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Autore: cerconicknamesugoogle    30/11/2012    3 recensioni
Se Katniss fosse stata una ragazza come tutte le altre? Un semplice tributo sopravvissuto alla furia di Capitol City? Se non ci fosse stata nessuna rivolta? Se i Distretti avesser continuato ad abbassare la testa davanti al potere costituito?
Siamo alla Centesima edizione degli Hunger Games, la quarta edizione della Memoria. I giochi saranno diversi.
Due Tributi. Distretti diversi, famiglie diverse, ferite e cicatrici diverse. Due destini separati, se credete nel destino. Due destini che sono destinati ad intrecciarsi, per la gioia degli spettatori.
Questa volta ci sarà un solo vincitore per gli Hunger Games.
Che i Giochi abbiano inizio? Tenete gli occhi incolati sullo schermo, ci sarà da divertirsi.
*Fanfiction scritta a quattro mani da Wania97 e Clalla97, per la gioia di chi ama i loro scleri, cioè nessuno ù-ù Un personaggio a testa, uno per uno non fa male a nessuno.*
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Animal I have become

"Quattro zampe buono,
due zampe cattivo."
George Orwell,
La fattoria degli animali

Lo studio era percorso da un vocio sommesso, nell'attesa che la busta fosse finalmente aperta e che fosse rivelato a tutta Panem lo svolgimento di quella Centesima Edizione.
Ed ecco che il pubblico fu accontentato: il presidente fece il proprio ingresso nella sala, impettito e impeccabile come al solito.
Fu una cosa veloce, la presentazione, l'attesa era palpabile nell'aria. Tante parole una in fila dietro l'altra, in uno schieramento così serrato da rendere la battaglia persa in partenza.
Il rumore della ceralacca che si spezzava fu, alla fine, come musica per le orecchie di tutta Capitol City. Non per lei. Non per i Distretti.
"Nella nostra Quarta Edizione della Memoria, per ricordare che, comunque vadano le cose, ne rimarrà soltanto uno..."
Due Arene. Ventiquattro Tributi per Arena. I due rimasti si scontreranno. Ne rimane sempre e solo uno... Solo uno...
Non furono quelle le esatte parole, ovviamente. Ma fu tutto ciò che rimase nella mente di Lenore.

"Rowena Dallis, Distretto Uno, voto 9."
Il volto di Lenore era contratto, mentre ascoltava Caesar che enumerava i risultati con un tono di voce rilassato e terribilmente impostato.
Aveva gli occhi chiusi, la testa gettata all'indietro sullo schienale del divano, rifiutandosi di guardare i presenti. Sentiva Gregory al proprio fianco, la gamba quasi a contatto con la sua.
Non si erano più rivolti la parola in privato, dopo quel litigio con Darren. Il Mentore ci aveva provato, a dire il vero, ma il rifiuto di Len era stato di una veemenza tale che aveva rinunciato dopo il primo tentativo. Nessuno se n'era accorto, lì al quarto piano, dato che erano stati entrambi particolarmente attenti a non dare il minimo segno di screzio: Greg continuava a sedersi a tavola per i pasti, Len si sedeva accanto a lui e gli passava il sale quando lui glielo chiedeva, ma nulla di più.
La verità era che lui le mancava. Le mancava avere qualcuno su cui contare, ma la rabbia continuava a invaderla ogni volta che lo guardava in viso e ripensava al modo in cui aveva trattato il fratellastro e di come gli aveva parlato, come se lei non fosse nemmeno presente. Come se il suo, di parere, non fosse poi così importante.
Peccato che avesse ragione. Da vendere. E peccato che la ragazza fosse troppo orgogliosa per tornare a rivolgergli la parola.
Così, quando il ginocchio ossuto sfiorò inavvertitamente la sua coscia, Lenore si ritrasse riaprendo gli occhi e rivolgendo uno sguardo tagliente al ragazzo al suo fianco.
Gregory rimase a fissarla per qualche istante, apparentemente ferito da quel gesto, e poi riportò l'attenzione sullo schermo, le spalle ingobbite, le mani tremanti e il labbro inferiore segnato dai denti.
Era questo che alla ragazza dava più fastidio: il fatto che tutta la sua rabbia andasse a schiantarsi contro un muro di rimorso e di tristezza che le toglieva tutte le forze che le servivano per arrivare ad odiare anche il suo Mentore.
"Lenore Reeds, Distretto Quattro, voto 7."
La ragazza sorrise, abbandonando di nuovo il capo contro l'imbottitura. Sette. Doveva essere più basso, ma poco importava. Andava bene comunque. Sentì chiaramente la risatina di Rosemary, dall'altro capo del divano, ma non ci diede troppo peso, dopotutto lei cosa ne sapeva?
Ci aveva messo tutto il suo impegno per tenere un basso profilo, davanti agli Strateghi, mentre invece Rosemary doveva aver impiegato tutto il proprio per strappare, in effetti, lo stesso voto alla commissione. Non c'era nulla di male a lasciare che si illudesse di potercela fare. L'avrebbero tolta di mezzo più facilmente.
I voti si susseguirono uno dietro l'altro, prontamente schedati nella sua testa, perché nessun dato dei potenziali ostacoli andasse perduto. Ognuno di loro era una minaccia.
"Darren Thomson, Distretto Dieci, voto 10."
Una risata silenziosa scosse le spalle della ragazza, che sentì, anche senza vederli, gli occhi pungenti del proprio Mentore puntati su di lei. Dieci. Non si aspettava niente di meno, da lui.
Solo l'ennesima minaccia.
La vuoi sapere la verità, Lenore? Non hai bisogno di guardarti tanto attorno. Il pericolo più grande si nutre dei tuoi sentimenti. Più gliene dai e più lui diventa forte.
La minaccia vive dentro di te.

"Il vestito ti sta a meraviglia."
La voce nasale di Sybil scosse Lenore dal torpore dolorante che l'aveva avvolta finché era rimasta fra le mani degli Stilisti.
Le sembrava che avessero scardinato ogni osso del suo corpo, stirato ogni muscolo e grattato a sangue la sua pelle. E la stanchezza residua degli allenamenti in cui si era gettata con anima e corpo, per sfuggire ai pensieri, di certo non era di aiuto. Il sudore sapeva di sale e fatica, eppure aveva un gusto cento volte migliore di tutti i pensieri che affollavano la sua mente.
