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Autore: Love_in_London_night    17/12/2012    8 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 4

Il bisogno di sapere

 

«Cosa ci fai qui?». Pemberley voleva delle risposte, sapere perché la serata che aveva anelato da tempo si stava sgretolando davanti ai suoi occhi come la peggiore delle illusioni.
Era da Nathan spuntare fuori all’improvviso, ma dopo questa visita avrebbe potuto parlare del suo pessimo tempismo. Quando tornava in città, oltre che per vedere Naive qualche giorno, portava con sé altre notizie: di solito si parlava del suo lavoro.
Nathan incrociò le braccia al petto e si mosse appena, palesando il disagio che stava cercando di nascondere. «Vorrei parlatene… In privato».
Rhys, abituato a capire nel minor breve tempo possibile chi gli stava davanti per anticipare le sue mosse, colse al volo l’allusione del padre della bambina. Gli era stato presentato in quel modo, d’altronde. Non si era arrabbiato per la sua presenza e per averli trovati avvinghiati, non aveva dato in escandescenze per essere definito solo come il genitore di Naive, era evidente che i due non fossero più legati da tempo. Forse da mai.
Era ben felice di levarsi da quell’impiccio, la tensione per qualcosa d’improvviso e sconosciuto da parte di Pemberley e Nathan si era fatta palpabile, si sentiva di troppo, e lui odiava sentirsi di troppo, dato che di solito era lui a far sentire in difetto gli altri.
Essere il vertice di un triangolo non faceva per lui, lui era sempre stato l’unico punto di una retta infinita: il punto d’inizio e in cima alla riga che decideva Rhys di tracciare, gli altri erano segni che lui stesso appuntava, nulla più.
«È giunta l’ora che io vada. Domani sarà una giornata impegnativa a lavoro, meglio andare a dormire» nemmeno il tempo di finire la frase, stava già recuperando la sciarpa e sistemando i bottoni del cappotto nelle rispettive asole.
«Ti accompagno alla porta» lo inseguì lei cercando di fare mente locale sulle cose da dirgli prima di vederlo uscire di casa. Come poteva fare un riassunto delle proprie giustificazioni, scusarsi e cercare di interpretare il suo stato d’animo?
Rhys salutò Nathan e la bambina con un cenno del capo, fissando gli occhi dell’altro senza mai perdere il contatto, quasi a cercare di vincere una sfida mai lanciata.
Fu solo quando Rhys si ritrovò fuori dall’appartamento che Pemberley recuperò il coraggio di parlargli, prima però accompagnò la porta alle proprie spalle, in modo da garantire loro un po’ di riservatezza, vicini permettendo.
«Senti Rhys, mi scuso per non averti detto nulla, ma è una questione sempre difficile da affrontare…». E poi? Come continuare? Sentiva il tempo sfuggirle di mano tanto quanto le sue stesse giustificazioni. Un inutile spreco di forze in un disperato tentativo di far capire una situazione difficile in una manciata di secondi quando, per affrontarla, ci sarebbero volute un paio d’ore come minimo.
Era scocciato, si poteva capire dai tratti tirati e gli occhi più inespressivi del solito. Era incredibile come la sua bocca, di solito aperta di poco, pronta a mostrare l’ombra di un sorriso che avrebbe potuto rivelarsi da un momento all’altro, formasse un linea dritta, così severa da pensare che non potesse essere spezzata da una qualsiasi espressione.
«Ho capito benissimo, è più facile tacere certe cose, quando si ha davanti una persona influente come me». E, stranamente, lo disse come se quel prestigio e quel potere fossero stati un insulto alla sua persona, e non un motivo di vanto agli occhi altrui, com’era di solito.
«No!». Tentò di appoggiargli una mano sul braccio, ma la ritrasse prima di peggiorare la situazione. «Non te l’ho detto perché di solito gli uomini con cui sono uscita quando hanno saputo di Naive sono scappati, tu a Lione hai visto solo Pemberley, e mi è piaciuto essere trattata solo come una ragazza della mia età, mi ha ricordato cosa mi sono persa per anni».
Quella confessione lo fece impensierire un poco. Forse lui era cresciuto con la velocità che si addiceva al ruolo che in quel momento ricopriva, ma anche Pemberley aveva affrontato la stessa crescita accelerata e, al contrario suo, si era ritrovata con una bambina, non con un impero multimilionario; lei aveva una persona da mantenere e da accudire sette giorni su sette, senza mai un minuto di respiro da quella vita.
Eppure, nonostante tutto, questa osservazione non toglieva il fatto che lei avesse omesso una parte grande e importante della sua vita. Rhys era confuso, non era ancora sicuro di volere una relazione seria, ci stava soltanto provando, e dopo qualche appuntamento, quattro chiacchiere e un paio di baci si ritrovava già in una situazione ben più grande di quello che sarebbe riuscito a gestire.
Al momento gli sembrava troppo.
«Forse è meglio parlarne con calma» le disse prima di avviarsi verso le scale. «Ci sentiamo».
Calma. Pemberley ne aveva bisogno per spiegargli al meglio la situazione, Rhys doveva smaltire la collera per la sorpresa e ritrovare il raziocinio per riflettere sui motivi di lei. Quindi, quella calma, a Pemberley sembrò una situazione più che ragionevole per costruire un dialogo di lì a qualche giorno, non aveva fretta.
Solo quando sentì i suoi passi risuonare sulle scale, si rese conto di non essere riuscita nemmeno a baciarlo, e un nodo si strinse sopra la bocca dello stomaco, a promemoria di una pessima sensazione.
Passò le mani sulla faccia, stampandosi poi il miglior sorriso a cui riuscì a fare appello, Naive era felice della presenza del padre, non voleva rovinarle certo quei momenti di gioia con un muso lungo riguardante le sue aspettative più nascoste.
