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Autore: Sylphs    09/12/2012    5 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 8
 

 
 
 
 
 
 
Lo studio privato di Jesper Lawrence era una palese ostentazione di ricchezza, e il mobilio, le decorazioni, mancavano totalmente di buongusto, risultando, agli occhi della maggior parte di coloro che vi si recavano, pacchiane e degne del più infimo bazar. Drappi color porpora rifiniti d’oro incorniciavano le ampie vetrate che si affacciavano sullo scrosciante mar Baltico, un tappeto persiano dai complicati ricami copriva il pavimento di marmo, arazzi ricoperti di lustrini ornavano le pareti e l’armadietto dei liquori era in legno di ciliegio, così come gli scaffali su cui il giovane riponeva i propri libri. La statua di una donna nuda coperta soltanto da un peplo gettato con noncuranza su una spalla (Venere, forse?) dava bella mostra di sé accanto ad un divanetto foderato di velluto e il secondogenito di Hugo sedeva ad una scrivania di dimensioni gigantesche, su cui troneggiava con evidente prepotenza una lampada d’epoca con il paralume ricamato.
Ma quello che più di tutto saltava all’occhio era l’enorme ritratto appeso dietro la suddetta scrivania, nel quale un Jesper al massimo del suo fulgore sedeva su una poltrona sfarzosa con la schiena dritta e le mani saldamente appoggiate ai braccioli, il volto atteggiato in un’espressione altera e supponente che lo rendeva simile ad un re o ad un generale. Fin dal diciottesimo secolo era abitudine dei Lawrence farsi ritrarre a grandezza naturale, e se i primi dipinti mostravano algidi individui in giacca e scarpe con la fibbia, negli ultimi risaltavano uomini con sigarette tra le dita e gel a tenere indietro i capelli.
Il giovane, sprofondato nella propria sedia, assorto nei suoi pensieri, giocherellava con un fermacarte e ogni tanto levava gli occhi verso la porta, come se aspettasse qualcuno. In piedi in un angolo dello studio sostava invece Christine, abbigliata di un maglioncino di cachemire e di un paio di leggins aderentissimi, in preda ad un visibile nervosismo e ad un’impazienza che si faceva di minuto in minuto più pressante.
“Sei sicuro che verrà?” interpellò il suo alleato quando non ne poté più di quello snervante silenzio: “E soprattutto, sei sicuro che sia la persona giusta?”
Lui rispose senza staccare gli occhi dal fermacarte: “Assolutamente. È un vecchio pazzo, ma è l’unico in grado di scovarlo”.
“E cosa ti fa credere che vorrà aiutarci?” sibilò la donna: “Cosa ti fa credere che dopo tutti questi anni sia disposto a rivivere il passato? Avremmo dovuto fare a modo mio, ingaggiare un…”
“…cosa? Un sicario?” la interruppe Jesper. Scoppiò in una risata dall’inflessione aspra: “Se quello squilibrato è davvero…chi dice di essere” non riusciva a pronunciare la parola fratello: “Allora qualsiasi uomo tu possa chiamare non riuscirà mai ad eliminarlo. Tu non lo conosci, Christine, non hai visto di cosa è stato capace, che cosa ha fatto…”
Chiuse gli occhi per un istante e si aggrappò ai braccioli dell’ampio seggio, travolto da quel ricordo che aveva seppellito nei meandri più oscuri di sé e che era tornato a galla, con tutto il resto…
 
…lui e Ursula che giocano a nascondersi e a trovarsi, in un rito che è ormai in uso tra loro e che li ha accompagnati durante l’infanzia e l’adolescenza, nel giardino di Lawrence Borg, sotto la mole oscura della torre più alta e di quelle snelle attorno, le loro risate gaie e spensierate, i loro corpi che si sfuggono e si attirano, i loro occhi luminosi. Lei che scivola leggera dietro una siepe, in un guizzo della sua gonna viola, accompagnata dall’eco della sua risatina dolce e leggera come l’aria, lui che sta al gioco, che la cerca dietro gli arbusti e negli angoli più bui, chiamandola, il volto sorridente, la mente priva di preoccupazioni, scoprendo tracce del suo passaggio ovunque, sui tronchi che hanno provato il vanto di aver sentito sulla loro rude corteccia la morbidezza della bianca mano della fanciulla, sulle foglie impregnate del suo profumo, nel vento che è passato tra i suoi capelli biondissimi, scompigliandoli e disperdendoli…
Ma all’improvviso la pace del momento è infranta da un grido acutissimo, così penetrante da tagliare l’aria, l’urlo sgomento e terrorizzato della ragazza nascosta, e quel solo grido gli spegne il sorriso sulle labbra e pianta in lui la preoccupazione, gelida, oscura, repentina: “Ursula!” la chiama, e segue il suono delle sue urla, proveniente da quella torre maledetta e paurosa che ha temuto fin da bambino e in cui non è mai entrato, ma stavolta, per lei, deve.