La donna la spinse con urgenza davanti allo specchio, lasciandola a fissarsi con indifferenza.
Ricordava la propria reazione davanti alla trasformazione per la Sfilata, ma quella volta, in qualche modo, era diverso.
Ora non provava semplicemente nulla. Sì, l'avevano snaturata un'altra volta. Sì, il vestito era bello, lungo, fatto di un tessuto leggero e di un colore che andava sfumando da un azzurrino pallido quasi bianco della parte superiore fino al blu scurissimo della parte inferiore. Sì, il trucco la faceva sembrare una bambola priva di difetti e fatta di plastica. Ma in fondo faceva tutto parte del gioco, e ormai lei ne era parte integrante. E non era compito delle pedine decidere le regole.
"Ti slancia e ti fa sembrare ancora più magra di quello che sei." approvò la Stilista, facendola girare su se stessa.
"Sai, è una fortuna poter lavorare con te, quest'anno. La scorsa edizione mi era capitata fra le mani una ragazzina smunta, scialba in una maniera sconfortante. E con una postura terribile. L'ho rimaneggiata in un sacco di modi, ma niente da fare. Riusciva a far sembrare uno straccio anche il mio vestito migliore. Era simile a questo, ma non ho voluto sprecarlo con una come lei."
Lenore fu infastidita dal tono della donna. Come se quel Tributo fosse stato solo un oggetto che lei aveva usato per un po' e di cui si era stancata quasi subito, delusa dai risultati. Se la ricordava, quella ragazzina. Aveva un viso smagrito dalla fame: una delle poche famiglie povere del Distretto. Aveva scosso la testa, quando l'aveva vista salire sul palco, quell'anno, leggendole in fronte che non avrebbe superato nemmeno la Cornucopia. La previsione si era rivelata corretta. Avevano inquadrato i cadaveri a terra, una volta che i Tributi si erano sparsi nell'Arena. Lei era lì, le gambe scomposte e il viso ridotto ad una maschera irriconoscibile. Qualcuno doveva averla calpestata, nella fuga, perché il torace era stato sfondato, le fragilissime costole collassate una sopra l'altra, schiacciando i polmoni che non avrebbero più accolto l'aria. Lenore aveva sperato con tutta se stessa che la ferita alla testa l'avesse uccisa prima di quella mostruosità e che lei fosse morta senza dover affrontare quella terribile agonia.
"Si chiamava Linda, aveva solo tredici anni e la sua famiglia non aveva di che mangiare." protestò, sibilando.
"Beh, è morta." la donna liquidò la faccenda con un irritante gesto della mano. Lenore serrò la mascella.
"Già... è morta." ripeté quasi meccanicamente, mordendosi la lingua per non replicare. "Come moriranno quarantasette di noi, quest'anno."
"Un vero peccato. Ci sono proprio delle belle ragazze, forse troppe. La rossa del Cinque e le due del Sette sono veramente uno spettacolo. Ho suggerito io alle loro Stiliste le mise per stasera."
Sybil la fissò qualche secondo, per poi aggiustarle lo scollo a V del vestito.
"Ma non temere, cara... Credo che tu le superi tutte."
La ragazza non rispose nemmeno, troppo basita per riuscire a spiccicare parola.
"Ora va' e mi raccomando: sta attenta a non rovinare tutto il mio lavoro. Gli Hunger Games saranno niente in confronto a quello che ti farò se mi sciupi quell'abito."
Lenore si avviò verso la porta, un incidere quasi militaresco che mal si accordava all'elegante delicatezza del suo aspetto.
"Sciogliti un po', ancheggia e... ti prego... sorridi!"
Fu solo quando si trovò in mezzo alla folla di Tributi che la ragazza sentì il peso di tutto ciò che stava succedendo calarle sulle spalle: stava per apparire in tv davanti a tutta Panem, aveva evitato l'incontro con Farika e anche quello con Greg, non sapeva cosa fare né cosa raccontare a tutta quella gente stipata nell'auditorium e soprattutto... il giorno dopo l'avrebbero getta nell'Arena.
Doveva parlare con qualcuno.
Qualcuno che la spronasse ad essere forte, anche inconsapevolmente.
Non Gregory, ovviamente. Con lui era ancora furiosa.
La risposta la sorprese, per la sua banalità.
Darren.

Lenore era appoggiata con la schiena al muro, totalmente dimentica di quelle che erano state le vive raccomandazioni della Stilista sul suo vestito. Il suo sguardo era puntato sul ragazzo, che scambiava un paio di parole con la sua Mentore prima della Intervista. Era elegante, nel suo smoking nero, anche se sembrava leggermente a disagio e fu facile, per lei, ritrovare nella postura e nella rigidità dei muscoli qualcosa che sapeva essere nervosismo.
Avrebbe preferito non parlargli né essere costretta a farlo, ma dopotutto era suo fratello e le serviva.
Il campanello d'allarme suonò un secondo in ritardo, nella sua testa.
Fratellastro, Lenore, fratellastro.
La Label si allontanò e Darren si appoggiò alla parete in un modo che ricordava inconsapevolmente quello della sorellastra. Lo distinse con chiarezza, il momento in cui lui si accorse del suo sguardo: fu un tremito involontario, quasi impercettibile, di quelli provocati dalla morsa del freddo infido che si insinua nell'anima. E, non appena lui ricambiò lo sguardo, sentì con chiarezza che quel freddo stava attraversando anche lei.
"Cosa vuoi, Lenore?" le chiese, avvicinandosi. Era esattamente la voce che si aspettava da lui, dopo l'ultima conversazione: gelida e scortese. Eppure fece male lo stesso.
La ragazza scrollò le spalle impedendosi di manifestare alcune espressione.
Mi dispiace. Erano quelle le parole che premevano sulle labbra, ma non furono quelle che uscirono.
"Sapere che cosa dovrò dire a quella gente quando mi chiederanno perché siamo sputati." rispose, nello stesso tono distante.
