoi movimenti né quelli del suo avversario; vide solo l’effetto dei loro strani incanti: lo sconosciuto aveva sputato una strana parola, e, in risposta al suo comando, gli insetti attorno a lui si erano agglomerati con un orribile suono di antenne sfregate e carne molle incollata, tingendo di un bel verde nauseato le guance di Nott. In risposta, Haru aveva mormorato a labbra strette una breve litania, e aveva strattonato il bracciale a grani che portava al polso fino a stapparlo.

   Una belva raccapricciante, con la forma di uno scarafaggio, le chele di uno scorpione e la mandibola di un coleottero, si era avventata su di loro, e avrebbe probabilmente tagliato in due il ragazzo asiatico se un terzo elemento non si fosse frapposto tra di loro: un drago argenteo dal corpo flessuoso e dallo sguardo implacabile aveva serrato le fauci sul ventre scoperto della creatura, facendola frinire di dolore.

   Haru non riuscì a voltarsi nella loro direzione, troppo concentrato a mantenere vivo l’incantesimo che permetteva al drago di muoversi, ma il suo grido risultò comunque nitido:

   «Andatevene!»

Rose non si disturbò di replicare a parole: estrasse la bacchetta e accompagnò ad un elegante gesto una semplice formula:

   «Stupeficium!»

La belva inumana barcollò insieme al suo evocatore quando il raggio magico colpì le costole rachitiche dell’uomo.

«Non giocare a fare l’eroe, Harunobu» lo apostrofò lei, sollevando di nuovo la verga per una fattura difensiva.

«Solo se tu non mi tratterai come una principessa da salvare» in quel momento, il drago troncò con un morso una chela dell’abominio, ed essa cadde al suolo frantumandosi in una miriade di insetti che corsero a nascondersi nel sottosuolo. «Weasley-san» concluse Haru, scostando un ciuffo scuro dagli occhi.

   Le dita di Albus si chiusero attorno alla bacchetta come quelle di un naufrago attorno all’ultima ancora di salvezza. Suo padre gli aveva spiegato come usare quella magia: avevano fatto pratica nel giardino dietro casa tante volte per perfezionarla. Lo aveva indottrinato a dovere sui benefici di quell’incanto. Ma non aveva mai pensato che la prima volta in cui lo avrebbe messo in pratica sarebbe stata conto un morto formato da vermi e artropodi e un uomo pronto per la bara.

Inspirò a fondo, e l’aria invernale gli corroborò i polmoni e lo spirito; prese fiato dal centro del petto e gridò la formula che suo padre gli aveva insegnato con tanta cura:

   «Expecto Patronum!»

Per qualche istante, il mondo si resse su un’immobilità totale, che fece temere ad Albus di avere disastrosamente fallito. Poi, dagli alberi immoti si levò un ululato cristallino, e il minore dei Potter poté vedere per la prima volta il suo Patronum. Era talmente bello che il ragazzo non riuscì ad associare quel magnifico esemplare ad una sua opera: un lupo gigantesco lo fissava con i suoi occhi acuti, splendido nel suo manto argenteo e nella sua muscolatura massiccia.

Albus richiuse di scatto la bocca che non si era accorto di aver spalancato quando il lupo scattò verso l’abominio, trapassandolo: l’enorme insetto quasi si rovesciò per il contatto con l’energia dell’animale del bosco, e agitò penosamente da testa, infastidito dalla sua luce pura. Il mago serrò la presa sulla bacchetta e si concentrò per sincronizzare i movimenti del suo Patronum a quelli del drago, mentre altre due verghe si levarono nella battaglia: Scorpius e Macauley seguirono l’esempio di Rose, e bombardarono il mago mefistofelico con tutti gli incantesimi offensivi del loro repertorio.

Il bosco scintillò delle luci sanguigne delle magie, ed echeggiò per i rumori della battaglia tra le creature evocate; Macauley, Scorpius e Rose marciarono in avanti quando il mago cominciò a barcollare sotto i loro incanti, facendo perdere vigore anche alla sua creatura, stordita dal lupo e ferita dal drago.

