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Autore: Elle Sinclaire    23/12/2012    6 recensioni
Quando il silenzio fa paura, quando si tenta di riempirlo di suoni e rumori, quando persino compiere i passi verso la vita sembra difficile, l'unico conforto che sembra trovare Martina è quello di rintanarsi in un angolo di se stessa, senza parole da dire né capacità di afferrare il tempo che gli scorre veloce di fianco.
Stefano, il dj di una delle serate più famose della città, sembra avvicinarsi con la stessa lenta apatia al suo mondo fatto di rumori, tenta di penetrare quell'anfratto buio. Poi c'è Rebecca, la sorella di Stefano e amica di Martina, studentessa di filosofia che tornerà a scontrarsi con il suo primo amore, Leonardo. E Irene, una pessima amica senza alcun interesse al di fuori di se stessa, Roma vista attraverso gli occhi di chi la vive ballando, attraverso i suoi vicoli e la sua musica, il rumore del traffico e il vociare di Trastevere.
Questa è una storia fatta di suoni e realtà che collidono, dell'incapacità di affrontare la morte, ma anche la vita.
[Dal primo capitolo: "Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso."]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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8. Tatuaggi monocromi sottopelle.

sno

A chi colora le mie
cicatrici
di tramonti sul lago.

Ho sempre amato i tatuaggi, sin da quando a dieci anni non vidi una ragazza, in un negozio, con un intreccio di fiori colorati su tutto il braccio, dalla spalla al polso. Ricordo mia madre scandalizzata, che si chiedeva come si potesse fare una cosa del genere, sapendo che rimarrà per tutta la vita, anche quando avrai novant’anni e la pelle cadente; Giorgia invece la guardava affascinata anche lei, forse più per il significato di ribellione che aveva ai suoi occhi un tatuaggio, che per la valenza estetica dello stesso. Ci mise meno di due anni a farsene uno anche lei.
Non ho mai scoperto come convinse il tatuatore che fosse maggiorenne, dato che aveva solo quattordici anni e non ne dimostrava parecchi di più. E ricordo di aver ammirato quelle due lettere tatuate all’altezza dell’osso sacro, sulla schiena, per ore, costringendola a stare ferma con la maglietta alzata abbastanza perché non coprisse l’inchiostro.
C’eravamo io e lei, in quello schizzo di china preciso e senza sbavature, le nostre iniziali intrecciate, in nero, addosso a lei per sempre. Continuava a dire che era la sua cicatrice, il suo monito a non lasciarmi andare mai, così come non si dovrebbe lasciare il manubrio di una bicicletta se non si è capaci a tenerla in piedi solo pedalando. Mi portò a farne uno appena compii diciotto anni e io sapevo già da tempo quale sarebbe stato il primo disegno che avrei portato per sempre addosso: un piccolo boccino d'oro, la storia di come lei e Giorgia sognassero di afferrarlo, volando sui campi di Hogwarts, quando leggevano quei libri che le avevano fatte innamorare.
La notte in cui Giorgia morì era troppo buia perché io potessi riconoscerla, lontana com’ero dal suo corpo. Non riuscivo a distinguerne le fattezze, i capelli, niente. Non ricordo altro, però, nel silenzio che aveva seguito il rumore sordo e terrificante della sua caduta né del resto di quella nottata. Non ricordo altro, solo la M e la G, intrecciate tra loro, poco più che una macchia sulla sua schiena.
Il suo tatuaggio, la mia cicatrice.