Darren scrollò le spalle, quasi la cosa non gli importasse o non fosse poi così fondamentale. In effetti non lo era.
"Di' loro che è una coincidenza e che non significa nulla. Nessuno dei pezzi forti di Capitol City vorrebbe comunque che saltassero fuori gli svaghi di certi bravi Pacificatori." Era freddo, Darren. Come al solito. Forse troppo. Era qualcosa che andava al di là dell'Arena, si rese conto Lenore: avevano oltrepassato una linea da cui era impossibile tornare indietro. Spezzati. Divisi.
"Sarebbe un bel colpo, però." commentò, con un sorriso stirato in una smorfia beffarda che in verità non aveva nulla di divertito. "E se non fosse per il fatto che quei bastardi hanno in mano la... mia... vita, potrei quasi farci un pensiero."
Bloccata appena in tempo. Appena prima di dire 'la nostra vita'. Appena prima di far crollare il muro di ghiaccio che la separava da lui, che però, per fortuna, rimase lì, saldo al suo posto e più bruciante che mai.
Il viso di Darren si mantenne altrettanto immobile ed impassibile.
Sta diventando di pietra. Si ritrovò a pensare Lenore. Nessuna possibilità di sciogliersi... Non più. Ho davvero lo stesso viso?
"Puoi fare quello che vuoi." sillabò lui "Ma evita di tirarmici dentro."
"A dirla tutta io dovrei cercare un modo per sbarazzarmi di te." replicò lei con ostentata indifferenza. "Ma ti accontenterò, fratellone." concluse alla fine mantenendo un mezzo sorriso sulle labbra e calcando sull'ultima parola.
"Non puoi buttare a fondo me durante questa intervista senza buttare a fondo anche te stessa." replicò lui, perfettamente conscio, evidentemente, di quello che era il suo bluff. I muscoli del viso come sigillati, la mandibola serrata e lo sguardo implacabile di chi odia ciò che guarda.
E solo l'altro giorno rideva...
"Vale sempre la pena di tentare." lo gelò lei. Pregò con tutta se stessa che i suoi occhi fossero come quelli che vedeva davanti e che lui non potesse capire. Nulla. "Bene, in bocca al lupo, Darren." concluse, il più piattamente possibile.
"Ti ucciderò se mi capiterai davanti, Lenore. Tu mettiti sulla mia strada ed io farò tutto quello che posso, ogni cosa, per ammazzarti."
Ecco. L'aveva sganciata, alla fine, la bomba. E quella era esplosa, togliendole tutto il fiato dai polmoni. E, così come lui le aveva riversato dentro il suo odio, così lei gli scaricò addosso il proprio, in una bruciante cascata di acido.
Lenore si voltò, strappando dalla propria gola una risata fredda e priva di emozione.
"Per quel che vale, Darren, non sono mai stata più d'accordo di così, con qualcuno. Farti fuori non sarà poi così difficile." Ruotò di nuovo il collo, per fissare gli occhi in quelli del ragazzo per l'ultima volta. "Avrei dovuto ascoltare Greg fin dall'inizio, mi sarei risparmiata un sacco di problemi. Non vali niente più degli altri. Ci vediamo, bastardo."
Le pensava veramente, tutte quelle cose? Forse. Dopotutto le bugie migliori erano quelle che avevano un fondo di verità. E quella era una bugia molto buona. Perché il vero c'era, eccome: si sarebbero uccisi a vicenda e lo sapevano entrambi. E quell'odio, sotto sotto, non era pura finzione.
"Sarai morta prima che tutto questo abbia fine." sibilò Darren, a bassa voce.
"Vedremo. È un gioco, no? Tu pensa a giocare."
Lenore se ne andò, senza voltarsi indietro.
Aveva avuto ragione: parlare con lui era servito.
Era successo. Tutto stava andando lentamente al proprio posto. Il puzzle prendeva forma, definitivamente. Ora che aveva convinto Darren e anche una buona parte di se stessa, mancava solo tutto il resto di Panem.
Si dipinse sul volto un'espressione decisa e sicura, inserendo le ultime tessere nella facciata che avrebbe presentato al pubblico.
Sorrise amaramente.
Le telecamere la stavano aspettando.

L'applauso salutò Dave, che scese di nuovo dietro le quinte con gli occhi spiritati e l'eccitazione che si spandeva nell'aria con la stessa violenza del profumo che gli Stilisti gli avevano versato addosso a litri. Len avanzò, respirando a fondo.
Era il suo turno.
"Ed ora... accogliamo con un bell'applauso la seconda, splendida, ragazza del Distretto Quattro: Lenore Reeds!"
Si era aspettata che la vista del pubblico, sicuramente numerosissimo, l'avrebbe impietrita, ma non fu così: la luce accecante dei fari faceva sì che, per chi fosse stato seduto sul palco, la platea fosse immersa nella più totale oscurità.
I muscoli si rilassarono istintivamente e la ragazza si diresse verso il conduttore, sorridendo sicura e rivolgendo un cenno di saluto agli spettatori che non riusciva a distinguere.
Caesar, impeccabile come al solito nel suo vestito lilla, la invitò a sedersi, seguendo a propria volta quel consiglio tanto sensato quanto inutile.
L'uomo la fissò qualche istante senza dire nulla e in Lenore nacque per la prima volta una sensazione sconosciuta: la paura del silenzio. Non volava una mosca, sullo studio. Caesar non parlava, il pubblico nemmeno e Lenore era totalmente nel panico. Ma fu un solo istante, dilatato fino a diventare un secolo, e poi le labbra del presentatore si aprirono in un sorriso accattivante.
"Eh sì... l'ho pensato quando ti ho vista alla Sfilata e non ho nessuna paura di ripeterlo: veramente adorabile, non è così?"
Si levò una serie di mormorii di assenso, che la ragazza identificò come maschili. Sorrise, una mezza smorfia che ebbe il risultato di apparire allo stesso tempo indifferente e divertita. Affascinante.
"Oh, allora nessuno ha notato che questa, in pratica, non è la mia faccia." replicò lei con indolenza.
Sorridi. Sii pungente. Non aver paura di risultare sfacciata. Va tutto bene.
"L'ho sentito dire. A quanto pare, gli Stilisti fanno miracoli con il trucco."
