3
Magia
Orientale
«Tu e
Albus avete
litigato?»
Scorpius
interruppe
i preparativi mattutini per fissare Macauley con fare interrogativo.
«Non
che io sappia»
arginò.
Nott si strinse
nelle spalle, allacciando gli elastici della mascherina.
«Di
solito vi
scambiate i microbi tutto il tempo…» Scorpius lo
incenerì, tra il disgustato e
l’offeso, e Macauley chiarì: «Siete
sempre vicini, respirate la stessa aria,
consumate lo stesso spazio: praticamente vivete in tandem.»
Le dita di
Scorpius
terminarono di annodare la cravatta verde e argento, mentre le meningi
lavoravano su quella nuova questione. Ciò che gli aveva
appena fatto notare
Nott non era sbagliato: ultimamente Albus sembrava imbarazzato in sua
presenza,
quasi temesse di disturbarlo semplicemente sbattendo le ciglia. Ed
erano almeno
tre settimane che non saliva nel suo letto per le loro chiacchierate
notturne.
Si
mise a sedere sul materasso e cominciò ad allacciare le
scarpe. Che cosa era cambiato, in quel lasso di tempo?
La
sua media scolastica non aveva subito grandi variazioni,
e comunque dubitava che il malessere timido di Albus fosse collegato ad
una
questione di voti. Durante gli allentamenti di Quidditch non si erano
registrati cambiamenti sostanziali: Albus era sempre il loro Cercatore,
e
Scorpius il Battitore. Non aveva litigato con Rose, quindi non era
nemmeno un
impaccio dovuto a guerre intestine al loro piccolo gruppo.
Le
mani si congelarono sulle stringhe quando i suoi
ragionamenti approdarono ad una conclusione: l’unico evento
saliente delle
ultime settimane era stata Margaret, la Gryffindor
che ora era la sua ragazza.
«Macauley»
sondò,
perplesso. «Albus aveva una cotta per Margaret?»
«Non
che io sappia»
lo scimmiottò Nott.
Scorpius
trattenne
il respiro come se gli avessero passato un cubetto di ghiaccio sulla
schiena e
replicò in un sibilo:
«Macauley,
ti hanno
mai detto che dovresti fare teatro? Hai un talento spiccato per il
melodramma.»
I
capelli di Nott, vaporosi per l’accurato lavaggio,
scintillarono sotto la luce della lampada quando il ragazzo
voltò la testa.
«Ti
darò tre ottimi
motivi per evitare il teatro» un indice avvolto dal lattice
svettò nell’aria: «Primo:
quinte polverose. Secondo: spogliatoi in comune. Terzo: costumi di
seconda
mano, quindi dove degli estranei hanno sudato.»
«Anche
nel
Quidditch abbiamo gli spogliatoi in comune» gli fece presente
Scorpius.
«Ed
è esattamente
per questo motivo che non mi avvicino a meno di due metri da voi
finché non vi
siete fatti una bella doccia bollente» flautò
serafico e sarcastico Nott. «E
rinnovo il mio invito ad usare un bagnoschiuma a base di acido
muriatico, in
quelle occasioni.»
«Ci
scioglierebbe
la pelle.»
«Ma le
vostre ossa
sarebbero splendenti e disinfettate.»
Scorpius
scosse la chioma bionda, arrendendosi alla crociata
igienista dell’amico.
Il
Cercapersone di Nott lanciò il suo grido di battaglia
–
“ogni microbo risparmiato oggi diventerà
un’epidemia domani!” – e si
slanciò
verso il padrone, che lo sollevò da terra con due sole dita,
quasi fosse
ricoperto di fango: ogni suo oggetto personale era perfettamente
sterilizzato,
ma quell’ordigno elettronico aveva appena corso una maratona
sul pavimento, ed era quindi infetto. Scorpius approfittò
di quella
momentanea distrazione per guadagnare la porta.
«Vado
a cercare
Albus» annunciò sbrigativo.
«Credo
che Albus
stia cercando noi» lo mitragliò Nott.
Non
fu tanto la replica dell’amico quanto il mezzo sisma del
cassetto a farlo tornare sui suoi passi: Scorpius aveva dimenticato il
suo
Cercapersone dentro il comodino, e quella bestiola metallica stava
ammattendo
per riuscire ad aprire uno spiraglio da cui scappare. Il suo
proprietario mise
fine a quel supplizio
estraendola dal
cassetto.
«E
credo che sia
urgente» decorò Macauley, alzandosi per cercare il
“kit di igiene istantanea”:
dopo la lotta rocambolesca del primo anno, aveva preparato un piccolo
marsupio
per tutte le evenienze.
Scorpius
non avrebbe usato le stesse parole dell’amico per descrivere
la situazione, né il medesimo tono tra il pacifico e il
rassegnato. Il
messaggio che Albus gli aveva appena inviato si componeva di
un’unica,
terribile parola: aiuto!
«Qual
era la
formula per rintracciare le persone?»
«GPS.»
Nott rispose con
calma e freddezza alla sollecitazione dell’amico.
«Come
hai detto?»
domandò Scorpius, disorientato.
«GPS»
scandì
Macauley, indicando il Cercapersone. «Questi affari sono
dotati di un
dispositivo satellitare. In altre parole, puoi trovare chiunque, in
qualunque
momento» aggrottò la fronte, scontento
dell’espressione smarrita del compagno:
«L’ho
sempre detto che vivi in una famiglia troppo antiquata.»
«Siamo
sostenitori
della magia nella sua forma più alta» si difese
Scorpius, lievemente inacidito.
«Ma
ogni tanto la
tecnologia aiuta» minimizzò Nott, utilizzando lo
stilo ipoallergenico per
digitare una combinazione di tasti sul Cercapersone. «E ora
andiamo a vedere in
che guaio si è cacciato Albus.»
Scorpius
cedette qualunque possibile reticenza, e seguì il
collega fuori dalla stanza.
La
Natura aveva creato uno dei suoi più grandi misteri con
Macauley Nott: una persona che riusciva a gestire con freddezza un
messaggio
disperato da parte di un amico e che perdeva controllo e
dignità alla vista di un
germe solitario.
Decisamente
inspiegabile.
***
«Valentine?»
Louis
fissò il suo tutore, sconcertato. Il Gryffindor
non aveva mai addolcito
l’aria scontenta con cui affrontava quelle ripetizioni: si
sedeva con uno
sbuffo, spiegava in modo chiaro ma incolore e lo scrutava svogliato
mentre
riempiva intere pagine di appunti ed esercizi. I suoi voti erano
sensibilmente
migliorati, ma avrebbe gradito una partecipazione maggiore da parte del
suo personal trainer, come lo
chiamavano i
suoi compagni di corso.
