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Autore: Roxar    19/12/2012    4 recensioni
Anno 2021. Dopo un estenuante periodo di tensione, Russia e Stati Uniti d’America si sono reciprocamente dichiarate guerra, coinvolgendo ogni nazione del globo.
Così, impelagata in quella che è ufficialmente la Terza Guerra Mondiale, la giovane Valerie è costretta a vivere una vita fatta di ansia, nervosismo e stenti, costretta a badare alle esigenze del piccolo ranch ereditato dal nonno paterno e a Jack, un ragazzino ritrovato moribondo ai margini della strada.
Da una cosa sola Valerie è terrorizzata: vedersi piombare la nemesi in casa, in piena notte, favorita dalle ombre. E il suo terrore diventa concretezza quando Jack rinviene il corpo incosciente del giovane Aleksandr Lebedev, soldato del più efficiente corpo armato russo.
Inizia così una stretta convivenza fianco a fianco, America e Russia costrette a vivere sotto un unico tetto, con tutti i disagi, i litigi e le incomprensioni che questo comporta.
E chissà che i due giovani, infine, non riescano a giungere ad un trattato di pace.
[Dal capitolo 9:]
"Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra."
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Era l’inferno, alla periferia sud di Fort Worth.

Il fuoco divampò e si allungò come una bolla inevitabile, rossa e calda, travolgendo ogni ostacolo sulla propria avanzata. Spinsi Kim all’interno della sua drogheria, urlandole di nascondersi, sgolandomi per sovrastare il fragore delle bombe e lo squillo delle sirene.

Poi, frenetica e nel panico, afferrai Jack e lo spintonai fino a che non fu al sicuro sul posteriore del pickup. Avevo appena individuato Aleksandr, che restituiva un bambino in lacrime alla madre altrettanto sconvolta, quando la seconda bomba esplose alla fine dell’isolato.

L’onda d’urto ci spazzò via come formiche al getto impietoso dell’acqua.

Sentivo la strada umida premermi contro la guancia e strane luci bianche e rosse mi lampeggiavano davanti agli occhi, sovrastando la scena drammatica che scorreva a pochi metri da me. Una scena colorata, vivida, eppure senza alcun suono.

Lo stesso bambino salvato da Aleksandr aveva trovato la propria pira nell’abbraccio materno; li vedevo urlare, vedevo le fiamme mangiarli pezzo per pezzo, li vedevo rotolare sull’asfalto bollente e, infine, giacere esanimi, schiacciati dal fuoco.

Vedevo gli pneumatici rotolare malfermi e infuocati, bruciare, rilasciare una sottile colonna di fumo denso e nero.

Vedevo il panico dilagare e muovere le gambe dei cittadini, che, terrorizzati scappavano alla ricerca di un rifugio.

Vedevo, vedevo, vedevo, ma ero incapace di distogliere lo sguardo dal corpicino immobile e arroventato; un orsacchiotto di pezza bruciava accanto a lui.

Ero incapace di ascoltare e quando strisciai sulle ginocchia per rialzarmi – l’istinto di sopravvivenza era forte e disperato come mai prima d’allora – le vertigini mi ghermirono, lasciandomi prona sull’asfalto.

Mi tastai la guancia solo per trovarla coperta di sangue. Ero ferita? E dove? Alla testa? Alla tempia?

No. Il sangue fiottava dall’orecchio sinistro. Nel silenzio, che così tanto stonava con l’inferno che mi circondava, vidi Aleksandr – i capelli biondi incollati alla fronte sudata e insanguinata – corrermi incontro e prendermi tra le braccia.
E il dolore esplose sul polpaccio, diramandosi in tutto il corpo. Urlai. Ero sicura di stare urlando. Sentivo la gola gonfia e graffiata dalla mia stessa voce, sentivo la bocca aperta in grido muto.

Vidi Aleksandr dirmi qualcosa prima di adagiarmi sul sedile del passeggero, scavalcandomi poi per raggiungere la postazione di guida.

Jack riemerse dal fondo dell’auto, bianco come un cencio. Mi teneva la mano, lo sentivo, pelle contro pelle, ad occhi chiusi, incapace di sopportare le vertigini.

Lo stomaco si accartocciò e forse implose, spingendo la bile e la colazione su per la gola.

Mi chinai in avanti prima di liberarmi, soffocando nella mia stessa saliva.

