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Autore: cerconicknamesugoogle    10/01/2013    2 recensioni
Se Katniss fosse stata una ragazza come tutte le altre? Un semplice tributo sopravvissuto alla furia di Capitol City? Se non ci fosse stata nessuna rivolta? Se i Distretti avesser continuato ad abbassare la testa davanti al potere costituito?
Siamo alla Centesima edizione degli Hunger Games, la quarta edizione della Memoria. I giochi saranno diversi.
Due Tributi. Distretti diversi, famiglie diverse, ferite e cicatrici diverse. Due destini separati, se credete nel destino. Due destini che sono destinati ad intrecciarsi, per la gioia degli spettatori.
Questa volta ci sarà un solo vincitore per gli Hunger Games.
Che i Giochi abbiano inizio? Tenete gli occhi incolati sullo schermo, ci sarà da divertirsi.
*Fanfiction scritta a quattro mani da Wania97 e Clalla97, per la gioia di chi ama i loro scleri, cioè nessuno ù-ù Un personaggio a testa, uno per uno non fa male a nessuno.*
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il mondo è ghiaccio.


<< Mancano cinque minuti e trenta secondi Darren >>
La voce di Stephan suonò incolore nella stanza.
Il ronzio degli apparecchi metallici riempì il silenzio altrimenti creatosi nell’ambiente ristretto.
Il corpo del tributo si mosse automaticamente verso il divanetto di pelle nera. Lui si sedette in silenzio, senza produrre il minimo rumore.
Come se quella stanza fosse sottile, come se vibrazioni nell’aria potessero disintegrarla e portarlo immediatamente all’arena.
Cazzo, l’arena.
Darren non era tipo da pregare. Accidenti, lui era ateo. Ora, non sembra, ma essere ateo convinto è una bella sfortuna.
Perché lui non credeva nell’aldilà. Non credeva in un posto in cui sarebbe stato meglio. Non credeva nell’eternità.
Lui non credeva.
Non credeva in nulla.
Come si fa ad affrontare la morte senza fede? Come si fa a sopravvivere senza immaginarsi una vita migliore e ritenerla possibile?
Okay, adesso calmati, Darren Thomson. Si disse Non credi, ed allora? Sei qui ormai. Lo sapevi che ci saresti finito. Stanotte non hai dormito per questo. Calmati. Tu sei pronto, chiaro? Sei dannatamente pronto. Hai preso dieci nell’allenamento. Dieci. Nessuno ha preso più di te. E poi sei istintivo. L’istinto è sempre l’arma migliore.
Il monologo di auto-incitamento proseguì sotto gli occhi di un inconsapevole Stephan.
Questo lo fissava in silenzio, guardando con freddezza i muscoli del ragazzo contrarsi nel vano tentativo di stare calmo.

Ed eccolo lì, Darren Thomson.
Diciassette anni, corporatura abbastanza muscolosa. Capelli neri, ricci. Occhi azzurro ghiaccio da poter gelare chiunque con lo sguardo.
Seduto su un divanetto a tenersi la testa fra le mani.
Stanco.
Frustrato.
Impaurito.
L’ultima volta che era successo era stato anche determinato.
Si. C’era stato anche quell’aggettivo, un tempo. Determinato. Ma erano successe troppe cose nell’arco di pochi giorni.
Tutto era cambiato.
 Il mondo s’era capovolto una, due, tre volte. C’era stata Mallory. Mallory ed il suo bacio. Poi Hamal, ed il ragazzò grasso. C’era stata la Label, c’era stato Jamie.
Ma più di tutti, c’era stata Lenore. Lenore che aveva capovolto la frittata. Lenore che aveva appena conosciuto. Lenore, che aveva promesso d’uccidere se fosse stata d’intralcio. Una, due volte.
Eri già una creatura di ghiaccio anche prima. Lei era solo una tua simile. Disse una vocina all’interno della sua testa.
<< Tre minuti Darren >>
La voce di Stephan interruppe di nuovo il filo dei suoi pensieri.
Merda. Merda, merda.
Merda!
Ad un passo dall’arena, molti tributi cadono nel panico. Stephan ne aveva visti tanti scoppiare in singhiozzi, cominciare ad urlare di frustrazione. Altri erano semplicemente rimasti zitti a sudar freddo. Alcuni avevano lasciato che i loro occhi parlassero al posto loro, dimostrando un attaccamento alla vita tipico di chiunque.
E lui era sempre stato lì.
Offrire parole rassicuranti, pacche sulle spalle. Stringere le mani.
Menzogne, illusioni di protezione che sarebbero svanite di li a breve. Forse era quello, dopotutto, il vero lavoro dello stilista. Creare una rete di finzione attorno ad ogni tributo, circondarlo di un velo provvisorio.
Donargli una maschera, nonostante questa sarebbe caduta in frantumi poco dopo.
Per Darren non era stato così, s’accorse Stephan.
Per Darren era bastato uno sguardo, per capire con che vestiti accompagnarlo.
Per Darren erano bastate due parole, per sapere cosa offrire al pubblico.
Quella di Darren non era stata una maschera.
No, a lui lo stilista aveva fatto il lavoro opposto. Aveva abbassato quelle pareti di ghiaccio che il ragazzo aveva pitturato da sé, mostrando il vero Darren.
Lupo solitario che aveva tutto il diritto di sentirsi sicuro di sé.
Lasciando che Capitol City, Panem, vedesse quanto forte ed istintivo lui fosse.
Panem lo sapeva.
Panem lo aveva capito ad uno sguardo.
Ma lui? Lui no.
Lui doveva ancora capirlo. E quello, quello, poteva farlo solo da solo.
Darren rimase immobile.
Darren nascose la testa fra le mani per impedire a Stephan di vedere qualsiasi espressione accompagnasse il suo volto.
Era la sua lotta interiore.
Era la sua guerra per acquistare fiducia in sé stesso.
Era lui che se la sarebbe vista con il panico.
Stephan allora non proferì parola, conscio del fatto che quella, come l’arena, era una faccenda del tributo. Un tributo che non aveva chiesto aiuto.
Vuole solo dimenticarsi di te, bastardo.
Grida e sussurri echeggiavano nella testa di Darren
Facci il favore di non tornare.
Solo un bastardo.
Sei come gli altri.
Bastardo.
Dovresti sperare di finire agli Hunger Games.
Sperare. Sperare.