○ ○ ○

A Trastevere il silenzio non è reale, solo la proiezione della mente di chi si chiude tra le mura colorate di una stanza non propria. Martina lo ha riempito di musica soffusa, sputata fuori dal vecchio giradischi di Rebecca, nella stanza di cui ha dormito dopo aver visto l’ennesimo film seduta su un divano, sempre troppo lontana da qualsiasi contatto fisico con Stefano.
Si è stretta tutta la notte contro il muro, in quel letto a una piazza e mezzo dalle lenzuola gialle, nella speranza di chiudere gli occhi e concentrarsi finalmente sul vociare indistinto proveniente dai vicoli ancora illuminati e abitati di ragazzi ubriachi e condomini assonnati. Ha mandato un messaggio a Rebecca due ore dopo aver visto scorrere i titoli di coda di Eastern Promises, preoccupata, ma consapevole di dove potrebbe essere a quell’ora del mattino. Vorrebbe poterla capire, saperla ascoltare, vorrebbe cancellare dai suoi occhi la stanchezza che riconosce simile a quella di Giorgia, ma rimane come paralizzata, senza parole di conforto, senza la capacità motoria di abbracciarla e sollevarle l’umore.
Stefano è rimasto sveglio tutta la notte, davanti alla televisione; lo ha sentito parlare al telefono con qualcuno, pigiare frenetico con le dita sul touch screen del suo cellulare ultima generazione, camminare avanti e indietro tra la sua porta chiusa e il salotto, come se anche lui cercasse da lei qualcosa, senza avere il coraggio di chiederla. Magari ora è tardi per andare da lui, tra poche ore dovrà essere in radio, lei a lavoro e il vociare fuori dalla finestra chiusa si è fatto più intenso e rassicurante, segno della città che si sveglia e dei negozi che aprono. 
Qualcuno urla e allora lei si sente in dovere di alzarsi, di scambiare qualche parola con Stefano, di comportarsi come un essere umano, per una volta nella vita, almeno con lui che prova ad avvicinarsi in ogni modo, ma continua a scontrarsi con il suo silenzio.
Lo trova fuori dalla porta della stanza di Rebecca, appoggiato al muro e seduto per terra, lo sguardo stanco perso nel vuoto e il cellulare ancora in mano. Si siede accanto a lui e rimane in silenzio ancora un po’, cullata dal suo respiro e dal disco che ancora gira nella stanza. 
“È da Leonardo.” 
Martina annuisce, da una parte più tranquilla, dall’altra senza sapere cosa pensare. Non risponde però con altro che non sia un sospiro di sollievo, perché forse avrà fatto qualcosa di cui si pentirà tra poche ore, ma almeno non è tornata a cercare la strana ragazza dai capelli rosa.
“Quando abbiamo deciso di rimanere qua, ci siamo promessi che non saremmo stati dei surrogati dei nostri genitori. Avremmo continuato a vivere insieme per comodità, ma avremmo avuto il massimo della libertà, come se fossimo stati da soli…” 
La voce di Stefano rimane bassa, come se nella stanza di Rebecca ci fosse lei ancora addormentata, pronta a uscire e arrabbiarsi per il sonno perduto a causa delle loro chiacchiere. Sussurra, le accarezza l’udito con semplicità, come se stesse parlando da solo e non con lei che invece lo ascolta con attenzione, dimentica del silenzio che fino a poco prima sembrava assuefarla. 
“Non voglio che ci rimanga sotto. Non sono un santo, ho fatto di peggio che scoparmi una nei bagni o fumarmi una canna fuori dal Branca, ma ho visto che fa quella roba. Fedra c’è quasi morta e probabilmente ci morirà e io me la ricordo ancora quando aveva tutti i denti e delle tette da paura.”
Martina sente una vena quasi di fastidio o dispiacere nella sua voce, qualcosa che riconosce come affetto, magari dimenticato o forse nascosto, perché pensare a un mucchietto d’ossa ormai mangiate dall’eroina non dev’essere piacevole. 
“Stavate insieme?”
Si ritrova a chiederlo senza pensare che potrebbe essere indiscreta, senza nascondere la propria curiosità, senza trattenere il fiato alla risposta. Una domanda come un’altra, come se anche lei stesse cercando quel punto di incontro che li porti finalmente a sedersi vicini sul divano quando guardano un film.
“Siamo usciti insieme un paio di mesi,” sospira e rimane zitto qualche secondo di troppo, riordinando pensieri lontani. “Era divertente, una forza della natura. Quando era lucida, non faceva altro che ridere e fare cose folli, non mi dava il tempo di pensare a niente. Era quello di cui avevo bisogno in quel periodo.”
Sorride e pensa a quella volta in cui lo ha convinto a farsi il bagno al mare a inizio dicembre o quando lo ha spinto a prendere il primo treno che partiva da Termini, senza neanche preoccuparsi di dove sarebbero finiti. 
Si erano ritrovati a Bologna senza sapere cosa fare né dove dormire, perdendosi per le vie del centro storico e rubando una bicicletta per potersi muovere in tranquillità, sotto un po’ di pioggia impertinente, con il sorriso di Fedra stampato ovunque.
Martina lo ascolta parlare come sempre senza interromperlo, con gli occhi fissi sul muro davanti a loro e le gambe raccolte al petto. La sua voce è calda, un po’ roca per l’assenza di sonno, ma è confortante come una canzone poco nota ascoltata per caso. Forse perché è abituata a sentire la sua esse vagamente sibilante ogni venticinque mattina in radio, perché anche senza volerlo, senza avere l’intenzione di associarla a qualcosa di piacevole, già da prima di quel film nel salotto di casa sua o delle lacrime in cucina era diventata una presenza sicura. Una di quelle certezze che Martina sente scivolare via dalle dita da mesi, ma che a volte sente di poter afferrare tra le chiacchiere di Stefano.
“Non so cosa le sia successo, ma Rebecca non è così. È più forte di così.”
Martina annuisce, incapace di aggiungere altre parole o confortarlo. Non è brava, lei, a riempire i silenzi come quello. C’è un’intimità che la inibisce, come un doppio filo legato stretto ai loro polsi, come se si stessero incidendo a vicenda i propri nomi addosso.
Il telefono vibra sulle gambe di Stefano, proprio mentre Martina si appresta a dire qualcosa, per fargli capire che non è in grado di confortarlo, ma vorrebbe farlo. Lui si alza per rispondere e si allontana con passi leggeri, mentre parla sottovoce e lei non capisce con chi, ma sembra quasi che stiano dicendo qualcosa di divertente, perché lui soffoca una risata in uno sbadiglio.
Si sente inadeguata, per un attimo solo, perché lei non è riuscita a farlo ridere o a dire niente. Lei è rimasta in silenzio ancora una volta, allontanandosi di qualche altro immaginario centimetro su quel divano che li separa ancora.

