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Autore: Angeline Farewell    17/01/2013    3 recensioni
What if Pre-Thor (Movies).
Tom Hiddleston ha sognato di diventare attore da quasi tutta una vita spesa ad inseguire rune e lingue magiche e morte: in apparenza tranquillo e solare, nessuno - nemmeno i suoi genitori - erano mai riusciti ad intuire la polpa più profonda delle sue pulsioni e delle sue ambizioni.
Chris Hemsworth è sempre stato troppo bello per non essere notato, persino in una famiglia come la sua in cui la bellezza è normalità. Il voler diventare attore seguendo le orme del fratello maggiore sembra una scelta quasi scontata che persegue però con insolita testardaggine e dedizione, perchè Chris non lascia mai le cose a metà.
Nessuno dei due è abituato a farlo, persino se sono cose cominciate tanto tempo prima, in un tempo e in un mondo che non ricordano.
[Hiddlesworth/Thunderfrost (sort of)]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: What if? | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Samskeyti '
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Coi piedi per terra

Atto II, Scena I.

Thor aveva sempre temuto potesse giungere quel giorno.

In battaglia calava brandendo Mjöllnir senza paura, fedele compagna che mai l’avrebbe abbandonato. La guerra non gli aveva mai fatto paura e aveva danzato sui campi di battaglia come nelle arene con la stessa grazia e la stessa ferocia di un orso di montagna: Björn, questo risuonava tra i soldati e le folle, perchè Thor Odinsson non temeva il sangue, neppure il suo.

Il più possente degli Æsir aveva conosciuto il brivido della paura solo molto tempo dopo il battesimo della spada, ne aveva sentito il sapore in punta di lingua e non era più riuscito a rinunciarvi. La Paura aveva il sapore di una pelle di luna sotto la lingua, la sua consistenza sotto le dita, il peso di un corpo sottile tra le sue braccia. La Paura non s’incontrava sul campo di battaglia, ma in un letto di muschio e desideri impossibili.

Rymr(1), così lo chiamava invece lui, perché era sgraziato e rumoroso in tutto, persino mentre riposavano contro il tronco di una quercia secolare, o sdraiati sulle rocce umide delle catacombe, luoghi adatti a mantenere i segreti. Lui non provava la sua stessa Paura, quasi lo derideva, sebbene fosse conscio della colpa di cui si stavano macchiando sembrava felice; dopo tanto tempo, dopo i lontani giorni dell’infanzia, tornava a vederlo felice.

La Paura ricadde su entrambi come un macigno la notte di Samhain e non bastò un drappo rosso a coprire la loro vergogna.

Thor non riusciva a darsi pace. Percorreva le luminose navate del palazzo d’oro come l’animale in gabbia che si sentiva ed era diventato. Erano passate settimane, mesi, probabilmente anni, da quella notte maledetta, la notte in cui tutte le sue paure si erano avverate ed aveva perso tutto, aveva perso lui, che era compagno fratello amore immortale. Alföðr – non riusciva più a chiamarlo Padre – gli aveva strappato anche Mjöllnir, ma era stata una ben misera punizione, non sentiva più l’agone della battaglia, solo lo strazio di un cuore monco. Mille volte aveva maledetto Vör(2) ai cui occhi nemmeno Odino stesso poteva celare il proprio cuore e i propri segreti. Era stata colpa sua, doveva esserlo, perché lui aveva imparato a nascondersi – nasconderli - persino agli occhi instancabili di Heimdallr, ma Thor non aveva mai saputo davvero celare il suo cuore e la venerata, maledetta matrona doveva aver visto. E dunque Odino stesso.

Aveva tentato di proteggerlo, ma non ci era riuscito, nessuno può nulla contro l’ira dell’Alföðr, e Odino ne era accecato: la verde Sigurð era stata quasi completamente rasa al suolo con un solo fendente di Gungnir.