La sorpresa che li fece sussultare, però, non fu legata ad un possente contrattacco dell’individuo lugubre, ma al suo improvviso accartocciarsi su se stesso. Non si limitò a rannicchiarsi: la sua pelle si spiegazzò come una vecchia pergamena, le mani si rattrappirono allo stesso modo di un foglio di carta gettato nel camino, perfino i vestiti si curvarono al centro, coprendosi di pieghe; il viso collassò sul kimono logoro, che a sua volta si compattò in un piccolo concentrato di rughe. La sfera di tessuto semovente e incartapecorito continuò a rimpicciolirsi fino ad implodere, e quella piccola deflagrazione causò la tragica sorte della belva: le chele tremarono per il tremendo stridio che la mostruosità emise mentre il suo capo si sfaldava in una ripugnante cascata di insetti e vermi. Scorpius sentì uno strillo da donnicciola alla sua sinistra, e l’istante successivo il suo corpo era appesantito da una cinquantina di chili in più, precisamente quelli di Macauley, che gli si era gettato addosso per sfuggire all’orda di artropodi che sciamava a nascondersi nel bosco.

   «Schifose bestiacce!» sibilò Nott, pestando per bene il terreno contaminato prima di poggiarvi di nuovo il piede sopra.

   «È svanito» commentò Rose, molto più pragmatica dell’amico Slytherin. «Come è possibile?»

   «Non era l’originale. Era un doppio.»

I cinque giovani scattarono istintivamente sull’attenti quando la voce della Eeriemay li colse alle spalle.

La donna era riuscita a materializzare un paio di mocassini ai suoi piedi, in modo da non arrivare sul luogo del combattimento con i geloni, e a far sparire le fastidiose scarpe con il tacco. Gli occhi smeraldini li fissarono uno dopo l’altro, indecifrabili, e si appuntarono sulle due creature di luce argentata.

   «Albus. Harunobu. Eccellente lavoro» si complimentò. «Ora congedateli.»

   Il giapponese si chinò a raccogliere le perle del rosario e reclinò il capo in segno di rispetto; il drago gli sfiorò la fronte con il muso squamoso, dopodiché sfrecciò verso il cielo e si dissolse tra le nuvole accecanti. Albus si accomiatò più goffamente dal suo Patronum, ma il lupo sopperì alla sua mancanza di stile lanciando un secondo ululato e sparendo nel bosco con la grazia di un animale fatato.

   «Professoressa, cosa è successo?» domandò Scorpius, la schiena addossata all’albero contro cui si era schiantato: ora che l’adrenalina della battaglia era scomparsa, poteva avvertire con chiarezza quanto la dura corteccia lo avesse scorticato.

   «Era pieno di insetti!» sberciò isterico Nott.

   «Come è possibile che sia scomparso in quel modo?» protestò Rose.

La professoressa utilizzò un gesto perentorio da direttore d’orchestra per imporre il silenzio ai suoi febbricitanti allievi.

   «Avrete le risposte che volete. Ma prima dovete andare in infermeria. Alcuni di voi sembrano averne bisogno» la Eeriemay condì il tutto con una vistosa occhiata a Scorpius. «Lasciate che Madamina vi curi. E dopo parleremo.»

I giovani annuirono e si affrettarono a seguire l’insegnante per il sentiero che portava a Hogwarts. Macauley e Albus aiutarono Scorpius a camminare, improvvisandosi stampelle umane, mentre Rose e Haru li precedettero in testa.

La Eeriemay fermò tutto l’eterogeneo gruppetto a metà strada per un importante annuncio.

   «Avete sconfitto un doppio da soli. Sono vostra responsabile e non dovrei dirlo…»

Il sorriso che le solcò le labbra meno truccate del solito fu il più genuino che le avessero mai visto esibire dall’inizio del primo anno.

   «Sono fiera di voi.»

 

***

 

   «Mi chiedo cosa intendesse dire.»

   «Forse che è orgogliosa del nostro operato.»

   «Mi chiedo se non ci sia qualche significato nascosto.»

   «Tu sei troppo cervellotica, Weasley-san. Forse, a volte, le persone intendono dire semplicemente ciò che dicono.»

   «Non accetterò una simile predica da te, Harunobu.»

   Il giapponese preferì iniziare una muta discussione con le sue dita intrecciate che proseguire quella con Rose. Madamina li aveva spediti fuori dall’infermeria quasi istantaneamente: non avevano riportato alcun danno, al contrario di Scorpius.

   «Non hai usato la bacchetta per evocare quella… cosa.»

   L’asserzione di Rose lo colse del tutto impreparato, per cui gli occorse qualche secondo in più del consueto per rispondere:

   «È uno shikigami. L’equivalente orientale dell’evocazione di tuo cugino. Basta il rosario per richiamarlo» il giapponese lanciò un’occhiata di rammarico al suo polso nudo. «Dovrò farne uno nuovo.»