Solo allora fui consapevole del forte fischio nelle orecchie, raccapricciante colonna sonora del paesaggio in fiamme che mi scorreva accanto ad una velocità impossibile.

L’addome si contrasse, pronto ad una nuova ondata di nausea. Ma l’incoscienza mi trovo prima.

 

«...Pensi che tornerà a sentire?»

«La dottoressa ha detto che la lesione non è grave, che si sarebbe rimarginata spontaneamente. Dobbiamo solo aspettare».

«Ma perché non si sveglia? Sono passati due giorni, ormai».

«Ci vuole tempo, Jack».

A fatica, trovai le palpebre e ricordai come sollevarle. Sfarfallarono, respingendo la luce.

Provai a chiedere cosa fosse successo, ma mi ritrovai ad emettere un rauco e patetico: “Aah”.

Fu però sufficiente a placare l’ansia di Jack, il quale si fiondò al mio fianco, prendendomi la mano.

«Come ti senti?»

La sua voce giunse da lontano, come se mi stesse parlando da est mentre io ero voltata ad ovest. Poi capii. Solo l’orecchio destro era capace di cogliere suoni e rumori, il sinistro pareva morto. Decisi che me ne sarei preoccupata più tardi; ero viva e tanto bastava.

«Uno schifo; dov’è?» gracchiai, aggrappandomi al suo braccio per sollevarmi sul cuscino. Fortunatamente, la stanza rimase immobile al suo posto.

«Chi? Alek? È qui».

Jack allungò il braccio per indicare la figura di Aleksandr in piedi contro la parete. Sollevò il mento e sorrise mesto ed esausto.

Si era ripulito; i capelli biondi, tuttavia, erano stati accorciati di qualche centimetro, liberando la fronte, attorno alla quale era ben stretta una fascia bianca su cui campeggiava una macchia scarlatta, piccola e circolare.

Notai anche le pesanti occhiaie livide e mi domandai da quanto e perché non dormiva.

«Come stai?»

Mi aspettavo un senso di ovattato stordimento, invece ero incredibilmente lucida e ricordavo perfettamente ogni cosa. L’immagine del bambino in fiamme mi tolse l’aria dai polmoni e rabbrividii.

«Tu chiedi a me come sto?».

Mi spiegò che il timpano sinistro era stato lievemente danneggiato e che la dottoressa Hourani era fiduciosa circa la spontanea guarigione; poi indicò la gamba, sostenendo che una scheggia aveva reciso il polpaccio, scheggiando l’osso.

In definitiva, mi attendeva una lunga riabilitazione, mal di testa frequenti e crampi dolorosi alla gamba.

«La dottoressa Hourani? Sam?»

Jack e Aleksandr si guardarono; il primo guardò altrove, l’altro sbuffò, toccandosi inavvertitamente lo zigomo che, solo allora lo notai, era gonfio e tumefatto.

«Il tuo amico non è un tipo diplomatico».

«Cosa?» fissai Jack, il quale mugolò sofferente un: “Hanno fatto a pugni”.

«Perché non ti sei nascosto?» gridai e una fitta di emicrania mi spezzò il respiro.

«Qualcuno doveva pur badare a te mentre il ragazzino andava a chiamarli» si giustificò e l’idea di saperlo a vegliare su di me mi mise a disagio.

«Comunque non mi denunceranno, se è questo che ti preoccupa; Sam», pronunciò il nome con arrogante scherno, «ha detto qualcosa come “la sua vita per la tua”. Ci siamo fatti il fidanzatino, eh?»

Bentornato, Aleksandr versione soldato stronzo e indisponente.

«Oh, piantala» mi lamentai, prendendomi la testa tra le mani.

«Non addormentarti, principessa; il tuo principe azzurro sta per arrivare» e si congedò con un enfatico inchino di commiato, sbattendosi la porta alle spalle.

«Ma che ha?» chiesi a Jack, il quale sorrise con l’aria di chi la sapeva lunga.

«Credo sia geloso di Sam» sussurrò con fare cospirativo, dandomi perfino il gomito.

«Geloso? Santo Cielo, e perché mai?» risi incredula, ignorando il pulsare violento dell’orecchio.

«Be’, magari gli piaci» sputò con ovvietà, come se fossi stata una stupida a non aver colto l’evidenza prima.

«Magari», convenni indulgente, «o magari no».

L’arrivo della dottoressa fu provvidenziale e mise a tacere la pronta replica di Jack.