“Me lo hai portato via, era tuo figlio e l’hai chiamato mostro.”
“Ti ho salvato dalla bugia e dalla vergogna. E non osare proprio tu ricordarmi i doveri della famiglia, tu che li hai negati fino all’ultimo!”
“Tu stesso mi ripeti che non è mai stato mio fratello! Quale colpa vuoi far ricadere su di noi se non quella di esserci amati?"
“Taci! Taci, ottuso ragazzo! Vorresti unirti ad un nemico, è questo che affermi?”
“Loki non è un nemico, è uno di noi, è un principe di Ásgarðr! È mio!”
“Thor non una parola di più…”
“Puoi togliermi Mjöllnir, ma non puoi togliermi questo. Userò tutto ciò che è in mio potere per riuscire a ritrovarlo, ovunque tu lo abbia mandato, fosse anche su Jötunheimr stesso!”
“No. Non succederà. Recupererai il senno che ti ha rubato, una nuova avventura basterà come è sempre stato. Quale avventura migliore di una nuova vita?”

Atto II, Intermezzo.

“Kip! Kip non correre, siamo in un ospedale!”

Christopher – Kip – aveva poco più di sei anni e l’energia illimitata di tutti i bambini. Luke di anni ne aveva quasi nove e, dato che era ormai grande, tentava di riprendere il suo esagitato fratellino facendo le veci della mamma che aveva deciso due maschietti non le bastassero: ci voleva anche il terzo.

Chris era estremamente impaziente d’incontrare il nuovo nato, finalmente avrebbe avuto anche lui qualcuno da guardare dall’alto e da accudire, proprio come faceva Luke. Sarebbe stato finalmente un fratello maggiore, sarebbe stato grande: non si era per niente convinto che sarebbe stata la Scuola a fargli salire quel gradino nella gerarchia familiare, nemmeno se glielo aveva raccontato la mamma.

Suo padre gli aveva spiegato più volte che il piccolo Liam non avrebbe potuto giocare con lui, era presto, era ancora troppo piccolo e delicato e avrebbe finito per fargli male. Chris non se ne preoccupava, per lui il tempo non aveva valore, lo contava con i granelli di sabbia della spiaggia di Melbourne, in quelli del deserto di Outback, e in entrambi non vedeva né inizio né fine. Aveva imparato a lanciare sassi ai barattoli con precisione balistica prima ancora di riuscire a pronunciare correttamente il suo nome orribile e lunghissimo. Non erano più a Bulman, purtroppo, ma la mamma voleva che anche Liam nascesse a Melbourne e così erano tornati tutti al sud a soffrire quel caldo soffocante, l’aria sembrava quasi densa e, se si concentrava abbastanza – cosa che succedeva di rado – Chris aveva quasi l’impressione di vederla.

“Dio, com’è possibile faccia tanto caldo anche qui? Eppure c’è odore di ozono nell’aria, strano non ci sia nemmeno una nuvola in cielo.”

Chris non aveva capito nulla di quello che aveva detto il suo papà, ma lui aveva sempre ragione quando guardava il cielo, quindi si fidava di lui. E poi faceva tanto caldo davvero, e c’era uno strano odore nell’aria.

Leonie Hemsworth era adagiata morbidamente su una pila di cuscini bianchissimi, ancora sfinita ma raggiante, quando Craig, Luke e Chris erano entrati in camera. Liam era nato da un solo giorno e sembrava avere sempre fame, si attaccava al seno con una prepotenza inusuale per un bambino tanto piccolo.

Chris era stato il primo a correre da sua madre quando li aveva invitati ad avvicinarsi, non vedeva l’ora di scartare l’involto piccolissimo di teli bianchi che sua madre teneva tra le braccia, si era arrampicato sul letto prima che Craig o Luke riuscissero a trattenerlo, si era lanciato tra le braccia di sua madre per poter avere un posto in prima fila.

Solo che c’era quello strano odore che avvolgeva il piccolo che lo stordiva, ora riusciva a riconoscerlo come l’odore penetrante che si sentiva a volte quando rimanevano a Bulman per la stagione delle piogge, non era spiacevole, ma cominciava a girargli la testa. Liam aveva cominciato a piagnucolare e Leonie l’aveva passato a Graig in fretta, prima di abbracciare Chris.

“Cosa c’è piccolino? Su Chris, non fare quel faccino deluso, ti avevamo detto che il tuo fratellino è ancora troppo piccolo per poter giocare con te.”

Se qualcuno aveva notato l’azzurro innaturalmente brillante che per un attimo aveva illuminato gli occhi di Christopher, lo addusse semplicemente alle lacrime frustrate che comunque si sforzò di non versare.