   «Quindi è questa la tua specialità?»

   Haru la fissò in silenzio dietro gli occhiali, e Rose scelse con cura le parole per chiedere:

   «Gli incantesimi della tua terra.»

   La nostalgia assottigliò gli occhi a mandorla del ragazzo, e per un attimo la giovane poté cogliere il vero significato della malinconia nelle sue iridi offuscate.

   «Sì. Quelli sono la mia specialità» concluse lui.

   Entrambi fissarono il soffitto prima che uno dei due trovasse la frase giusta per interrompere quel silenzio.

   «Hai combattuto bene» si complimentò Haru.

   «Anche tu. Il drago è stato molto d’effetto» restituì Rose.

Il soffitto magnetizzò di nuovo gli sguardi di entrambi, e questa volta fu la ragazza a parlare.

   «Perché siamo rimasti qui ad aspettare, anche se Madamina ha detto che è tutto a posto?»

   Il motivo comparve in quel momento sulla porta dell’infermeria: Louis uscì con lo sguardo abbassato ed un sorriso sommesso, segnali che la diagnosi non era stata rosea come sperava ma nemmeno catastrofica come immaginava.

   «Louis-san» lo chiamò Haru. Il piccolo si voltò verso di lui, il visetto grazioso rannuvolato dal sospetto: non conosceva lo studente straniero, eppure lui lo aveva appena chiamato per nome. Provava un’istintiva diffidenza nei confronti degli sconosciuti che sembravano essere al corrente dei suoi dati personali.

   «Devo solo farti qualche domanda su quello che è successo in biblioteca» l’espressione ostile del più giovane non mutò, ma l’asiatico proseguì imperterrito: «Valentine ti ha salvato?»

Louis annuì, senza perdere il suo grugno poco minaccioso. Ancora non capiva come il giapponese avesse scoperto il suo nome o perché conoscesse gli avvenimenti della biblioteca.

   «Ed è intervenuto prima o dopo lo scoppio dei vetri?»

   «Mi ha buttato sotto il tavolo un secondo prima dell’attacco» rispose cauto il piccolo.

   «Come se avesse saputo in anticipo cosa sarebbe successo.»

Haru sussurrò a se stesso quella affermazione, ma non fu abbastanza sottile: anche Louis la udì, e si accorse anche dell’espressione investigativa dell’orientale. Tutto ciò ebbe su di lui l’effetto del morso di un serpente; scattò all’indietro e obiettò con rabbia:

   «Valentine non è coinvolto.»

   «Non ho mai detto questo.»

   «Ma lo stavi insinuando» Louis rizzò il capo biondo e dichiarò, con la voce bianca il più possibile stentorea: «Non mi importa cosa pensi: Valentine mi ha salvato. E questo non cambia.»

   La matricola non ascoltò una parola di più: girò su se stesso e scomparve nel corridoio il più velocemente possibile.

   «La prossima volta, prova con un approccio più gentile» consigliò Rose, divertita dal cipiglio con cui Louis aveva tenuto testa al giapponese.

   «Non avevo detto nulla» si difese Haru. «A quanto pare, non sei l’unica a vedere sottintesi ovunque, Weasley-san.»

L’asiatico sopportò la successiva ramanzina con la remissività di chi sa di avere la coscienza sporca.

Quella volta, era davvero presente un’insidia nelle sue parole, e il piccolo l’aveva colta.

Era convinto che Valentine fosse in qualche modo coinvolto, o che perlomeno fosse a conoscenza di quell’attacco.

In fondo, quel ragazzo li aveva già traditi una volta.

Non avrebbe esitato a farlo di nuovo, se gli si fosse presentata l’occasione giusta.

E loro avrebbero dovuto essere preparati per quel giorno.

 

***

 

   Scorpius toccò nervosamente il vistoso collare che Madamina gli aveva allacciato addosso a tradimento.

   «Ora capisco come si sentono i cani» brontolò, cercando la striscia adesiva che teneva quell’orrore attaccato al suo collo.

   «Madamina ha detto che era necessario» cercò di addolcirlo Albus.

   «Sai come si chiama questo?» Scorpius ticchettò le dita sul collare e proclamò: «Vendetta. Da quella volta che sono caduto a Quidditch e ho continuato a giocare anziché venire in infermeria.»

   «Non credo che Madamina sia così rancorosa.»