Tuttavia,
per quanto Valentine potesse essere abrasivo, non
era mai arrivato ad una maleducazione simile: Louis gli stava ponendo
una
domanda, e all’improvviso il giovane aveva voltato il capo
riccioluto e si era
messo in ascolto dell’aria.
«Valentine!» lo richiamò
una seconda volta, spazientito.
Il Gryffindor
spostò lo
sguardo assente su di lui, e gli occorsero alcuni secondi per
rischiararlo
dalla torbida vacuità che si era impossessata delle iridi
scure.
Louis
arricciò le labbra, una colorita ramanzina scalpitante
sulla lingua: era solo un povero, piccolo studente del primo anno, ma
meritava
comunque un minimo di rispetto. Probabilmente Valentine non avrebbe
capito una
sola parola della sua invettiva, perché Louis, quando si
infuriava, tendeva a
strillare con tonalità eccessivamente acute e turbate
dall’accento nasale
ereditato dalla madre, ma gli avrebbe dato comunque soddisfazione
sgridare il
suo tutore.
Aveva
appena preso fiato per cominciare quando Valentine
ordinò:
«Vai sotto il tavolo.»
Louis batté le palpebre sugli occhi
acquamarina, disorientato come una
persona che ha appena visto una gelatina di palude esibirsi in un
balletto
classico. Non ebbe tempo di dissipare la sua confusione che essa crebbe
a
livelli esponenziali: Valentine ringhiò qualcosa di
incomprensibile e si lanciò
su di lui, ficcandolo a forza sotto il tavolo e avvolgendolo con il
proprio
corpo. Le labbra di Louis boccheggiarono di nuovo, inaridite dallo
stordimento,
e si spalancarono in un grido non appena un rombo sordo percosse tutte
le mura
dell’edificio, facendo tremare l’intera stanza.
Louis ebbe l’impressione di
trovarsi in un enorme scatolone scosso da un gigante, e si
rifugiò
istintivamente nella stretta del tutore.
Valentine
gli coprì la testa con le mani quando le finestre
della sala di lettura improvvisamente esplosero, scagliando ovunque
pericolose
schegge di vetro.
Nella
biblioteca regnarono alcuni minuti di caos totale:
sedie rovesciate, rumore di studenti gettatisi sotto i tavoli e urla
strozzate,
il sibilo dei frammenti delle finestre, libri che si schiantavano al
suolo e
quel costante rombato di sottofondo che scuoteva tutto il palazzo.
Una formula
recitata da una voce femminile pose fine a quel delirio: i vetri rotti
si
immobilizzarono e fluttuarono a terra con grazia, gli scaffali e le
mura
tornarono solidi e fermi, e dopo qualche secondo alcune teste esitanti
spuntarono
dai tavoli.
La
signorina Eeriemay troneggiava al centro della stanza, la
crocchia sulla nuca scomposta per via della corsa precipitosa con cui
aveva
raggiunto la biblioteca e le labbra schiuse per il fiato ingrossato
dallo
sforzo. Una mano reggeva le scarpe con il tacco, vezzosità
femminile cui aveva
rinunciato per soccorrere i suoi studenti più agevolmente, e
l’altra sfoderava
la bacchetta con cui aveva sedato quello sfacelo.
«Avete
degli ottimi
riflessi, ragazzi» si complimentò in un ansito
affaticato.
«Cos’è
stato?»
soffiò a stento Louis, la bocca e le gambe semiparalizzate
dallo spavento.
«Niente
di buono»
mormorò Valentine, lasciando la presa su di lui.
La Eeriemay
incrociò il suo sguardo, ed entrambi annuirono
impercettibilmente nel tempo di
un battito di ciglia.
«Valentine,
ti
affido questi studenti: porta i feriti in infermeria e chiama il
custode per
ripulire questo macello» comandò rapida la donna,
uscendo senza infilare i
tacchi: aveva ancora molte scale e molti corridoi da percorrere.
Il
ragazzo fu lesto a rispondere all’appello della
professoressa: aiutò gli allievi ad uscire dai loro rifugi
improvvisati,
analizzò velocemente le condizioni di ognuno e
radunò un gruppetto da condurre
in infermeria.
Louis,
sebbene non si fosse ferito in alcun modo, seguì
ugualmente Valentine lungo le scalinate che conducevano al reame di
Madamina,
come avevano soprannominato l’erede di Madama Chips.
Valentine lo aveva mascherato
con l’ampia giacca rosso mattone della sua Casa, ma Louis se
ne era accorto
ugualmente quando l’aveva abbracciato in preda al panico, e
aveva sentito una
sostanza viscosa bagnargli le mani: il giovane si era ferito alla
schiena.
Assistere
alle sue cure era il minimo che potesse fare per
quello zotico che lo aveva appena salvato.
***
«Senza
offesa, ma
non eccelli negli incantesimi.»
«Non
sono offeso, Weasley-san.»
«Offenditi,
invece.
Ti sto insultando.»
«Non
sono comunque
offeso, Weasley-san.»
«Come studente
sei
assolutamente mediocre. Per me è un mistero come tu sia
riuscito ad ottenere
quella borsa di studio.»
«Non
dovevi
prendere le mie parole un incoraggiamento ad aumentare la dose,
Weasley-san.»
«Per
cui non credo
che abbandonare a metà la lezione di Incantesimi sia stata
una buona idea.
Anzi, è stata una trovata del tutto idiota.»
«Tu
invece puoi
permetterti di perdere delle lezioni perché sei
un’ottima maga, Weasley-san.»
«Perdo
una lezione
perché il mio compagno di Incantesimi mi ha piantata in asso
a metà! E smetti
di chiamarmi Weasley-san, Harunobu!»
L’ultima
stoccata
fu quella decisiva per arrestare il giapponese.
Durante
l’addestramento di sortilegi in coppia, Haru aveva
improvvisamente sollevato il viso, come un segugio che fiuta la pista,
dopodiché si era precipitato fuori dall’aula, non
prima di aver porto le sue
più sentite scuse all’insegnante con tanto di
inchino. Rose, rimasta senza
compagno, non aveva potuto fare altro che seguirlo nella sua assurda
corsa,
senza negarsi il piacere di ingiuriarlo in tutti i modi possibili.
Il
sopracciglio sinistro di Haru si inalberò verso
l’alto
nell’appuntarsi sulla figura scomposta della giovane: i
capelli increspati
erano sfuggiti in buona parte all’elastico e ricadevano sul
volto accaldato, da
cui lo fissavano due infuriati occhi nocciola.
«Non
potevo
rimanere in aula» terminò lui, dandole le spalle.
«Perché?»
insistette lei. «Non avevi un Diavolo della Lava alle
calcagna.»