«Eccomi!»
«Mamma, chi era quel Rhys?». Naive sbadigliò da sopra la scimmia disegnata sul pigiama. Julius, così si chiamava, era ovunque nella vita della bambina, adorava quella marca e diceva che le regalava sempre un sorriso; in realtà Naive aveva sempre un motivo per ridere ed essere felice, e sapere di avere una bambina tanto solare riusciva sempre a scaldare il cuore di Pemberley.
«Il tuo ragazzo?». La proverbiale innocenza delle parole di una bambina assonnata.
Naive non si accorse delle reazioni dei suoi genitori, troppo presa com’era a stropicciarsi gli occhi, ma Pemberley e Nathan si guardarono con gli occhi fuori dalle orbite; soltanto che, a differenza di lei, Nate era avido della risposta.
«No amore, è solo una persona che sto conoscendo» le rispose la madre trattenendo un sorriso isterico, quella serata non poteva concludersi in modo peggiore. «Signorina, ora però è ora di tornare a letto e riprendere il discorso che hai interrotto».
Naive sbuffò, ma solo dopo aver finito di sbadigliare di nuovo.
«Forza ranocchietta, andiamo a dormire!». Lui se la posò sulle spalle tra le risa divertite e contente della bambina, sapeva sempre come renderla contenta.
Pemberley rise, ricordando il significato del soprannome, perché Nathan ne aveva uno per tutti, o quasi. Ranocchietta era nato dopo le prime visite di Nate a Naive alle elementari; era una bambina vivace, forse troppo, e quando il padre la andava a trovare lo riempiva sempre di abbracci, gridolini entusiasti e, appunto, salti. Una ranocchia in piena regola.
Nate non era mai stato molto presente a causa del lavoro: era sempre occupato e l’avevano costantemente spedito in sedi nuove in giro per l’America per avviarle nel modo migliore possibile. Eppure, quando c’era, si era rivelato un papà attento e premuroso. Forse un po’ troppo permissivo, ma Pemberley pensava fosse un atteggiamento atto a sublimare la sua mancanza nella maggior parte dell’anno.
Prima di entrare nella camera da letto con le pareti lilla, Nathan si era girato verso la sua vecchia ragazza: fece un cenno con il capo prima verso la piccola, chiuse gli occhi e poi le mimò un “arrivo appena dorme”.
«Preparo del the» sussurrò nella sua direzione.
Era strano come su di lei teina e caffeina non avessero effetto. Bere del the caldo durante la visione di un film o quando la giornata era andata male era il modo migliore per andare a dormire rilassata. Il calore della bevanda riusciva a scioglierle i nervi, le scaldava lo stomaco, rilassando così anche l’animo.
Si diresse nella cucina sita oltre  il salotto e mise sul fuoco il bollitore. Doveva smaltire gli strascichi che lo champagne aveva lasciato su di lei, anche se l’adrenalina del momento era servita a cancellare l’ebbrezza delle bollicine.
Forse aveva solo bisogno, con quello stupido quanto inutile gesto, di far sfiatare la rabbia e soffiare via il caos dovuto alla presenza di Nathan; sperava che il fischietto del bollitore sbuffasse al posto suo tutta l’inquietudine e la tensione.
Nate tornò dopo poco: Naive, dopo aver posato la testa sul cuscino, aveva ceduto di nuovo al sonno nel giro di qualche minuto; giusto il tempo di permettere a Pemberley di preparare il the nelle tazze e lasciare che si raffreddasse un po’. Poco male, non si sarebbero bruciati la lingua, almeno con il calore non si sarebbero fatti male. Le parole, spesso, ferivano molto di più, lasciando in bocca il sapore amaro di frasi che non si sarebbero mai volute pronunciare.
Pemberley si appoggiò al bordo del lavandino, non aveva voglia di sedersi, quella visita improvvisa l’aveva messa in allerta, sentiva che c’era qualcosa nell’aria, perché di solito Nate la avvisava del suo arrivo. Non era in grado di dire se fosse un bene o un male, soltanto non riusciva a rilassarsi su una sedia.
Nathan stava fissando il the all’interno della tazza, cercando nelle sue sfumature il principio del lungo discorso che fino a qualche minuto fa era stato chiaro nella sua testa. Vedere però Pemberley baciare un altro con la stessa passione con cui una volta baciava lui, lo aveva lasciato con un fastidio diffuso in tutto il corpo. «Non mi piace che Naive ti veda amoreggiare con uno sconosciuto qualunque».
L’assoluta neutralità con cui disse la frase irritò Pemberley, che rispose subito, cercando di mantenere la calma almeno in apparenza. «Ecco perché l’avevo portata dai miei genitori, per evitare spiacevoli inconvenienti».
Lasciava Naive ai suoi genitori volentieri, perché la adoravano ancora di più di quanto volessero bene a lei che era la loro unica figlia. C’era stato un periodo in cui avevano fatto fatica a rivolgerle la parola, dopo che Pemberley era rimasta incinta e aveva così disonorato la famiglia. Fortuna volle che, dopo poco il diploma, la piccola ragazza incinta che aveva portato l’onta sul cognome Voight, sparì fino al giorno del parto. Quando i genitori, preoccupati per le sue sorti dopo non aver avuto notizie a riguardo, videro la nipote, le perdonarono tutto. Sapendo che la figlia stava bene, e ancora meglio la piccola, avevano deciso di buttarsi tutto alle spalle e aiutare la figlia e la nipote come meglio avrebbero potuto, perché non potevano pensare  di non vedere più il sorriso di entrambe, poco importava che fosse una figlia nata da un’unione tra due adolescenti senza la maturità adatta per crescere una bambina. Su quel piccolo viso avevano rivisto i tratti di entrambi e un qualcosa di nuovo ed emozionante che a loro bastava.