Atto II, Scena II.

Chris a volte aveva difficoltà a riconoscere il mare in cui si bagnava. Fosse il Mare di Tasmania o quello di Timor, per lui era la stessa cosa: affrontava le onde con la stessa decisione e le cavalcava senza paura, come gli avevano insegnato Luke e suo padre e come lui avrebbe aiutato ad insegnare a Liam. Che era ancora un bimbetto che si destreggiava alla meglio su un tavola cortissima, ma sapeva già il fatto suo.

Erano in luglio, faceva troppo caldo e il paesaggio risplendeva di soli due colori, non si vedeva un grattacielo nemmeno in foto e poteva permettersi di tenere le scarpe nello zaino fino al cortile della scuola, dove era costretto ad infilarsele: amava Bulman proprio per quel motivo, perché l’estate era perenne e il mare a due passi, il terreno sabbioso e liscio e la città abbastanza piccola da poter andare in giro anche da solo. A dodici anni quel tipo di libertà gli sembrava il massimo della felicità, non aveva importanza se doveva portarsi dietro anche Liam. A lui e Luke non dispiaceva, e il moccioso riusciva comunque a stargli dietro e non faceva la spia. Tutti e tre avevano giocato agli esploratori con i bambini dei vicini e i figli degli indigeni che non frequentavano la loro stessa scuola. La tranquillità del posto gli permetteva di potersi allontanare abbastanza da imparare a tirare il boomerang e a lanciare coltelli come professionisti senza che gli adulti dovessero necessariamente saperlo. La ripassata tremenda che lui e Luke si erano presi quando – insieme ai figli dei Thompson e dei Lee – avevano fatto saltare in aria una tana di conigli selvatici, con conseguente esplosione di un mezzo ettaro di terreno fortunatamente non coltivato, non era bastato come deterrente per ulteriori avventure. A pensarci a posteriori, era stato un miracolo fossero tutti arrivati alla pubertà senza aver perso arti o funzioni essenziali.

La pubertà, per Chris, prese il nome di Lynne Anderson che, nonostante il nome, era un’oriunda con i capelli ricci, gli occhi chiari e la pelle color cappuccino; aveva tredici anni e frequentava la sua stessa classe, una delle pochissime figlie di genitori divorziati conoscesse. Lynne era piccola e timida, ma durante la pausa pranzo, mesi prima, aveva tirato le trecce ad una compagna talmente forte che aveva dovuto tagliarsi i capelli: non prendeva bene le offese.

Chris era già il più alto della sua classe e giocava a rugby dopo la scuola e le ragazzine, anche quelle della classe superiore, si davano di gomito quando passava in cortile. Ma Chris non aveva occhi che per Lynne La Selvaggia, quella nuova, quella che non parlava mai ed era talmente strana da essersi iscritta al club femminile di calcio, il club delle sfigate.

Chris aveva passato serate intere a parlarne con sua madre, tentava di farsi dare consigli utili per farsi notare, ed alla fine ci era riuscito: Lyn lo baciò per la prima volta dietro il campo da rugby, dopo gli allenamenti di entrambi i loro club. Erano ancora sudati e sporchi di fango, ma nessuno dei due ci fece caso.

L’ennesimo ritorno a Melbourne fu anche la fine dell’idillio, perché la distanza che li avrebbe separati era davvero troppa, anche per la testardaggine di Chris.

A Melbourne gli spazi erano più angusti e avevano tutti minor autonomia di movimento, ma fortunatamente la spiaggia era sempre a due passi e vivere accanto ai nonni non era male.

Frequentare il liceo non era diverso che stare a casa, visto che sia lui che Luke dividevano lo stesso edificio, diviso da quello che frequentava Liam da un cortile comune.

Quando Luke cominciò a recitare, dopo il liceo, Chris pensò sarebbe stata una buona idea seguire il suo esempio. I suoi risultati scolastici non erano mai stati tanto scandalosi da richiedere interventi da parte dei suoi genitori, ma nemmeno eccellenti. Di sicuro non sarebbe mai riuscito a strappare una borsa di studio nemmeno ad un’università di secondo ordine. Luke non ci aveva nemmeno provato ad essere ammesso, nemmeno sfruttando i suoi meriti sportivi, conosceva i suoi limiti e non aveva intenzione di passare la vita su un campo da football con il rischio di giocarsi una rotula durante la prima partita, e Chris aveva sempre ammirato il suo buonsenso.

