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Autore: Love_in_London_night    14/01/2013    7 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 5

Questioni di fiducia

Era da una sola settimana che Nathan era tornato nella sua vita, e tutto il precario equilibrio che aveva formato in dieci anni sembrava essersi dissolto in fumo.
«Oggi per te c’è la Signorina Feller, è il tuo primo appuntamento». Lynn gestiva i programmi della giornata attribuendo ai vari incontri pianificati le rispettive addette alla vendita. «Ricorda Pemberley: è un’ottima cliente, ha un budget di novemila dollari per il vestito, però hai solo due ore di tempo. Poi hai un altro appuntamento».
Annuì distratta, non ascoltando davvero ciò che la sua superiore le aveva appena detto. Sapeva fare il suo lavoro, e quindi le domande di rito alla cliente erano due, riguardo  al tipo d’abito che cercava e il budget a disposizione: la prima regola che si imparava da Forbes era “Non far provare mai un abito troppo costoso a una sposa che non può permetterselo, ti giocherai la vendita”. La seconda regola, non meno importante, era quella di rispettare il tetto vendite mensile imposto a ogni addetta, pena il licenziamento.
Era brava Pem a intuire i gusti delle proprie clienti, ma non era sempre facile arrivare a fine mese con i conti giusti, a volte le mancavano quasi mille dollari, e per riempire quella mancanza entro l’ultimo giorno utile spesso diventava matta, riempiendosi le giornate di clienti dalle mille pretese, senza dare nulla in cambio, nemmeno la minima sicurezza. Erano le giornate peggiori, quelle dove si dedicava a più clienti in contemporanea e scompariva tra tulle bianco e organza avorio, tra corpetti con gemme scintillanti e gonne vaporose come meringhe.
Eppure amava il proprio lavoro, tanto che in dieci anni non aveva ancora perso il posto. Mai, nemmeno un solo mese, era rimasta sotto il tetto del budget minimo di vendite ad personam stabilito da Lynn e Joel, i due fratelli Forbes che portavano avanti l’atelier.
Adorava quel posto, così grande e ovattato, dai colori caldi ed eleganti, era un regno di pace il più delle volte, l’atmosfera cerimoniosa che donavano i vestiti da sposa al suo interno rendevano l’ambiente unico.
Ma la parte migliore era portare un abito alla futura sposa, farglielo indossare, e vedere qualcosa in lei cambiare: la scintilla negli occhi, il sorriso radioso che poche volte aveva colto una persona, la lacrima di gioia che, solitaria, si liberava sulla guancia.
I segni che accompagnavano la consapevolezza di aver addosso l’abito giusto, quello la ripagava di tutto il lavoro. Le corse per gli immensi corridoi dei magazzini, il rubarsi il vestito adatto tra colleghe, le svendite last minute, i saldi, tutto il putiferio che le clienti le facevano passare. Tutto era ripagato da quell’espressione di felicità e completezza che il vestito giusto donava assieme al giorno del matrimonio e del futuro marito.
Pem si sistemò la giacca nera che aveva indossato. L’abbigliamento nero era tipico delle addette alla vendita, la giacca d’obbligo. Sotto, però, si potevano indossare o magliette e pantaloni, oppure tubini. Quel giorno aveva scelto una gonna a ruota con una cintura in vita e una semplice maglia scollata e con le maniche corte, a completare la mise aveva delle semplici ballerine, sempre nere. Si sentiva la versione dark e monotona di Audrey Hepburn.
Mentre si avviava verso Brooke Feller e il loro appuntamento, si stava legando i capelli secchi e indomabili in un chignon, perché erano davvero impresentabili quella mattina, non avrebbe mai voluto sfigurare davanti a una cliente che, per di più, aveva un lauto budget.
Si ritrovò davanti la suddetta Brooke. Una ragazza lampadata, le extension finte come la tinta corvina e, probabilmente, come il seno che svettava da sotto il top fin troppo leggero per la stagione. La tipica ragazza californiana che volava fino a Forbes per avere vestiti esclusivi. Odiava quel tipo di cliente, ma la sapeva gestire al meglio, ecco perché Lynn l’aveva affidata a lei.