"Sì, immagino che tu l'abbia solo sentito dire..." lo stuzzicò lei, accavallando le gambe sotto la stoffa leggermente trasparente. Quel gesto forzato le ricordò inevitabilmente la naturale sensualità della madre, che dopo tutto quel tempo si portava addosso i segni del mestiere ovunque andasse. La rivide sedersi, spostarsi le gonne perché si adattassero alla sua figura, sistemarsi i capelli dietro l'orecchio per poi sorridere con le ciglia basse di finto pudore e ripeté ogni singolo gesto, cercando di non apparire ridicola, goffa.
Il pubblico si profuse in una serie di versetti, divertito dallo sfacciato commento della ragazza.
"Ma sentitela!" Caesar proruppe in una risata allegra "Che lingua lunga..."
L'espressione di ostentata innocenza di Lenore sembrò alimentarla ulteriormente.
"Ah, cara... un bel caratterino, per un bel visino. Ne vedremo delle belle, nell'Arena."
La ragazza si lanciò in un verso volutamente teatrale.
"Oh no, Caesar, ti prego: non parliamo di Hunger Games!"
"Ma... Lenore... tu sei agli Hunger Games." la informò lui, reggendole in gioco di buon grado.
"Ah, già."
L'espressione che le si dipinse in viso sembrò di un disappunto così sincero che l'ilarità della platea divenne presto un boato che scosse la sala.
"Immagino che avrei dovuto ricordarlo."
"Eh, probabile... Ascolta, vogliamo sapere un po' di te, però. Chi hai lasciato a casa?" le chiese, ritornando serio.
"Nessuno." rispose istintivamente la ragazza, con un tono che non lasciava spazio a repliche. Eppure Caesar riuscì a trovarle.
"Nessuno? Non è possibile. Amici, parenti..." chiese allibito.
"Mia madre." rispose lei, a testa bassa. La carta della ragazza sola forse le sarebbe servita, per una volta.
"Solo tua madre? Mi dispiace... Le vorrai bene, immagino." la incitò lui, comprensivo.
"Lei non ne vuole a me, non vedo perché non dovrei ricambiare questa assenza di interesse."
"Non ci credo! È tua madre!" esclamò Caesar, quasi senza parole.
"Le ricordo mio padre. Lei lo amava ma lui l'ha abbandonata ed è tutta colpa sua se è diventata quello che è. Perciò, non riuscendo a smettere di amarlo, allora odia me."
Fu una conclusione priva di sentimento, quella di Lenore. Una conclusione che sapeva essere una bugia. Ma in fondo Caesar aveva toccato uno dei punti che erano passati in secondo piano, in quei giorni. Sua madre in quel momento non poteva ucciderla, fino a prova contraria.
"E che cos'è tua madre, Lenore?" chiese lui, cauto. La ragazza non poté fare a meno di chiedersi se lui lo sapesse già. Abbassò gli occhi, fingendo una reticenza che era vera solo in parte: se parlare di sua madre fosse servito a qualcosa, allora lo avrebbe fatto di buon grado, pur odiando l'idea.
"Io non..."
"Lenore, non c'è niente di cui vergognarsi."
Che cazzata.
"Una prostituta... mia madre è una prostituta." sputò lei alla fine, trovandosi di nuovo faccia a faccia con quell'odioso silenzio. Quella volta non fu solo un'impressione, il tempo passato senza nessuna parola fu veramente infinito, un silenzio ricolmo di ipocrita pietà.
"Mi dispiace." sussurrò alla fine il Maestro di Cerimonie, che a quanto pareva aveva scoperto che le cose di cui vergognarsi esistevano, eccome. "E tu..."
La ragazza colse al volo il significato di quell'esitazione e l'orrore che le sfigurò l'espressione fu pienamente sincero.
"Oh no, io no! Candida come una colombella! Non ho ancora raccolto il testimone. Né penso che lo farò mai."
L'uomo, ancora lanciato nel compassato ruolo di consolatore, fraintese le ultime parole.
"Lenore, non essere così pessimista. Hai delle possibilità di vincere."
La ragazza lo ringraziò silenziosamente per non aver aggiunto altro.
"Ma certo. È un peccato che io non mi sia fatta mai spiegare i trucchi da mia madre, magari sarebbero tornati utili. Più di un coltello, forse."
Ed ecco che tutta l'empatia e il rammarico del pubblico scomparve sotto l'ondata dell'ennesimo eccesso di risa che scosse i presenti. Persino Caesar non riuscì ad impedirsi di sogghignare.
"Immagino che gli uomini rimangano sempre uomini. Ma a proposito di genere maschile: c'è un ragazzo in particolare di cui ti volevo parlare..."
Lenore annuì, sistemandosi comoda sulla sedia.
"Chiedi pure. Al massimo, se la domanda sarà troppo imbarazzante, potrei fingere un mancamento."
"Oh, non ce ne sarà bisogno" ridacchiò lui "Darren Thomson, Distretto Dieci. Siete due gocce d'acqua, ma i vostri Distretti sono parecchio lontani." esordì con curiosità.
"Oh, non me ne parlare. Ci sono rimasta di stucco, quando l'ho visto. Una coincidenza davvero mostruosa. E un po' inquietante, a dire il vero. Per fortuna che almeno è nell'altra Arena, cercare di uccidere un mio sosia mi avrebbe messo leggermente a disagio. Sarebbe stato come rompere il proprio riflesso. Dicono che infrangere gli specchi porti parecchia sfortuna. E io avrò bisogno di tutta la buona sorte che è possibile racimolare in così poco tempo."
"Quindi è solo un caso. Nessuna parentela." chiese lui con un sorriso rilassato.
Evidentemente Darren aveva avuto ragione: Capitol City era preoccupata per la spiacevole piega che avrebbero potuto prendere gli eventi se si fossero scoperte alcune cose.
"Assolutamente."
"Beh, meglio così. Mi dispiace veramente, ma il nostro tempo a disposizione è finito."
Si alzarono di nuovo il piedi, mentre lui le prendeva la mano e la indicava al pubblico.
"Lenore Reeds, Distretto Quattro."
Gli applausi fioccarono di nuovo e qualcuno si azzardò addirittura a gridare il suo nome.