Ehi Darren, tu puoi vincere. Devi solo volerlo.
Devi solo volerlo.
Ma lo voglio?
A volte si passa una vita a tentare di cambiare.
A volte ogni giorno viene speso a promettere a noi stessi che, un domani, saremo diversi da quelli che siamo ora e che eravamo ieri. Ma a volte, quando il destino è parecchio in vena d’ironia, è solo ricordando chi siamo che sappiamo andare avanti.
E Darren aveva promesso a sé stesso che sarebbe tornato. Tornato per sbatterlo in faccia al suo patrigno, a Joshua. Tornato per avere una vita migliore, in cui non sarebbe dovuto uscire di casa alle festività, per lasciare che i suoi coinquilini fingessero di essere una famiglia felice.
Ed era questo, Darren.
Un ragazzo pieno di rabbia repressa, eppure pronto ad accogliere il prossimo.
Il paradosso fatto a persona.
E quando Stephan vide la sua testa alzarsi, e gli occhi azzurri puntati nei suoi, seppe che, seppure piccola, una battaglia era stava vinta dal ragazzo.
<< Trenta secondi >> Annunciò una voce all’auto-parlante.
Stephan e Darren si guardarono in silenzio.
<< Creature diverse hanno sfilato sotto ai miei occhi, ragazzo >> Disse lo stilista << Nessuna di queste aveva tante possibilità di vittoria quante ne hai tu. >> Il ragazzo annuì, alzandosi in piedi. Si strinsero la mano, senza pronunciare parola.
Era tardi per fingere che siamo amici.
<< Dieci secondi >> La voce proruppe dall’auto-parlante. Darren entrò nell’ascensore metallico, guardandosi attorno con apprensione.
<< Tre, due, uno >>
Il ragazzo scomparì gradualmente dalla vista dello stilista.
Lui rimase in silenzio, nella saletta vuota.
Una voce metallica, esterna a quel luogo, cominciò il conto alla rovescia.
Stephan sospirò, scoprendo un tavolino di vetro con tanto di rose, proprio lì. Curioso che non l’avesse notato prima. Le rose erano di uno stravagante colore azzurro, chiaro.
Ibridi di Capitol City, poco ma sicuro.
Eppure avevano qualcosa.
Come se si protendessero verso il cielo, lontano da quella terra. Lontane da quel suolo. Ne colse con delicatezza una. Si avviò ad aprire un armadio in una stanzetta vicina. Lì, un completo bianco capeggiava, tenuto accuratamente. Lo stilista sorrise, tendendo appena l’orecchio verso il conto alla rovescia, la fuori. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo.
Sapeva che era sciocco, da irresponsabili, creare da subito l’abito per la grande serata della vittoria di un tributo che non aveva nemmeno cominciato a giocare.
Non era una cosa che era abituato a fare ma, ripensando a Darren, ai suoi modi di fare ed alle sue parole, sentì che era stata la scelta più gusta, accelerare i tempi per un vestito. Sentiva qualcosa, Stephan.
Aveva un presentimento, su quel tributo.
Posizionò la rosa nel taschino del completo.
Lì, azzurra per Capitol City, questa si protendeva verso il cielo.
<< Sai, io non penso che l’Arena per quel ragazzo sarà uno scontro con altri tributi >> La Label comparve alle sue spalle, rigida come sempre. Stephan non si sentì sorpreso, a vederla lì. Più volte negli anni passati lei aveva raggiunto lui nelle “stanze d’attesa” prima dell’arena. Probabilmente era il suo unico modo per evitare di guardare alla tv qualcosa che aveva già predetto nel momento della mietitura.
<< Io penso che sarà più un braccio di ferro tra la sua pietà e la sua impulsività >> Continuò la mentore. Lo stilista annuì appena, senza nemmeno voltarsi. Continuando ad ammirare il completo.
<< Lo sai Stephan, no? Quel ragazzo è uno di quelli che potrebbero vincere, se solo si dimenticassero i buoni propositi >>
<< Vincerà >> Sussurrò lo stilista << è troppo stupido per morire >> Aggiunse, chiudendo le ante dell’armadio, nascondendo il completo ad occhi altrui.
Sicuro che, tempo due, tre settimane,  le avrebbe riaperte.