«Buongiorno Brooke!» la salutò entusiasta. «Benvenuta da Frobes, hai fatto bene a rivolgerti a noi, siamo il meglio se cerchi esclusività e raffinatezza».
Due concetti che persone simili non conoscevano, in particolar modo il secondo. Erano più scenografiche, un po’ come il silicone che avevano in corpo e la finta abbronzatura, ma la ragazza la accolse con un gridolino entusiasta e la lasciò continuare.
«Ho due domande per te, Brooke, prima di cominciare a giocare» sapeva che metterla su quel lato aizzava le ragazze. Adoravano fingersi principesse da vestire. «Dimmi il budget a tua disposizione e come preferiresti il vestito: se vuoi un taglio ad A con la vita stile impero, oppure con la gonna a palloncino e gonfia, piuttosto che…»
«Il taglio a sirena!» rispose emozionata e convinta Brooke.
Pemberley ci avrebbe scommesso. Era il taglio più gettonato dalle spose americane, il modello che, tra l’altro, stava male alla maggior parte di esse, che fossero grasse o magre, alte o basse.
Sorrise compiaciuta. Sapeva che quello era esattamente ciò che Brooke pensava di desiderare, alla fine sarebbe uscita dal negozio con un abito da principessa con la gonna più vaporosa di una torta  nuziale ricoperta di tulle.
Le avrebbe fatto provare il modello di Tammi Shelley, una stilista di punta riguardo gli abiti di un certo pregio, l’abito a sirena che non vestiva nessuna, se non Heidi Klum e poche altre elette. Solo alle modelle di Victoria Secret poteva stare bene, e non stava scherzando. Dopo l’iniziale batosta avrebbe proposto abiti più d’impatto, ma comunque più eleganti; il gioco sarebbe passato in mano a lei e tutto sarebbe stato più facile. Sì, in meno di due ore avrebbe concluso la vendita.
«Comunque, per il budget mia mamma mi ha imposto novemila dollari, ma penso di poter spendere qualcosa di più, mio papà mi ha lasciato l’american express all’insaputa di quella strega» e le fece l’occhiolino in tono confidenziale. «Adoro il tuo stile, sembri Audrey Hepburn! Non pensavo aveste così buon gusto anche solo per lavorare. Amo New York!».
La confessione della cliente l’aveva resa più simpatica agli occhi di Pemberley, non pensava potesse essere vero.
«Grazie». Le sorrise sincera. «Ora facciamo così, io vado a prendere qualche abito, tu intanto mettiti in lingerie, così non perdiamo tempo. E, tranquilla, a tua mamma non mostrerò i prezzi».
Fu così che, un’ora e dieci minuti dopo, Brooke Feller firmava la ricevuta della carta di credito che riportava la cifra di dodicimila dollari per un Tammi Shelley sì scenografico, ma alquanto apprezzabile. Alla fine era stata la vendita facile che Pem si era immaginata. Brooke non aveva gradito gli abiti a sirena. Non stava male, ma erano poco principeschi per i suoi gusti, troppo miseri. Aveva optato per una gonna vaporosa tutta piume color avorio, un corpetto ricamato e con lo scollo a cuore e le maniche larghe non più di otto centimetri in piume come la gonna. Le lacrime di commozione della figlia avevano intenerito anche la madre, soprattutto davanti al prezzo, ma Pem, che conosceva bene i tentennamenti delle mamme davanti al budget sforato, aggiunse il velo e lo fece rientrare nel prezzo dell’abito, avendo così la benedizione di entrambe.
«Oddio, il mio matrimonio sulla spiaggia con un gazebo di teli e arco di fiori sarà bellissimo grazie a te!» il saluto di Brooke la destabilizzò, dato che le concesse l’abbraccio più soffocante mai visto.
Ecco, un matrimonio simile Pemberley non l’avrebbe augurato nemmeno alla sua peggior nemica. Odiava la sabbia che si appiccicava ovunque e in cui sprofondavi, il vento che tirava in spiaggia avrebbe rovinato l’acconciatura, per non parlare del tempo.