Rose
si reputava una persona mediamente paziente: non faceva
mistero delle proprie simpatie o antipatie, ma erano rari i casi in cui
si
dimostrasse realmente villana. Quella volta, però, non
riuscì a trattenersi:
afferrò lo studente nipponico per un braccio costringendolo
a voltarsi. La
manovra fu così brusca che il ragazzo batté la
nuca contro la parete, ma Rose
non vi badò e lo investì con le domande che le
ribollivano nella testa da
quando aveva conosciuto quell’indecifrabile straniero:
«Sei
qui da due
mesi, e non sappiamo niente di te. Nessuno
sa niente di te. Non sappiamo niente dei tuoi genitori, della tua
famiglia, dei
tuoi amici. Eri morto prima di arrivare qui, per caso?»
«Sono
una persona
riservata…» si discolpò Haru, ma non
servì a placare il fuoco della giovane:
«No,
tu sei
ermeticamente sigillato in te stesso! Non ti è mai sfuggita
una singola parola,
e quando parli con gli altri non fai che rigirare i loro discorsi in
modo da
non rivelare niente di te. Di cosa hai così paura? Credi che
saremmo pronti a
pugnalarti alle spalle?»
Rose
quasi si morse le labbra per quell’ultima invettiva: il
lampo ferito che attraversò le iridi di onice del giovane la
fece pentire
dell’infelice scelta di vocaboli.
«Succede
molto più
spesso di quanto si possa pensare» sorvolò Haru,
la solita compostezza appena
intaccata da un alone malinconico. «Vuoi conoscere qualcosa
di me, Weasley-san?
Allora seguimi.»
Il
giapponese le negò di nuovo la sua attenzione e
squadrò
il soffitto, apparentemente assorto. Frugò con una mano
nelle tasche e ne
estrasse un finissimo rettangolo di quella che si rivelò
essere carta di riso.
Sussurrò qualcosa sulla punta della sua bacchetta, che si
colorò di nero, e con
quella vergò uno strano ideogramma sul foglio.
Rose
osservò con meraviglia il foglietto che si scuoteva a
mezz’aria e che cominciava a piegarsi da solo, frenetico ma
preciso, fino ad
assumere la forma di una piccola gru. L’uccello di carta
batté un paio di volte
le ali, poi partì spedito verso una destinazione nota solo a
lui. I due giovani
si affrettarono a seguirlo.
«Cos’era
quello?»
sbuffò Rose, correndo al massimo delle sue forze.
«Un origami cercatore»
spiegò Haru. «È una
delle magie di base orientali.»
Un occhio di
pece
la fissò da sopra la spalla, mondato da qualunque ombra di
derisione o
superiorità.
«Hai
detto che non
sono bravo con gli incantesimi occidentali, Weasley-san. Infatti, la
mia specialità
è un’altra. Tra poco la vedrai.»
***
Albus
inalberò la
sciarpa contro il freddo dicembrino, e innalzò
l’orlo del cappotto fino alle
orecchie.
Quel
pomeriggio si sarebbero congelati durante gli
allenamenti di Quidditch; forse Bartold gli avrebbe concesso di finire
prima,
se il meteo si fosse rivelato troppo ostico.
Fece
mentalmente l’inventario dei capi invernali presenti
nel suo armadio mentre percorreva il sentiero che lo avrebbe riportato
a
scuola.
Hagrid
non era più giovane come una volta, e nelle giornate
umide come quella le sue vecchie ossa cigolavano. Albus aveva preso
l’abitudine
di recarsi a casa sua prima dell’inizio delle lezioni per
aiutarlo a prepararsi
un the bollente da bere a colazione e un altro da mettere in un thermos
e che
il gigantesco guardiacaccia avrebbe consumato nel corso della giornata.
Era
molto affezionato ad Hagrid, che trattava alla stregua
di uno zio, e quello era il suo modo per dimostrarglielo; il
guardiacaccia
aveva provato quanto tenesse a lui mascherando alcune marachelle del
gruppo di
Albus negli anni precedenti.
Alitò
sui guanti di lana con i colori della sua Casa,
sfregando i palmi tra di loro. Il profilo della scuola si stagliava
indistinto
nella bruma della mattina, e Albus soffiò una nuvoletta di
fiato condensato.
L’inverno
stava raggiungendo il proprio cuore: si stendevano
davanti a lui almeno altri due mesi di freddo gelido, passati a tremare
per gli
spifferi e a cercare ristoro in un bagno bollente.
Si
consolò pensando che Natale era vicino, e con esso le
vacanze e i festeggiamenti per l’anno nuovo. Avrebbe dovuto
scegliere un giorno
per vagabondare per i negozi assieme ai suoi amici, e si sarebbe
ripetuta la
scena di tutti gli anni in cui ogni tanto qualcuno strillava a qualcun
altro di
voltarsi per comprare il regalo senza essere visto dal diretto
interessato.
Si
bloccò di colpo, folgorato da un altro pensiero. Forse
Scorpius avrebbe portato anche Margaret.
Quella
ragazza non suscitava la sua simpatia, e nemmeno il
suo risentimento; era semplicemente un pezzo stonato nel puzzle formato
dal
loro gruppetto. Pensare che sarebbe stata presente anche lei al loro
rituale
natalizio – che probabilmente avrebbe tenuto Scorpius per
mano tutto il tempo,
e forse avrebbe fatto quei versetti scemi che aveva visto fare dalle
ragazze in
fase di corteggiamento – gli procurava la sensazione
fastidiosa di una carezza
contropelo.
Stava
per emettere un sonoro sbuffo, ma una figura
intravista nella caligine acquosa gli fece morire il respiro in gola.
La foschia su
cui
si stagliavano le ombre degli alberi rendeva l’atmosfera
simile ai boschi
spettrali di alcune storie dell’orrore, e Albus
attribuì a quell’ambientazione
lugubre il primo brivido che gli percorse la schiena.
L’uomo
sfocato di fronte a lui non sembrava risentire del
gelo invernale: i suoi abiti parevano più leggeri della
nebbia che lo
attorniava, eppure non era scosso nemmeno dal più piccolo
fremito. Le maniche
ampie e lo scollo sovrapposto gli ricordarono i vestiti di Haru, ma
quelli
dello sconosciuto erano più scuri e funerei, lo stesso
colore degli stracci dei
Dissennatori. Inoltre, il loro compagno indossava sempre i jeans sotto
le sue
particolari maglie; l’abito di quell’uomo, invece,
cadeva dritto fino a terra,
lasciando scoperti un paio di sandali di corda del tutto inadatti a
sopportare
l’aria da neve di quel giorno.