Inconsapevole di questo, un tributo scattò al suono del gong. Inconsapevole di questo, un tributo cominciò a correre, per l’arena cosparsa di pericoli.

Ehi, Darren, solo, non lasciare che l’istinto abbia la meglio.


Qualche ora dopo
Quella brezza fredda pungeva il viso, arrossando le guance.
Un tenue sibilo s’innalzava di tanto in tanto, quando l’aria sfilava sfrusciando sui grossi ed imponenti massi di ghiaccio. Tutto era bianco o grigio, nell’arena. Il cielo perdeva il colore azzurro di cui il giorno si vanta secondo dopo secondo.
La luce del sole batteva a terra grigia, fastidiosa agli occhi umani. Il terreno era ghiacciato, ma abbastanza compatto da non risultare scivoloso, ad eccezione di pochi e pericolosi punti. Il silenzio vigilava come una sentinella sporadica, a tratti sveglia ed a tratti interrotta dai passi. Passi che s’univano al coro del vento sibilante nel ruolo di percussioni. Passi affrettati. Passi di chi corre alla cieca senza sapere dove andare o casa fare.
Darren sentiva il proprio respiro farsi più pesante, via via che s’allontanava dalla curnocopia. Il gelo gli pungeva la testa, il viso scoperto. I guanti di pelle nera tenevano al caldo le sue mani e gli stivali proteggevano i piedi abbastanza da non permettere alle dita di gelare.
Gli indumenti neri, dannatamente neri, erano meno pesanti di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Non erano ingombri, non impacciavano i movimenti del ragazzo. Tuttavia preservavano il calore del corpo, evitando alla brezza gelida di infilarsi tra loro e la sua pelle.
Darren correva.
Era sicuro di essere abbastanza veloce, era sicuro di aver lasciato alle spalle tutto e tutti. I favoriti, alcuni doni allettanti. I cadaveri stesi a terra, pennelli tramite i quali Capitol City colorava gli Hunger Games di rosso. Darren poteva richiamare alla mente la fugace prospettiva che aveva avuto di quei dieci tributi caduti tutt’attorno alla curnocopia. Poteva rivederli bianchi quasi come quell’arena, così dannatamente fredda.
Poteva vedere il sangue fuoriuscire da loro, farsi spazio tra la carne che via via diventava più gelida. Poteva richiamare quel colore scuro, così intenso, nella sua testa. Poteva farsi appello ad esso, per ricordarsi che al mondo esistevano altri colori che non fossero il nero, il bianco ed il grigio.
E poteva inorridire ancora una volta davanti a quella scena, poteva fremere e mordersi le labbra per impedire a sé stesso di urlare.
Forse stava scappando più da quella visione che dagli altri tributi, lui. Forse correva per scaricare l’adrenalina e smaltire il panico.
Forse.
Fermati. Gli sussurrò una vocina nella sua testa Cerca un posto dove nasconderti per la notte.
Darren ubbidì, rallentando progressivamente. Si ritrovò a camminare, aguzzando la vista attorno a sé.
Sentiva sulle proprie spalle il peso della sacca, appesantita poiché contenente la sua arma.
Quando ci aveva pensato, Darren, aveva ritenuto che se avesse visto una spada nell’arena, o magari un’ascia od un martello, avrebbe dovuto correre il doppio perché quell’arma sarebbe dovuta essere sua. Eppure, all’interno della curnocopia non aveva trovato l’ombra di una lama pesante.
O almeno, l’aveva vista ma qualcuno l’aveva preceduto. Così, aveva preso la prima cosa che gli era capitata in mano, troppo preoccupato a ripercorrere al contrario la strada verso l’esterno, per evitare di finire con la testa staccata dal corpo. Non si era preso il tempo di guardare ma quando, lontano dalla curnocopia, aveva cominciato a pensare aveva capito.
Guanti.
No. Non semplici guanti.
Guanti con placchette di ferro alle nocche, a mezze dita. Abbastanza larghi da poter essere indossati senza difficoltà sopra a quelli di pelle che già il ragazzo possedeva. Non erano una spada, ma Darren si sentì in qualche modo protetto dalla loro presenza.
Si fermò in prossimità di una cavità, quasi una grotta, tra una parete di ghiaccio e il terreno freddo. Non era molto larga, quasi una cuccetta in cui il ragazzo si sarebbe dovuto rannicchiare per poter starci all’interno. Inoltre era alta poco meno di un metro, impossibile stare al suo interno in piedi. Era un ottimo spazio, avrebbe nascosto bene la sua figura ed inoltre era un buon riparo dal vento.
Darren si sedette vicino, con la schiena appoggiata al ghiaccio, riprendendo fiato. Sospirò, ringraziando il cielo per il colore della sua sacca, chiara, facile da mimetizzare a differenza dei suoi indumenti.
Non sapeva cosa fare, ora.
Aveva visto così tante arene alla televisione che, meccanicamente, avrebbe dovuto averne una vaga idea. Ma non era così. Semplicemente, non sapeva cos’avrebbe fatto l’indomani, o quando si fosse trovato faccia a faccia con un altro tributo.
Magari un bambino, magari quel ragazzo grasso.
Li avrebbe uccisi a suon di pugni? Sarebbe scappato, come un vigliacco? Il suono di un cannone lo fece sussultare, rompendo il silenzio che era l’arena e scomparendo immediatamente, senza lasciare nessuna prova, nessun eco, che dimostrasse il suo manifestarsi nell’aria.
Era l’undicesimo.
Dieci morti nel bagno di sangue iniziale ed uno a distanza di quanto? Una, forse due ore. Il ragazzo rivolse uno sguardo al cielo, sempre più cupo. Era nell’arena.
Più tardi, quando il vento s’alzò pericolosamente, Darren si nascose nella cavità, rannicchiandosi per mantenere un po’ di calore corporeo.
Sorprese sé stesso, scoprendosi a pensare a Mallory.
Cavolo, Mallory. Chissà se era viva, nell’altra arena.
Forse aveva fatto squadra con Jamie, anche se il ragazzo ne dubitava. Nemmeno un disperato si sarebbe mai voluto alleare con quella vipera. Forse era riuscita a scappare, forse non s’era nemmeno addentrata nella curnocopia.
Si, forse era ancora viva.