Pemberley avrebbe voluto affidare la figlia ai nonni paterni, ma non era stato possibile: erano morti in un incidente stradale un paio d’anni dopo la nascita di Naive. Pem aveva provato a stare vicino a Nathan in quel periodo, ma lui, dopo averla ringraziata, si era concentrato ancora di più sugli studi, lasciando che i chilometri che separavano Berkeley da Princeton diventassero uno scudo sufficiente tra lui e il passato, come se bastasse a giustificare il suo silenzio riguardo la faccenda.
Eppure entrambi erano abituati ad avere a che fare con questioni irrisolte, perché loro stessi lo erano: Naive era stato solo il primo punto, mai toccato, di tutta la questione.
«Capisco. Scusa» mormorò soltanto lui, con lo stesso tono con cui le si rivolse prima, senza dare l’impressione di pentirsi davvero di quelle parole. Forse non aveva davvero gradito che un così bell’uomo girasse attorno a quella che una volta era stata l’amore della sua vita.
Pemberley tenne la tazza stretta tra le dita per tenersi occupata e non cedere a uno dei suoi soliti tic e, solo prima di portarsela alla bocca, riuscì a parlare. «Cosa fai in città, Nathan?»
«Sono venuto per Naive».
Lei ribaltò la testa all’indietro, gli occhi fissi sul soffitto. Odiava, in momenti simili, il suo essere così ermetico. E, oltre a sentirsi sollevata per la notizia, si sentì pure infastidita, punzecchiata da quella punta di presunzione che pensava che lui fosse tornato perché sentiva la sua mancanza. Ma non contava più dopo dieci anni una cosa simile, giusto?
Sapeva essere solo uno dei suoi tanti difetti, quello di sentirsi sempre al centro dell’attenzione altrui anche quando non era così; le piaceva illudersi sul fatto che, per qualcuno oltre Naive, potesse essere indispensabile o diventarlo.
Cancellò il proprio fastidio e la tensione accumulata, non doveva andare così. Di solito, quando si presentava quei due o tre giorni, con Nathan riusciva sempre ad andare d’accordo. Era semplice e naturale, non doveva sforzarsi, la sua compagnia era come una vecchia amica, era la sensazione di essere a casa. Forse l’amore non c’era più, ma questo non impediva loro di avere un buon rapporto.
Per quanto delicato, avevano mantenuto un equilibrio precario  in cui entrambi si erano sempre trovati bene; il punto tra il non dire e l’accettare le cose così, com’erano andate, senza dir nulla a riguardo.
Gli sorrise, un po’ più rasserenata e leggera. «Di solito avvisi, questa è stata una sorpresa. Avanti, cosa succede?»
Fu il turno di Nathan di prendersi del tempo per rispondere, non sapendo da dove iniziare. «Le cose sono un po’ cambiate, sul lavoro. Inoltre ho un problema con Naive. È da un po’ che ci penso, sai?»
«Cosa c’è che non va con Naive?» non riuscì a nascondere la preoccupazione, poteva deludere tutti Nate, ma non loro figlia.
Fissava la tazza mezza vuota in imbarazzo, cosa strana per lui. «Pem, io mi sento impotente con lei. Mi sembra nata l’altro ieri e ha già dieci anni. Dieci anni in cui non ci sono stato poco, mi sono perso la sua crescita, tutto. Ancora tre anni e diventerà una teen ager, e lì andrà contro noi due perché è così che va il mondo da quando ho memoria, tra sette anni andrà al college e non avrà nemmeno più bisogno di me e te, se non per pagare la retta stratosferica dell’università» la guardò preoccupato. «A proposito, dici che non riuscirà ad avere una borsa di studio?».
Le spalle di Pemberley si distesero, sentendo tutta l’agitazione svanire davanti a un padre preoccupato per la figlia. Era così tenero che non sapeva come agire. Per quanto avesse voluto ridere si trattenne, non volendo urtare la sua sensibilità.
Ma, nonostante tutto, non poteva evitare di sentirsi un po’ in colpa, essendo la causa di quel dolore.
Dopo il diploma era stata lei a fuggire e a nascondersi a New York, era stata lei ad abbandonare Nathan, il ragazzo che le aveva chiesto di sposarla appena saputo della gravidanza. Avevano ragionato insieme sul da farsi, decidendo di tenere il bambino in qualsiasi caso. Solo dopo lui era giunto alla malaugurata conclusione di sposarla, di formare una famiglia. Lei aveva temporeggiato, dicendo che avrebbero avuto tutto il tempo possibile, dopo la nascita di loro figlio.
Poi, in una mattina assolata di fine giugno, era sparita. Non aveva lasciato nemmeno un biglietto d’addio a Nate, solo il letto rifatto e sgualcito, perché aveva appoggiato sopra la valigia da riempire prima di allontanarsi da lì.
Non l’aveva fatto per cattiveria, ma sapeva quanto i genitori di Nathan fossero contrari alla gravidanza e ancor di più al matrimonio, non poteva rovinargli ulteriormente la vita.
Lei ormai doveva rivedere le proprie priorità e dire addio alla Columbia, dato che portava in grembo una bambina da accudire e crescere, ma lui no. Lui poteva salvarsi, partire per Berkeley, avere la grande occasione che aveva sempre desiderato e aveva anche l’opportunità di riscattarsi agli occhi dei suoi.
Si era fatta viva solo quando lui, durante un corso, aveva ricevuto un suo messaggio in cui gli annunciava le doglie e la rottura delle acque. Aveva preso il primo volo e aveva aspettato con lei in sala parto l’arrivo di Naive che, come ogni donna, si era fatta attendere oltre il dovuto.