Albus
stava per riprendere la sua strada quando l’individuo
sollevò un braccio. Fino a quel momento aveva tenuto le mani
nascoste nelle
larghe maniche del suo vestito, e il giovane desiderò che
avesse continuato a
farlo: le dita che ne emersero erano ossute e nodose come se una
sanguisuga le
avesse spolpate di tutta la carne, lasciando solo una patina di pelle
sull’osso.
Mosse
un passo all’indietro, ed un ramo scricchiolò
sotto la
suola dei suoi scarponi.
L’uomo
ruotò la testa a scatti fino a comprendere il
tremante Slytherin nel suo campo
visivo. Albus impugnò istintivamente la bacchetta quando il
ghigno
dell’individuo fendette la nebbia. Il sinistro sconosciuto
non smise di sorridere
in quel modo perverso nemmeno quando chiuse la mano a pugno, in una
strana
malia che fece deflagrare i vetri della biblioteca.
Lo
spavento piegò le ginocchia ad Albus e gli sbarrò
gli
occhi, ma non sortì alcun effetto sull’uomo, che
infilò nuovamente il braccio
nella manica come se nulla fosse successo.
Lo
sconosciuto rialzò il viso su di lui, e Albus dovette
ingoiare il suo stesso grido. Aveva capito cosa lo avesse agghiacciato
di
quell’essere, ancor prima di metterlo a fuoco: i suoi capelli
assomigliavano a
serpenti di catrame, divisi in corpose ciocche che scendevano fino al
petto, e
il loro colore tenebroso risaltava ancora di più la pelle,
talmente diafana da
apparire azzurra, e gli occhi in cui il bianco della cornea si era
espanso fino
a comprendere iride e pupilla, creando un orribile specchio cieco.
«Tu…
conosci…
Harunobu?»
Albus
non riuscì a rispondere, troppo traumatizzato
dall’aver sentito parlare una creatura che aveva
l’aspetto di un cadavere.
L’uomo
si avvicinò di qualche passo, lasciando dietro di
sé
una scia di orme: qualunque cosa fosse, era reale.
La
mano di Albus rintracciò febbrilmente il Cercapersone
nella tasca del cappotto e premette il tasto laterale, quello delle
emergenze:
un messaggio di allarme rosso sarebbe stato immediatamente inviato ai
suoi
amici.
«Tu…
conosci…
Harunobu?»
Le labbra livide
dell’uomo faticavano ad articolare le parole, quasi dovessero
costruirle una ad
una con enorme fatica. L’inglese non era la sua lingua madre,
come era ovvio
dai suoi vestiti.
Le
sopracciglia dell’individuo si congiunsero per esprimere
rincrescimento
e, un secondo dopo, Albus poté vederle da una distanza molto
ravvicinata: senza
emettere un suono, senza spostare un filo d’aria, lo
sconosciuto si era
improvvisamente accostato a lui.
«Tu…
conosci
Harunobu?» sillabò irritato.
La gola si
rifiutò
di collaborare, e Albus non poté fare altro che annuire,
augurandosi che quelle
pupille morte lo vedessero. Così fu, e una delizia
scellerata stese i
lineamenti dell’uomo.
«Dove…
è… adesso?» scandì,
dopo essersi umettato le labbra.
«Non
lo so…» esalò
Albus, terrorizzato.
«Tu…
hai detto… di
conoscerlo…» si sforzò di dire
l’altro, gli occhi vuoti di nuovo ribollenti di
collera.
«Non
so dove sia…»
«Tu
hai…»
Albus nemmeno si
accorse di quello che stava facendo; la sua mano sgusciò
fuori dalla tasca,
puntò la bacchetta dritta al petto dell’uomo e la
sua bocca strillò:
«Stupeficium!»
Non
aspettò nemmeno
di vedere l’effetto del suo incantesimo; sentì il
corpo dell’altro allontanarsi
con uno schianto, e le sue gambe presero a correre più
furiosamente che mai.
Il
portone di Hogwarts non era lontano: sarebbero bastati
pochi minuti per raggiungerlo.
Il
respiro affannato si condensava in una scia di nuvolette
dalla sua bocca, che all’improvviso si interruppero contro
qualcosa di compatto
e tiepido. Ancora prigioniero nella rete del panico, Albus si
dibatté
forsennatamente per liberarsi di quell’impiccio sul suo
cammino: la creatura
d’oltretomba poteva avventarsi su di lui da un momento
all’altro.
«Siamo
noi!»
Una voce
ripeté
quella frase per quattro volte prima che Albus riuscisse finalmente a
recepirla. Il giovane batté le palpebre per liberarsi della
paura che gli
impediva di vedere con correttezza la realtà, e si accorse
finalmente di aver
sbattuto contro a Scorpius e Nott, giunti fin lì in risposta
al suo messaggio.
Si
sentì travolgere da un sollievo totale, che
traboccò dal
suo cuore e invase tutto lo spazio circostante, e avrebbe probabilmente
abbracciato i suoi amici fino a spezzare le loro spine dorsali se il
terrore di
poc’anzi non fosse stato così radicato in lui.
«Dobbiamo
andarcene!» si agitò, spingendoli verso la scuola.
«C’è un uomo…»
Macauley
lanciò uno strillo convulso e puntò un indice
tremante verso di lui tartagliando, allucinato:
«Hai… hai un lombrico…
sulla spalla…»
Albus fece appena in tempo a guardare nel punto indicato
da Nott che
Scorpius notò in un sibilo atterrito:
«Non sarà quello il tuo maggiore
problema…»
Scorpius
rimase freddato sul posto, e Albus era ormai troppo
sconvolto per avere una qualsiasi reazione; Macauley invece si
esibì in una
sequela di squittii disgustati e di saltelli atletici per evitare lo
schifo che
si stava radunando attorno a loro.
Vermi
e insetti di ogni specie, forma e colore avevano stretto
un orribile cerchio semovente, intrappolandoli con i loro orridi corpi.
Non erano
normali artropodi: la loro sagoma ricordava quelli che anche i ragazzi
conoscevano da una vita, ma vi era sempre un dettaglio sbagliato, che
fosse la
tonalità, la grandezza o la bellicosità
dimostrata dalle loro tenaglie
frementi.
Albus non perse
tempo e fece scattare la bacchetta davanti alle labbra: il terrore
aveva
raggiunto il punto di saturazione, lasciando dietro di sé
una mente
spaventosamente fredda e tremendamente bisognosa di una via di fuga.
«Focaia» recitò,
soffiando sulla punta.
Quella era una delle tante magie che non avrebbero dovuto conoscere, e
che loro
avevano imparato durante la lotta per la sopravvivenza con Achill
Scholz: un
fungo di fuoco si gonfiò dall’apice della verga e
investì una schiera di
invertebrati, carbonizzandoli all’istante.