Le mani scivolavano sudate ad asciugarsi sul completo nero, tentando invano di mascherare l’agitazione del loro proprietario.
Stephan aveva passato tutta l’ora precedente a rimproverarlo, per questo.
<< Non rovinare il mio capolavoro solo perché sei un po’ agitato, idiota >> Era particolarmente irritabile quella sera.
<< Capolavoro? >> Aveva risposto a tono il ragazzo << Tu mi hai trasformato in un pinguino >>
Odiava quel vestito nero, quell’aria fintamente disordinata che Stephan gli aveva procurato.
Non lo sapeva, quel pazzo del suo stilista, che i ragazzi in genere evitano di mettersi il gel fra i capelli? Considerazione stupida, dato il fatto che il suolo sotto i loro piedi era quello di Capitol City.
<< Io ti trovo molto bene >> Aveva detto una voce timida, alle spalle del ragazzo.
Ancor prima di voltarsi Darren aveva potuto sospettare ciò che i suoi occhi avrebbero incontrato.
Glielo aveva detto la voce di Mallory, ancor più tenue ed imbarazzata del solito.
Glielo diceva il viso del suo stilista, con la bocca spalancata ed uno sguardo di stupore tipico di chi ha visto una bella donna.
Quando Darren si girò le sue supposizioni andarono a farsi benedire con tanto di saluto. Perché Mallory non era una bella donna, quella sera.
Mallory era una dea.
Il vestito che indossava era verde smeraldo, con una scollatura a v.
Inutile dire che evidenziava quelle curve di cui Darren aveva sempre ignorato l’esistenza.
Cadeva leggero sul corpo magro, aprendosi appena all’altezza delle ginocchia per mostrare le gambe. I capelli di lei erano stati acconciati dietro alla testa in una crocchia da cui cadevano accuratamente un paio di ciuffi, le labbra sottili messe in risalto e gli occhi circondati da matita nera le donavano un aspetto divino.
<< Anch’io ti trovo molto… Bene >> Sillabò Darren, riprendendosi appena dallo stupore iniziale. Alle sue spalle, come un uomo a cui hanno tagliato la lingua, Stephan annuì
<< Cioè, voglio dire >> Riprese il tributo << Sei davvero bella, stasera >> E, di nuovo, lo stilista annuì ammutolito.
Mallory arrossì visibilmente, spostandosi una ciocca di capelli dietro alla testa e mordendosi il labbro.
<< Veramente volevo parlarti di una cosa, sai.. >> Lanciò un’occhiata fugace a Stephan.
Darren annuì << Ma certo >> Sorrise. Stephan non sembrava intenzionato a muoversi. Aveva gli occhi attaccati a quelli di una Mallory che evidentemente lo voleva via.
Darren ci mise un secondo a capire che il suo stilista stava facendo di tutto per non abbassare lo sguardo fino alla scollatura.
Gli rifilò una gomitata potente, facendolo gemere << Stephan, va via >> Disse, scoprendo che, effettivamente, l’impresa dell’altro non era poi cosa facile. Lo stilista se ne andò mugugnando un saluto.
<< Allora >> Domandò Darren << Di che volevi parlarmi? >>
<< Ad essere sincera volevo ringraziarti.. >> Lo sguardo di Mallory s’incollò teneramente al pavimento. Quella sua espressione in viso, quei suoi modi di fare così carini, stonavano terribilmente con l’immagine sexy che qualcuno le aveva affibbiato.