No, lei sapeva cosa voleva: un vestito semplice, monospalla e dritto, magari tutto plissettato con una cintura non molto alta e colorata in vita, a ricordare il peplo greco. Al massimo si sarebbe concessa un abito in pizzo, ma dal taglio sobrio. Avrebbe raccolto i capelli in una treccia che, morbida, sarebbe ricaduta su una delle due spalle, al massimo avrebbe accettato una coda strutturata. Il trucco caldo ma non pesante, i fiori arancio o color pesca, magari esotici, una chiesa di campagna e una sessantina di invitati al massimo, i parenti stretti e gli amici suoi e dell’eventuale sposo.
Ma soprattutto, quello che più le sarebbero piaciuti, sarebbero stati i tatuaggi all’henné che avrebbe rubato alla cultura indiana. Si sarebbe fatta dipingere le mani con i loro disegni, ma non solo, anche i piedi, con un leggero disegno che sarebbe risalito fino alla coscia, ma solo una. Le piaceva come tradizione, perché tra i vari ghirigori che le donne raffiguravano sulla pelle, veniva inserita l’iniziale del futuro marito che, durante la prima notte di nozze, avrebbe dovuto cercare sul corpo della moglie.
Adorava l’idea di essere scoperta da un uomo per cercare addosso a lei un po’ di se stesso, era un gesto intimo che accendeva anche gli animi più tiepidi.
Fu così che, per la prima volta dopo una settimana, immaginò Rhys intento a esplorarle il corpo nudo ed esposto, cercando una R nascosta sapientemente tra quei maestosi motivi che raccontavano storie mai ancora vissute.
Non aveva mai pensato che Rhys potesse diventare suo marito, ma l’idea, ormai nella sua mente, non le dispiaceva affatto. Eppure era lui stesso a mettere fine a quelle fantasie, lui e il suo diniego nel cercare di vederla e parlare. Era da quando aveva visto Naive e Nate che non riusciva a parlargli, preso com’era dal suo lavoro. Al telefono era stato freddo come sempre. Inutile che si raccontasse storie diverse Pemberley, sapeva che era il suo personale modo di darle il benservito, sperava solo di sbagliarsi, di meritare di più, magari anche solo una spiegazione a riguardo.
Era da una settimana che, nonostante sul lavoro avesse ottenuto buoni risultati, con la testa era da tutt’altra parte: Rhys era diventato il pensiero costante, in special modo da quando Nathan si prendeva più cura di Naive. Avere dei momenti liberi equivaleva ad aver più tempo per pensare, ecco perché le giornate finivano sempre con il suo pessimo umore, che non sapeva nemmeno dove sfogare.
Si rifece lo chignon e si presentò alla prossima cliente con il solito sorriso cordiale che tanto amava rivolgere al mondo: le piaceva pensare che fosse un ottimo biglietto da visita. Era consapevole di non potere incantare a tutti, e neppure si affannava nell’inutile tentativo, ma non capiva perché dare un motivo per prenderla subito in antipatia non regalando un gesto che non costava alcuna fatica.
Fu solo a pranzo, durante la pausa, che nella sala relax dove a volte tra colleghe si concedevano un caffè o due chiacchiere, che Pemberley sbuffò stanca. Non era arrivata alla conclusione del suo quesito giornaliero: come smuovere la situazione con Rhys.
C’era una convinzione, in fondo al suo cuore, che manteneva acceso il desiderio di chiarire. Era la speranza. Quella che tutte le persone potevano comprendere, la stessa scaturita da quello semplice scambio di sguardi che legava due persone, anche se per un solo attimo. Il momento in cui nasceva il colpo di fulmine, il destino, o come la gente amasse chiamarlo. Era l’esatto istante in cui la persona entrava a far parte del tuo mondo, ti faceva battere il cuore e imporporare le guance; quella determinata persona cambiava qualcosa in te e non si poteva non sperare di aver influito allo stesso modo sull’altro. Ecco a cosa portava la speranza, a credere che quella magia speciale non l’avesse provata solo uno dei due.