Dopo Nate non aveva pensato di farsi avanti, non aveva rinnovato le sue intenzioni, l’aveva aiutata nella sua nuova casa a Princeton, in Nassau Street, poi era ripartito, dicendo che non poteva più mancare ai corsi, se voleva laurearsi in tempo.
Era così nata la loro routine, quella fatta di armonia, rospi ingoiati e l’amore incondizionato per una piccola ranocchietta che scalciava felice davanti a mamma e papà.
Una storia mai finita, ma esaurita nel silenzio dietro cui si erano chiusi. Una relazione che non aveva avuto modo di urlare le recriminazioni altrui sull’altro, si era assopita, morente, nella rabbia muta delle parole non dette e delle decisioni prese a prescindere, senza spiegazione alcuna. Non era un rapporto, ma una bomba a orologeria ben caricata e innescata, il cui equilibrio li aveva portati ad andare d’accordo come se niente fosse avvenuto prima della nascita di Naive.
Nathan, dopo aver preso per la prima volta tra le braccia la figlia, non aveva parlato della loro storia perché con la fuga aveva capito che Pemberley non lo amava più, non come lui perlomeno si era sempre aspettato; Pemberley, con quell’abbandono, sapeva di aver scatenato in lui molte più cose di quelle che aveva notato, ma aveva dimostrato quanto il suo amore fosse grande: aveva lasciato libera la persona che più aveva amato.
Finalmente riuscì a sedersi accanto a lui e, cercando di rassicurarlo, gli prese la mano tra le proprie. Gli sorrise come solo lei sapeva fare, con quel misto di sicurezza e dolcezza che riusciva a rivolgere solo a poche persone. «Per la borsa di studio io non mi preoccuperei, è brava a scuola, ce la può fare benissimo, per fortuna» e ridacchiarono di quella strana preoccupazione «Per il resto mi dispiace. È cresciuta senza  che nemmeno io lo volessi. Ha imparato a camminare e subito dopo a pensare, anche io ho paura di vederla allontanarsi troppo presto. Nate, davvero, sei un bravo padre e lei ti vuole un mondo di bene. Stravede per te»
«Ma si può sempre migliorare, non è vero?».
Pemberley annuì soltanto.
«E io voglio farlo. Io sento il bisogno di conoscerla e di passare più tempo con lei».
La determinazione in fondo al marrone dei suoi occhi così scuri era qualcosa di tangibile. Un tocco silenzioso e reale che stava sfiorando la pelle di lei facendole nascere un brivido. Era incredibile come Nathan riuscisse a dire di più con uno sguardo che con le parole; eppure si disse che era normale, dato che non sempre si apriva in lunghi discorsi esaustivi, tutt’altro.
«E con il lavoro?» una domanda posta con terrore. Le alternative a riguardo erano poche: o lui si sarebbe avvicinato a loro, o significava che aveva avuto l’intenzione di chiedere l’affidamento esclusivo di Naive. La cosa la colse di sorpresa, non si sarebbe mai aspettata, dopo anni, una simile risoluzione della questione.
Le sorrise felice, un gesto così distante dai pensieri di lei che la fece preoccupare ancora di più. Aveva paura delle parole che stava per pronunciare, sapeva che avrebbero cambiato la vita a tutti.
«Pem, dopo sei anni ce l’ho fatta. Abbandono il mio lavoro itinerante. Anzi no, a dir la verità abbandono la Syntech. Mi hanno preso alla Nike, sono il nuovo designer. O meglio: il capo del reparto design».
Era da una vita che desiderava un lavoro simile: aveva studiato per avere la migliore preparazione possibile e, dopo anni di fatica e rinunce, tra tutte Naive, era arrivato dove aveva sempre sognato.
«E dove ti hanno mandato? Più vicino rispetto a San Francisco?»
«Qui, a New York. Ho iniziato questa settimana. Ho atteso prima di presentarmi per mettere a posto un po’ le cose. Volevo che lo sapessi da me, volevo che tu fossi la prima a saperlo» e, come prima, lesse nei suoi occhi una felicità profonda e radicata, come se tutti gli anni passati fossero solo un ricordo difficile da riportare alla mente. Come se anche Nate riuscisse a sentire l’odore delle novità ancora da provare e volesse recuperare al più presto.
Pemberley gli si gettò al collo, contenta. Non solo non le avrebbe portato via la figlia, ma aveva trovato il modo di poter stare di più con lei e imparare a conoscerla. Non si sarebbe mai più perso nessuna novità che la riguardava, sapeva di non poter sperare di meglio. Inoltre aveva sempre desiderato che lui fosse più presente nella vita della piccola, avrebbe avuto un padre presente ogni ora del giorno e della notte. Avrebbe potuto vederlo più spesso, condividere un sacco di momenti con lui, renderlo partecipe di tutti gli aspetti della sua vita.
«Sono così felice, è stupendo! Ora potrai stare con Naive».
Nathan rispose al gesto, grato che Pemberley avesse preso la notizia al meglio. In quel modo non solo avrebbe potuto approfondire il rapporto con Naive, ma avrebbe potuto aiutare Pem a respirare un po’ di più, un po’ più a fondo, regalandole qualche momento tutto per sé.
«A proposito di questo, ho pensato: quando troverò casa, cosa ne dici se una volta a settimana si ferma da me a dormire? Prometto che le preparo una stanza apposta. Le farò scegliere il colore delle pareti, l’arredamento, qualche vestito da tenere nell’armadio…»
«Frena, respira!» gli toccò un braccio nel tentativo di riportarlo con i piedi per terra.
Nate la fissò con occhi colmi di paura, sapeva cosa sarebbe successo: Pemberley avrebbe detto di no, e lui non avrebbe potuto dir niente a riguardo, perché in quella famiglia occupava il posto di una grande mancanza.