Sam, al suo fianco, era rigido, il volto solo una maschera inespressiva di gelida formalità.

Feci per dire qualcosa, ma la donna iniziò tastarmi, a puntarmi un fascio di luce negli occhi, a chiedere di toccarmi il naso con la punta dell’indice e dirle come mi chiamavo, quando e dove ero nata.

Superai l’esame a pieni voti, a giudicare dal sorriso radioso che le illuminò il volto, facendola apparire decisamente più giovane.

«Per il tuo orecchio non posso fare niente, purtroppo; per la ferita alla gamba tornerò tra due giorni per controllare la sutura. Nel frattempo, in casi di dolore intenso, ti lascio queste iniezioni intramuscolari» spiegò con fare professionale e pratico, lasciandomi una manciata di fiale e siringhe sul comodino.

«Aspetti, aspetti. So quanto sono rari i medicinali, la prego, li risparmi per casi più gravi del mio».

Inaspettatamente, si chinò per  carezzarmi la guancia.

«La tua gentilezza è nobile, davvero, ma ho appena fatto rifornimento da Crockett e Joshua, stai tranquilla; e poi, queste sarebbero solo acqua fresca per un caso più grave».

Scoccò poi un’occhiata a Sam e gli domandò di uscire.

«Perché?» l’aggredì e mi sentii in dovere di difenderla; ma non sapevo che sotto quel viso tondo e gentile si nascondesse una personalità poco intenzionata a soccombere.

«Devo spogliarla per visitarla e non credo che lei gradirebbe essere vista nuda da te» replicò mordace e Sam, dopo avermi letteralmente incenerita con lo sguardo, andò via, sbattendo la porta.

Sospirai e afferrai i lembi della maglietta, ma lei mi prese le dita e scosse la testa.

«Volevo solo dirti che quello che hai fatto per quel soldato è stato un gesto davvero magnanimo. Un altro, al tuo posto, l’avrebbe lasciato morire o ucciso con le sue stesse mani. Sei una brava persona» si complimentò e sentii di non meritare tante belle parole; non l’avevo salvato io, ma Jack; non ero stata io a trattarlo con i dovuti riguardi, ma Jack. Io avrei solo voluto sbarazzarmene, io gli avevo ostinatamente voltato le spalle.

«Arrivederci, Valerie».

«Arrivederci, dottoressa».

La vidi avanzare fino alla porta, per poi arrestarsi e voltarsi appena.

«Non essere troppo dura con Sam. Lui ti vuole bene, lui non capisce...» si strinse nelle spalle e andò via, non concedendomi neanche il tempo di chiedere spiegazioni.

Spiegazioni che mi vennero fornite negli immediati minuti successivi, dalla voce tuonante e furiosa di Sam.

Percorreva furiosamente il perimetro della camera, passandosi le mani tra i capelli sconvolti, spettinati, ritti sulla testa.

«Tu devi consegnarlo!» urlava continuamente, in un rumoroso monologo, senza concedermi il tempo di rispondere; crucciata, incrociai le braccia e lo fissai sfacciata, in attesa di ricevere la parola.

Approfittai di un momento di silenzio.

«Ne hai ancora per molto?»

Mi fissò torvo, ma ebbe la decenza di tacere.

«Non posso consegnarlo, tu sai che non posso farlo» dissi piano, quasi dolcemente.

«Perché non me ne hai parlato? Quel dannato figlio di puttana indossa perfino i vestiti di mio padre!»

«Non te ne ho parlato perché sapevo che avresti reagito esattamente così».

«E come, se no?! Tu sfami un assassino!» urlò, scaraventando sul pavimento un bicchiere colmo d’acqua, che esplose in piccoli pezzi.

«Un assassino, sì, un uomo che ha combattuto per il suo paese; non potremmo forse dire lo stesso noi, dei nostri soldati?» domandai e indietreggiai bruscamente quando sedette sul mio letto; a spaventarmi fu l’improvvisa calma che emanava da lui.

«Ti ha cambiata. Un tempo condannavi i russi, li odiavi. E adesso li ospiti sotto il tuo tetto, parli in loro difesa» scosse la testa.

«In sua difesa» precisai.

«Questo è ancora peggio. Perché? Perché lo vuoi qui a tutti i costi, anche a rischio della vita?»

La domanda mi prese in contropiede; sorrisi scioccamente, affaccendandomi alla ricerca di una risposta.

«Avete una storia?» sbottò rude, stringendo i denti.