Non
vi fu bisogno di parole: tutti e tre imboccarono quella
strada di fortuna alla massima velocità, ma dovettero
frenare poco dopo.
Muto
come uno spettro, il misterioso uomo si era
materializzato davanti a loro. Osservò la devastazione
dell’esercito degli
insetti, e il collo stridette come se le ossa e i muscoli fossero da
tempo in
disuso.
«I
miei… servi»
barbugliò, in compianto per la sua truppa sacrificata. Il
lutto lo abbandonò
presto: rizzò il capo e ripeté, per
l’ennesima volta: «Dove… è
Harunobu?»
«Io…
io lo strozzo,
quando lo vedo!» esacerbò isterico Macauley. Aveva
una reazione di rigetto
verso tutte le cose che riguardavano il giapponese, ma
l’essere accerchiato da
un esercito di artropodi e minacciato da un tizio fresco di tomba per
causa sua gli fece odiare
lo studente straniero con tutte le sue forze.
«Non
lo sappiamo»
prese la parola Scorpius, seguendo l’esempio di Albus e
stendendo la bacchetta
davanti a sé.
«Voi…
siete… di
Hogwarts» brancolò l’uomo.
«Non
siamo
informati di tutti i suoi spostamenti» ribatté
Scorpius.
L’individuo
lanciò un grido così bestiale da annullare tutti
i loro pensieri e le loro reazioni; per questo Scorpius non
riuscì a muoversi
quando l’uomo allungò una mano sepolcrale verso di
lui e gli scagliò contro
un’ondata di energia malefica. La forza oscura lo
colpì al centro del petto,
scagliandolo contro l’albero alle sue spalle come una bambola
rotta; la testa
assunse un’orribile angolazione nell’urto, e la
schiena produsse un rumore così
forte da scuotere perfino la corteccia del vegetale.
Lo
sconosciuto non poté però infierire: gli altri
due
studenti si pararono di fronte al loro compagno ferito, tenendo
l’uomo sotto il
tiro della bacchetta.
«Dove…
è… Harunobu!»
ululò quello, picchiandosi la testa cava con le mani ossute.
«Stai
offrendo uno
spettacolo vergognoso.»
Il
viso dell’uomo parve liquefarsi e solidificarsi di nuovo
come cera in una maschera di gioia distorta che raggelò il
cuore a tutti i
presenti. Si voltò festoso, e ignorò
completamente la ragazzina dalla chioma
ramata che accompagnava il giovane tanto a lungo chiamato.
Haru
si guadagnò il rispetto istantaneo di Albus per la
freddezza altera con cui osservò lo spettro che si
avvicinava a lui.
Scorpius,
dietro le schiene dei suoi amici, si issò
faticosamente in piedi, le orecchie ottenebrate dall’urto che
risuonavano di un
discorso aspro in uno strano idioma: l’individuo misterioso e
lo studente
straniero si stavano affrontando in una schermaglia dialettica nella
loro
lingua madre.
Più
l’essere tombale si infiammava, più Haru raggelava
lo
sguardo e le parole: anche se il significato delle loro frasi era
sconosciuto,
i ragazzi di Hogwarts si sentirono quasi lacerare dal tono folle dello
sconosciuto e pietrificare dalle repliche atone del giovane giapponese.
Quel giorno, il
quartetto sperimentò sulla propria pelle una teoria che
avevano sentito
rimbalzare in molti libri e in molti discorsi: gli eventi possono
degenerare
con la velocità di un fulmine.
Haru
disse qualcosa di particolarmente offensivo nei confronti
dell’essere immondo: i suoi occhi ciechi si sbarrarono per
l’ira, e i suoi
artigli repellenti svettarono contro il cielo di fumo.
Rose,
sebbene fosse al fianco di Haru, non riuscì a cogliere
né i suoi movimenti né quelli del suo avversario;
vide solo l’effetto dei loro
strani incanti: lo sconosciuto aveva sputato una strana parola, e, in
risposta
al suo comando, gli insetti attorno a lui si erano agglomerati con un
orribile
suono di antenne sfregate e carne molle incollata, tingendo di un bel
verde
nauseato le guance di Nott. In risposta, Haru aveva mormorato a labbra
strette
una breve litania, e aveva strattonato il bracciale a grani che portava
al
polso fino a stapparlo.
Una belva
raccapricciante, con la forma di uno scarafaggio, le chele di uno
scorpione e
la mandibola di un coleottero, si era avventata su di loro, e avrebbe
probabilmente tagliato in due il ragazzo asiatico se un terzo elemento
non si
fosse frapposto tra di loro: un drago argenteo dal corpo flessuoso e
dallo
sguardo implacabile aveva serrato le fauci sul ventre scoperto della
creatura,
facendola frinire di dolore.
Haru non
riuscì a
voltarsi nella loro direzione, troppo concentrato a mantenere vivo
l’incantesimo che permetteva al drago di muoversi, ma il suo
grido risultò
comunque nitido:
«Andatevene!»
Rose
non si disturbò di replicare a parole: estrasse la
bacchetta e accompagnò ad un elegante gesto una semplice
formula:
«Stupeficium!»
La
belva inumana barcollò insieme al suo evocatore quando il
raggio magico colpì le costole rachitiche
dell’uomo.
«Non
giocare a fare l’eroe, Harunobu» lo
apostrofò lei,
sollevando di nuovo la verga per una fattura difensiva.
«Solo
se tu non mi tratterai come una principessa da salvare»
in quel momento, il drago troncò con un morso una chela
dell’abominio, ed essa cadde
al suolo frantumandosi in una miriade di insetti che corsero a
nascondersi nel
sottosuolo. «Weasley-san» concluse Haru, scostando
un ciuffo scuro dagli occhi.
Le dita di Albus
si
chiusero attorno alla bacchetta come quelle di un naufrago attorno
all’ultima
ancora di salvezza. Suo padre gli aveva spiegato come usare quella
magia:
avevano fatto pratica nel giardino dietro casa tante volte per
perfezionarla.
Lo aveva indottrinato a dovere sui benefici di quell’incanto.
Ma non aveva mai
pensato che la prima volta in cui lo avrebbe messo in pratica sarebbe
stata
conto un morto formato da vermi e artropodi e un uomo pronto per la
bara.
Inspirò
a fondo, e l’aria invernale gli corroborò i
polmoni
e lo spirito; prese fiato dal centro del petto e gridò la
formula che suo padre
gli aveva insegnato con tanta cura:
«Expecto Patronum!»
Per
qualche istante, il mondo si resse su
un’immobilità
totale, che fece temere ad Albus di avere disastrosamente fallito. Poi,
dagli
alberi immoti si levò un ululato cristallino, e il minore
dei Potter poté
vedere per la prima volta il suo Patronum.