«Certo che potrà stare da te, mi sembra il minimo, ma per sicurezza lo chiederemo a lei, anche se non penso ci siano problemi a riguardo».
Rilassò i tratti del viso e tornò a respirare. Invidiava Pem per un motivo ben preciso: aveva una parola buona per tutti ed era sempre positiva, raramente si faceva spaventare da qualcosa. Se lui fosse stato al suo posto, si sarebbe fatto molti più problemi, ma Nate non capiva una cosa che Pemberley ormai sapeva da tempo: l’amore per loro figlia era un bene, e non avrebbe mai negato che il padre potesse donarglielo.
Anzi, Pemberley era felice, vedeva l’opportunità concreta che tutto ciò si realizzasse, abitando vicini sarebbero stati a contatto molto più tempo, imparando a conoscersi e a volersi ancora più bene rispetto a ora, non aveva motivi di impedire una cosa simile.
«Ecco, a proposito… Ho pensato una cosa: è meglio che io non ci sia quando le verrà posta la domanda. Anzi, a dir la verità vorrei glielo domandassi tu soltanto».
La notizia lasciò Pem alquanto sorpresa, tanto che non si trattenne dal domandargli il perché di una decisione simile.
Nathan si grattò il naso importante con un certo imbarazzo. «Pem, non lo capisci? Se glielo chiedessi io si sentirebbe obbligata a rispondermi di sì, e io non voglio. Vorrei che tu le proponessi la cosa e vorrei che lei si sentisse libera di rispondere come meglio crede. Almeno se non vuole te lo dice senza mezzi termini e me ne farò una ragione».
Pemberley incrociò sul tavolo le dita con quelle di lui. Una volta sarebbe stato un gesto importante, vedendo in quelle mani un luogo in cui rifugiarsi, tanto che ci aveva lasciato il cuore, ora, invece, era diventato un contatto naturale che serviva a farle sentire vicina una persona molto importante della sua vita. Nessun batticuore strano, niente guance rosse, solo la vicinanza tra due persone che, nonostante ne avessero passate di tutti i colori, condividevano ancora un sacco di cose, oltre che una figlia.
In quel momento non stava guardando solo Nathan, ma un papà che, cresciuto da solo all’ombra dei suoi pensieri in lontananza e nella luce dei sensi di colpa, aveva capito che pensare più a ciò che voleva una figlia, piuttosto che riflettere su quello che lui desiderava davvero, era il bene più grande.
Un momento di cui Pemberley non si sarebbe dimenticata mai, perché le ricordava come mai si era innamorata di lui dieci e più anni prima e come ancora potesse giurare che se avesse voluto un padre per Naive, sarebbe stato solo e soltanto lui.
«Sta’ tranquillo Nate, andrà tutto per il verso giusto. Non può dire di no, ti ama e non avrebbe chiesto di meglio, ne sono sicura». Conosceva abbastanza Naive da prevederne la reazione.
«Facciamo così: dato che ti vedo agitato, glielo chiedo domani mattina, poi ti faccio sapere»
«Il prima possibile, però». Ecco il Nathan bambino che metteva il broncio davanti alla merenda che non voleva mai fare, perché avrebbe significato interrompere l’attività sportiva del momento.
«Appena posso»
«Anche un messaggio va bene» aggiunse apprensivo.
«Ok» rispose divertita, fingendo di pensarci su. «Anche un messaggio».
Nate fissò l’orologio al proprio polso. Odiava quegli accessori, ma da quando gli era rimasto il preferito del padre non poteva evitare di portarlo. Più che un ticchettio, sentiva il battito regolare e attutito di un cuore che per lui non aveva mai smesso di battere, quello di Roger Alcott. Lo stesso suono che da piccolo sentiva avvolto da un maglione, il petto di suo papà contro il proprio orecchio.
Nonostante sapesse che i genitori c’entravano con la decisione di Pemberley, anche se non sapeva come e in che modo, aveva sempre voluto loro un gran bene, non era mai riuscito a portar loro rancore, non alle persone che l’avevano allevato con amore e fermezza.
«Sarà meglio che io vada, è mezzanotte passata e domani devo vedere un po’ di appartamenti. Inoltre la strada non è corta…» iniziò a scusarsi come se fosse una colpa, la sua, e non un merito.
«Tranquillo, io domani lavoro ed è pure peggio».
Le regalò una di quelle sue espressioni furbe e compiaciute, quelle che tanto mettevano in risalto i suoi occhi quasi neri «In effetti hai ragione»
«’Notte. Fammi sapere dove trovi casa, mi raccomando» sorrise interessata. Era curiosa di vedere quale tipo di appartamento avrebbe scelto Nathan e, soprattutto, come l’avrebbe arredato, da quello si capivano un sacco di cose riguardo le persone, e lei avrebbe potuto scoprire quanto era cambiato.
Dopo dieci anni l’avrebbe riscoperto. Una cosa che le faceva piacere ma, soprattutto, paura. Se già conoscere una persona per la prima volta era difficile, avere a che fare dal principio con gente che significava molto era davvero un’impresa titanica.
«Allora… Ci sentiamo» disse lui raccogliendo la giacca e indossandola.
Prima di andare però si diresse verso la camera di Naive, aprì la porta e sbirciò per controllare che la figlia stesse dormendo. Si avvicinò di soppiatto per accarezzarle una guancia rilassata e depositarle un bacio sui capelli, cosa di cui Pemberley si stupì, perché non l’aveva mai visto così premuroso verso la bambina.
Una volta fuori dalla camera chiuse la zip per proteggersi dalla fredda notte che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco, aveva iniziato a piovere e se ne era accorto solo in camera della figlia, sentendo il rumore ritmico della pioggia fare da sottofondo ai sogni della bambina.
Prima di andare riservò lo stesso trattamento a Pemberley che, stupita da quei gesti, rimase con la mano che aveva appoggiato sulla guancia di Nate a mezz’aria e sulle punte dei piedi, sospesa.