Luce, oscurità, freddo, silenzio, l’ambiente è gelido e puzzolente e sa di orrore, di solitudine, di contaminazione, vorrebbe scappare, per non esserne infettato, per non inalare quell’ossigeno impregnato dal sentore della follia, ma ecco che scorge Ursula, immobile in fondo alla ripida scala a chiocciola che si incunea nel buio più fitto, che osserva qualcosa con immensi e disperati occhi azzurri. E la invoca, la invoca con disperazione, ma lei non si volta, non da segno di udirlo, non muove un muscolo. Non vuole vedere quel che lei ha scoperto, non vuole, eppure avanza pian piano, nella tenebra più fitta, si mette al suo fianco, e…
…rosso. È tutto…rosso. Un colore troppo acceso in quel buio, troppo violento, ma che ci si sposa così bene, che sembra così giusto nel nero. Tre corpi giacciono esanimi accanto ai primi gradini, dalla testa di quello di suo padre esce qualcosa di molle e orrendo, e, oh, Dio, la sua testa è spaccata! Quello accanto è il suo fratellino, il suo bel fratellino, la cui faccia è adesso una poltiglia senza forma umana…non sogghignerà mai più. L’altro non lo conosce, ma gli sembrano comunque tutti uguali, e si sente fissato dai loro pallidi occhi vacui, gli sembra che striscino nel rosso e gli vengano incontro tendendo mani adunche per afferrarlo e dilaniarlo, non sono più i suoi parenti, sono mostri, mostri nella torre del mostro, e lo vogliono morto.
“N-No!” strilla terrorizzato, incespicando e cadendo all’indietro con un tonfo, le mani premute sugli occhi per non guardare, in un gesto inutile e infantile al contempo: “No!”
Ursula stramazza al suolo priva di sensi, ma in quel momento per lui conta solo sfuggire alle creature, a quella torre dannata, e si trascina fuori piagnucolando, ma neanche nella luce del sole lo sguardo dei mostri si distoglie dalla sua schiena.
 
“Già una volta mio padre provò a sopprimerlo con l’aiuto di un sicario” sussurrò Jesper a fior di labbra, lo sguardo perso nel vuoto: “Quell’essere, qualsiasi cosa sia, è scaltro e ha acquisito capacità fuori dal normale, come una vista più acuta della nostra, un udito fino e un’estrema familiarità con le ombre e i nascondigli. Non abbiamo modo di batterlo, né noi né uno sconosciuto, ma lui sa come ragiona, conosce i suoi punti deboli”.
Christine sembrava scettica, e non si faceva problemi a mostrarlo: “Credo che tu lo stia sopravvalutando, Jesper. È fatto di carne e sangue, una pallottola può forargli il fegato e un pugnale può spaccargli il cuore esattamente come succederebbe ad un comune essere umano”.
Il giovane le scoccò un’occhiata infastidita: “Il vero ostacolo non è ucciderlo, è trovarlo. Fin da quando è nato ha imparato a nascondersi, non possiamo competere con la sua abilità nell’occultarsi, nessuno di noi può farlo, a parte quel vecchio”.
“Un vecchio” la donna lo scandì con disprezzo: “Ci siamo ridotti a dipendere da un vecchio per eliminare quel mostro”.
“Moderi i termini, signora Lawrence”.
Christine ebbe un sobbalzo, tanto inaspettatamente era risuonata quella frase aspra. Si volse di scatto verso l’uscio, il volto irrigidito in una smorfia diffidente, e si ritrovò ad incontrare lo sguardo cupo e freddo di un uomo anziano ma ancora ben portante, entrato nello studio senza neanche essere prima annunciato, con evidente prepotenza. Una sessantina d’anni circa, aveva un corpo vigoroso e sano, solo lievemente infiacchito dall’età, e un viso impassibile e severo, segnato da alcune rughe che scavavano linee profonde nella pelle ruvida. Vestiva panni abbastanza modesti, ma ostentava un forte orgoglio e li contemplava con palese disprezzo, gli occhi ridotti a fessure. La donna reagì a quell’occhiata poco lusinghiera serrando le labbra, ma Jesper lo accolse con un ampio sorriso: “Signor Berg! È un piacere rivederla”.