<< Intendi per la palestra? Non ti devi preoccupare per.. >>
<< Non intendevo per quello >> Mormorò la ragazza.
Alzò timidamente lo sguardo fino agli occhi azzurri di lui.
Sembrava costarle una fatica tremenda, guardarlo.
Ma Darren non gliene fece una colpa. In tanti spesso evitavano i suoi occhi così chiari e freddi, non era uno sguardo semplice da sostenere, il suo.
Tutto merito dell’eredità.
<< Mi sono resa conto che non ti ho mai ringraziato per.. L’incendio, di qualche anno fa. Nessuno sarebbe entrato in quella casa, non per me. E poi sei arrivato tu e… Non ti ho mai ringraziato per questo. Lo ha fatto tutto il distretto ed io.. Io lo faccio adesso. Grazie >> Il ragazzo non seppe che dire.
Rimase in silenzio, passando lo sguardo da un punto morto ai suoi occhi. Si accorse più tardi della vicinanza di Mallory. Della pericolosa vicinanz. Sempre, sempre, più vicina. Il bacio che seguì fu di Mallory. Mallory s’alzò in punta di piedi ed appoggiò le proprie labbra sulle sue,
Mallory rimase li, qualche secondo. E lui restò fermo, basito. Aveva visto quella ragazza in tanti modi. Un’amica, una bambina spaventata, un tributo dannatamente timido… Ma mai, mai, l’aveva vista come una ragazza sexy da stringere a sé.
Era come avere a che fare con un alieno, un clone.
La bocca di Darren s’aprì appena dallo stupore. Il sapore di lei gli inondò le papille gustative e quel tenue, casto bacio si trasformò in qualcos’altro. Qualcosa di meno puro ed innocente. Le loro lingue cominciarono a giocare, danzare, fra di loro.
Si rincorrevano, si lasciavano.
Una parte della testa del ragazzo cominciò ad urlare. Sbraitava contro il ragazzo, contro ciò che stava accadendo.
Ma il sapore di Mallory soppresse quelle strilla, soffocandole man mano.
I due si fecero così vicini da essere l’uno spalmato sull’altro.
Mallory affondò le mani nei capelli di lui. Darren spinse i loro bacini ad avvicinarsi pericolosamente.
E per secondi, o forse minuti, il mondo si tinse di verde smeraldo.
C’era solo Mallory. Il suo fisico esile, il calore del suo corpo, il sapore delle sue labbra.
Ed ogni singolo gesto che i due ragazzi fecero fu solo all’insegna dell’istinto, dell’ essere sempre più vicini. Ed era bello, era liberatorio. Qualcosa di automatico, qualcosa che non richiedeva la presenza dei pensieri. Che il mondo bruciasse, mentre loro due erano lì.
Non avrebbe avuto importanza.
La mente di Darren era piena di Mallory, inebriata. Del suo fisico, dei suoi occhi.
Accidenti, era un ragazzo che si sarebbe trovato in pericolo di morte solo la mattina dopo. Era un tributo, un diciassettenne condannato a morire. Avrebbe visto cadaveri e più sangue di quando entrava, da piccolo, dal macellaio.
E Mallory lo stesso..
Perché no? Si domandò Darren, in un attimo di lucidità. Erano lì, in due, messi in tiro per l’inferno.
Perché non baciarsi, allora? Perché non trasgredire questa unica tacita regola? Nessuno avrebbe potuto dire nulla, dopotutto. Stava andando verso la morte e Mallory era lì, bella come non era mai stata.