«Ciao, Velvet».
Forse riprendere ad avere Nate nella sua vita non sarebbe stato facile come pensava, non quando giocava sporco come in quel caso.
Velvet era troppo intimo, Velvet era la Pemberley che aveva amato, quella che, forse, non c’era nemmeno più.
Andò a dormire pensando a quella singola serata in cui erano successe troppe cose. Com’era possibile che solo un paio d’ore prima fosse a cena con un uomo fantastico e che ora avesse appena salutato il padre di sua figlia che, dopo dieci anni, aveva avuto l’opportunità di trasferirsi nella loro stessa città?!
Si sdraiò a letto con la testa pulsante, cercando di rimettere a posto le proprie idee.
Solo in quel momento, protetta dal caldo del piumone, si accorse di alcune cose.
Aveva sempre apprezzato la musica, Pemberley. In auto era la prima ad accendere lo stereo e a scegliere le canzoni più adatte al momento e all’umore; era inoltre convinta che i gusti musicali di una persona dicessero molto riguardo a essa.
Si era accorta che in auto di Rhys non c’era stata musica, nemmeno una canzone o la radio.
Tutto spento, regnava il silenzio riempito dai loro discorsi.
Pemberley si rese conto che Rhys era la pausa tra due note, il secondo che ti permetteva di dare un senso alla melodia e la formava, senza però dare accenni riguardo se stesso.
Rhys era il silenzio che esisteva tra le tracce di un cd, l’assenza di rumori che fluiva tra le dita e di sé non diceva nulla. Pem chiuse gli occhi è scivolò nel sonno con la sensazione di non poter cogliere altro su di lui.
L’unica cosa che avrebbe ritrovato spesso in quella stanza, come somiglianza, sarebbe stato il silenzio circondato da suoni ovattati dalla sua assenza.
 
C’erano giorni in cui era Naive a svegliarla. La piccola si alzava un po’ prima del solito per infilarsi nel lettone della mamma e dormire un po’ con lei in quel calore che la faceva addormentare di botto, facendola sentire protetta.
Quella mattina però, fu Pemberley ad alzarsi prima della figlia. Non aveva dormito bene, divisa tra il suo ruolo di madre e il suo essere una ragazza di ventisette anni. Da una parte c’era il pensiero di Nate e il discorso da affrontare con Naive a riguardo, dall’altra c’era la sensazione di aver allontanato Rhys, la persona che più le interessava in quel momento. Era come se, nei suoi modi così freddi e poco cortesi della sera prima, ci fosse stato qualcosa di definitivo.
Aveva così deciso di evitare di pensare a entrambi e si era messa a cucinare degli ottimi pancake, il modo migliore per iniziare al meglio la giornata per lei e Naive.
«Mamma, cosa succede, sei impazzita? Non è domenica» la piccola si era avvicinata con passo incerto verso la cucina da dove si spandeva un odore buono e invitante anche per lei, così scettica verso il comportamento della madre.
«Su, Naive, siediti qui, oggi è una giornata particolare» disse mentre rigirava una di quelle specie di crepes in padella.
Le altre erano impilate nel piatto al centro della tavola, circondate da latte, caffè e pane tostato. Naive non se lo fece ripetere due volte: si sedette al tavolo e, al posto di servirsi due o tre pancake, prese tutto il piatto. Se si fosse impegnata avrebbe potuto mangiarseli tutti.
Pemberley girò un po’ la testa giusto per vedere l’aria famelica con cui la figlia studiava tutta l’enorme pila. «Non ci provare!» la ammonì divertita raggiungendola al tavolo. «E vedi di non esagerare con lo sciroppo d’acero».
Fu solo quando la vide intenta a masticare un boccone della loro colazione che Pemberley si convinse a parlare del motivo per cui si erano ritrovate a tavola a mangiare con la dovuta calma e a non fare tutto di fretta come al solito «Devo parlarti di una cosa, scricciolo».
Naive si mise sull’attenti mentre si dedicava ai propri pancake. Sapeva che quando era sua madre a usare quel soprannome c’era sempre sotto qualcosa. C’erano sempre grandi notizie in ballo.
«Sai che ieri il tuo papà è venuto qui a trovarci, no?!» Naive annuì soltanto, aveva la bocca piena e sapeva che le signorine per bene non parlavano in certi momenti.
«Bene, ecco… Mi ha parlato di una cosa importante». Pem procedeva per gradi, non voleva rovesciare sulla figlia troppe informazioni in una volta. Doveva fare in modo che capisse ogni singola parola per evitare di creare equivoci.
Naive la fissò attentamente, lo sapeva che c’era qualcosa sotto. Nonostante avesse solo dieci anni era perspicace come una tredicenne, ed era risaputo che quelle di tredici anni sapessero un mucchio di cose in più rispetto a quelle di dieci, era una voce diffusa soprattutto a scuola. Questo anche perché un sacco di tredicenni baciavano i ragazzi, e Naive non aveva mai capito il gusto di quella cosa: perché sporcarsi con la bava altrui? Era però convinta che avesse il suo perché un simile gesto, dato che tutte aspettavano di ricevere e dare un bacio.
Annuì ancora, essendo a conoscenza che mancavano alcune parti a quella conversazione, in realtà stava solo asserendo a se stessa e alla propria perspicacia, ma Pemberley lo prese come un buon segno e continuò il suo discorso.
«Ha trovato lavoro»
«Uno nuovo?».
Ma quanti lavori cambiava suo papà? Cavolo, era sempre in viaggio da una parte all’altra dell’America.
«E dove?» aggiunse rivolta alla madre.
«Qui, a New York». Cercò di godersi l’effetto di quelle parole.