Gli tese una mano, ma l’altro, dopo aver richiuso la porta senza delicatezza, non accennò a stringergliela e lo fissò truce: “Il piacere è tutto tuo, Jesper”.
Il giovane incassò un po’ malamente e il sorriso si fece più teso: “Le sono grato di essere venuto”.
“Ti prego di non incominciare con i soliti convenevoli, con me la tua pantomima da uomo di mondo non funziona” lo interruppe bruscamente Berg: “Ti ho conosciuto quando ancora giocavi coi soldatini e pretendevi che ti si regalassero le caramelle, e anche se la maggior parte dei tuoi insegnanti stravedeva per te, a me non mi hai mai incantato. Non hai mai tenuto la mente aperta, mai, né ti sei dimostrato qualcosa di diverso da un bambino viziato”.
Il giudizio era stato duro, secco, quasi brutale, ed aveva letteralmente freddato Jesper, il quale s’era immobilizzato alla scrivania con le guance spruzzate dal rossore della vergogna e della collera, i pugni serrati e la mascella contratta, vibrante di un’umiliazione che non poteva buttare fuori, non davanti a quell’uomo solido e severo che riusciva a tenerlo in pugno con la sola potenza dei suoi occhi castani e della sua espressione carica di disgusto.
Christine, al contrario, intervenne con la sua consueta invadenza: “Se per lei è un dispiacere rincontrare Jesper, allora perché è venuto? Perché ha risposto alla convocazione?”
Berg si girò lentamente a guardarla, e quando la scrutò persino lei, abituata a non distogliere lo sguardo in nessuna occasione, dovette faticare per non chinare il capo, tale era l’intensità con cui l’uomo la fissava: “La moglie di Jonas, dico bene?” le chiese lentamente. Lei annuì con un brusco scatto del capo, stringendosi istintivamente le braccia al petto come se dovesse difendersi da un attacco. Le labbra di Berg si torsero in un sorriso sghembo e ironico: “Il giovanotto si è preso una bella gatta da pelare…mi dica, cosa l’attraeva di più, lui o il suo patrimonio?”
Christine avvampò e le sue iridi bluastre scagliarono scintille come quelle di una tigre infuriata: “Chi le da il diritto di insultarmi a questa maniera?!” strillò, tremando per la rabbia: “Non è certo nella posizione di dare giudizi, o di criticarmi solo perché il mio ceto sociale è più basso di quello di mio marito!”
“Temo che mi abbia frainteso, signora” disse Berg pacato: “Non ho mai criticato nessuno per il suo ceto d’appartenenza, non sono certo un uomo che si permette di giudicare dalle apparenze, anzi, ho visto spesso poveri molto più capaci di ricchi. Ma mi è bastato guardarla negli occhi per comprendere l’errore commesso da Jonas…beh, dopotutto è sempre stato un ingenuo”.
La donna era divenuta paonazza e aveva snudato i denti in una smorfia quasi animalesca, la capigliatura scarlatta a circondarla come la criniera di una leonessa: “Lei non sa nulla, né di me, né di mio marito!” sibilò. Lui rise, una risata priva di allegria: “Oh, mi permetto di dissentire. Ho vissuto al fianco di questa famiglia per molto tempo, purtroppo per me, e ho imparato a conoscerla bene. A proposito, dov’è il maritino? S’è preso una vacanza?”
Jesper, che aveva conservato il silenzio fino a quel momento, lasciando alla cognata l’arduo compito di fronteggiare l’ospite, interruppe quella concitata discussione dicendo con tono esitante ma fermo: “Jonas è morto, signor Berg. Lui l’ha ucciso”.
Il vecchio si fece immobile. Il colore defluì rapidamente dal suo viso, rendendolo bianco come una pergamena, e gli occhi si sgranarono leggermente, accesi da una scintilla indecifrabile, in cui sembravano racchiusi timore, sorpresa, shock e l’ombra d’un antico dolore, di una ferita ancora aperta. Per qualche attimo parve incapace di muoversi o di aprir bocca, paralizzato dal significato di una frase che solo lui e i due presenti avrebbero potuto cogliere, poi, lasciando perdere Christine, spostò la propria attenzione sul giovane, guardandolo senza alcuna traccia del sarcasmo e della superiorità di poco prima. Bisbigliò piano, come se avesse paura d’essere udito: “Cosa?”