Perché fermarsi? La risposta arrivò immediatamente, senza nemmeno farlo aspettare. La verità era che Mallory adorava Darren da tanto tempo, e forse una parte del ragazzo lo sapeva, dopotutto.
Lo ammirava, lei.
Forse lo amava, anche.
E quello era un attimo che probabilmente aspettava già da troppo tempo.
Ma Darren… Darren no. Darren non ricambiava. Darren non l’amava. Desiderare un corpo è una cosa atrocemente diversa. Come lo è volere bene a qualcuno. Non è amare. Puoi unire il voler bene al desiderio fisico, ma non sarà nemmeno lontanamente simile all'amare. E Darren non era in condizione di provare un tale sentimento, ora. << Scusami >> Sussurrò, voltandosi, uscendo dalla stanza.


<< Lo hai visto, Darren? Sei capace di voltare le spalle a qualcuno, dopotutto >>
 
Silenzio. C’era così tanto silenzio, ora. Silenzio e freddo.
La sera andava calando, il buio s’impadroniva pian piano del territorio. Darren avvertiva chiaramente uno sbalzo di temperatura notevole, per essere le prime ore della sera. Sospirò, sicuro che la notte avrebbe dovuto coprirsi per bene, per evitare a sé stesso il congelamento.
Chissà a cosa poteva portarlo una bassa temperatura. Dalle scorse edizioni ne aveva una vaga idea. Insomma, un anno undici tributi su quindici restanti erano morti in posizione di feto, durante la notte, in mezzo alla neve. Se possibile, Darren si trovò ancora più sfortunato.
Almeno, in quella scorsa edizione, non c’era stato tutto quel ghiaccio. Sospirò. Doveva aver letto da qualche parte che quando la temperatura scendeva oltre i trenta gradi sotto zero, circa, le funzioni del corpo s’alteravano e le cellule non producevano più energia.
Rabbrividì.
Poi c’era l’ipotermia. Piuttosto plausibile, dopotutto, soprattutto lì.      
Scacciò quei pensieri.
Gli indumenti che indossava erano caldi, avrebbero preservato caldo a sufficienza. O almeno così sperava. Sfruttò gli ultimi minuti di luce per aprire la sua sacca bianca, alla ricerca di qualcosa di utile. Ravanò nella tasca esterna, trovando una borraccia vuota ed un pacchetto di radici.
Represse un moto di rabbia.
Costava tanto una confezione di gallette? Nella tasca più piccola trovò una corda che aveva tutta l’aria di essere abbastanza resistente ed un piccolo cuscinetto. Lo girò fra le mani, alla ricerca di un suo utilizzo pratico. Era largo circa undici centimetri. Non era nemmeno morbido. 
S’arrese, rimettendolo nella sacca. Il buio s’impadronì dell’Arena poco dopo. Darren si nascose nella cavità, rannicchiandosi su sé stesso.
Quando le tenebre calarono, il cielo di Capitol City s’illuminò del sigillo di Panem.
Undici facce viste nei giorni precedenti illuminarono l’Arena. Darren trovò ironici quei loro sorrisi stampati in faccia. A parte questo, si costrinse a memorizzare chi fossero i morti del primo giorno. I due del cinque ed i due del sette. Sconosciuti che sicuramente erano morti sotto i colpi dei favoriti.
I loro visi sparirono nel cielo con la stessa rapidità di una stella cometa.
Che ironia.
Come se fossero stati davvero stelle, per Capitol City, e non carne da macello etichettata con il sigillo di Panem.
La ragazza del tre sfoggiava una grande dentatura pulita, nella foto che la riprese. Inutile tentare di ricordarsi i loro nomi, Darren li aveva già fuori dalla sua testa. Poi ci furono i ragazzi del sei e dell’otto, immortalati in smorfie alquanto buffe. Chissà quanto ridevano dalle loro facce, i favoriti. Un’ altra ragazza del nove. Darren rimase a bocca aperta quando vide in cielo il volto della sua compagna di distretto… Maggy, Megan.. Lacey!
Se la ricordava, Lacey. Eccentrica e spaventata a morte dagli Hunger Games.
Doveva aver preso qualcosa come sette alla sessione privata. Sapeva solo questo di lei. Apparino infine i visi, smunti, della ragazza del dodici e del ragazzo dell’undici. Ecco fatto. Intatti restavano solo i distretti numero uno, due e quattro. Il ragazzo richiamò alla mente i loro visi ed il loro punteggio alle sessioni, mentre il sigillo di Panem svaniva nel cielo stellato.
Fu proprio quel cielo che, più tardi, il ragazzo ammirava attentamente. Era alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che suonasse famigliare. Non trovò nulla. Non una stella nota, non una costellazione conosciuta.
Alla fine riabbassò lo sguardo sull’arena, consapevole che non c’era nulla che somigliasse al distretto dieci, qui. Fu la prima volta in cui quasi desiderò di poter rivedere il cielo del distretto dieci.
Ma quella era terra straniera e quel cielo gli era ignoto.
Durante la notte la temperatura scese pericolosamente sotto ai venti sotto zero, ma probabilmente era mille volte peggio.
O almeno, Darren ne era quasi certo. In ogni caso, era brutto.
Molto, molto brutto.
Se la prima notte c’era una simile temperatura, di lì a qualche giorno sarebbe stato ancora peggio. E Darren sapeva che bastavano cinque gradi di meno a farlo morire per assideramento, o almeno a far cominciare tal processo.
Si strinse nella sua tuta, ringraziando il cielo fosse così straordinariamente calda. Abbastanza da impedirgli di gelare. Scoprì di non riuscire a dormire. Scoprì sé stesso rigido, teso nello sforzo di ascoltare oltre il sibilo del vento nell'arena. Scoprì di non voler chiudere gli occhi, sebbene il buio dell’Arena rimanesse impenetrabile. Alla fine desiderò soltanto che il giorno giungesse in fretta, alzando quella dannata temperatura.
Dopo un’ora di veglia scoprì che, da qualche parte, il sonno c’era, ma una parte di lui lo stava deliberatamente ignorando. Scese a patti con sé stendo, tastando nella cavità fino a trovare la superfice dei guanti da combattimento. Li indossò.
Così nel momento stesso in cui mi svegliassi e fossi in pericolo sarò pronto a combattere. Ora però devo dormire. Assolutamente. E fu così che Darren Thomson chiuse gli occhi, nel silenzio di un’arena desolata.
La sorte, e questo era certo, non aveva giocato a suo favore.