Pemberley sapeva che doveva esserci stato qualcosa tra lei e Rhys, perché si erano incontrati in Francia, ma si frequentavano a New York, perché si erano visti e chiamati più volte, perché si erano baciati ma alla prima cena un po’ più seria lui non aveva provato a portarsela a letto, non ci aveva mai provato con intenzione, perché l’ultima volta, prima di essere interrotti, lui non l’aveva premeditato. C’era qualcosa, perché Rhys, nonostante gli impegni, aveva sempre trovato del tempo da dedicarle. Tempo che, però, non le ritagliava più.
Ester, una delle sue colleghe più attempate, era seduta sul divano in pelle mentre spiluccava un pacchetto di cracker davanti al New York Times. Aveva emesso un gemito di disappunto, per poi chiarirlo prima che le altre lì attorno chiedessero spiegazioni.
«Strano, non succede mai»
«Cosa, cara?» chiese distratta Louise, con lo sguardo fisso sul tablet e la confezione dello yogurt accanto a sé.
«I pettegolezzi sulla New York bene. L’imprenditore giovane e – nemmeno a dirlo – bello, fotografato all’uscita di un albergo di lusso in piena notte quando prima ci è entrato con una strafiga. Mai sentita una cosa simile». Alzò gli occhi al cielo, palesando il sarcasmo ben riconoscibile nel timbro della voce, infine avvicinò la foto in bianco e nero al naso per poter leggere i nomi nella didascalia. «Questa volta tocca a Rhys Hewitt e la cantante gnocca del momento, Cheryl qualcosa… Dio, ma scriverle un po’ più grandi le didascalie no, eh?».
Voltò pagina stizzita. Pemberley, sedutasi accanto a lei pochi istanti prima, si irrigidì sul posto.
Era quello il momento che l’avrebbe distrutta, perché qualcosa si era rotto.
Le era appena stato servito l’istante in cui aveva capito che quel qualcosa che era intercorso tra loro era tutto negli occhi di lei, solo in quelli di lei. Perché quella scoperta le aveva fatto comprendere che a provare qualcosa era stata solo Pemberley, che gli sguardi, il batticuore e la voglia di iniziare qualcosa di nuovo l’aveva visto solo e soltanto lei.
Perché Rhys non aveva tempo di chiarire, diceva, ma aveva tempo per non dormire e frequentare Cheryl qualcosa, la star ultra patinata del momento. La scopata facile che lei non era stata, la persona che l’indomani sarebbe partita per un’altra città e non gli avrebbe creato problemi, perché probabilmente Cheryl aveva la metà degli anni di Pemberley e non aveva nessuna figlia e un ex a carico.
E qualcosa, dopo essere giunta a quella conclusione, si era rotto davvero. La sua speranza, insieme al suo cuore.
Si guardò in giro, fissando le altre sue colleghe in pausa, cercando di capire se avessero sentito quello che stava avvenendo dentro di lei.
Si domandò così se le persone avessero mai sentito il rumore di un cuore spezzato. La risposta fu negativa, perché un cuore si frantumava in silenzio, anche se lasciava una traccia indelebile e visibile a tutti: la sofferenza di quegli occhi che tentavano di nascondere dietro loro stessi tutto il dolore della rottura.
Rimaneva solo il retrogusto amaro delle parole che non si era riusciti a dire, il sapore dei baci che non si era riusciti a dare, il tocco dell’amore che non si era riusciti a donare.
Non era innamorata di Rhys Hewitt, ma il colpo che lui le aveva inferto era stato peggiore del previsto. Rhys era stato il primo uomo dopo un decennio a interessarle davvero. Le piaceva, pensava che ci fosse qualcosa tra di loro, dato che si erano incontrati a Lione, dall’altra parte del mondo, e continuavano a vedersi a New York, dove c’era la loro vita vera, piena di impegni e di grattacapi.
Era la prima persona con cui voleva passare del tempo, voleva andare oltre e scoprirla. Si era fidata di Rhys, anche se era solo all’inizio di questo percorso, e lui aveva tradito questo: tutte le aspettative che Pemberley si era fatta su di lui, la fiducia riposta, il sentimento che, seppur flebile, provava.