«No».

«Ti ha minacciata?»

«No di certo».

«Allora ti sei innamorata di lui?»

Esitai. Ero innamorata di lui?

«No» la marcata dolcezza era tagliente abbastanza da intimargli di tagliare corto.

«Ti fai scopare da lui?»

Un’ ondata di sangue intriso di rabbia e veleno mi esplose sulle guance, portandomi ad arrossire di indignazione.

«Vattene» sputai a denti stretti, massaggiandomi le tempie doloranti.

«Scusa»

«Vai via, per favore. Vai» insistetti piano, prendendomi la testa tra le mani.

Attesi, ad occhi chiusi, e un basso brusio cacofonico giunse all’orecchio sano, interrotto all’improvviso da un tonfo seguito da un rantolo.

Sentii la porta riaprirsi e chiudersi nuovamente.

«Jack ha accompagnato il cane rabbioso alla porta».

Approfittai dello scudo delle mie stesse braccia per sorridere piano. Alzai la testa, chinandomi in avanti e domandandogli di passare alla mia sinistra, così che potessi sentirlo senza difficoltà.

«Sam, lui è...» sorrisi e fissai il soffitto, ritrovandomi poi a scuotere la testa.

«Un figlio di cagna, già» commentò acidamente, facendosi più vicino. Notai che anche l’altro zigomo era arrossato.

«Vi siete presi ancora a pugni?»

«Ci siamo andati leggeri, lo giuro. Tuttavia, se non la pianta con le sue allusioni del cazzo, la prossima—»

«Non ci sarà una prossima volta! Basta! Dovete smetterla, tutti e due!» lo redarguii con una certa difficoltà, tenendomi il fianco pulsante di dolore, forse diretto riflesso della ferita alla gamba.

«Non adesso, ti prego. Mi diverte da morire, è così facile provocarlo!»

«Tu e le tue stronzate mi state facendo scoppiare la testa» sibilai, realizzando effettivamente quanto l’emicrania fosse cresciuta, dolente e inarrestabile.

«Allora, dormi» ordinò sbrigativo, avendo poi l’ardire di distendersi accanto a me, restando tuttavia a distanza di sicurezza.

Le parole di Sam tornarono a galla, indesiderate.

Ti fai scopare da lui?

«Che fai?»

«Rilassati, riposo solo un po’ gli occhi; tu dormi, non ti darò fastidio».

«Non riesco a dormire, con te accanto» mormorai a disagio, spingendolo per convincerlo a scendere dal letto e andare via. Mi afferrò il polso e lo posò sulla mia stessa pancia.

«Piantala. Tra dieci minuti vado via» mi assicurò, chiudendo gli occhi.

Mi addormentai, nonostante tentai di opporre più volte resistenza, e quando mi svegliai il letto era piegato solo dal mio peso, Alek andato chissà dove.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Orbene, eccoci al settimo capitolo.

Siccome sono una personcina perversa che gode a distruggere i propri personaggi - e, in generale, i propri lavori - ho deciso di inserire un po' di azione, giacché la storia iniziava a farsi un po' piatta.

E poi, perbacco, siamo in tempi di guerra, no? Insomma, è necessario farla vedere, di tanto in tanto.

Però, state tranquilli: Valerie è stata fortunata e la fine del conflitto mondiale è quasi al termine (poiché quasi al termine è anche la storia).

Un monito: se state aspettando un happy ending, bene, evitate di perdere tempo perché non ci sarà.

In un vaghissimo e lontano seguito probabilmente sì, ma in questa storia certamente no. Lettore avvisato, mezzo salvato.

Come al solito, ringrazio e Shadow per le loro recensioni, che mi fanno sempre molto piacere.

A tal proposito, rinnovo il mio invito a recensire, giacché questa storia è seguita da quasi venti persone e mi farebbe piacere sapere cosa vi ha spinto a seguirla, se c'è qualcosa che andrebbe cambiato, se qualcosa non vi ha convinto o se c'è qualcosa che vi ha colpito particolarmente.

So che recensire è un atto tremendamente noioso e che la pigrizia è la piaga delle fan-writer, ma non vi si chiede di commentare tramite un poema, bensì anche solo con poche parole, giusto per capire se questa storia è scadente come io stessa ritengo o se sono io a sottovalutarmi come al solito.

Bene, chiudo qui questa mio invito e ci si rivede mercoledì prossimo.

 

 

Passo e chiudo.

   
 
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