Si svegliò al rumore di un battere lento sul ghiaccio.
Non, non era un battere, più qualcosa che schiacciava lievemente il terreno, accuratamente piano. Aprì appena gli occhi, sbattendo cautamente le palpebre. La luce accecante del sole lo costrinse a chiuderli immediatamente.
Rimase immobile, tendendo le orecchie e ritentando vagamente ad aprire gli occhi. Quello che vide non gli piacque affatto. Una ragazza era china verso di lui, immobile nello sforzo di non fare rumore, con un coltello seghettato fra le mani teso verso il suo collo.
Bastò che Darren riaprisse gli occhi.
Si guardarono un istante. E fu un errore, per quella ragazza. Evidentemente aveva sperato che lui continuasse a dormire. Evidentemente aveva pregato di ucciderlo nel sonno perché, un tributo maschio da sveglio, aveva ragione di spaventarla.
Darren scattò.
Quando si è creature istintive non importa se si sia in svantaggio. Non ci si concede il tempo di pensare, o di avere paura. O di considerare che l’avversario ha un’arma da taglio quando tu invece hai cosa? Un paio di guanti con tanto di ferro? Darren si trascinò appena fuori dalla cavità nel momento in cui lei, evidentemente indecisa tra lo scappare ed il rimanere lì ad ammazzarlo, sceglieva la seconda opzione.
Il movimento con cui cercò di colpirlo fu sbagliato, da principiante. Si allungò, spostando il peso del proprio corpo verso la cavità e protendendo il coltello per.. Infilzarlo? Comunque bastò una presa veloce del ragazzo, che ancora sdraiato le afferrò il braccio e glielo storse, e lei perse la sua arma.
La ragazza rantolò indietro, cadendo seduta. Mentre Darren usciva trafelato della cavità, impossibilitato ancora ad alzarsi, lei si rimetteva in piedi a tentoni. Corse, la ragazza. Corse e lanciò un grido. L’urlo vibrò fra le pareti di ghiaccio, suonando distintamente nel silenzio mattutino dell’Arena.
Impossibile non sentirlo.
<< Jason! >> Merda. Jason era un favorito. Lei stava coi favoriti. I favoriti dovevano essere lì vicini.
Darren sentì l’urgenza farsi largo in quella situazione. Corse verso di lei, mosso da un impeto di panico. La raggiunse prima che riuscisse a gridare di nuovo.
La gettò a terra con forza bruta, cadendole sopra. I corpi caddero sul terreno freddo con un tonfo ben udibile. Darren tappò frettolosamente la bocca di lei con una mano e con l’altra caricò il pugno. Questa si divincolò sotto alla sua presa. Estrasse un coltello da chissà quale tasca.
Prima che lui potesse fare qualsiasi cosa lo brandì contro il suo volto, solcandogli la guancia ed evitando di grazia un occhio. Darren spostò vagamente il peso di lato, sotto alla furia del colpo, e tanto le bastò per strisciare via, sfuggendo alla sua presa
<< Jason >> Gridò di nuovo la ragazza, nel silenzio dell’arena, alzandosi faticosamente in piedi, cercando di correre via. << Jason >>
Darren sentì il panico attraversarlo, mentre realizzava che, nel momento in cui i favoriti l’avessero raggiunto, sarebbe stata la fine. Doveva ucciderla immediatamente. Frettolosamente, quando ormai gli occhi s’erano abituati alla superficie scintillante del ghiaccio alla luce del sole, s’alzò a tentoni, ignorando deliberatamente la ferita.
Non c’era tempo, doveva ammazzarla subito.
Fiotti di sangue gli cadevano sull’occhio, laddove il taglio era andato appena sotto alle sopracciglia. Il ragazzo si pulì con il dorso della mano, ma il sangue riprese a sgorgare. Decide di ignorarlo, per quanto gli costasse fatica.
Riuscì a raggiungere l’altra di nuovo, correndo, parecchi metri più in là. La sbattè a terra e si assicurò di bloccarle le braccia con il peso del suo corpo. Lei si divincolò di nuovo, agitò la testa. Tentò di gridare. Il silenzio del mondo era interrotto dai loro respiri affannati.
L’arena contemplava silenziosa quell’imminente massacro. Senza muovere un dito, senza dar segno di vedere.