«Non pranzi, Pem?». Ester la stava fissando in attesa di una risposta.
«No, mi si è chiuso lo stomaco, preferisco riposare un po’».
Si stava domandando se i suoi occhi riuscissero a mentire. Siccome si conosceva un po’, aveva deciso di fingere di riposare, almeno avrebbe nascosto alle altre una pessima bugia.
 
Quando la sala relax si svuotò, si concesse una barretta al cioccolato alla macchinetta automatica e del caffè avanzato dalle compagne di lavoro. La testa le scoppiava e aveva bisogno di Silene.
Si assicurò di essere sola, prima di dare il via a una chiamata lunga e per nulla divertente.
Appena Silene rispose, dando vita alla conversazione, Pemberley lasciò andare tutto il suo sconforto, il nodo alla gola, la delusione e le speranze infrante.
Perché più ne parlava con Silene, più capiva la realtà dei fatti: Rhys era stata la fiducia riposta nella persona sbagliata, l’opportunità svanita e quasi mai avuta.
Sarebbe stato solo un nostalgico ricordo, il silenzio tra due tracce di un cd che si inceppava, la mancanza di una persona che, di notte, veniva sostituita da una stretta al cuscino per non allacciare le braccia al petto e sentire che quelle sensazioni, quel sentimento, nascevano e morivano con lei.
«Chiamalo e digli che il suo essere così spregevole è direttamente proporzionale al suo conto in banca, al potere che esercita la Hewitt Corp o all’influenza e al prestigio che ha sulla città. Qualsiasi cosa, ma diglielo chiaro e tondo che è uno stronzo».
La frase che durante l’intera conversazione aveva più fatto ridere Pemberley, placando un po’ il senso di smarrimento che Rhys aveva lasciato; se ne era andato dalla sua vita come ne era entrato: senza preavviso.
Era quel senso di colpa che le diceva che era soltanto colpa sua e delle cose non dette che la faceva stare male, ma anche il non voler chiarire di lui, la sua posizione così netta a riguardo, a ferirla.
Silene aveva letto il giornale quella mattina, e sperava che l’amica, essendo presa dal proprio lavoro, non vedesse una simile pagina; eppure sapeva che il rischio era alto, ma Sil era sempre un’inguaribile ottimista e la parte positiva di lei sperava sempre nel meglio.
«Grazie, penso che lo farò. Lo chiamerò per chiedergli un appuntamento per dirglielo in faccia, giusto per vedere, dato che è sempre così impassibile, se davanti a un simile insulto cambia espressione!»
«Vai ragazza, così ti voglio!». La sentì parlottare con qualcuno che era riuscito a sovrastare il borbottio di sottofondo. «Pem, devo andare, l’udienza sta per iniziare. Ma tu non abbatterti, hai una figlia meravigliosa che ti riempie la vita, al momento non hai bisogno d’altro».
Naive! Quella frase le fece venire in mente che doveva chiamare Nathan per controllare che tutto fosse a posto per il pomeriggio.
Si toccò la fronte con il palmo aperto, quando urlò nell’orecchio dell’amica «Nathan!»
«No tesoro, lui non è tua figlia, è quello con cui l’hai concepita e di cui Naive ha metà corredo genetico». Rise divertita, a volte Pemberley, era così distratta.
«Lo so! Ma devo chiamarlo per accertarmi che vada a prendere Naive a scuola, oggi è il suo turno. Ciao Sil, grazie di tutto!»
Riattaccò concitata. Dio, era una madre degenere. Come poteva pensare che forse era il suo turno? O lo era, o non lo era. Eppure in quel momento di black out totale non avrebbe saputo essere certa di nulla, nemmeno del suo nome.
Si accasciò di nuovo sul comodo divano. Erano le due e dodici del pomeriggio, aveva ancora mezz’ora di pausa. Magari, dopo la telefonata con Nate, si sarebbe concessa un pranzo veloce. Lo stress le avrebbe fatto perdere i capelli, se lo sentiva, per fortuna ne aveva tanti.
«Pem? Ciao! Ti serve qualcosa?».