Lei sorrise, decisa, e tornò di nuovo verso la scaletta che l'avrebbe trascinata via da quell'inferno.
Lontano dai riflettori il suo viso divenne di nuovo una maschera imperturbabile e tutta la tensione che l'aveva irrigidita fino a quell'istante scivolò via, lasciandola vuota e priva della forza di camminare oltre.
Una volta sorridere era stato un regalo che la vita riservava, era stato qualcosa di speciale, qualcosa che le piaceva. Non più. Odiava le risate, l'allegria. Odiava chiunque era felice.
Li sentiva sulla pelle, gli sguardi disgustati e sprezzanti degli altri Tributi, ma decise di ignorarli. Non ne valeva la pena. Non le valeva mai.
Non si guardò intorno, nella paura di incontrare un paio di occhi di ghiaccio o un paio di ebano.
Sfilò via, alla ricerca di calma, di solitudine e di un silenzio che non potesse leggerle dentro.

Sybil l'aveva lasciata sola, ovviamente. Non c'era da aspettarsi che una come lei potesse rimanere a darle conforto, lì nella Camera di Lancio.
Le aveva dato il pacco con i vestiti, l'aveva osservata e aveva rivolto un cenno di approvazione ai pantaloni marroni, alla maglia nera, al cappotto dello stesso colore e ai robusti scarponi, per poi augurarle buona fortuna e andarsene a godersi lo spettacolo. Niente di nuovo.
Len non aveva toccato cibo, né quella mattina, né la sera precedente, ma era troppo tesa per sentire la fame o la stanchezza delle numerose notti passate in bianco.
La sua mente si era accesa di nuovo, traditrice, a farle notare ogni singolo particolare della sala, stordendola ancora di più di quanto già non fosse.
Sola. Terribilmente sola. Nessuno a farle compagnia, a parlarle, a sorriderle...
Si grattò nervosamente la pelle ancora dolorante per l'iniezione del rilevatore. Ce la poteva fare.
Doveva farcela.
La sentì subito, l'esitazione della persona che stava aprendo la porta, e capì subito a chi apparteneva, ancora prima di sentire gli esili respiri spezzati o di vedere la figura allampanata.
Si gettò fra le braccia del ragazzo, affondando il viso nel suo torace scheletrico e ignorando la sua instabilità di fronte a quel gesto inatteso.
Gregory impiegò qualche secondo a rendersi conto di ciò che stava succedendo veramente.
"Io... credevo che tu non volessi vedermi. Sarei venuto prima se..."
"Mi dispiace." li interruppe lei, con un filo di voce. "Sono stata una stupida. Mi dispiace."
Il respiro di lui le risuonò nelle orecchie e le sue braccia nervose la avvolsero, stringendola a sé.
"Diciamo che in quanto a stupidità io e te ci facciamo parecchia concorrenza."
Si sedettero entrambi sul divanetto, in un angolo. Lenore si aggrappò a qual contatto fisico come se fosse l'ultima cosa che le rimaneva. Ed era così.
Alzò il viso, cercando di incontrare gli occhi scuri del Mentore, ma non li trovò, o almeno, non fissi su di lei: vagavano impazziti su tutta la sala, senza soffermarsi su un singolo particolare per più di un secondo; i muscoli era tesi, troppo rigidi; il piede destro continuava a battere per terra, in una sorta di cadenzato ritmo che stava cominciando a esasperarla. Quello era il Gregory che ricordava dalle Mietiture, non quello degli ultimi giorni.
"Greg... perché hai paura?" La frase era uscita di getto, senza essere veramente intenzionale.
Che domanda stupida. È ovvio che ha paura, ne abbiamo tutti, no?
Il ragazzo si impietrì.
"Non ho paura." la smentì invece lui, senza troppa convinzione.
"Il tuo corpo dice di sì."
Gregory rise, una risata che fece calare il gelo fin dentro le sue ossa.
"Sta succedendo di nuovo. Tu me la ricordi così tanto..." sussurrò, lo sguardo ancora impazzito.
Lenore capì subito a cosa si riferiva e strinse fra le mani la maglia del ragazzo.
"Le assomiglio molto?"
Finalmente gli occhi del Mentore sembrarono vederla davvero.
"Oh... no. No, non le assomigli per nulla. Lei aveva i capelli castani, i tuoi invece sono così scuri... non c'è luce tra i tuoi capelli, Len, così come ormai non ce n'è più dentro di te. Ti ho costretto a spegnere tutto..." disse passandole le dita fra le ciocche corvine.
"Non è colpa tua, io..."
"Sai, anche gli occhi sono così diversi." continuò, ignorandola. "Non ricordo di che colore fossero i suoi, in realtà, ma erano così... espressivi. I tuoi sono così distanti, non sei mai con me quando ti parlo, non veramente. Eppure sai ferire così bene, Len. Fai male come nessun altro. Come ci riesci, ragazzina? E come riesci a farti scivolare addosso tutto quanto?"
Lenore scosse la testa, deglutendo.
"La... la amavi?" chiese sommessamente.
"Cosa?" domandò lui, come se la domanda lo avesse sorpreso. "No, io... No, non la amavo. Anzi, la maggior parte delle volte era irritante." una smorfia di fastidio gli increspò le labbra, sotto i ricordi di tutti i momenti che doveva aver passato insieme a quella ragazza.
Lenore annuì.
"Immagino che in questo sia molto simile a me." constatò, quasi rassegnata.
"Cosa te lo fa pensare? No, tu non mi irriti, Len. Anzi." l'idea sembrava divertirlo.
"E allora cosa, Greg? Perché hai ritirato fuori questo fantasma proprio ora?" chiese lei esasperata.
"Perché finisce sempre nello stesso modo. Non avete nulla in comune, nulla. Eppure il risultato sarà sempre lo stesso: le si fidava di me, io dovevo proteggerla ma lei è morta comunque. E non importa quanto io ci abbia messo impegno: tu te ne andrai e non tornerai più da me. Che sia per Thomson, per un insulso Favorito o per quel tributo del nove che dietro le quinte dell'intervista non ti staccava più gli occhi di dosso. Tu mi lascerai di nuovo solo. E ho paura che non provi nemmeno a tornare da me." Gregory le stava stringendo i polsi. Non tanto da farle male, ma abbastanza da farle sentire quanto avrebbe voluto tenerla a fianco a sé e non lasciarla andare. Abbastanza per farla sentire meno sola.