“È tornato, signor Berg” rispose Jesper. Una parte di lui ancora rifiutava quella prospettiva, ma era meglio metterla in questi termini con Berg: “È di nuovo qui”.
L’uomo tremava impercettibilmente. Dischiuse le labbra, le tenne aperte per qualche secondo come se covassero parole che non riuscivano a tradursi in suoni, quindi sussurrò: “Raphael è tornato?”
Jesper rabbrividì appena nell’udire il nome proibito. Ma annuì, secco: “Esatto”.
Gli raccontò cosa era accaduto la notte di Halloween, quello che il Lawrence rinnegato aveva detto e ciò che aveva preteso, e l’espressione di Berg, mentre la narrazione andava avanti, divenne sempre più immobile e sofferente, le rughe si moltiplicarono sulla sua pelle e le sopracciglia s’aggrottarono in un cipiglio dietro cui si nascondevano pensieri a loro preclusi. Quando Jesper tacque, voltò le spalle a lui e a Christine e si mise a passeggiare avanti e indietro per lo studio, borbottando tra sé e gesticolando.
“Come è potuto succedere? Non sarebbe più venuto qui, aveva promesso! Cosa può averlo spinto a fare ritorno nella fossa dei leoni? E perché all’improvviso gli interessa tanto essere riconosciuto? Che cosa…”
“I suoi borbottii sono davvero illuminanti, mi creda, signor Berg, ma se dicesse qualcosa di comprensibile gliene saremmo grati” sbraitò Christine, ricompostasi in una posa di sgradevole irritazione. Lei e l’ospite erano partiti decisamente con il piede sbagliato. Berg le scoccò uno sguardo che gelido era definire poco: “Hai messo a parte questa donna del segreto, Jesper?” ringhiò: “Non fa parte della famiglia!”
“Christine fa parte della famiglia più di lei, signor Berg” replicò il giovane aspramente: “E si tratta dei miei parenti, non dei suoi. Decido io a chi rivelare di Raphael e a chi no, non sono faccende che la riguardano”.
Christine si permise un sorrisetto compiaciuto e levò il mento. Berg digrignò i denti; era chiaro che disapprovava la condotta di Jesper, ma in effetti non era un Lawrence, e non aveva la facoltà di insistere ancora. Con molta difficoltà, cessò di osservare ferocemente il viso soddisfatto della donna e fissò il giovane dritto negli occhi: “Perché mi hai voluto qui?”
Questi inspirò a fondo e tornò a concentrarsi sul fermacarte: “Lei conosce questo castello e la zona che lo circonda come le sue tasche, non c’è passaggio segreto, pertugio o sentiero nascosto di cui non sia a conoscenza. Con mio padre eravate molto amici un tempo e lui le ha mostrato ogni più piccola parte del posto”.
L’espressione di Berg non mutò: “Queste sono ovvietà. Sei stato cresciuto con l’idea di infarcire di belle frasi qualsiasi discorso, ma ciò che conta veramente è la sostanza, ragazzino. Perciò va al sodo. Se ho risposto alla tua convocazione, è stato solo in nome dell’affetto che in passato mi legava a questa famiglia…un affetto infausto” soggiunse piano tra sé.
Jesper aggrottò le sopracciglia: “Allora andrò al sodo. Ho bisogno che lei lo trovi, signor Berg. E che me lo consegni”.
Una cappa di silenzio calò sullo studio dopo che ebbe chiuso la bocca. Berg lo fissò nel più totale mutismo, il viso indecifrabile e remoto, e Jesper riuscì, a stento, a non distogliere il proprio, le mani avvinghiate convulsamente al fermacarte e i lineamenti irrigiditi dalla tensione e dall’aspettativa. Christine, dal canto suo, che all’inizio era stata la più ansiosa, sembrava aver deposto gran parte del suo nervosismo e se ne stava appoggiata comodamente ad uno degli scaffali, le braccia incrociate sul petto e le iridi che luccicavano debolmente nella penombra. Emanava sarcasmo e una buona dose di sprezzo. A seguito di quella lunga, opprimente pausa, il vecchio disse lentamente, scandendo ogni sillaba: “E tu credi davvero che sarei disposto a farlo? Che te lo metterei tra le mani, sapendo cosa gli faresti?”
La tensione e l’ansia lasciarono il posto, sulla faccia di Jesper, ad una smorfia orribile, che gli tolse per qualche attimo tutta la sua bellezza e lo trasformò in una caricatura di se stesso: “Quel mostro ha ucciso mio padre e mio fratello!” ruggì, alterato da una rabbia autentica: “Li ha fatti a pezzi, e tu non vuoi nemmeno che sia punito?!”