E sentire il suo tono insicuro e distratto, immaginarlo alla scrivania, intento a lavorare su qualche nuovo progetto, la fece rilassare un po’. A volte erano così simili, entrambi persi nei loro mondi, che riusciva a capire perché la se stessa adolescente si era innamorata di lui senza saperlo o volerlo.
Una delle poche cose che non li accomunava era il sorriso: sempre presente sul volto di Pemberley, così difficile da trovare su quello di Nathan.
Nate non era una persona infelice o scontrosa, tutt’altro; era sempre disponibile e garbato. Era anche felice, dato che aveva tutto ciò che desiderava, solo che non gli serviva condividere questo particolare con il mondo intero. Come il resto delle persone potevano fare a meno di lui, lui poteva fare lo stesso con loro.
Un sorriso avrebbe palesato a tutti il suo essere soddisfatto, ma Nathan non vedeva il motivo di farlo sapere a persone che un gesto simile non lo meritavano nemmeno.
«Ti ricordi di passare a prendere Naive a scuola tra un’ora, vero?». L’aveva chiamato proprio per quel motivo, perché sapeva che calarsi di colpo nel ruolo del padre non doveva essere facile. Avere qualcuno che potesse aiutarlo e ricordagli alcuni compiti doveva rendergli più facile la vita. Almeno, sperava di avere quest’effetto.
Sentì la sua risata attutita e divertita, infine una porta chiudersi.
«Stai scherzando, vero?»
«Ti sembra che io stia ridendo?». La vena sulla tempia di lei stava esplodendo, non poteva occuparsi di tutto, soprattutto del pessimo senso dell’umorismo di Nate, lo stress saliva ogni secondo che passava.
«Pemberley». Oh oh, pessimo inizio di frase. Quando usava il nome nella sua interezza non stava affatto scherzando. «Io devo prendere Naive a scuola venerdì…»
«Appunto!». Lo interruppe infervorata.
«Oggi è giovedì»
«Ah» e la rabbia si era smontata in una frazione infinitesimale di tempo, diventando panico.
Non poteva crederci. Nathan era in città da una settimana e lei si era già adagiata sugli allori. Aveva confuso i giorni, abbandonando così sua figlia al proprio destino. Perché lei non sarebbe uscita da Forbes prima delle cinque, e non poteva chiedere permessi, perché mancava un po’ di personale, essendo periodo di influenza per tutti.
Il cuore batteva troppo veloce e le mani erano fredde e sudate. Si sentiva in colpa verso Naive e verso un ruolo, quello di madre, in cui non si sentiva mai all’altezza, nemmeno dopo dieci anni.
«Nate, non riusciresti ad andare tu? Io sto coprendo turni di gente malata, non riesco a schiodarmi, anche perché dei soldi extra mi fanno sempre comodo. Inoltre sai che ho un budget fisso mensile da raggiungere, e questo mese sono un po’ indietro, non posso giocarmi il posto» si morsicò un labbro nervosa, attendendo la sua risposta.
«Lo farei volentieri, ma non posso. Sono appena arrivato, ho una riunione importante alle quattro e non posso mancare. Ti sto chiamando dal bagno! Sono chiuso dentro come un fuggitivo! Nemmeno io posso rischiare il posto dopo qualche giorno» aveva cercato di sdrammatizzare, sentiva il fiato corto e irregolare di lei, segno che una crisi nervosa era quasi in atto, non voleva averla sulla coscienza.
«E quindi?»
«Proviamo a chiedere a Silene...»
«È in tribunale, ha un’udienza». Era una pessima madre e nel giorno del giudizio sarebbe stato reso pubblico, se lo sentiva.
«I tuoi?»
«Non ci sono, sono fuori città. Non c’è nessuno!» si mise a piagnucolare, disperata. «Si ritroverà sul cancello della scuola sola e abbandonata, ci odierà, lo so. In più la rapiranno e la uccideranno!»
A volte diventava melodrammatica, in special modo quando si trattava di Naive, ma le paure che la assalivano quando si parlava della figlia erano sincere e, nella sua testa, fondate.
«Non hai una baby-sitter a cui ti rivolgi di solito?».