"Sai una cosa, Greg? Vattene a quel paese!" sbottò lei strattonando le braccia per poterlo colpire al petto. "Io me ne sto andando nell'Arena e tu hai il coraggio di farmi sentire in colpa perché ti lascio qui da solo? E hai il coraggio di dirmi che non mi impegnerò abbastanza? Direi che non hai capito proprio nulla."
Il ragazzo la guardò sbattendo le palpebre, quasi stordito da quelle parole.
La voce metallica li informò entrambi che era tempo di prendere posto.
Lenore si alzò in ginocchio sull'imbottitura cedevole del divano, per poter arrivare all'altezza del viso del Mentore.
"Mettitelo bene in testa, O'Berris," lo informò lei con uno sguardo di ghiaccio "io farò fuori ogni singola persona che mi impedirà di tornare qui. E giuro che, se non mi dai una mano da fuori, quando ti rivedo ti faccio un culo grande come una casa."
Lui rise, guardandola con una tacita sfida dipinta sul volto.
"Uccideresti anche tuo fratello? O fratellastro che sia?"
"Soprattutto, lui!" esclamò lei alzando gli occhi al cielo. "Smettila di dubitare di me. Avevi promesso di non trattarmi come una bambina."
Gregory la guardò teneramente e si avvicinò a lei per stamparle un bacio sulla fronte.
"Non sei mai stata una bambina, per me. Mi raccomando, però. Stai attenta."
Lenore si alzò in piedi, dirigendosi verso il cilindro di vetro che l'avrebbe portata sull'Arena.
La voce del ragazzo la fece voltare di nuovo.
"Me lo prometti veramente, Len? Tornerai sul serio?"
"Sì, Greg. Io vincerò, ci puoi scommettere."
Le labbra si erano mosse da sole a pronunciare quelle parole.
Le labbra avevano mentito.
Perché c'erano gli occhi, le mani, tutto il suo corpo e tutta la sua mente che si stava chiedendo se sarebbe riuscita a superare la Cornucopia e urlavano 'Addio' ad un uomo che sapevano non avrebbero più rivisto.
Eppure Gregory la guardò negli occhi e non lesse nessuna menzogna nelle sue iridi color ghiaccio. Len riuscì a cogliere il suo pensiero.
Lei non mi mentirebbe mai.
Si voltò di nuovo ed entrò tra le pareti curve del cilindro.
Lo spero anche io, Gregory. Spero di non averlo fatto.

"Dodici..."
"Undici..."
Lenore guardò il proprio riflesso sulle pareti di vetro e si rivede, per una volta senza trucco né altri inutili orpelli.
Per la prima volta si rese conto di essere ancora la persona che conosceva. Non era cambiata, a dispetto di tutto quello che dicevano. Non ancora.
Appoggiò i polpastrelli sulla parete fredda, sentendo che la pedana cominciava ad alzarsi.
Non aveva paura, non proprio...
"Dieci..."
"Nove..."
Ripensò all'unica persona che era rimasta a casa, si chiese se avrebbe sorriso vedendo il sangue della figlia spandersi sul suolo.
Elisha.
Mamma.
"Non la voglio vedere" disse impassibilmente al Pacificatore che aveva aperto la porta per far entrare la donna nella stanza.
"Mi stai prendendo in giro, ragazzina?" l'uomo la squadrò con le sopracciglia aggrottate.
"Direi proprio di no. Mandatela via."
L'uomo la lasciò di nuovo sola, la porta e i muri troppo sottili per zittire i suoni dal corridoio: "
Lasciatemi passare, è mia figlia." "Non la vuole vedere." "Non m'importa!"
Il volto stravolto dalla rabbia di sua madre fece capolino nella stanza, seguito dal suo corpo flessuoso che si diresse con incedere minaccioso verso la ragazza.
"Non ti azzardare a farlo un'altra volta, Lenore... Dopo tutto quello che ho fatto per te ho il diritto di salutarti almeno un'ultima volta."
La figlia sorrise e quel sorriso ricolmo di disprezzo fu la cosa più dolorosa, per la donna.
"Non ti ho mai chiesto nulla, mamma. Non ti ho chiesto di farti stuprare da papà. Non ti ho chiesto di non denunciarlo. Non ti ho chiesto di non abortire né ti ho chiesto di diventare una puttana per mantenermi. Sono io quella che sta per morire, è un mio diritto volerti fuori da quel poco di vita che mi rimane."
Lo schiaffo bruciò sulla guancia di Lenore, che portò una mano al viso fissando la madre con una freddezza disumana.
Le lacrime scorrevano sulle guance di Elisha, che fissava la figlia sconvolta. La ragazza rise di nuovo, pensando che probabilmente l'altra non immaginava quanto lei sapesse di quella storia. Ma, con sua grande sorpresa, una seconda risata si unì alla sua.
"Sai cosa c'è Lenore? Sei identica a tuo padre. Oh, non solo di aspetto, sarebbe stato troppo poco doloroso. Sei una maledetta stronza. E giudichi tanto gli altri per il loro egocentrismo ma non ti rendi conto che tu stessa ti credi il centro del mondo. Rimani lì a disprezzare me e tutti coloro che ti circondano. Sei solo un'egoista. E sei talmente brava ad esserlo che riesci addirittura a scaricare la responsabilità sugli altri, facendoli sentire veramente colpevoli. Vuoi veramente saperlo? Sì, ti odio. Ed è tutta colpa tua. Non avrei mai potuto detestare quel fagottino urlante che si calmava solo al mio seno, mi sarei venduta mille e mille volte per lui, senza mai provare disgusto. Ma tu, Lenore, credimi, non hai bisogno del fantasma di tuo padre per renderti insopportabile. Ci riesci benissimo da sola. E vuoi sapere anche se mi sono mai pentita di quello che ho fatto? Sì, Lenore, mille e mille volte. E ogni singola notte che passo con un uomo non riesco a non pensare che lo sto facendo per una persona che invece continuerà a disprezzarmi. Sai... forse tutto sommato te lo meriti, tutto questo. Buona fortuna."