   «Io credo che la memoria di Madamina sia più ferrea di quanto immaginiamo.»

   La bocca di Albus si piegò in un sorriso sfumato quando i suoi occhi dirottarono sul proprio polso: Madamina era stata più clemente con lui, e gli aveva appiccicato un misero cerotto su una piccola escoriazione. Non si era invece risparmiata con Scorpius: lo aveva ficcato a forza nella branda ospedaliera e gli aveva avviluppato il collo con quell’infernale strumento medico, dicendo che il colpo era stato più forte del previsto e che avrebbe dovuto riposarsi.

   «Non vai a lezione?» s’informò Scorpius, godendosi l’unica cosa buona di quel soggiorno forzato: i morbidissimi cuscini dell’infermeria dietro le spalle.

   Albus scosse la zazzera corvina.

   «La Eeriemay ha detto che potevamo prenderci una giornata di libertà. In fondo, oggi abbiamo rischiato di morire.»

   «Per noi non è una grossa novità. Ti ricordi le Scholzioni extra che abbiamo dovuto fare?»

   «Intendi quella volta che ci ha buttato in una tana di Gorgoni nane?»

   «O quella in cui abbiamo dovuto cacciare un Orso Antropomorfo.»

   «O quando abbiamo affrontato una legione di Termiti Sanguinarie.»

   «Abbiamo il passato di un veterano di guerra» esalò Scorpius, passandosi una mano sugli occhi. «E abbiamo solo quattordici anni. Immagina cosa potrà succedere quando ne avremo trenta

   «Una cosa è certa» profetizzò Albus. «Avremo un sacco di aneddoti per i nostri nipotini.»

   Scorpius ebbe una proiezione mentale di loro due, vecchi e canuti, mentre intrattenevano un pubblico di mocciosetti con i racconti delle loro mirabolanti avventure: immaginò Albus salire sul bastone da passeggio come se fosse una scopa, e lui mulinare gli occhiali in giro per scimmiottare la bacchetta. Il quadro complessivo fu così comico che una risata zampillò spontanea.

   «Anche gli altri hanno il pomeriggio libero?» chiese Scorpius.

   «Non Rose e Haru» annunciò Albus, senza aggiungere il motivo: sarebbe stato innaturale che i due cervelloni del gruppo rinunciassero alle loro beneamate nozioni quotidiane. «Credo che Nott sia impegnato in un’opera di disinfestazione totale del suo corpo.»

   «E tu hai intenzione di sprecare il tuo pomeriggio in infermeria?»

   «Non fare il sarcastico. Sono infortunato anche io» contestò Albus, facendo svettare il microbico cerotto.

   Scorpius preferì affondare la schiena nel cuscino piuttosto che stuzzicare ancora il suo amico, e Albus ne approfittò per rendere più comoda la sua posizione: era piazzato su una sedia a lato del letto del compagno, e sfruttò una parte libera di materasso per appoggiarvi le braccia incrociate e usarle come cuscino.

Le emozioni della mattinata lo avevano talmente sfinito che trascorsero solo pochi minuti prima che il suo respiro si appesantisse in un sonno esausto.

Scorpius sollevò la testa, per quanto il collare rigido gli permettesse, e studiò l’amico. Del loro gruppo, Albus era quello che più di tutti manteneva ancora dei tratti infantili, visibili nelle guance tonde e negli occhi grandi, ora chiusi nel sonno. L’adolescenza si stava pian piano facendo strada nella linea della mascella, nelle spalle e nei centimetri di altezza guadagnati, ma non aveva ancora cancellato del tutto il bambino che Albus era stato.

Scorpius allungò una mano per accarezzare i capelli corvini del ragazzo, godendosi quella serenità: era tanto tempo che non parlavano con tranquillità, ed era assurdo che fossero riusciti a farlo solo dopo essere stati quasi uccisi da un mago scheletrico. Ed erano parecchi giorni che lui e Albus non si ritrovavano a chiacchierare nello stesso letto. Anche in quel caso, la branda di un’infermeria non era prevista nelle sue ipotesi di riconciliazione, ma era comunque gradita, se serviva a recuperare il loro vecchio legame.

Scorpius si rilassò in quella pace familiare, senza accorgersi di avere accarezzato i capelli dell’amico tutto il tempo.

Forse Madamina aveva ragione: avrebbero fatto meglio a riposarsi tutti e due.

 

***

 

   Margaret Finnigan arrivò in infermeria con le labbra spalancate dal fiatone.

