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Autore: Duffone    26/12/2012    2 recensioni
E' la prima volta che mi cimento in una storia drammatica originale, sinceramente non sapevo neanche se metterla qui.
Vanessa, una ragazza come tante, racconta come ha affrontato dei compagni di classe che, pur di divertirsi durante le lezioni, l'avevano presa di mira senza preoccuparsi delle possibili conseguenze.
"La forza mi aveva abbandonato di nuovo, avrei voluto fargli del male quanto lui ne stava facendo a me. Non avevo più voglia di essere presa in giro da tutti. Dovevo fare qualcosa, lo sapevo, ma in quei giorni era difficile riuscire a pensare a qualcosa di diverso rispetto alla merda che mi circondava."
La storia non è autobiografica!
Genere: Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Ero lì, seduta vicino al mio amico d'infanzia, colui che iniziò tutto. “Dai, non te la prendere” mi disse “sai che scherzano...”. Ma sei hai iniziato te tutta 'sta sceneggiata avrei voluto urlargli, eppure, come al solito, rimasi in silenzio. La lezione continuò normalmente, fin quando all'intervallo il mio ragazzo ha baciato una studentessa. In quel momento crollò tutto. Avrei voluto correre via, non aver visto niente, però non potevo far finta che non fosse successo niente: ero stata tradita dal ragazzo che ogni giorno mi prometteva di non lasciarmi mai e mi diceva di amarmi e per di più a scuola, davanti a tutti.

Arrivai a casa e mi misi subito a piangere. Non mangiai. La forza mi aveva abbandonato di nuovo, avrei voluto fargli del male quanto lui ne stava facendo a me. Non avevo più voglia di essere presa in giro da tutti. Dovevo fare qualcosa, lo sapevo, ma in quei giorni era difficile riuscire a pensare a qualcosa di diverso rispetto alla merda che mi circondava. Fu in quel momento che pensai che farmi del male era l'unica scelta che mi rimaneva. Asciugai le lacrime e cercai un temperino, ma, fortunatamente, non lo trovai e cancellai dalla memoria il pensiero di farmi del male: non avrebbe mai portato a nulla di buono. O almeno così la pensavo in quel periodo.
Bip bip. Mi era arrivato un messaggio. Di Davide. “Amore, ma che hai?” Ma è scemo? Pensai. Veramente pensava che non mi fossi accorta di nulla? “Nulla, stai tranquillo. Ora non posso rispondere, ciao!” fu la mia risposta. Stupida e codarda che ero.

Tutti giorni si ripeteva la stessa identica routine: i miei compagni mi prendevano in giro, gli insegnanti dicevano che non avrei mai combinato nulla di soddisfacente nella mia vita. E come dare loro torto? Che talento avevo io? Io che ero una ragazza normale tanto da risultare banale.
Era l'intervallo quando, ad un certo punto, qualcuno che neanche conoscevo mi disse“Piantala di mangiare! Non vedi che non passi più dalle porte?!”. Abbassai lo sguardo: avevo troppa vergogna per guardarlo in faccia e rispondergli a tono. Corsi in bagno e mi chiusi dentro. Sapete come fanno quelle escluse nei film americani, no? Ecco, io ero proprio una di loro; infatti nell'intervallo o nella pausa pranzo andavo a rifugiarmi nei servizi senza che nessuno se ne accorgesse. Ma che dico? Anche se l'avessi urlato nessuno mi avrebbe fermato, anzi, magari mi dicevano pure che facevo solo bene a nascondere quella brutta faccia che mi ritrovavo.

Mentre finivo di mangiare mi assalì l'immagine del mio ragazzo che mi tradiva: come ho fatto a dimenticarmene? Dovevo andarlo a cercare. Buttai tutto nel cestino e andai a cercarlo.
Era nella sua classe, seduto al suo posto mentre studiava, di sicuro qualcosa che non faceva parte del programma scolastico. I capelli biondi, tirati su con la cera, risplendevano sotto i raggi di sole che passavano attraverso la finestra; aveva la testa appoggiata sulla mano chiusa a pugno, segno del fatto che era annoiato mentre gli occhi grigi vagavano sulle pagine. Quei maledetti occhi mi fottevano sempre. Ci facevo l’amore solo a guardarli. Sì, era il ragazzo perfetto che tutte amavano e lambivano e che fino al giorno prima era mio. Forse era per colpa sua se tutti mi odiavano, forse perché non me lo meritavo. Tossii. Alzò la testa di scatto e appena mi vide la sua faccia fu illuminata da un sorriso che mi sciolse. Come potevo dirgli che lo odiavo se in realtà lo amavo? Non avrei mai pensato che potesse farmi così tanto male.
Sapevo che avrei dovuto dirglielo prima o poi ma non riuscivo ad immaginare una vita senza di lui; e invece ora eccomi qui, felice che lui non ci sia più.
“Ciao amore!” e si avvicinò a me strappandomi un bacio. “Ciao... Come mai sei solo?” sussurrai quasi senza voce.
“Ti aspettavo. Ieri mi hai fatto preoccupare: non ti sei degnata di chiamarmi!” mi redarguì.
“Scusa ma avevo da fare, sai, siamo pieni di verifiche in questo periodo...” mentii.
Mi fece segno di sedersi vicino a lui, sul banco, ma non mi mossi. Dovevo dirglielo, non potevo più far finta di niente.
“Ieri ti ho visto mentre baciavi quella ragazza!” dissi tutto a d'un fiato con gli occhi chiusi. L'unica risposta che ricevetti fu uno sbuffo. Seguitò un interminabile attimo di silenzio. “Ti prego, dì qualcosa... qualsiasi cosa...” lo pregai.
“Non ho nulla da dire. Dovresti sapere benissimo che non ti tradirei mai e poi mai.” Il suo sguardo si volse verso la finestra, scrutando un merlo che volava nel cortile della scuola. Era quasi inverno ma molti volatili ci facevano ancora compagnia.
“Ma io ti ho visto!” gli urlai contro. Ero ancora in piedi, davanti a lui, con le braccia lungo il corpo come se fossero inermi, e lui era ancora seduto come se fosse tediato.
“Hai visto male. Non ho nient'altro da dirti”. Scese dal banco e se ne andò dall'aula.
Rimasi lì, in piedi, disarmata, sperando che tornasse anche solo per dirmi vaffanculo. Non successe. Avevo voglia di piangere, di scappare via, lontano da tutti; ma non potevo saltare le lezioni dato che la mia media dei voti era minore del cinque. Presi tutto il coraggio che potessi avere in corpo e mi diressi verso la mia classe.

La giornata procedette normale, sempre se di normale si trattava. Tuttavia non sapevo ciò che sarebbe successo una volta tornata a casa. Il primo indizio fu un biglietto di mia madre: “tuo padre se ne andrà a vivere in un albergo per un po' di tempo, quindi non aspettarlo per cena. Io torno verso le dieci, perché mi hanno assunta come infermiera a tempo pieno. Baci, Mamma”.
Cosa?! Mio padre in albergo? E per quale motivo? Perché? Perché doveva succedere tutto ciò in quel periodo, mentre la mia vita andava già a rotoli?
Fu quella la goccia che fece traboccare il vaso.
Mi chiusi a chiave in bagno. Il sangue macchiava il mio braccio e i miei vestiti. La lametta buttata per terra, sporca anch'essa. Il dolore era destinato a crescere, ma non quello fisico -che, sinceramente, non mi faceva sentire più viva di adesso- bensì quello psicologico e mentale, che mi facevano sentire una nullità. Sapevo che una volta entrata in quella spirale non si usciva più. E lo so tuttora.  

   
 
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