L’impalcatura davanti ai suoi occhi copre la facciata di un vecchio edificio fatiscente di San Lorenzo, vicino alla piazzetta del paninaro Marino, il suo rifornitore notturno di carboidrati di fiducia. Stefano non è mai stato da quelle parti la mattina così presto, se non quando ha accompagnato Rebecca due anni prima a informarsi per la scuola di fotografia, per poi arrendersi all’evidenza che non avrebbero potuto pagare la retta neanche se avesse suonato al Branca tutti i giorni per sei mesi.
Aveva dovuto sopportare il malumore di chi si vede sgretolare il futuro davanti agli occhi, senza poter consolare a dovere la sorella, non sapendo cosa si provasse esattamente: lui non è un archeologo di fama mondiale, ma ha reinventato se stesso, creando sogni nuovi e sempre diversi da raggiungere e di cui appassionarsi, fino a quando non era approdato in radio e poi dietro la consolle. 
Alla fine, Rebecca aveva deciso di tornare ai suoi studi, di dare gli ultimi esami e laurearsi in filosofia, ma di non abbandonare mai la propria passione. A testimonianza di ciò, si era tatuata una macchina fotografica sul polso, il simbolo di qualcosa che per lei era una prosecuzione di sé, oltre che una seconda vista.
In quel momento vorrebbe saper fotografare anche lui, per dipingere sul rullino i riflessi del sole da poco sorto che si scontrano sulle superfici cadenti del palazzo che ha davanti e sul metallo dell’impalcatura su cui sta cercando il coraggio di arrampicarsi.
La telefonata che ha ricevuto è stata senz’altro tra le più strane della sua vita: dall’altro capo del telefono aveva sbiascicato una voce palesemente ubriaca, un po’ acuta e familiare: Stefano l’ha riconosciuta solo perché abituato a sentirla con quel tono cantilenante e pedante, quasi come quello di una bambina capricciosa. Fedra lo chiamava sempre quando era in quelle condizioni, abbastanza lucida da ricordare a memoria il suo numero, ma non così sobria da non combinare qualche disastro.
Hanno smesso di frequentarsi da mesi, si vedono poco e parlano ancora meno, ma quando lei ha qualche problema, la prima persona che chiama è lui. Non è opportunismo, solo non ha nessun altro di cui potersi fidare. 
L’ultima volta che l’ha chiamato, Stefano è dovuto farsi un’ora di macchina per recuperarla a una festa in una villa isolata fuori Roma, fatta come una pigna. Ha avuto veramente paura che morisse, sdraiata sul sedile posteriore della sua macchina e che quello che le aveva fatto vomitare non era stato abbastanza. Aveva ancora gli occhi rigirati ed era scossa ogni tanto da convulsioni e tremori innaturali. Era la prima volta che la vedeva in overdose, non solo lei, non aveva mai visto nessuno in quelle condizione: è stato impressionante. È stato quello il momento in cui ha smesso di comprare pasticche da lei, perché a lui piace avere tutti i denti e sopravvivere alle serate senza dover finire in ospedale per una lavanda gastrica e tre giorni di osservazione. 
Non è un santo neanche lui; vorrebbe raccontarlo a Martina, una volta o l’altra, magari davanti a una birra e non sotto il frastuono della dubstep in discoteca né una di quelle notti in cui lei non parlerà neanche se costretta. Vorrebbe raccontarle che non è solo la persona che ama il cinema coreano e parla alla radio, ma è anche un archeologo che ha rinunciato a scavare, ma ha cominciato a ballare e lavorare in discoteca, dove ha conosciuto altri piacere, lontani da quelli dei libri di Zanker. Forse un giorno lei sarà pronta ad ascoltare e a parlare davvero.
Avrebbe voluto rimanere con lei, magari sedersi al tavolo della cucina e fare colazione, senza preoccuparsi di rimanere in silenzio, di lasciarsi inghiottire dal rumore persistente del suo tamburellare sul legno o del suo ritmico battere del piede sul pavimento. Forse è per questo che le ha chiesto di accompagnarlo, perché c’è una strana pace che avvolge qualsiasi cosa, quando la osserva, lei che di pace sembra non conoscerne neanche la pallida imitazione. 
“Stez, se la tizia dai capelli rosa sta lassù, forse devi salire. Non penso che aspettare che si butti sia una buona idea.”
Alla fine lei ha accettato, senza neanche chiedergli cosa dovesse fare a San Lorenzo alle cinque e mezzo del mattino; forse non le interessava, forse non aveva voglia di tornare a chiudersi nel suo mondo fatto di note stonate e ticchettii di lancette lente; forse, in fondo, anche lei ha ancora voglia di passare del tempo con lui, solo a sentirlo parlare o a guardarlo salvare altre donzelle in difficoltà, come se quello per lui ormai fosse un lavoro.
“Non mettermi fretta, Lisboni, non sei tu che devi arrampicarti fino al quarto piano.” 
Non sa perché la chiama per cognome né perché gli esca così naturale farlo. È un modo scherzoso di fare, qualcosa che denota una certa intimità, una presa in giro sottile e amichevole; forse ha esagerato, ma Martina fa una smorfia e si stringe nel giubbotto di pelle, sorridendo appena.
“Io non soffro di vertigini, Mengacci. Salirei io, ma non credo sarei in grado di farla scendere con me.”
Anche Martina ha riso, quando in macchina Stefano le ha spiegato quello che era successo a Fedra: si era arrampicata su quell’impalcatura e poi aveva continuato a bere; ora non riesce più a scendere, perché impedita nei movimenti dal torpore alcolico e perché lei di vertigini ne ha sempre un po’ sofferto. Gli è piaciuto, far ridere Martina. È stato inaspettato e spontaneo, una reazione troppo umana, una di quelle che non si sarebbe aspettato da lei che dosa con ferreo autocontrollo ogni reazione. Comincia a pensare che in realtà non dosa niente, che magari le è difficile provare qualcosa, una cosa qualsiasi; vorrebbe sapere perché, una volta o l’altra, ma non lo ha chiesto, neanche in quel momento in cui lei sembrava una ragazza come un’altra, senza fantasmi nelle iridi. Dovesse aspettare tutta la vita, prima o poi sarà lei a parlare, senza sforzi o costrizioni, solo perché vorrà.
“Va bene, allora. Prima le signore!”
Martina sbuffa, ma si fa avanti e mette i piedi sulla prima asta di ferro orizzontale, stupendosi di come nell’aria ovattata del mattino gli sembri naturale questa complicità scherzosa e questi sorrisi a mezza bocca. C’è stata solo un’altra volta, quando lei era ubriaca e aveva voglia di parlare e ridere con lui; ma stavolta, seppur simile, la sensazione è diversa, più reale e sincera. Non è falsata dalla vodka né da brutti ricordi. Vuole solo stare lì, con un piede a mezz’aria e l’altro che fa perno sul primo piano dell’impalcatura, a ridacchiare della difficoltà di Stefano nell’arrampicarsi.