Berg perse di colpo il suo contegno severo e fece un passo avanti, arrivandogli vicinissimo, paonazzo e con una vena che gli pulsava sulla tempia. Pur essendo anziano, superava Jesper in altezza di mezza testa: “Per una volta guarda per davvero, e non solo ciò che vuoi vedere! Ha assassinato i tuoi parenti, è tutta qui la questione? Hai forse dimenticato quel che gli ha fatto tuo padre?! Hai forse dimenticato le condizioni in cui veniva tenuto? Sì, tu, tua madre e Jonas rifiutavate di sapere la verità, ma io ho visto che cos’era quella torre, ho visto le umiliazioni e le sofferenze che quel bambino ha dovuto subire, e diavolo, un altro si sarebbe liberato dei suoi carcerieri molto prima! È stata la tua famiglia a tramutarlo in un mostro, ma lui non è mai stato questo, e meriterebbe di ottenere ciò che vuole senza alcuna esitazione!”
Tacque, ansimando per riprendere fiato. Il fuoco dell’esaltazione gli ardeva nelle pupille, e Christine esclamò, dilatando lievemente gli occhi: “Lei gli vuole bene!”
Berg scoprì i denti, fissandola con astio: “Non cerchi informazioni su quel che non potrebbe mai capire, signora”.
Jesper si inserì nuovamente nel discorso. La furia di poco prima sembrava averlo abbandonato, e il suo tono era divenuto gelido e calcolatore: “Se non farà quel che le chiedo, potrebbe avere a pentirsene, signor Berg”.
Berg scoppiò in una risata dal retrogusto amaro: “E cosa mi farai, Jesper? Commissionerai il mio omicidio? Sei proprio come tuo padre, un arrogante innamorato di se stesso e del suo potere, che finirà per consumarsi. Dio solo sa quante volte ho tentato di ricondurre Hugo alla ragione, ma non c’è mai stato verso. Non ho paura di te, ragazzino, sono vecchio ormai, e la morte non mi spaventa. E poi, non è detto che tu riesca a eliminarmi. Non ho più il vigore dei miei anni migliori, ma so ancora badare a me stesso”.
Diceva il vero, e Jesper lo sapeva bene, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Berg non aveva mai corrisposto al proprio ruolo, aveva sempre avuto qualcosa di diverso che lo distingueva da tutti i suoi colleghi, e il giovane rammentava, con vergogna, di averlo immensamente temuto negli anni della sua infanzia; era l’unico che non si era mai lasciato incantare dalla sua eloquenza e dal suo visino angelico e, a differenza di coloro che lo osannavano e perdonavano in tutto, non gliene aveva mai passata una e lo aveva spesso umiliato davanti a tutti, ripescandolo per la collottola nel bel mezzo di una marachella o comparendogli davanti proprio quando stava per rubare una fetta di torta dalle cucine o compiere un dispetto ad un altro bambino. Allora era un quarantenne solido e inflessibile, ma gran parte della sua forza era ancora con lui, malgrado l’età avanzata, e in qualche modo lo temeva ancora, di quel timore rispettoso classico degli infanti.
Però non poteva lasciarsi sopraffare da quel sentimento, non se il piano era in pericolo: “Forse non le importa di se stesso” disse, più cautamente di prima, sforzandosi di infondere alle proprie parole logica e ragionevolezza: “Ma cosa mi dice della mia fidanzata? Harriet ha solo ventidue anni, e se Raphael non viene fermato in tempo, le farà del male. Sa bene quanto me che quando mio…” dovette compiere un notevole sforzo su se stesso prima di riuscire a pronunciarlo: “…mio fratello promette qualcosa, mantiene sempre la parola data.
Una lieve increspatura di incertezza comparve sul volto di Berg e Jesper esultò, proseguendo sullo stesso registro: “Probabilmente non metterà in atto le sue minacce oggi, come aveva invece affermato, né domani, dato che mi impegnerò a fornire la mia fidanzata della migliore protezione, ma finché rimane a piede libero, la sua sicurezza è in pericolo. Lei non sa nulla dei nostri segreti, è giusto che paghi per qualcosa che non la riguarda?”