Aveva saputo che Scorpius era stato ferito, e si era precipitata a verificare le sue condizioni.

Si fece dire da Madamina il numero della stanza e decelerò il passo solo in prossimità della porta, per evitare di disturbarlo in caso stesse riposando.

Girò la maniglia e fece ruotare piano i cardini per sbirciare all’interno. Rischiò di rovinare tutte le sue premure quando la sorpresa minacciò di farle scoppiare sulla bocca una rumorosa esclamazione.

   Scorpius era steso sul letto, la testa rialzata da due cuscini e un collare medico attorno alla gola. Gi occhi erano chiusi in una rilassatezza totale, e le labbra erano piegate in una curva dolce che sapeva di serenità. C’era però un dettaglio non previsto, in quell’idillio: accanto al suo ventre riposava Albus, la testa appoggiata sulle braccia conserte che ne nascondevano il viso, la cui unica parte visibile erano le ciglia che scurivano leggermente gli zigomi con la loro ombra.

La mano di Scorpius era appoggiata sui capelli di Albus, con le dita intrecciate alle ciocche di ebano, prova che il giovane non aveva solo posato il palmo sulla nuca del compagno, ma gli aveva accarezzato i capelli ripetutamente.

   Margaret sentì la necessità di deglutire, mentre richiudeva la porta. Da quando stavano insieme, Scorpius l’aveva toccata a malapena: era sempre lei a prendere l’iniziativa per tenergli la mano, e lui l’abbracciava solo quando lei glielo chiedeva.

Era una condizione abbastanza umiliante per cominciare una relazione, ma era convinta che presto Scorpius si sarebbe abituato a lei, e tutta quella timidezza si sarebbe dissolta. Fino a quel momento: non si era mai dimostrato altrettanto serafico in sua presenza, anzi, c’era sempre qualcosa di artificioso nei suoi movimenti, come se non sapesse esattamente come comportarsi e si stesse attenendo ad un copione scritto da altri.

Che senso aveva essere la sua ragazza, se aveva più intimità con i suoi amici che con lei?

Scrollò la testa e uscì dall’infermeria.

Era venuta per assistere Scorpius, ma era chiaro che non era della sua assistenza che aveva bisogno.

 

***

 

   Nott sobbalzò sul letto quando bussarono alla porta.

Erano passati quattro giorni dall’attacco del mago dei vermi, ma il terrore di quell’esperienza non era ancora svanito: da allora, i suoi incubi si erano popolati di insetti giganteschi e sporchi che piovevano da tutte le parti, attentando alla sua incorruttibilità igienica.

   Fortunatamente, fu qualcosa di più pulito e profumato ciò che si presentò dinanzi a lui quando aprì la porta: la Eeriemay lo scrutò dall’alto dei suoi tacchi laccati e domandò, senza nemmeno salutare:

   «Scorpius è stato dimesso dall’infermeria?»

   «Sì…»

   «Allora raduna il tuo squadrone, Macauley. Vi voglio davanti al pipistrello entro dieci minuti, d’accordo?» lo lisciò vezzosa, allungandogli un buffetto sulla guancia.

   Nott stava per replicare su quanto il contatto fisico non richiesto fosse socialmente, psicologicamente e batteriologicamente sbagliato, ma la professoressa si era già volatilizzata nel dedalo dei corridoi.

Sbuffò sonoramente, e afferrò il Cercapersone per facilitare la ricerca.

    All’orizzonte si prospettava un’altra megagalattica serata. E non era sicuro di essere felice di quella prospettiva.

 

 

 

 

 

 

 

Eccomi di nuovo qui<3

Alcune dichiarazioni da fare in merito al capitolo: gli origami sono animali, fiori o altro ottenuti mediante l’arte orientale di ripiegare un foglio di carte. Gli shikigami, invece, sono degli spiriti che possono essere evocati dagli onmyouji (specialisti di arti esoteriche e divinazione), esattamente come i famigli dei maghi occidentali.

Questo capitolo introduce un po’ il tema della magia orientale… che sarà spiegato e meglio analizzato nei capitoli a seguire, non temete<3

Ancora una volta, mi scuso profondamente per il ritardo .-. Per evitare un altro catastrofico allungamento dei tempi di pubblicazione, ho già cominciato a scrivere il capitolo successivo, e sono a metà… spero quindi di pubblicare in tempi più brevi XD

Come sempre, grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3

A presto!

Red

   
 
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