E, se la prima risposta che passò nella mente di Pemberley fu che quelle poche volte in cui usciva la sera la lasciava ai genitori, la seconda cosa che pensò le fece sistemare i tasselli che aveva a sua disposizione per mettere ordine a quel caos di conversazione.
Si misera a ridere, d’improvviso più rilassata.
«Pem, stai bene? Hai avuto la famosa crisi di nervi che pensi di covare da una decina d’anni?!» bisbigliò preoccupato mentre qualcun altro entrava nei bagni dell’ufficio.
«Cassidy» rispose senza averlo ascoltato.
«Ok, allora è vero, sei in piena crisi di nervi». E lui era in panico. Come si faceva a sistemare una cosa simile quando erano distanti, la rispettiva figlia aveva bisogno di qualcuno che la andasse a prendere all’uscita di scuola e di lì a un’ora partecipare alla riunione aziendale, il tutto senza essere licenziato?
«No Nate, chiamiamo Cassidy. Lui la andrà a prendere e la porterà al Café au Lait da Josh»
«Chi è Josh? E spero che Cassidy non sia quelCassidy che conosco anche io». No, non poteva essere Cass, era impossibile, non avrebbe mai affidato a lui Naive.
«Conosci altri Cassidy? Andiamo, è tuo fratello. Ti garantisco che adora Naive almeno quanto lei stravede per lui. Inoltre a scuola lo conoscono, perché spesso l’ho mandato a prenderla. Soltanto che di solito poi la portava dai miei, questa volta gli farò allungare la strada fino alla fine di Nassau street». Pem sospirò, sapeva di dover dare qualche spiegazione in più perché capisse. «Josh è il proprietario del Café au Lait… Naive ci passa un sacco di pomeriggi, perché Joshua le fa da baby-sitter, diciamo così».
Nathan rimase in silenzio più del dovuto. Davvero suo fratello era legato a Naive? La notizia lo rese triste. Forse la conosceva meglio di lui, ed era solo lo zio. La andava a prendere a scuola, ci aveva passato del tempo, la conosceva. E lui dov’era? A San Francisco, a Seattle o da altre parti disperso per l’America a mandare avanti i propri sogni.
Ma era veramente in grado di accudire una bambina di dieci anni? Lo stesso Cassidy che non si era mai accasato, nemmeno per sbaglio, in trentatre anni di vita? Li vedeva così diversi: Naive, piccola e –  soprattutto – innocente; Cassidy, grande e immaturo. Così libertino e irresponsabile da non essere in grado di badare a sé stesso. Eppure Pemberley gli affidava spesso e volentieri loro figlia.
Sospirò sconfitto, non era come si era immaginato: rientrare nella propria vita e riprendere tutti i rapporti lasciati sospesi, ma gli sembrava di intrufolarsi da capo in quella altrui. Forse doveva partire da zero e imparare a conoscere di nuovo chi gli stava davanti, a partire da Cassidy per arrivare a Pem e Naive.
Cassidy. Un sorriso a metà comparì sulle sue labbra. L’aveva sempre invidiato, così bravo da saper giostrare i mille appuntamenti e a imbrogliare tutti con il suo fascino, per lui era facile manipolare le persone come meglio credeva, come voleva. E, di solito, le voleva sdraiate e nude nel proprio letto, perché per lui non c’era nulla di meglio che godere appieno di ciò che le persone potevano offrirgli, almeno a livello fisico.
Era redattore in una rivista di buona tiratura nazionale, un lavoro abbastanza elastico, perfetto per uno che amava autogestirsi.
Come poteva un carattere simile amare la nipote? E Naive cosa pensava dello zio?
«Ok, suppongo non ci sia altra scelta»
«Bene. E, visto che mi sembra di capire che è da un po’ che non lo senti, lascio a te il compito di chiamarlo per dirglielo. Parlarvi vi farà bene».
Non attese risposta e riagganciò il telefono. Sapeva che era la cosa migliore per i fratelli Alcott, non avrebbe voluto sentire le lamentele di Nate a riguardo, non gli avrebbe permesso di obiettare. Se c’era una cosa in cui Pemberley era brava era sapere di cosa avevano bisogno gli altri. Per se stessa però, era un vero disastro a riguardo.