Le sue argomentazioni avevano fatto breccia nell’animo dell’uomo, si vedeva, e pareva in preda ad una lotta interiore. Arretrando leggermente, gli domandò con diffidenza: “Perché ti preoccupi tanto di quella ragazza, Jesper? Non hai mai amato nessun’altra dopo che...”
“Taccia!” quello del giovane fu uno scatto, un fulmine a ciel sereno. Lo mise a tacere tanto concitatamente da strappare a Christine un sussulto e a Berg un’espressione di stupore, ma non guardò nessuno dei due e fissò invece un punto sul tappeto, stringendo convulsamente il fermacarte: “Taccia”.
Berg assottigliò le palpebre, scrutandolo con sospetto, ma non indagò ulteriormente: “Bene, come desideri. In ogni modo, ho bisogno di riflettere e di considerare tutte le implicazioni di questa vicenda”.
Christine disse la sua: “Se accetterà di lavorare per noi, verrà ricompensato lautamente”.
Lui le lanciò un’occhiata piena di sarcasmo: “Non è il denaro che decide per me, signora, anche se forse per lei è così” ignorò le labbra serrate della donna: “Se sceglierò di accettare, sarà solo e soltanto per impedire che un’innocente venga coinvolta, e state pur certi che non vi consegnerò Raphael”.
Christine accennò a obiettare, ma Jesper la prevenne e sfoggiò il suo miglior sorriso: “Per noi va bene”.
La cognata lo fissò esterrefatta, tuttavia finse di non notarla e continuò invece ad osservare il vecchio, stranamente insoddisfatto dalla docilità con cui aveva approvato le sue condizioni. Dopo un’altra lunga pausa di silenzio, Berg si voltò bruscamente e si avvolse stretto nello sdrucito giaccone invernale che indossava, una testimonianza del cambiamento della sua vita, da agiata a misera: “Non abbiamo altro da dirci” borbottò: “Vi comunicherò la mia decisione quando sarà il momento”.
Senza salutare nessuno dei due, uscì a grandi passi dallo studio e si chiuse la porta alle spalle con malagrazia. Lo sentirono percorrere il corridoio in fretta, accompagnato dagli inutili richiami di un domestico che cercava di scortarlo all’uscita, la quale però era da lui conosciuta alla perfezione, quindi svoltare l’angolo. Si muoveva nel palazzo con sicurezza, senza esitazioni. Solo a quel punto Christine esternò tutta la sua disapprovazione e si rivolse a Jesper bisbigliando furiosamente: “Come ho fatto a fidarmi di te?! Quell’uomo, chiunque sia, certo non è dalla nostra parte! Inizio a pensare che tu stia smarrendo il senno, Jesper, se credi davvero che agirà a discapito del mostro! Per giunta non siamo nemmeno sicuri che accetterà di aiutarci!”
“Oh, accetterà” replicò lui tranquillo, seguitando a giocherellare col fermacarte. C’era un che di malsano in questo, di ossessivo, accentuato dalla sua aria persa e distratta. Christine digrignò i denti, resistendo a stento all’impulso di afferrarlo per le spalle e girarlo verso di sé: “E cosa te lo fa credere?”
Lui emise un pesante sospiro: “Ha sempre avuto un forte senso di giustizia, non lascerà che Harriet muoia”.
La donna non era affatto soddisfatta da quella spiegazione: “E che mi dici della sua condizione? Che beneficio traiamo dal suo lavoro se, dopo aver trovato quell’essere, non ce lo consegna?”
“Mi credi davvero così stupido?” finalmente, il giovane staccò gli occhi dal fermacarte e li appuntò sul viso arcigno di Christine: “Ovvio che alla fine Raphael cadrà nelle nostre mani. Perché incaricherò qualcuno di seguire Berg. E al momento opportuno, questo qualcuno ammazzerà lui e prenderà il mostro. L’unica utilità del vecchio è scovare il suo nascondiglio”.
La comprensione si fece strada pian piano sul volto di Christine e lo rilassò, lasciando solo una lieve traccia della sua diffidenza: “Oh!”
“Lieto che tu abbia compreso” Jesper si permise un tono petulante, quindi le tese le braccia: “Ora vieni qui”.