“Ma non sei mai salito su un albero da ragazzino?” Si gira appena a guardarlo e lo prende in giro, mentre lui arranca e la raggiunge. “Ho capito che sei vecchio e magari non te lo ricordi, ma dovrebbe essere come andare in bicicletta.” 
È strano sentirla scherzare così, ma gli piace. Ha un tono di voce leggero che non le ha mai sentito addosso e una luce particolare che la illumina, diversa anche da quella dell’alba che va spegnendosi. Sembra anche più bella della ragazzina semplice e un po’ trasandata che lega sempre i capelli in qualche strana treccia e Stefano rimane a guardarla qualche istante di troppo, prima di continuare a salire.
Quando arrivano al quarto piano, Fedra la vedono subito. È accucciata in un angolo e dorme, coperta malamente dal suo chiodo di pelle pieno di borchie metalliche e spille colorate. La nuvola di capelli rosa le circonda il volto e copre un occhio chiuso, le lunghe gambe ossute sono piegate davanti a lei e le improponibili zeppe sono puntate sul pavimento. A Martina fa tenerezza, a vederla così. Sembra una bambina denutrita che si è impiastricciata la faccia con i trucchi troppo forti della mamma, ma che li ha lasciati colare fino alle guance incavate.
Vorrebbe quasi scuoterla e dirle di combattere, di trovare qualcosa per cui farlo, qualsiasi cosa. Di non lasciarsi andare come ha fatto sua sorella, di chiudere quella guerra senza caderne vittima, di tornare a casa e lasciarsi salvare da qualcuno. Perché anche se non se ne accorge, qualcuno che vorrebbe salvarla sicuramente c’è, magari anche il ragazzo con cui litigava in discoteca la notte prima, magari Rebecca o forse Stefano, che nonostante tutto accorre ogni volta a tirarla fuori dalla merda in cui si lascia affogare.
Non le dirà niente, quando aprirà gli occhi, già lo sa. Lascerà che le cose facciano il loro corso. Non è come Stefano, non si interesserà a quel manichino senza carne né lucidità, non diventerà sua amica, perché probabilmente Fedra non supererà l’estate. Con o senza il suo aiuto, non si salverà.
“Dorme,” dice con voce piatta. Stefano accanto a lei annuisce e rimane a guardarla per qualche attimo, con un sorriso tra le guance. È la stessa tenerezza che ha provato anche lei, dipinta sul suo volto. Le piace come ammorbidisca i suoi lineamenti marcati di una dolcezza quasi paterna, è un’espressione che lo fa sembrare più giovane dei suoi trent’anni, ma allo stesso tempo qualcuno su cui poter sempre fare affidamento, quello che potrebbe chiamare a notte fonda e si lancerebbe a centoventi sulla sua Polo solo per condividere un po’ di silenzio insieme.
Martina si siede sul bordo del piano che scricchiola sotto il peso di tutti e tre e sotto i loro movimenti un po’ impacciati. Le gambe penzolano nel vuoto e lei guarda davanti a sé i palazzi che coprono la vista del sole che sorge al di là della giungla urbana che li circonda. Intorno non c’è altro che città e cemento, murales offensivi o decorazioni colorate: i tatuaggi di un quartiere popolare, le incisioni sulla pelle di chi vive nelle case per studenti e si arrangia come può fino alla fine del mese, solo per campare ancora un altro po’ nell’appartamento con vista sul cimitero.
Si massaggia le ossa del bacino, lì dove nasconde il tatuaggio che nessuno ha mai visto, neanche Giorgia perché l’ha fatto dopo la sua morte. Il giorno del suo funerale, dopo essere uscita da quello stesso Verano che ora si staglia a pochi metri da lei, aveva chiamato un suo amico tatuatore ed aveva corso come una pazza, in motorino, con gli occhi appannati dalle lacrime fino a Spinaceto. Un’ora dopo quell’osso bruciava ancora ed era ricoperto da uno strato di pellicola trasparente imbevuta di vaselina: sotto, il disegno senza colori di un fiocco di neve arrossava la pelle tra i suoi contorni precisi.
Una cicatrice, un ricordo, un simbolo.
“Hai tatuaggi?” Glielo chiede a bassa voce, a Stefano, dopo qualche istante che si è seduto accanto a lei, ancora guardingo per l’altezza che non lo lascia tranquillo.
Non è come quei finti alternativi tutti uguali che alle serate il lunedì sera sfoggiano tatuaggi colorati e senza senso in ogni dove. Lui non mostra niente, ma a lei sembra il tipo che possa tenerli nascosti solo per lui e chi avrà la fortuna di scoprirli.
“Sì,” risponde dopo la sorpresa iniziale. “Ne ho uno sul fianco.”
Martina annuisce e non parla più per un po’, assorta in pensieri da cui Stefano si sente escluso e di cui non si sente ancora in grado di chiedere. 
“Io ne ho due,” sussurra dopo un po’. “Uno lo avrai visto, è il boccino. L’altro è un fiocco di neve.”
Vorrebbe spiegarglielo, quel fiocco di neve, come quelli che amava guardare con Giorgia scendere dalla finestra quando andavano a trovare i nonni in montagna, quelli che scorgeva sempre negli occhi della sorella, azzurro ghiaccio, spaventosi e freddi; quelli a cui Giorgia assomigliava, quando restava in silenzio per ore, senza lasciar avvicinare nessuno che potesse riscaldare abbastanza il suo dolore da scioglierlo un po’. Vorrebbe raccontargli di come sia il segno tangibile di un corpo che non c’è più, ma che le era sempre stato accanto. Quello con cui aveva vissuto quasi in simbiosi per ventitré anni, come se fosse il suo gemello siamese che alla fine è stato strappato via: quel tatuaggio è la cicatrice, la striscia di pelle più chiara e opaca dell’assenza di Giorgia, di quel fiocco di neve silenzioso e apparentemente gelido che prima dell’arrivo del nuovo inverno si era sciolto. Vorrebbe davvero raccontargli di lei.
“Non è colorato,” aggiunge e basta, come se questo spiegasse quanto possa essere triste, un banale segno monocromo sulla pelle, una primavera che non torna. “A volte vorrei che lo fosse.”
Stefano la guarda negli occhi e a lei sembra che abbia capito quello che vorrebbe dire, ma non riesce. Rimane così qualche istante, poi si alza un lembo della maglietta e gli mostra il fianco e quella rosa nera che non ha visto nessuno al di fuori di Raffaele e Rebecca. Un piccolo fiore, scuro e minaccioso, bellissimo.
“Anche io vorrei fosse colorato, magari di rosso. Ma sarebbe una bugia.”
E Martina, mentre Stefano si aggiusta la maglietta e guarda il sole che finalmente si intravede tra i palazzoni diroccati, capisce che lui, nonostante tutto, potrebbe essere l’unica persona a capire davvero.