Elisha uscì dalla stanza senza voltarsi nemmeno una volta.
Lenore non rise.
Beh, aveva sempre avuto ragione, dopotutto: sua madre la odiava.
"Otto..."
"Sette..."
Lenore scosse la testa, scacciando l'ennesimo pensiero doloroso. Si guardò intorno, esaminando ogni particolare di quell'ambiente estraneo, imprimendo tutto nella sua mente, eppure i ricordi sembravano aver deciso di tornare a tormentarla, a distoglierla dal suo obiettivo.
La ragazzina camminava lentamente, attenta a non far scricchiolare troppo rumorosamente il tappeto di aghi di pino che si era formato a terra.
Nessuno entrava mai in quella foresta, esattamente come nessuno si avventurava mai nella loro pineta. Si diceva che ci fossero i fantasmi. Nemmeno i Pacificatori ci si addentravano, se avevano possibilità di farne a meno. Lenore non credeva a quello storie, dopotutto erano solo quello: una serie di parole, probabilmente finte. Eppure, nonostante questo, non era mai arrivata fino al centro del bosco. Da sola. Senza nessuno. Nemmeno Laila a proteggerla dal resto del mondo.
Ci mise quasi un'altra mezz'ora, incespicando tra i rovi, a trovare una radura in cui poter giocare. Era più grande di quanto si sarebbe aspettata ma c'era una casetta che vi sorgeva al centro, malmessa e cadente, che la fece sorridere, nel compararla alla propria. Troppo simili.
Poi lo vide, seduto su un ciocco di legno, vicino all'entrata, a intagliare un pezzo di corteccia con il suo coltello arrugginito.
"Sei troppo rumorosa, ragazzina." la voce cavernosa la fece sobbalzare di sorpresa, soprattutto quando si rese conto che era rivolta proprio a lei.
"E anche piuttosto lenta. Ma con quelle gambette corte non mi sorprendo. Piuttosto, non hai paura dei fantasmi per arrivare fino a qui?" le chiese, guardandola di sbieco.
La bambina sporse il mento orgogliosamente.
"No. Se tu ci vivi non c'è assolutamente nulla di cui avere paura."
"Magari sono proprio io ad essere pericoloso."
Lenore ci pensò su qualche istante prima di annuire.
"Sì, potrebbe essere. E allora vorrà dire che mi sono sbagliata. A volte succede."
L'uomo scoppiò in una risata grassa e raschiante, facendole cenno di avvicinarsi.
"Quanti anni hai, piccolo scricciolo?"
"Dieci. Meno di te, comunque." rispose lei, entrando nella radura e arrivando a posarsi alle pareti di legno sbeccato della casupola.
"E ci credo. Perché sei venuta qui?" le chiese gettando il pezzo di legno a terra e alzandosi con uno sbuffo affaticato.
"Non avevo nulla da fare."
"E come potrei rimediare, io? Raccontandoti una storia?"
"Non mi piacciono le storie." la bambina incrociò le braccia in attesa di una alternativa.
"Bene, nemmeno a me. Io sto andando a pescare... vieni?"
Era nata così, quella specie di amicizia. Non parlavano spesso, anzi. Dopo quel giorno i loro pomeriggi erano divenuti pieni di silenzi, eppure Lenore non aveva mai apprezzato così tanto l'assenza di parole. Lui non conosceva il suo nome, lei nemmeno. Non si chiamavano mai, riconoscevano a pelle la presenza dell'altro. Le insegnò a pescare a mani nude, a seguire le tracce degli animali, ad essere silenziosa, a tirare con la fionda, a trovare erbe commestibili. Doveva insegnarle ad usare l'arco. Ce n'era uno nel salotto. Lo aveva toccato, una volta.
Solo che poi i Pacificatori l'avevano trovato. Lenore aveva immaginato che non avesse il permesso di stare lì, ma non ci aveva mai pensato molto.
Era stato quando aveva visto il pennacchio di fumo sopra il bosco che aveva capito che qualcosa non andava. Lui non accendeva mai il fuoco.
Era arrivata solo ai limiti della radura. Lo stavano picchiando e avevano dato fuoco a tutto. A tutto. Anche alla statuetta che aveva intagliato Lenore, rimediandoci un bel taglio sulla mano. Tutto.
Lui l'aveva vista, le aveva detto con gli occhi di scappare e Len aveva obbedito.
Si era resa conto a casa che ancora allora non sapeva il suo nome. E si era resa conto, con altrettanta chiarezza, che la cosa che le dispiaceva di più era che lui non le aveva ancora insegnato a cacciare con l'arco.
"Sei..."
"Cinque..."
Gli altri Tributi la stavano guardando di sottecchi, lo sapeva. Eppure si sentiva così sollevata nel non sentire uno sguardo che già sapeva l'avrebbe gelata. Uno sguardo di ghiaccio. Uno sguardo come il suo.
Darren.
L'avrebbe uccisa. O lei avrebbe ucciso lui, se fosse stato necessario.
Eppure non riusciva a non pensare a come sarebbe potuto essere, se solo si fossero conosciuti diversamente. A come era anche effettivamente stato, solo per poco tempo.
Lenore osservò dubbiosa la propria faccia riflessa nello specchio.
"Siamo sicuri che questo dovrebbe aiutarmi a mimetizzarmi?" chiese borbottando, fissando le macchie che le campeggiavano il viso.
Darren la guardo, pensieroso. "Beh," cominciò, con fare serio "dopotutto non puoi sapere cosa ti capiterà nell'arena. Se mai dovessi finire in un campo di panda con le macchie marroni affetti da disturbi daltonici... Allora sì, sarebbe davvero molto utile."
La ragazza contrasse il viso in una smorfia, nel vano tentativo di cercare di rimanere impassibile e sembrare vagamente offesa.
"Oh, quindi dici che fra i panda passerei inosservata? Certo, Darren, veramente molto delicato."
"Beh, magari anche fra le zebre con chiari problemi di autocoscienza" disse. Poi, notando il viso di Lenore, scoppiò a ridere "Non negare che la cosa ti diverta! Dimmi piuttosto, con cosa cercavi di mimetizzarti?"