Era talmente bello che il ragazzo non riuscì ad associare
quel magnifico
esemplare ad una sua opera: un lupo gigantesco lo fissava con i suoi
occhi
acuti, splendido nel suo manto argenteo e nella sua muscolatura
massiccia.
Albus
richiuse di scatto la bocca che non si era accorto di
aver spalancato quando il lupo scattò verso
l’abominio, trapassandolo: l’enorme
insetto quasi si rovesciò per il contatto con
l’energia dell’animale del bosco,
e agitò penosamente da testa, infastidito dalla sua luce
pura. Il mago serrò la
presa sulla bacchetta e si concentrò per sincronizzare i
movimenti del suo Patronum a quelli
del drago, mentre
altre due verghe si levarono nella battaglia: Scorpius e Macauley
seguirono
l’esempio di Rose, e bombardarono il mago mefistofelico con
tutti gli
incantesimi offensivi del loro repertorio.
Il
bosco scintillò delle luci sanguigne delle magie, ed
echeggiò per i rumori della battaglia tra le creature
evocate; Macauley,
Scorpius e Rose marciarono in avanti quando il mago cominciò
a barcollare sotto
i loro incanti, facendo perdere vigore anche alla sua creatura,
stordita dal
lupo e ferita dal drago.
La
sorpresa che li fece sussultare, però, non fu legata ad
un possente contrattacco dell’individuo lugubre, ma al suo
improvviso
accartocciarsi su se stesso. Non si limitò a rannicchiarsi:
la sua pelle si
spiegazzò come una vecchia pergamena, le mani si
rattrappirono allo stesso modo
di un foglio di carta gettato nel camino, perfino i vestiti si
curvarono al
centro, coprendosi di pieghe; il viso collassò sul kimono logoro, che a sua volta si
compattò in un piccolo
concentrato di rughe. La sfera di tessuto semovente e incartapecorito
continuò
a rimpicciolirsi fino ad implodere, e quella piccola deflagrazione
causò la
tragica sorte della belva: le chele tremarono per il tremendo stridio
che la
mostruosità emise mentre il suo capo si sfaldava in una
ripugnante cascata di
insetti e vermi. Scorpius sentì uno strillo da donnicciola
alla sua sinistra, e
l’istante successivo il suo corpo era appesantito da una
cinquantina di chili
in più, precisamente quelli di Macauley, che gli si era
gettato addosso per
sfuggire all’orda di artropodi che sciamava a nascondersi nel
bosco.
«Schifose
bestiacce!» sibilò Nott, pestando per bene il
terreno contaminato prima di
poggiarvi di nuovo il piede sopra.
«È
svanito»
commentò Rose, molto più pragmatica
dell’amico Slytherin.
«Come è possibile?»
«Non
era
l’originale. Era un doppio.»
I
cinque giovani scattarono istintivamente sull’attenti
quando la voce della Eeriemay li colse alle spalle.
La
donna era riuscita a materializzare un paio di mocassini
ai suoi piedi, in modo da non arrivare sul luogo del combattimento con
i geloni,
e a far sparire le fastidiose scarpe con il tacco. Gli occhi smeraldini
li
fissarono uno dopo l’altro, indecifrabili, e si appuntarono
sulle due creature
di luce argentata.
«Albus.
Harunobu.
Eccellente lavoro» si complimentò. «Ora
congedateli.»
Il giapponese si
chinò a raccogliere le perle del rosario e
reclinò il capo in segno di
rispetto; il drago gli sfiorò la fronte con il muso
squamoso, dopodiché
sfrecciò verso il cielo e si dissolse tra le nuvole
accecanti. Albus si accomiatò
più goffamente dal suo Patronum,
ma
il lupo sopperì alla sua mancanza di stile lanciando un
secondo ululato e
sparendo nel bosco con la grazia di un animale fatato.
«Professoressa,
cosa è successo?» domandò Scorpius, la
schiena addossata all’albero contro cui
si era schiantato: ora che l’adrenalina della battaglia era
scomparsa, poteva
avvertire con chiarezza quanto la dura corteccia lo avesse scorticato.
«Era
pieno di
insetti!» sberciò isterico Nott.
«Come
è possibile
che sia scomparso in quel modo?» protestò Rose.
La
professoressa utilizzò un gesto perentorio da direttore
d’orchestra per imporre il silenzio ai suoi febbricitanti
allievi.
«Avrete
le risposte
che volete. Ma prima dovete andare in infermeria. Alcuni di voi
sembrano averne
bisogno» la Eeriemay condì il tutto con una
vistosa occhiata a Scorpius. «Lasciate
che Madamina vi curi. E dopo parleremo.»
I
giovani annuirono e si affrettarono a seguire l’insegnante
per il sentiero che portava a Hogwarts. Macauley e Albus aiutarono
Scorpius a
camminare, improvvisandosi stampelle umane, mentre Rose e Haru li
precedettero
in testa.
La
Eeriemay fermò tutto l’eterogeneo gruppetto a
metà strada
per un importante annuncio.
«Avete
sconfitto un
doppio da soli. Sono vostra responsabile e non dovrei
dirlo…»
Il
sorriso che le solcò le labbra meno truccate del solito
fu il più genuino che le avessero mai visto esibire
dall’inizio del primo anno.
«Sono
fiera di voi.»
***
«Mi
chiedo cosa
intendesse dire.»
«Forse
che è orgogliosa
del nostro operato.»
«Mi
chiedo se non
ci sia qualche significato nascosto.»
«Tu
sei troppo
cervellotica, Weasley-san. Forse, a volte, le persone intendono dire
semplicemente ciò che dicono.»
«Non
accetterò una
simile predica da te, Harunobu.»
Il giapponese
preferì iniziare una muta discussione con le sue dita
intrecciate che
proseguire quella con Rose. Madamina li aveva spediti fuori
dall’infermeria
quasi istantaneamente: non avevano riportato alcun danno, al contrario
di
Scorpius.
«Non
hai usato la
bacchetta per evocare quella… cosa.»
L’asserzione
di
Rose lo colse del tutto impreparato, per cui gli occorse qualche
secondo in più
del consueto per rispondere:
«È
uno shikigami.
L’equivalente orientale
dell’evocazione di tuo cugino. Basta il rosario per
richiamarlo» il giapponese
lanciò un’occhiata di rammarico al suo polso nudo.
«Dovrò farne uno nuovo.»
«Quindi
è questa la
tua specialità?»
Haru la
fissò in
silenzio dietro gli occhiali, e Rose scelse con cura le parole per
chiedere:
«Gli
incantesimi
della tua terra.»
La nostalgia
assottigliò gli occhi a mandorla del ragazzo, e per un
attimo la giovane poté
cogliere il vero significato della malinconia nelle sue iridi offuscate.