Fece il suo primo provino poco dopo il diploma e rimediò un ruolo insignificante in una miniserie insignificante. Ma era pur sempre un primo passo e fece del suo meglio, nonostante il costume idiota che lo faceva sembrare un dodicenne troppo alto, altro che Re Artù.

Dai diciannove ai venticinque anni la vita scivolò così, piuttosto noiosa, anche: riusciva ad accumulare comparsate in show anche molto seguiti, ma mai più di quello. Un po’ come lo stesso Luke, che intanto si era scoraggiato e disperava di poter fare del mestiere d’attore la sua fonte di guadagno. Aveva conosciuto Samantha tramite amici comuni qualche anno prima e da allora erano stati inseparabili, voleva sposarla, dare una marea di nipoti ai loro genitori, vivere in una casa tutta sua. Non erano poi pretese tanto assurde. Ma la parentesi Neighbours(3) non era durata abbastanza da permettergli di sperare in qualcosa di meglio per il futuro ed aveva finito per fare l’unica scelta da adulto potesse concepire. Luke aveva mollato, per amore di Samantha e per la voglia di portarla in quella casetta tranquilla in periferia, con un giardino in cui far giocare i bambini; quel sogno era riuscito a realizzarlo e, nel farlo, aveva indirettamente aiutato anche Chris e Liam nel raggiungimento dei loro scopi: perché qualche operaio in più nella piccola, indaffarata azienda edile che aveva costruito dal nulla potevano sempre tornare utili e gli Hemsworth potevano vantare corpi massicci e forti da generazioni. Nessuno dei due fratelli minori si era dovuto preoccupare di trovare un vero lavoro mentre facevano provini, comparsate, persino qualche ruolo mediamente importante.

Home and Away fu una specie di benedizione. Quando proprio non si aspettava più di avere un lavoro decente come attore. Eppure era successo, era stato scartato per un ruolo, ma richiamato per un altro fatto in sostanza apposta per lui.

A ventun anni non aveva ancora molta voglia di lasciare il nido, ma Sydney in fondo non era così distante da Philip Island, aveva affrontato distanze maggiori quando erano a Bulman: un’ora d’aereo, otto di auto, a lui non dispiaceva guidare da solo nel deserto.

Inizialmente pensava sarebbe stato semplice, era una soap opera in fondo, quanto avrebbero potuto pretendere in termini di verosimiglianza? Il problema era che lui la TV l’aveva sempre guardata troppo poco per rendersi davvero conto del lavoro che aveva scelto più per noia e capriccio che non per autentica passione, quindi non aveva davvero idea di cosa fosse in realtà quello show. I primi mesi furono più duri di quanto avesse previsto e l’idea di tornarsene a casa con la coda tra le gambe e seguire l’esempio di Luke lo aveva sfiorato ben più di una volta. Ma strinse i denti, perché aveva preso una decisione, aveva delle aspirazioni e in un modo o nell’altro sarebbe riuscito a realizzarle, sarebbe diventato famoso, come le star di Hollywood. Un giorno ci sarebbe andato, ad Hollywood.

Il successo del suo personaggio non stupì nessuno, tranne lui stesso: non era tanto il fatto dovesse rimanere in costume da bagno o in canottiera per la maggior parte del tempo, quanto proprio fosse bravo. Kim era un guardaspiagge, per gli Australiani era come dire eroe, perché l’Oceano Indiano è maestoso e ricco di vita, ma soprattutto vita pericolosa. E lui come eroe funzionava bene, soprattutto perché, grande e grosso com’era, sembrava anche avere la dolcezza di un gattino ed ispirava naturalmente fiducia.

Ma non era quella la vita che voleva. Non voleva rimanere in costume da bagno per sempre, lui voleva diventare grande.