Vide Naive staccare gli occhi dai pancake per sgranarli nella sua direzione. Smise di mangiare offrendole così la visione del cibo masticato nella sua bocca. Si mise i lunghi capelli castani dietro l’orecchio destro, voleva dire qualcosa ma le parole vennero meno.
Era buffa e comica, e Pemberley si trattenne a fatica davanti a quell’aria sorpresa. Adorava le reazioni dei bambini, così genuine e spontanee da non poter essere replicate in alcun modo. Avrebbe voluto fare una foto e mandarla a Nathan, ma non sarebbe riuscita a catturarla in tempo. Inoltre doveva ammettere che quella era una tipica reazione alla Nate, difficile che lui stesso non la conoscesse già.
«Davvero?»
«Già, lavora alla Nike». La bambina aveva già iniziato a saltellare elettrizzata sulla sedia, ma Pemberley la interruppe per concludere quel dialogo. «E mi ha detto di chiederti una cosa. Ti dico subito che ha lasciato il compito a me perché aveva il timore che tu ti sentissi costretta a rispondere di sì per forza se te l’avesse chiesto lui»
«Avanti mamma, parla!».
Alzò gli occhi al cielo, era così simile a lei certe volte da spaventarla. «Siccome si trasferirà qui, e per questo sta cercando un appartamento, mi ha parlato della possibilità di avere una stanza anche per te, perché, se ti facesse piacere, potresti passare più tempo con lui e una volta a settimana potresti fermarti a dormire con il papà. Cosa ne dici?»
Naive fece cadere le posate nel piatto, facendolo tintinnare.
Il Signore aveva ascoltato le sue preghiere, allora andare in Chiesa ogni domenica serviva a qualcosa!
Suò papà era tornato e voleva stare con lei, voleva davvero conoscerla e dormire con lei. Non l’aveva abbandonata, il suo interesse era sincero.
Avrebbe voluto saltare, ma sapeva che sua mamma l’avrebbe sgridata e guardata male, così le regalò il sorriso più contento che potesse esistere sulla faccia delle terra, nonostante le mancasse uno degli incisivi.
«Sì! Sì! Io voglio stare anche col papà! Allora non mi ha abbandonata! Lo sapevo» aggiunse riprendendo possesso della forchetta.
«Ha detto che potrai scegliere il colore e l’arredo della nuova camera» si odiava per aver instaurato nella figlia il dubbio che il padre l’avesse abbandonata, e questo solo perché Pemberley aveva desiderato per lui un destino migliore. Era una pessima persona e una pessima madre, come aveva potuto fare questo a una bambina? Aveva tentato in tutti i modi di mettere a tacere quelle insicurezze: continuava a ripeterle che Nate le voleva bene e a parlare di lui in modo positivo, oltre che di loro al liceo, in modo che lo sentisse più vicino, ma non era riuscita a dissipare ciò che in Naive si era radicato in un angolo del cuore.
«Wow! Non vedo l’ora. Spero trovi presto una casa».
Pemberley guardò l’ora nel display del forno a microonde situato sul bancone della cucina. «Su ranocchietta, veloce a finire la colazione o dobbiamo fare tutto di corsa, come al solito».
Senza aspettare una risposta mise i piatti nel lavello, li avrebbe lavati quella sera, e poi si diresse in bagno, doveva restaurare la faccia che riportava i segni di quella notte insonne.
«Mamma?» Naive cercò di richiamare la sua attenzione nonostante la madre avesse già le mani sporche di fondotinta.
«Sì?» chiese spalmandoselo sulla faccia in modo uniforme, non poteva presentarsi a lavoro con l’aspetto di un clown, da Forbes volevano eleganza e semplicità. Infatti si rese conto di aver sbagliato: si stava truccando prima di aver indossato il dolcevita nero. Ci avrebbe pensato dopo, ormai si stava dedicando a quello e non avrebbe cambiato attività, incasinando ancora di più le cose come solo lei era brava a fare.
«Quando lo diciamo a papà?» Naive occupò il lavandino per lavarsi i denti. Ottimizzavano i tempi, almeno Pemberley sarebbe riuscita a scegliere dei vestiti decenti per la figlia, perché se no avrebbe indossato fantasie e colori che tra loro avrebbero sicuramente cozzato.
«Appena abbiamo un momento tranquillo».
E, senza quasi nemmeno respirare, si ritrovarono in auto verso la scuola, nella cittadina dei genitori di Pemberley, Woodbridge Township, esattamente a metà strada tra Princeton e New York.
«Mamma!» urlò Naive in uno dei momenti di traffico intenso in cui le auto erano totalmente ferme lungo la strada.
Pemberley strinse le mani attorno al volante, terrorizzata dal grido improvviso della figlia «Naive, tesoro, perché devi farmi venire i capelli bianchi prima del tempo?!» si massaggiò le tempie e gli occhi con la mano destra, cercando di riprendere lucidità. Non era bastato a quella piccola peste di averla fatta crescere prima del tempo? Voleva vederla anche con i capelli canuti e le rughe?
Solo più avanti avrebbe capito quanto certi spaventi fossero inutili.
«Comunque, cosa c’è?»
«Scusa mamma» rispose la piccola ridacchiando. «Possiamo chiamare papà ora? Con il tuo telefono e il vivavoce…» usò quel tono finto petulante che solo in bocca ai bambini poteva risultare un’arma letale a cui non poter dire di no. Odiava quando Naive usava incoscientemente il suo fascino innocente su di lei.
«Su, uragano, prendi il cellulare dalla mia borsa».
Non se lo fece ripetere due volte, rovistò all’interno dell’enorme borsa nera della madre ed estrasse ciò che stava cercando. La felicità di quel gesto era palese negli occhi di Naive, ed era meraviglioso agli occhi di una madre quanto anche le cose più piccole appagassero l’animo di un bambino.