Il sospiro che accompagna il risveglio di Leonardo è tremante e di sollievo. Ancora nel dormiveglia ha sentito il peso piacevole che gli smorzava il respiro sul petto e aveva avvertito i capelli di Rebecca solleticargli il collo.
La paura che lei potesse essere fuggita o già sveglia e pronta ad andare via lo ha tenuto all’erta tutta la notte, in uno stato di sonno così leggero da non essere neanche sicuro di essersi addormentato davvero. Rebecca però è ancora lì, appoggiata a lui, e gli viene da ridere perché qualcosa di caldo sembra sciogliersi al centro della gola, come miele fuso quando si ha la tosse.
Sorride piano e la guarda tra gli spiragli lasciati dai suoi capelli disordinati che sembrano proteggerla dal mondo esterno. Le lascia un bacio leggero, attento a non svegliarla, per custodirla ancora accanto a sé, senza vederla fuggire.
Sente la tenerezza colpirlo al petto, aprire una ferita che sentirà pulsare ancora a lungo, fino a quando una cicatrice non lo coprirà, come un tatuaggio rosso sulla pelle chiara.
Vorrebbe rimanere così tutto il giorno, chiudere di nuovo gli occhi e lasciarsi cullare dalla sensazione calda di una paura che è quasi più grande di quella di restare solo, ma è anche più intensa, qualcosa che profuma di certezza e casa.
Rebecca si muove piano, in un passo senza fretta verso di lui, come se nel sonno lo avesse sentito allontanarsi e volesse raggiungerlo di nuovo. Leonardo sorride e con una mano intrappolata tra i suoi capelli vorrebbe spingerla verso le proprie labbra e baciarla ancora, piano, per tenerla tra le braccia, senza problemi o discorsi da affrontare senza sapere in che modo.
“Leo?”
Rebecca ha ancora la vista annebbiata, quando incrocia il suo sguardo: è bello anche così, di prima mattina, con gli occhi assonnati e la barba incolta sulle guance e vorrebbe dirglielo e baciarlo di nuovo, prima di mettere fine a quel sogno.
Lui la guarda e come un fulmine a ciel sereno, le passa per la testa il pensiero che quello stesso sguardo lo riserva ogni mattina a qualcun’altra, che su quel letto è lei l’intrusa e non Federica che probabilmente ha scelto le lenzuola e ha uno spazzolino in bagno e un cambio di biancheria nell’armadio, quello di fronte a lei, che ricordava in legno scuro e ora è stato pitturato di rosso.
“Buongiorno.”
La voce di Leonardo e la sua mano la raggiungono nello stesso momento, come se avessero intuito i suoi pensieri e la sua prossima mossa. Le sue dita si aggrappano al polso sottile di Rebecca, senza troppa forza né voglia di costrizione: la toccano con rispetto e le lasciano la possibilità di scegliere dove stare, se in quel letto ancora con lui, almeno un altro po’, oppure in casa a piangere e litigare con Stefano, per un motivo che neanche ricorda e che ora le sembra terribilmente stupido.
Si lascia avvolgere dalle sue braccia, Rebecca, e per un attimo solo si convince che non ci siano mondi estranei a loro al di fuori di quella stanza, lasciandosi andare contro il suo petto, senza pentirsi di un attimo di follia che gli porterà solo altri rimorsi.
“Devo andare…”
Lo dice piano, sfiorando appena la mano di lui stretta sul suo stomaco, con gli occhi chiusi, nella speranza che vivere possa sembrare più facile. Leonardo annuisce, sospira contro il suo orecchio, la sfiora ancora sulla pelle nuda, le bacia una spalla.
“Resta ancora.”
Scuote la testa, Rebecca, perché sa che più tempo si fermerà in quel sogno finalmente reale, più doloroso sarà tornare a casa, affrontare Stefano, dimenticare tutto. È quello che deve fare, dimenticare. Convincersi che sia stato tutto frutto della propria fantasia, smettere di credere alla fiaba del loro lieto fine, smettere di guardarlo con gli occhi innamorati di chi sa che il proprio amore non è richiesto.
“Non posso, lo sai.”
E il grumo di lacrime trattenute dalla notte prima sembra quasi soffocarla, in un’assenza di respiro che la uccide con lentezza esasperante, tra quelle lenzuola che l’hanno vista principessa, per una volta, e non l’amante rifiutata né la migliore amica senza parti da protagonista nella storia.
“C’è Federica e io…”
Leonardo posa le labbra sul suo collo, in silenzio, perché sa che ha ragione e di non poter pretendere niente, neanche un altro bacio, che tornerà dalla sua fidanzata e farà finta di dimenticare l’odore della sua pelle e il rosso in contrasto con le lenzuola bianche. La lascia andare piano, tenendole ancora le mani  tra le sue, mentre lei si allontana da lui, con gli occhi lucidi già di nostalgia e la pelle tatuata dalle sue labbra sul collo e sulle clavicole.
Si riveste in silenzio, macchiata di essere quella che fugge da un letto non suo la mattina dopo, in una passeggiata della vergogna che la porterà in luogo che non sarà mai bello come il rifugio contro il corpo di Leonardo, lontana da lui e da loro e dalla speranza remota che lui possa amarla anche solo la metà.
“Ci vediamo in giro…”
Lui annuisce e Rebecca sa che la sua stessa angoscia di perdersi tra altra gente e non sapersi ritrovare neanche amici è disegnata nei suoi occhi scuri, dove per una volta anche lei si è sentita grande e bella e giusta.
“Reb…”
Si gira sulla porta, nei suoi vestiti della sera prima e nel trucco colato, con la borsa tra le mani e i capelli che hanno perso il senso che lui è l’unico a trovare e gli mostra i solchi sulle guance di un addio che brucia forte.
“Ti voglio bene.”