«Sì.
Quelli sono la
mia specialità» concluse lui.
Entrambi
fissarono
il soffitto prima che uno dei due trovasse la frase giusta per
interrompere
quel silenzio.
«Hai
combattuto
bene» si complimentò Haru.
«Anche
tu. Il drago
è stato molto d’effetto»
restituì Rose.
Il
soffitto magnetizzò di nuovo gli sguardi di entrambi, e
questa volta fu la ragazza a parlare.
«Perché
siamo
rimasti qui ad aspettare, anche se Madamina ha detto che è
tutto a posto?»
Il motivo
comparve
in quel momento sulla porta dell’infermeria: Louis
uscì con lo sguardo
abbassato ed un sorriso sommesso, segnali che la diagnosi non era stata
rosea
come sperava ma nemmeno catastrofica come immaginava.
«Louis-san»
lo
chiamò Haru. Il piccolo si voltò verso di lui, il
visetto grazioso rannuvolato
dal sospetto: non conosceva lo studente straniero, eppure lui lo aveva
appena
chiamato per nome. Provava un’istintiva diffidenza nei
confronti degli
sconosciuti che sembravano essere al corrente dei suoi dati personali.
«Devo
solo farti
qualche domanda su quello che è successo in
biblioteca» l’espressione ostile del
più giovane non mutò, ma l’asiatico
proseguì imperterrito: «Valentine ti ha
salvato?»
Louis
annuì, senza perdere il suo grugno poco minaccioso.
Ancora non capiva come il giapponese avesse scoperto il suo nome o
perché conoscesse
gli avvenimenti della biblioteca.
«Ed
è intervenuto
prima o dopo lo scoppio dei vetri?»
«Mi ha
buttato
sotto il tavolo un secondo prima dell’attacco»
rispose cauto il piccolo.
«Come
se avesse
saputo in anticipo cosa sarebbe successo.»
Haru
sussurrò a se stesso quella affermazione, ma non fu
abbastanza sottile: anche Louis la udì, e si accorse anche
dell’espressione
investigativa dell’orientale. Tutto ciò ebbe su di
lui l’effetto del morso di
un serpente; scattò all’indietro e
obiettò con rabbia:
«Valentine
non è
coinvolto.»
«Non
ho mai detto
questo.»
«Ma lo
stavi
insinuando» Louis rizzò il capo biondo e
dichiarò, con la voce bianca il più
possibile stentorea: «Non mi importa cosa pensi: Valentine mi
ha salvato. E
questo non cambia.»
La matricola non
ascoltò una parola di più: girò su se
stesso e scomparve nel corridoio il più
velocemente possibile.
«La
prossima volta,
prova con un approccio più gentile»
consigliò Rose, divertita dal cipiglio con
cui Louis aveva tenuto testa al giapponese.
«Non
avevo detto
nulla» si difese Haru. «A quanto pare, non sei
l’unica a vedere sottintesi
ovunque, Weasley-san.»
L’asiatico
sopportò la successiva ramanzina con la
remissività di chi sa di avere la coscienza sporca.
Quella
volta, era davvero presente un’insidia nelle sue
parole, e il piccolo l’aveva colta.
Era
convinto che Valentine fosse in qualche modo coinvolto,
o che perlomeno fosse a conoscenza di quell’attacco.
In
fondo, quel ragazzo li aveva già traditi una volta.
Non
avrebbe esitato a farlo di nuovo, se gli si fosse
presentata l’occasione giusta.
E
loro avrebbero dovuto essere preparati per quel giorno.
***
Scorpius
toccò
nervosamente il vistoso collare che Madamina gli aveva allacciato
addosso a
tradimento.
«Ora
capisco come
si sentono i cani» brontolò, cercando la striscia
adesiva che teneva
quell’orrore attaccato al suo collo.
«Madamina
ha detto
che era necessario» cercò di addolcirlo Albus.
«Sai
come si chiama
questo?» Scorpius ticchettò le dita sul collare e
proclamò: «Vendetta. Da
quella volta che sono caduto a Quidditch e ho continuato a giocare
anziché
venire in infermeria.»
«Non
credo che
Madamina sia così rancorosa.»
«Io
credo che la
memoria di Madamina sia più ferrea di quanto
immaginiamo.»
La bocca di
Albus
si piegò in un sorriso sfumato quando i suoi occhi
dirottarono sul proprio polso:
Madamina era stata più clemente con lui, e gli aveva
appiccicato un misero
cerotto su una piccola escoriazione. Non si era invece risparmiata con
Scorpius: lo aveva ficcato a forza nella branda ospedaliera e gli aveva
avviluppato il collo con quell’infernale strumento medico,
dicendo che il colpo
era stato più forte del previsto e che avrebbe dovuto
riposarsi.
«Non
vai a lezione?»
s’informò Scorpius, godendosi l’unica
cosa buona di quel soggiorno forzato: i
morbidissimi cuscini dell’infermeria dietro le spalle.
Albus scosse la
zazzera corvina.
«La
Eeriemay ha
detto che potevamo prenderci una giornata di libertà. In
fondo, oggi abbiamo
rischiato di morire.»
«Per
noi non è una
grossa novità. Ti ricordi le Scholzioni extra che abbiamo
dovuto fare?»
«Intendi
quella
volta che ci ha buttato in una tana di Gorgoni nane?»
«O
quella in cui
abbiamo dovuto cacciare un Orso Antropomorfo.»
«O
quando abbiamo
affrontato una legione di Termiti Sanguinarie.»
«Abbiamo
il passato
di un veterano di guerra» esalò Scorpius,
passandosi una mano sugli occhi. «E
abbiamo solo quattordici anni. Immagina cosa potrà succedere
quando ne avremo trenta.»
«Una
cosa è certa»
profetizzò Albus. «Avremo un sacco di aneddoti per
i nostri nipotini.»
Scorpius ebbe
una
proiezione mentale di loro due, vecchi e canuti, mentre intrattenevano
un
pubblico di mocciosetti con i racconti delle loro mirabolanti
avventure:
immaginò Albus salire sul bastone da passeggio come se fosse
una scopa, e lui
mulinare gli occhiali in giro per scimmiottare la bacchetta. Il quadro
complessivo fu così comico che una risata
zampillò spontanea.
«Anche
gli altri
hanno il pomeriggio libero?» chiese Scorpius.
«Non
Rose e Haru»
annunciò Albus, senza aggiungere il motivo: sarebbe stato
innaturale che i due
cervelloni del gruppo rinunciassero alle loro beneamate nozioni
quotidiane. «Credo
che Nott sia impegnato in un’opera di disinfestazione totale
del suo corpo.»