Lei ubbidì con una certa rigidità, soggiacendo meccanicamente al suo volere, ma seguitando a provare una sorta di incomprensibile insoddisfazione che le impediva di fingere un piacere che non aveva mai avvertito. Si accomodò morbidamente sulle sue ginocchia, avvolgendogli il collo con le braccia, e subito lui le strappò di dosso il maglioncino con insolita urgenza, afferrandole i seni e titillandole i capezzoli fino a farla gemere. Con un unico, aggressivo gesto, la spinse distesa sopra alla scrivania e alla donna si mozzò il fiato per l’urto che prese la sua schiena, mentre Jesper, in piedi davanti a lei, con gli occhi offuscati, armeggiava per togliersi la cintura e l’afferrava per i capelli, spostandole la testa di lato in modo da non vederla. Di solito, prima di giungere all’atto vero e proprio, la toccava e la baciava, stavolta invece la penetrò immediatamente e affondò il viso nei suoi capelli, mormorando con voce rotta dagli ansiti una parola che all’inizio lei non intese, ma che alla fine riuscì a distinguere: “Ursula, Ursula, Ursula”.
Nella mente di Jesper vi era una radura spoglia nel bel mezzo di una foresta, risentimento, tanto risentimento, e il cadavere di una fanciulla tra le sue mani.
“Ti farò tornare, Ursula…rimetterò tutto a posto…”
Christine, in silenzio, passiva, ascoltava.
 
La stanza di Harriet era immersa nell’oscurità. Due notti esatte erano passate da Halloween, e anche se un’istintiva inquietudine l’aveva accompagnata nelle sue consuete occupazioni, la ragazza, ignara del pericolo che correva, aveva dormito sonni relativamente tranquilli, anche se in questo caso, forse per uno strano, potente presentimento, si dimenava sotto le calde coperte e mugolava suoni angosciati, il viso nascosto dalla cascata di riccioli.
Un’ombra incombeva su di lei, fissandola nel buio con le sue iridi chiarissime che avevano ormai più familiarità con la tenebra che con la luce.
Raphael era a volto scoperto. Non era mai successo prima che abbandonasse la sicurezza dei suoi tanti rifugi con la propria deformità ben visibile, ma dal momento che per giungere nella camera da letto della sua vittima gli era bastato risalire dal passaggio nel camino, non aveva reputato necessario indossare il cappuccio. E poi c’era un che di poetico nel mantenere la propria promessa senza maschere a nasconderlo, dopotutto quello che doveva fare era degno d’un mostro, e con l’aspetto d’un mostro lo avrebbe portato a termine.
Le sue labbra vizze si piegarono in un sorriso storto, mentre faceva scorrere una mano lieve come brezza sul corpo della fanciulla, strappandole un piccolo brivido che la spinse a rannicchiarsi di più sotto le coperte: “Hai un incubo, mia cara?” sussurrò: “Io lo so bene, cosa sono gli incubi. Me ne sono nutrito fin dall’infanzia, ho respirato la mia paura, ho lasciato che divenisse parte di me. La paura è una buona compagna, quando impari a conoscerla. Io vivo nella paura, in fondo” un’ombra di mesto rammarico si insinuò nella sua voce che graffiava il buio come artigli su una lavagna: “Prima l’ho avuta, e tanta, soffocante, poi l’ho ispirata. C’è così tanta paura in me che la sento scorrermi nelle vene, a volte penso che potrebbe quasi uccidermi”.
Sfiorò con il pollice la guancia morbida di Harriet e lei emise un gemito, voltandosi dall’altra parte. Una risatina beffarda fuoriuscì dai polmoni del mostro: “Lo vedi, mia cara? Persino il tuo incubo è più sopportabile del mio tocco. Persino i dormienti hanno orrore di me. Sono il mostro sotto al letto che hai temuto da piccola, il baubau, il folletto maligno, il fantasma, e tutte le figure che le vostre menti hanno creato per non accettare il fatto che sono umano, come voi. Ma è meglio che taccia adesso, non vorrei turbare il tuo dolce sonno!” con un elegante movimento, sedette sul letto e le accarezzò i capelli, saggiandone una ciocca tra le dita: “Sai, tu mi ricordi lei. Un tempo il tuo tenero viso mi avrebbe fatto desistere dall’idea di spegnere la luce che lo possiede, un tempo avrei posto il mio cuore ai tuoi piedi e avrei dato qualsiasi cosa per farti vedere oltre le apparenze. E sai cosa avresti fatto tu?” le sue dita si strinsero attorno al ciuffo di capelli e lo tirarono, non tanto da svegliarla, ma abbastanza da strapparle un rantolo: “Tu me lo avresti spezzato”.