Il ritorno a casa era stato elettrico e rumoroso, soffocato di chiacchiere e parole pronunciate veloci che lei faceva fatica a cogliere davvero, dai sedili posteriori dell'auto di Stefano, in cui si era relegata da sola. Fedra, davanti a lei, non aveva smesso di parlare un istante, di com'era salita su quel palazzo, di quanti soldi aveva alzato la sera prima, della nuova borsa che avrebbe potuto comprare. 
Ha una voce squillante, Fedra, intrisa di una spontaneità che Martina le invidia. Le sembra più viva di quanto non sia lei, nei suoi abiti troppo grandi e le ossa cadenti: il sorriso, per quanto giallo e rovinato dalla droga, è aperto e solare come ne ha visti pochi nella sua vita. Assomiglia a quello di Rebecca, a quello di ogni altra ragazza che ha ancora il coraggio di sorridere alla vita, nonostante tutto.
Martina aveva sentito una strana tenerezza scuoterla, all'idea di come potesse essere piacevole una ragazza come lei, quando ancora quel sorriso era sano. Le sarebbe piaciuto conoscerla prima, quando anche lei sarebbe stata in grado di tenere le redini di una conversazione come quella, di parlare di tutto e di niente, di ridere a un ricordo particolare o cantare a voce alta una canzone dei Mumford & Sons che passa alla radio. 
Stefano aveva cantato con Fedra, mentre guidava e si riparava dalla luce pigra del primo mattino; l'aria era fresca anche all'interno dell'abitacolo e Martina se ne era resa conto quando era rabbrividita al suono di quel sorriso che non era per lei. Era stato strano vederlo nelle vesti di un ragazzo normale, di qualcuno che aveva una storia da raccontare anche quando lei era girata dall'altra parte a far finta di non ascoltarlo. Le era improvvisamente sembrato di aver conosciuto solo la parte di Stefano che lui voleva che conoscesse, quella su cui lei avrebbe potuto contare quando sarebbe stata pronta. È un pensiero rassicurante, in qualche modo, un piccolo tarlo che le si insinua addosso per farle credere di poter parlare davvero con lui, anche solo per meritare di vederlo sorridere a lei come fa quando tutto il resto sembra dissolversi, senza lasciare cicatrici colorate sulla pelle.
Ma vorrebbe scoprire anche quelle di Stefano, Martina, riconoscerne le linee, le spirali e le sbavature di china, e raccontargli le sue, magari sdraiati sul lago fuori Roma, davanti a un arcobaleno e immaginare che il silenzio possa smettere di far paura, imparando a cercarsi nei propri.
Quando poche ore dopo, Rebecca ha suonato alla porta di casa sua, ha avuto modo di smettere di pensare al rosa che vedeva ovunque, riflesso nelle iridi all’infinito, come uno specchio magico. La ascolta parlare, riempire di parole tutto quel dolore che ha ingollato negli anni e rimane in silenzio, ancora una volta senza essere in grado di fare da supporto. Ma Rebecca non sembra preoccuparsi di nient’altro, sorseggia tè per ore, anche quello ormai freddo nella teiera bianca che le ha regalato proprio lei mesi prima, e parla, di Leonardo, di se stessa, e ancora di Leonardo e a volte piange, lasciando che il silenzio si riempia dei suoi piccoli tremiti.
Martina le rimane seduta vicino, prova anche ad abbracciarla, e pensa che in fondo non è così difficile farlo, che non si è scordata come si fa. La stringe un po’, proprio sulle spalle ancora scoperte dalla maglietta della sera prima, come se volesse imprimersi addosso la sensazione delle sue ossa, di avere finalmente qualcuno, dopo mesi, da poter tenere stretto, solo per pochi minuti, per fermare il tempo e non rimanere intrappolata in quell’istante da sola. È in quel momento che sente il bisogno di parlarle, di dirle qualcosa, di regalare anche a lei quella sensazione calda di conforto che sente in quel momento, con la sua testa sulla spalla.
“Andrà tutto bene, Bec…”
Non potrebbe dire niente di più banale, ma la sente trattenere il respiro, per qualche secondo, forse sorpresa anche lei di sentire la sua voce.
“Resta qua stanotte, chiamo io Stez. Ci vediamo un film, te lo lascio scegliere.”
Le sorride e aspetta che annuisca, prima di alzarsi e comporre il numero di Stefano, che a breve parlerà in radio, ma sa che a lei risponderà, anche solo perché troppo curioso di sapere cosa vuole dirgli.
“Ma allora hai un telefono!”
“Ciao anche a te…”
È ancora strano scherzare, per lei che trova difficile anche solo ridere; però non può farne a meno, alcune volte, perché le sembra il modo più naturale per avvicinarsi a lui e scoprirlo piano, senza drammi da sviscerare.
“Volevo dirti che Reby è da me… Dorme qui, le faccio addirittura scegliere il film da vedere.”
“Questo è masochismo, Mars!”
Sorride con le labbra appoggiate alla cornetta, per non farsi sentire, ma è sicura che lo sappia e che ne stia sorridendo anche lui.
“Sta bene?”
Il tono è preoccupato, all’improvviso, senza ilarità tra le sillabe né vene di sarcasmo.
“No,” dice piano, attenta a non spaventarlo troppo, “ma passerà.”
Lo immagina annuire, con quelle rughe di espressione intorno agli occhi chiari e l’ansia dipinta tra i lineamenti spigolosi.
“Mi ascolterai in radio?”
“Lo faccio sempre.”
Ed è vero, perché un’ora dopo Rebecca dorme davanti alla televisione muta che ancora manda le immagini di L’amore non va in vacanza e lei accende la radio; con aria pigra, quasi colpevole. Quando ascolta Stefano parlare, le sembra di spiare un mondo che non le appartiene, conoscerne gli angoli bui che lui le nasconde ancora. Si sente una ladra dell'intimità tangibile che esiste tra lui e quella cabina, quel microfono, quelle canzoni che sceglie sempre alla perfezione, quasi fossero messaggi per lei, per spingerla a mostrargli le sue cicatrici, perché tra tutti sarà lui l'unico a poterle trasformare in disegni colorati.
E nei momenti in cui la sua voce filtra attraverso le casse della sua vecchia radio, le piace pensare che sia così, che anche il fiocco di neve che nasconde agli occhi di tutti, ma che lui ha visto, possa cambiare colore e trasformarsi in un bocciolo sopravvissuto all’inverno.
Le arriva un messaggio, poco prima che la trasmissione inizi, mentre una vecchia canzone di Nick Cave abbatte il silenzio.