Darren caricò la mano guantata, pronto.
<< Ti prego, non uccidermi >> Pianse lei, vedendo quel pugno pronto a colpire << Ti prego, ti prego >>
Darren vide chiaramente la paura nei suoi occhi. La paura della preda afferrata dal cacciatore. La vide, lui,a riconobbe.
Ma nemmeno questo lo fermò.
Un tonfo.
Un altro.
Gocce di sangue schizzarono sul viso di Darren. Lui caricò un altro pugno. Un altro colpo s’assestò sul viso di lei.
I guanti di lui entrarono in collisione con il viso della ragazza.
Un colpo.
Scricchiolare di ossa, mutamento delle loro postazioni.
Un altro.
Sangue, movimenti sconnessi e privi di vita.
Ancora, ancora.
Non si fermava, Darren.
Caricava pugni su pugni, aiutato dai guanti che portava. E non importava se la ragazza sotto di lui aveva perso conoscenza.
Non importava se la ragazza sotto di lui aveva perso segni vitali.
Non importava quanto sangue avesse sporcato il suo viso, i guanti di lui o il terreno bianco, sotto di loro.
La ragazza sconosciuta perse la vita sotto i colpi di un tributo che non aveva ancora trovato il tempo per fermarsi, pensare.
E Darren andò avanti, mosso da cieca follia. Istinti di rabbia pazza. Un pugno, un altro.
Anche dopo aver sfigurato il suo viso. Anche dopo averla resa irriconoscibile.
Un ammasso di ossa storte, rotte. Di carne, di sangue. Occhi le cui orbite erano state rotte. E Darren provò repulsione per quel viso. Quel viso che era diventato impossibile da guardare, quel viso contorto, privo di vita.
Ed allora lo colpì di nuovo, in un moto di rabbia. Ancora, ancora.
Devi correre via, loro potrebbero avere sentito. I favoriti potrebbero essere qui
Sussurrò una vocina dentro alla sua testa. Lui non l’ascoltò. Non importava.
Ti uccideranno Darren! Fermati! Lei è morta. Lei è morta Niente. Darren non sentiva ragione.
Darren era sordo a sé stesso.
Darren, Melissa ti sta guardando ora. Il ragazzo si staccò dal cadavere in un moto di repulsione, scattando in piedi.
Ecco fatto, aveva ucciso il suo primo tributo. Un colpo di cannone vibrò nell’aria, segnalando la morte della ragazza.
Lui la guardò per un istante. Non era la morte in sé, a farlo inorridire. Era come l’aveva uccisa. Quando si possiede un arco, una spada, non si è mai faccia a faccia con un simile spettacolo.
Non si vedono mai gocce di sangue sulle proprie mani.
Non si guarda mai un cadavere irriconoscibile. Perché il viso di lei, ora, era sfigurato. Un ammasso confuso di carne ed ossa.
Nient’altro che uno shangai caduto, disordinato. Solo, sporco di cervella e sangue. Troppo sangue.
Solo guardandolo attentamente, riassociandolo a quando, poco prima, lei era viva, Darren capì chi aveva appena ucciso.
Tributo femmina del quattro, dallo stesso distretto di Lenore.
Rosemary era morta piangendo e chiedendo pietà.
Vattene via, ora. Avanti. Il ragazzo voltò le spalle al cadavere. Raccolse il coltello seghettato con cui, pochi istanti – o minuti ?- prima era stato ferito.
Se lo infilò in una tasca, sicuro che sarebbe potuto tornare utile.
Raggiunse la cavità nella roccia, dove aveva dormito.
Non si diede tempo. Afferrò la sacca e l’altro coltello appartenuto a quella che ora era un cadavere, s’assicurò di non star abbandonando nulla e corse via. Lontano da lì. Lontano da un nuovo pennello tinto di rosso, che già decorava la tela bianca.
 
Benvenuto nell’Arena, Darren Thomson.

Angolo wani:
Questo capitolo, come al solito, non mi piace. Alcune parti sono state scritte frettolosamente, altre buttate giù in malomodo.
iedo scusa, davvero.
Spero che, almeno, qualcosa possa esservi piaciuto!
La morte di Rosemary è stata scritta cinque volte prima di essere stata buttata giù appena appena decentemente!
V ringrazio per la lettura!!!
Wani







 
  
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