Per un attimo i suoi occhi divennero torrenti d’odio e l’atmosfera nella stanza sembrò farsi più densa, carica di un terrore, di una minaccia che presto sarebbe esplosa in qualcosa di terribile. Ma fu un attimo. Inspirando a fondo, Raphael ricacciò indietro la parte peggiore di sé che rischiava di emergere e tornò al suo contegno abituale, lasciando la presa sulla ciocca: “Che cosa devo farne di te?” sospirò: “Se ti uccido, non otterrò mai ciò che voglio. Se ti lascio in vita…”
Rimase in silenzio per qualche istante. Poi, con un movimento veloce e repentino, si chinò su Harriet e la sollevò ancora avvolta nel bozzolo di coperte, passandole un braccio sotto le gambe e uno attorno alla schiena. Se l’avesse privata del piumone, il freddo gelido che pervadeva la camera avrebbe contrastato troppo con il calore precedente e si sarebbe destata. Reggendola con una delicatezza esemplare, si voltò verso il camino e accennò un passo in quella direzione, non prima di aver deposto sul comodino, laddove aveva messo il crisantemo, una piccola nota.
Improvvisamente, la porta cigolò e il figlio rinnegato si arrestò di botto, dilatando gli occhi lucenti e girandosi con le labbra arricciate in un ringhio rabbioso.
Una figuretta era immobile sulla soglia, la manina delicata ancora stretta sulla maniglia, e il chiarore lunare che penetrava dalla finestra lasciata distrattamente semiaperta le colpiva in pieno il volto, un volto troppo bianco per essere reale. Ma non era un volto…bensì una maschera, la maschera, che copriva metà dei suoi lineamenti. La camicia da notte pendeva storta da un lato e gli occhi erano sgranati in un’espressione che non era di terrore.
Erin.
Lei e Raphael si fissarono per un lunghissimo istante, paralizzati ognuno nella sua posizione. Lui sembrava aspettarsi che da un momento all’altro la bambina gridasse, richiamando gli abitanti del castello addormentato, o che fuggisse da quella visione, ma la piccola non fece nessuna delle due cose. Lentamente lasciò andare la maniglia, senza smettere un solo minuto di guardarlo, e, un piede dopo l’altro, gli si avvicinò, attratta come da un’invisibile filo, da una calamita che la attirava accanto alla creatura più pericolosa con cui mai avesse fatto i conti. Era stato l’istinto a dirle di abbandonare il calore confortevole del suo letto per recarsi nella camera di Harriet, ed era l’istinto ad ingiungerle di accostarsi a suo zio. Lui non si ritrasse quando la vide venirgli incontro, continuò a ricambiare il suo sguardo con i penetranti occhi azzurri, e probabilmente, appena fosse stata alla sua portata, l’avrebbe uccisa così come aveva ucciso chiunque aveva…
…visto il suo volto.
Se ne rese conto solo in quel momento. Con un sussulto, la mano scattò a coprire alla meno peggio le deformità visibili ma fu costretto ad usarla nuovamente per sorreggere Harriet, il volto marchiato che si contraeva nell’orribile smorfia assunta quando Irene gli aveva strappato il drappo a tradimento. Eppure Erin non urlava, non lo supplicava di sottrarre quell’orrore alla sua vista, non fuggiva, anzi, giunta a pochi passi da lui, allungò la manina, incurante del suo irrigidimento, e toccò lo sfacelo che era la sua faccia, un tocco così lieve, così innocente, così privo di condanna.
“Sei…” mormorò in un soffio. Non scorgeva le cicatrici e i solchi che i peccati suoi e del padre gli avevano lasciato sulla pelle, lei vedeva davvero oltre le apparenze, ed aveva davanti un giovane bello e normale, dai meravigliosi occhi azzurri, con i tratti appena oscurati da colpe commesse solo da Raphael, e non da Hugo: “Sei così…bello”.
Un tremito lo percorse, qualcosa fremette sotto la sua carne offesa. Ma fu ugualmente rapido ad agire: le sue dita volarono sulla nuca della bambina e la avvolsero in una morsa. Forse nelle sue intenzioni originali aveva programmato di spezzarle il collo, del resto non sarebbe stato affatto difficile, vista la sua sottigliezza, ma si limitò ad esercitare una piccola pressione nel punto che sapeva e il corpicino si accasciò a terra senza un lamento, privo di sensi, il rilassamento dell’incoscienza cancellò dai suoi tratti la meraviglia e la benevolenza di poco prima.
Ansimando per chissà quali pensieri, Raphael si volse, stringendo Harriet al petto, e azionò il meccanismo che apriva il passaggio segreto, affrettandosi giù per la scala con una fretta inconsueta.
Sei così…bello. 
    
  
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