Cercò il numero del padre facendo scorrere la rubrica e schiacciò la cornetta verde una volta arrivata su Nate. La comunicazione era partita, ora si trattava solo di attendere.
«Pem, hai la…» non riuscì a finire la frase, interrotto da una specie di urlo sovraumano.
«Papà, papà sono io!» stava quasi saltando sul sedile, e Pemberley rimase sorpresa da tutta quella vivacità. Era sempre stata solare Naive, ma era tutta energia composta, non eccedeva quasi mai. Nonostante fosse raggiante, non era mai stata una di quelle bambine pestifere, quello che stava mostrando era un lato nuovo, la felicità di una bambina che stava ottenendo ciò che, in segreto, aveva sempre desiderato.
«La risposta è sì! Mi piacerebbe un sacco stare da te una volta a settimana» e divenne rossa, cosa che cercò di mascherare coprendo lo zigomo più vicino alla madre con la mano affusolata, fingendo di grattarsi la faccia.
«Scricciolo, non voglio obbligarti, sei sicura?» aveva posato il pennino con cui stava disegnando sulla tavoletta grafica. Con il cuore leggero e il battito accelerato, si era appoggiato allo schienale della comoda sedia di cui l’avevano fornito. Adorava quel lavoro: dalla postazione in cui concepiva nuovi modelli alla fase creativa; era ciò che aveva sempre desiderato.
«Papà, scherzi? Io ne sono felice! Non so quanto ti fermerai, devo cogliere l’occasione al volo»
«Amore, penso di fermarmi a vita» ora che aveva ottenuto il lavoro per cui aveva sempre lottato, non l’avrebbe lasciato tanto facilmente.
La pausa di Naive fece incuriosire Pemberley che si voltò per guardare la figlia.
Aveva gli occhi sgranati, colmi di panico, l’incertezza che per dieci anni l’aveva cullata in quel momento si era riversata nel suo sguardo. Pemberley non poté non sentirsi in colpa, forse aveva sbagliato tutto, o non aveva insistito abbastanza e aveva così lasciato che la figlia fosse schiava di convinzioni sbagliate.
«Non fa niente papà, io voglio conoscerti meglio». Le difficili ammissioni di una bambina che desiderava dire certe cose, ma non davanti alla madre. Si vergognava ad aprirsi così tanto oltre il dovuto.
«Hai già trovato la casa?» domandò per cambiare discorso. «Mamma mi ha detto che posso scegliere il colore della stanza e i mobili. Sai, ho già in mente qualcosa…».
Nathan rise «Ranocchietta, con calma. Oggi vado a vedere un paio di case. Appena trovo l’appartamento sarai la prima a saperlo, prometto».
Naive sorrise più rilassata «Ci conto!»
«Ora devo tornare a lavorare, non posso mostrarmi scansafatiche i primi giorni, ma ci sentiamo prestissimo, ok?»
«Ok! Buon lavoro papà» quella parola era sempre stata così preziosa in quegli anni, che ripeterla la riempiva di adrenalina. Ora non sarebbe stato poi così difficile descrivere la sua famiglia nei temi di scuola, tutto stava diventando tangibile e a portata di mano.
«Buona scuola a te, ranocchietta»
«Ciao Nate!» urlò Pem prima che l’ex potesse chiudere la conversazione.
Naive si chiuse nel suo solito silenzio, cercando di farsi inghiottire dalle proprie spalle e il sedile, stringendo il telefono con forza, appoggiato sulle ginocchia. Era a disagio, e la madre lo sapeva bene.
«Scricciolo?!»
«Sì?»
«Sono fiera di te, non è da tutti dire quello che si pensa»
«Grazie» sorrise un po’ più convinta. «Ho pensato che avesse bisogno di sentirsi dire certe cose. Io sentivo di volergliele dire».
E, in quel momento, si rese conto che forse non aveva sbagliato del tutto con la figlia.


* * *

Buonasera!
Mi scuso per il ritardo di quasi una settimana, ma questo capitolo è stato un parto, tanto per fare compagnia a Pemberley. Il motivo è semplice: il capitolo non era pronto nella mia testa, come non lo è la storia, quindi anche in fase di scrittura è cambiato settordici mila volte. Fate conto che l'idea generale era totalmente diversa, il dialogo tra Pem e Nate doveva essere più corto e dovevano esserci più scene. Inoltre Naive dovrebbe esserci stata meno, ma è la variabile impazzita della storia e io posso solo assecondare tutto ciò.
Riguardo al capitolo non ho poi molto da dire, se non che, per come è uscito, non mi soddisfa molto, eppure so che serve per farvi capire - almeno parzialmente - la situazione che ha portato a questi momenti.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, be', lo ammetto, non penso possa arrivare prima del 2013. Inizio a lavorare a giorni dai miei fino al 31 e le ore libere si ridurranno drasticamente, ho la OS per natale (un regalo per voi che spero possiate gradire) da scrivere entro il 23 (giorno in cui ho deciso di postarla) e gli ultimi esami da preparare (ansia!) e una tesi da imbastire (prima o poi), quindi gli aggiornamenti, fino a fine gennaio, saranno rallentati e me ne dispiaccio. Spero possiate avere pazienza con me!
Niente, per ora penso sia tutto, in caso contrario vi dirò il resto nel gruppo o sotto al prossimo capitolo.
Vi ringrazio comunque per l'affetto, perchè so che questa storia è diversa da tutto ciò che ho scritto prima.
Se vi va, mi trovate nel gruppo di Facebook:
Love Doses
Inoltre, visto che non aggiornerò prima del 2013, vi auguro un BUON NATALE e un GRANDIOSO 2013! Nel caso voleste rinnoverò gli auguri sotto la OS.
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

   
 
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