«E tu
hai
intenzione di sprecare il tuo pomeriggio in infermeria?»
«Non
fare il
sarcastico. Sono infortunato anche io» contestò
Albus, facendo svettare il
microbico cerotto.
Scorpius
preferì
affondare la schiena nel cuscino piuttosto che stuzzicare ancora il suo
amico,
e Albus ne approfittò per rendere più comoda la
sua posizione: era piazzato su
una sedia a lato del letto del compagno, e sfruttò una parte
libera di
materasso per appoggiarvi le braccia incrociate e usarle come cuscino.
Le
emozioni della mattinata lo avevano talmente sfinito che
trascorsero solo pochi minuti prima che il suo respiro si appesantisse
in un
sonno esausto.
Scorpius
sollevò la testa, per quanto il collare rigido gli
permettesse, e studiò l’amico. Del loro gruppo,
Albus era quello che più di
tutti manteneva ancora dei tratti infantili, visibili nelle guance
tonde e
negli occhi grandi, ora chiusi nel sonno. L’adolescenza si
stava pian piano
facendo strada nella linea della mascella, nelle spalle e nei
centimetri di
altezza guadagnati, ma non aveva ancora cancellato del tutto il bambino
che
Albus era stato.
Scorpius
allungò una mano per accarezzare i capelli corvini
del ragazzo, godendosi quella serenità: era tanto tempo che
non parlavano con
tranquillità, ed era assurdo che fossero riusciti a farlo
solo dopo essere
stati quasi uccisi da un mago scheletrico. Ed erano parecchi giorni che
lui e
Albus non si ritrovavano a chiacchierare nello stesso letto. Anche in
quel
caso, la branda di un’infermeria non era prevista nelle sue
ipotesi di
riconciliazione, ma era comunque gradita, se serviva a recuperare il
loro
vecchio legame.
Scorpius
si rilassò in quella pace familiare, senza
accorgersi di avere accarezzato i capelli dell’amico tutto il
tempo.
Forse
Madamina aveva ragione: avrebbero fatto meglio a
riposarsi tutti e due.
***
Margaret
Finnigan arrivò
in infermeria con le labbra spalancate dal fiatone.
Aveva
saputo che Scorpius era stato ferito, e si era
precipitata a verificare le sue condizioni.
Si
fece dire da Madamina il numero della stanza e decelerò
il passo solo in prossimità della porta, per evitare di
disturbarlo in caso
stesse riposando.
Girò
la maniglia e fece ruotare piano i cardini per
sbirciare all’interno. Rischiò di rovinare tutte
le sue premure quando la
sorpresa minacciò di farle scoppiare sulla bocca una
rumorosa esclamazione.
Scorpius era
steso
sul letto, la testa rialzata da due cuscini e un collare medico attorno
alla
gola. Gi occhi erano chiusi in una rilassatezza totale, e le labbra
erano
piegate in una curva dolce che sapeva di serenità.
C’era però un dettaglio non
previsto, in quell’idillio: accanto al suo ventre riposava
Albus, la testa
appoggiata sulle braccia conserte che ne nascondevano il viso, la cui
unica
parte visibile erano le ciglia che scurivano leggermente gli zigomi con
la loro
ombra.
La
mano di Scorpius era appoggiata sui capelli di Albus, con
le dita intrecciate alle ciocche di ebano, prova che il giovane non
aveva solo posato
il palmo sulla nuca del compagno, ma gli aveva accarezzato i capelli
ripetutamente.
Margaret
sentì la
necessità di deglutire, mentre richiudeva la porta. Da
quando stavano insieme,
Scorpius l’aveva toccata a malapena: era sempre lei a
prendere l’iniziativa per
tenergli la mano, e lui l’abbracciava solo quando lei glielo
chiedeva.
Era
una condizione abbastanza umiliante per cominciare una
relazione, ma era convinta che presto Scorpius si sarebbe abituato a
lei, e
tutta quella timidezza si sarebbe dissolta. Fino a quel momento: non si
era mai
dimostrato altrettanto serafico in sua presenza, anzi, c’era
sempre qualcosa di
artificioso nei suoi movimenti, come se non sapesse esattamente come
comportarsi e si stesse attenendo ad un copione scritto da altri.
Che
senso aveva essere la sua ragazza, se aveva più
intimità
con i suoi amici che con lei?
Scrollò
la testa e uscì dall’infermeria.
Era
venuta per assistere Scorpius, ma era chiaro che non era
della sua assistenza che aveva
bisogno.
***
Nott
sobbalzò sul
letto quando bussarono alla porta.
Erano
passati quattro giorni dall’attacco del mago dei
vermi, ma il terrore di quell’esperienza non era ancora
svanito: da allora, i
suoi incubi si erano popolati di insetti giganteschi e sporchi che
piovevano da
tutte le parti, attentando alla sua incorruttibilità
igienica.
Fortunatamente,
fu
qualcosa di più pulito e profumato ciò che si
presentò dinanzi a lui quando
aprì la porta: la Eeriemay lo scrutò
dall’alto dei suoi tacchi laccati e
domandò, senza nemmeno salutare:
«Scorpius
è stato
dimesso dall’infermeria?»
«Sì…»
«Allora
raduna il
tuo squadrone, Macauley. Vi voglio davanti al pipistrello entro dieci
minuti,
d’accordo?» lo lisciò vezzosa,
allungandogli un buffetto sulla guancia.
Nott stava per
replicare su quanto il contatto fisico non richiesto fosse socialmente,
psicologicamente e batteriologicamente sbagliato, ma la professoressa
si era
già volatilizzata nel dedalo dei corridoi.
Sbuffò
sonoramente, e afferrò il Cercapersone per facilitare
la ricerca.
All’orizzonte
si
prospettava un’altra megagalattica serata. E non era sicuro
di essere felice di
quella prospettiva.
Eccomi
di nuovo
qui<3
Alcune
dichiarazioni da fare in merito al capitolo: gli origami
sono animali, fiori o altro ottenuti mediante l’arte
orientale di ripiegare un foglio di carte. Gli shikigami,
invece, sono degli spiriti che possono essere evocati
dagli onmyouji (specialisti di arti
esoteriche e divinazione), esattamente come i famigli dei maghi
occidentali.
Questo
capitolo
introduce un po’ il tema della magia orientale…
che sarà spiegato e meglio
analizzato nei capitoli a seguire, non temete<3
Ancora
una
volta, mi scuso profondamente per il ritardo .-. Per evitare un altro
catastrofico allungamento dei tempi di pubblicazione, ho già
cominciato a
scrivere il capitolo successivo, e sono a metà…
spero quindi di pubblicare in
tempi più brevi XD
Come
sempre,
grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3
A
presto!
Red