"Aspetterò la primavera.”

○ ○ ○

Buonasera, radioascoltatori! Come al solito la vita notturna mi prosciuga e io non dormo da più di ventiquattr’ore. Non so quanto ciò che dirò avrà un senso per voi, per me, per il mio vicino di casa che mi ha visto tornare a casa stamattina alle dieci dopo aver recuperato una vecchia amica dall’impalcatura di un palazzo a San Lorenzo. Cristo, se è alto il quarto piano!
Mentre ero lassù ho pensato che mi piacerebbe fare un altro tatuaggio, magari colorato e, non so, allegro. Qualcosa che rappresenti anche la parte di me che preferisco, quella che ama cazzeggiare, ballare e la musica elettronica sparata a palla in qualsiasi discoteca del mondo. A volte vorrei non essere anche lo Stez serio e silenzioso, ma solo quello a cui piace la gente, che si droga di gente e in mezzo al casino si esprime al massimo. Un’intricata rete di disegni e simboli che raccontino la mia storia, come quelli di Viggo Mortensen in quel film sulla mafia russa: qualcosa che racconti chi io sia.
In realtà mi piace essere anche l’altro Stefano. So che ci sono persone che possono contare su di me, in questo modo, persone come mia sorella, i miei amici, chi ha disegni senza colori tatuati addosso a ricordare un inverno troppo lungo.
Arriverà il giorno in cui anche loro avranno bisogno dell’altro Stefano e di quei colori che non a tutti riesco a mostrare. Per adesso posso aspettare.