Fissò l’orologio e decise che in fondo, quegli ultimi venti minuti, potevano essere utilizzati per consumare un pranzo veloce.
E così ripartì la sua giornata frenetica, facendo in modo che dimenticasse il motivo di quello spiacevole nodo allo stomaco che non le impediva di godersi un pasto normale.
 
«Zio?!» Naive era ferma sui gradini che l’avrebbero condotta fuori dalla scuola. Strano come lei fosse immobile mentre i suoi compagni cercavano di sfrecciare lontano da quel posto e dai professori il prima possibile, era un controsenso vivente, e non faceva nulla per essere così, lei lo era e basta.
«Nipote?!» Cassidy la schernì di rimando, impossibile non concedersi un momento ridicolo con la faccia della ragazzina così sorpresa.
Naive piegò la testa di lato e sorrise contenta e divertita.
Una fitta si aprì nel cuore di Cass, quell’espressione era uguale a quella di Nathan quando cercava di scavarti dentro, di capire cosa volevi dire anche quando non usavi le parole. Gli occhi scuri, anche quelli erano di suo fratello.
Era da anni che non lo sentiva, da quando aveva iniziato a girare come un matto per lavoro, e quel giorno si era fatto vivo. Gli aveva chiesto di poter prendere la figlia a scuola, un compito che di solito gli affidava Pemberley; ma lei era furba, sapeva che con Nate in città tutto sarebbe cambiato, e Naive sarebbe stata il mezzo per farli riavvicinare. Alla fine di quella strana telefonata, intervallata da silenzio e imbarazzo, Nathan aveva espresso la sua volontà di volerlo incontrare.
“Mi manchi”, aveva ammesso triste, come se si fosse reso conto solo in quel momento dell’assoluta verità contenuta in quell’affermazione e di quanto fossero cambiate le cose in dieci anni.
Perché si volevano bene davvero i fratelli Alcott, ma alcune divergenze di compatibilità li avevano portati a vivere di una quieta indifferenza dovuta alla difficoltà di adattamento reciproco di entrambi.
Nathan era così bravo, così concentrato, così ligio al dovere che Cassidy non riusciva a non sentirsi in difetto accanto a lui, ecco perché tutte le miglia tra loro non erano diventate un problema, quanto più un’attenuante al bene comune.
I suoi genitori volevano bene a entrambi i figli, ma Nathan aveva quella luce brillante attorno a sé che di rimando faceva illuminare anche i loro occhi, Cassidy aveva il fascino dell’irrisolto e dell’incerto, e come particolare faceva scaturire solo scintille di preoccupazione coperte però da un amore immenso.
Poi era arrivata Naive che, più cresceva, più diventava come lui.
Ecco perché era diventata indispensabile, non solo perché era sua nipote.
Era una bambina fantastica: curiosa, ingenua ma sveglia come ogni bambino.
Eppure, aveva la stessa luce che aveva avvolto Nathan da sempre. Gli occhi, le espressioni. C’era Pemberley, e Cassidy non poteva non vederla, ma lui vedeva Nate. Abbracciava il fratello quando stringeva la nipote, faceva passi verso di lui. Faceva pace con lui, perché aveva imparato a mettere da parte la competizione per lasciare spazio alla malinconia della sua mancanza.
La maestra Claire lasciò a fatica la presa dalla spalla di Naive e lei, sentendosi libera, mosse un passo dietro l’altro sempre più velocemente, fino a correre addosso allo zio, quello zio così strano ma così affettuoso, simpatico ma mai banale, che aveva caratterizzato la sua infanzia con uscite sempre particolari.
La abbracciò come si faceva con un bel ricordo o una nipote altrettanto meravigliosa, e salutò Claire, la giovane carina maestra che si era fermata sull’uscio.
Lei, in risposta, gli sorrise in modo arcigno e gli rivolse un gesto gran poco cavalleresco.
Cassidy mise una mano sulla schiena di Naive per accompagnarla gentilmente verso l’auto, ma la piccola si girò

   
 
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