La ragazza espresse tutto il proprio disappunto in una espressione confusa.
"Perché, bisogna cercare per forza di mimetizzarsi con qualcosa? Non ci può mimetizzare in generale?" chiese.
"Oh no" negò Darren "Sono sicuro che travestirsi da panda sarà molto, molto utile" rise "Eddai Lenore, sono sicuro che farai di meglio."
"Non sono mai stata brava con i colori e con l'arte." rispose, ridendo, suo malgrado. "Ma tu hai poco da ridere, sai?"
"E perché mai?" domandò lui, divertito.
"Già... perché mai? Il tuo lavoro è decisamente migliore del mio." osservò abbattuta, fissando la mimetizzazione di Darren. "Bastardo. Cioè, bastardo nel senso di carogna." lo informò.
Darren rise "Non preoccuparti per questo Lenore, davvero. Sono abituato, se mi ferisse sentirmelo dire a quest'ora sarei già morto d'emorragia." scrutò il proprio volto allo specchio "Già, se mai dovessi trovarmi su una spiaggia nemmeno tu mi riconosceresti." commentò, soddisfatto "Sono davvero troppo, per voi poveri mortali senza alcuna capacità." scherzò.
"Oh, certo... Che sua altezza ci perdoni per aver anche solo pensato di poter competere con lui." proferì lei cerimoniosamente, con un inchino beffardo. "Fatemi l'onore di uccidermi qui e ora, sarebbe un piacere versare il mio sangue per voi. Sebbene, così impanato, il mio signore assomigli più ad una cotoletta di pollo che ad un essere umano, se mi è concesso dirlo. Segui il mio consiglio, Darren: evita quella mimetizzazione vicino all'olio bollente, nell'arena. Sarebbe triste sapere che sei morto perché ti hanno scambiato per un petto di tacchino."
"Questa era bella." le concesse Darren, sorridendo.
"Dio, siamo proprio presi male." commentò lei. "Lo sai che se ci prendessimo a cazzotti sarebbe meno dannoso, vero?"
"Ti spiego il mio punto di vista, Lenore." iniziò. La ragazza sentì l'esitazione nella sua voce, dovuta alla sicurezza di non poter parlare del tutto liberamente al centro di una palestra popolata da strateghi ed altri tributi. Perfettamente comprensibile. "Se devo trovare la forza di sopravvivere, la devo trovare apprezzando ciò che c'è fuori dall'inf... Arena." si corresse "E non è che abbia avuto molte occasioni per farlo, in generale. Ma scoprire di poter ridere, di sapere come si fa, mi fa apprezzare la vita."
La ragazza lo fissò un attimo, in silenzio, e poi sorrise. "Non ti facevo così sentimentale. Bello, profondo e misterioso... aspetta di vincere e tornare a casa e le donne non ti si staccheranno più di dosso. E a differenza delle zecche, non scappano con l'aceto."
"Quattro..."
"Tre..."
Gregory aveva avuto ragione. Stava sbagliando tutto quanto.
Gregory... era sotto di lei, in quel momento. Gli aveva promesso di tornare.
"Che cos'è che fa un essere umano, Len?" le chiese il ragazzo lasciandosi cadere sul divano.
Lenore lo fissò con un gigantesco punto interrogativo stampato in volto.
"Che cos'è che lo differenzia dagli animali?"
La ragazza ci pensò qualche istante.
"I sentimenti, credo..."
"Dici? E magari anche la capacità di soffrire, avere pietà, amare qualcuno, essere disposti a morire per quella persona o addirittura sacrificare la propria vita per un ideale?"
"Ehm... non è così?"
Il Mentore rise, scuotendo la testa.
"No, non essere così poetica, Len, queste sono solo parole. La cosa è più semplice: l'essere umano si chiede se sbaglia. Beh, ti svelo un segreto: gli Hunger Games non sono fatti per gli umani. Non avrai il tempo di decidere se ciò che stai facendo è giusto, perché tanto la risposta sarebbe no. Se vuoi uscire viva di lì, sii un animale."
"Due..."
"Uno..."
La tensione svanì tutta in un momento.
Sorrise.
Non è poi così difficile.
E Lenore divenne animale.


clalla97 commenta:
Uh, per carità che capitolo osceno. Ma vediamo di non parlarne troppo, vah, va a finire che mi deprimo sul serio. Ma proprio tanto tanto ù.ù
Beh, diciamo che in questo capitolo ci sono delle cose abbastanza strane, direte voi (almeno credo): c'è quella tremenda discussione tra Len e Darren, no? Probabilmente ci starete odiando perché abbiamo diviso i vostri eroi però era giusto così, alla fine, si stavano condannando a vicenda. Così ora sono più al sicuro. E poi, anche se voi avete visto solo i pensieri di Len, è ovvio che Darren non è così indifferente alla cosa come vuole far credere. Recitano veramente bene, quei due, non è vero?
La seconda cosa che secondo me vi spiazzerà è tutta colpa mia: è stato il volervi mostrare che Len non è la ragazza vittima che tutti noi (io compresa) avevamo identificato all'inizio. E' una bastarda egocentrica, ragazzi, rendiamocene conto. Ci sono un sacco di riferimenti, nel capitolo che lo testimoniano alla grande (guardate per esempio il pensiero dopo che l'uomo della foresta è stato scoperto). Se avesse avuto un passato diverso sarebbe diventata un'oca insopportabile, credo. Insomma, non è poi tutto questo rose e fiori. Non so se cambierete opinione su di lei, dopo questo capitolo, io mi auguro di sì ma spero che non arriverete ad odiarla. Il mio intento era di mostrarvi come dopotutto sia una persona anche lei, con un carattere fatto di mille sfaccettature, e che le cose non sono sempre come le vede il nostro protagonista, anzi, di solito l'oggettività è in mano ai personaggi secondari. E dopo questa filippica che cosa vi posso dire? Sì, che vi aspetto al prossimo capitolo... in cui Darren sarà nell'Arena! Augurate a Wani buona fortuna, per favore... e anche a me ù.ù
Clara
 

  
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