#I Will Wait.


OPS SCUSATEMI.

Chiedo venia, venia-venissima, per il ritardo enorme e orrido con cui ho postato questo capitolo. Dire che mi sento una persona di cacca è riduttivo, perché avevo promesso che le attese non sarebbero mai state così lunghe. Purtroppo vari impegni personali, tra cui il temporaneo trasferimento in terra ispanica, e l'assoluta mancanza non tanto di ispirazione quanto proprio di capacità di mettere per iscritto più di due righe hanno fatto sì che scrivessi poco e a intervalli decisamente troppo lunghi.
Mi dispiace tantissimo e mi dispiace ancora di più non poter promettere più velocità nell'aggiornamento perché appunto con la testa sono abbastanza da un'altra parte e ora dovrò anche cominciare la tesi. Prometto senza dubbio che tenterò di scrivere e che aggiornerò ogni volta che ne avrò la possibilità e soprattutto vi giuro su qualsiasi cosa che questa storia avrà una sua conclusione dovessi metterci anni.
Comunque, parliamo del fatto che io amo follemente Stefano, ma proprio nel senso che ho creato il mio uomo ideale e questa cosa mi fa rosicare perché mi rendo conto che in realtà non esiste e io lo voglio XD Una ragazza su facebook mi ha postato questo video di cui ora cercherò assolutamente il film di provenienza perché LO VOGLIO, che niente, sono io lol QUI.
Rebecca e Leonardo, nate come comparse invece, hanno preso il sopravvento e anche parecchia parte della mia già scarsa sanità mentale, li ho odiati in modo estremo, ma alla fine la scena non mi è dispiaciuta. Voglio dire in generale solo due cose sul capitolo e cioè che Leonardo è un bel po' stronzo e lo rimarrà a lungo, che Stefano è mio e io lo amo, che Martina e Rebecca sono due cucciole <3 Non parliamo poi di Fedra - donna nella seconda foto nascosta, anche detta Amiamola Forever - che ormai è l'unica mia gioia. Ah, la scena di lei sull'impalcatura è ripresa da una storia vera capitata a una ragazza che usciva con un mio amico. COSE GENIALI.
Ringrazio QUESTA compilation, Paolo Nutini e i Mumford & Sons per essermi stati vicini nella stesura del capitolo :D grazie ad Aletta che si sorbisce le mie crisi di identità a riguardo e a tutte le splendide donne Fenicottero che aspettano con amore e allietano le mie giornate, Sist tra tutte <3
E niente, spero di tornare presto. Nel frattempo vi auguro un buon Natale, un buon Natale, un buon tutto.

Varie Citazioni random e senza senso.

- Eastern Promises, un film sulla mafia russa, citato anche alla fine da Stez, con Viggo Mortensen e Vincent Cassel. Molto bello, lo consiglio in lingua originale. E slashate quei due, ve prego!
- Non credo di aver mai detto il cognome di Martina finora, ma qui Stefano lo usa: è Lisboni. Riferimento alle sorelle Lisbon del film della Coppola, Il Giardino delle Vergini Suicide. 
- Fedra, come ho già detto, è un personaggio di una mia OS - forse in un futuro molto lontano long - che in realtà fa una piccola apparizione, ma che in realtà è il centro nevralgico della mia vita. AMATELA.
-  I tatuaggi di Stefano e Martina sono un richiamo a un'altra mia OS che come tutti penso abbiano capito io amo in modo totale, SNOW. Il fiocco di neve, oltre a essere riferito chiaramente a Giorgia, è anche l'essenza di Snow, mentre il fiore nero di Stez è la rappresentazione dello Spleen, quindi non solo di Martina, ma anche di Spleen, appunto, della OS. Come ho detto nel gruppo, Giorgia sarebbe stata l'unica in grado di far parlare Snow.
- Il Verano è il cimitero monumentale di Roma e a Spinaceto c'è la mia tatuatrice di fiducia :D
- Cito senza strani riferimenti, quindi penso sia comprensibile anche senza dirli, ma li dico comunque, nel pezzo tra Leonardo e Rebecca, una frase dei Beatles (Living is easy with eyes closed, Strawberry Fields Forever) e una frase del film L'amore non va in vacanza (Nei film c'è la protagonista e c'è la migliore amica. Tu, te lo dico io, sei la protagonista, ma per qualche ragione ti comporti da migliore amica), film che poi Rebecca farà vedere a Martina.
- La canzone di Nick Cave che passa prima dell'inizio della trasmissione di Stez è QUESTA. Amate quest'uomo con me!

   
 
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