Si decise al grande passo poco più di tre anni dopo. Home and Away gli aveva dato fama e riconoscimenti in Australia, ma non era abbastanza. In quei tre anni non era riuscito a trovare quel che aveva Luke con Samantha, suo padre con sua madre; era uscito con abbastanza ragazze da una notte da essere stufo di quella vita, ma allo stesso tempo, la sua storia più duratura non aveva superato lo scoglio dei tre mesi. Jennifer – l’unica ragazza con cui era stato anche per il fatidico quarto mese – era un’assistente di produzione, una schiava in pratica. Dopo il secondo mese Chris aveva timidamente avanzato l’ipotesi potessero anche andare a vivere insieme, ma lei l’aveva guardato come se gli fosse spuntata una seconda testa: quando si erano lasciati senza strascichi e senza piagnistei appena due mesi dopo quella proposta, Jen gli aveva fatto notare proprio quello. Si erano divertiti insieme, era stata una relazione comoda per entrambi, ma lei aveva un lavoro vero, Chris giocava alla roulette russa e gli piaceva farlo, anche. Si buttava a capofitto in ogni cosa, non concepiva le mezze misure, per lui tutto era una sfida, contro se stesso prima di tutto. Jen era bella, piccola come raramente si vede sulle spiagge australiane, e forse lui l’aveva notata proprio per quello stesso motivo, così come era stato per il suo primo bacio e per quasi tutti gli altri che erano seguiti, perchè erano diverse, esotiche e belle, ma bisognava cambiare punto di vista per notarlo: per Chris, Leonie era l’amazzone più bella di tutte e nessuna sarebbe riuscita a prendere il suo posto, non aveva bisogno di una valchiria che non fosse sua madre.

Quando era sbarcato a Los Angeles nell’autunno infuocato del 2007 dopo aver lasciato la tranquillità di un ruolo sicuro e conosciuto, non aveva ben chiaro cosa sarebbe successo, ma non se ne preoccupò eccessivamente. Aveva quasi venticinque anni e si sentiva adulto, si sentiva pronto al grande salto nel vuoto che rappresentava quella città immensa e quell’oceano sconosciuto.

Il clima non era tanto diverso da quello che aveva appena lasciato, anche lì l’estate era perenne, forse un po’ più dolce e meno bagnata rispetto a Bulman. Ma dopo i primi giorni in jet lag, acclimatarsi non fu difficile. Il suo manager gli offrì di occupare la piccola dependance per gli ospiti accanto casa sua ed accettò con sollievo, anche se in cambio era stato poi sostanzialmente costretto ad occuparsi a tempo perso (pieno) dei suoi marmocchi: Ralph e Maggie erano piccoli e fortunatamente meno scalmanati di quanto lo erano stati lui e i suoi fratelli da bambini, ma non per questo davano meno lavoro. Si ritrovò più volte a ringraziare Dio in California non ci fossero alligatori o serpenti velenosi in città, a volte si stupiva i suoi genitori fossero riusciti a rimanere sani di mente con loro tre in quell’habitat terribile e meraviglioso.
Di giorno badava ai bambini e faceva provini che Ralph gli procurava, di notte chiamava i suoi genitori e i suoi fratelli. Luke aveva già una bambina piccola e si atteggiava a padre di famiglia anche via skype, ma non riusciva a non sorridere contento quando vedeva il viso gonfio d’orgoglio di suo fratello: aveva una bella famiglia, era felice, era appagato. Chris non poteva fare a meno di essere felice per lui, anche quando gli dava apposta consigli sbagliati per gestire i mocciosi californiani.

Le cose cominciarono a smuoversi davvero solo l’anno successivo. Fu prima scritturato per una piccola parte, ma il film era talmente importante che gli fregava solo di potervi partecipare: non sarebbe stato il Capitano Kirk, d’accordo, ma anche il suo vecchio era un bel tipo, era un eroe.

Seguirono in rapida successione non uno, ma ben tre film con un badget talmente alto che nemmeno riusciva a contare tutti gli zeri. Erano ruoli di supporto, in qualche caso persino marginali, ma erano finalmente delle grosse produzioni hollywoodiane dove avrebbe avuto l’opportunità di farsi notare.

Riuscì a trasferirsi finalmente in una casa tutta sua giusto in tempo per accogliere Liam, che intanto si era fatto le ossa in TV in Australia e sognava in grande. Il piccolo di casa aveva sempre preteso di bruciare le tappe, ma nessuno aveva mai davvero avuto il coraggio di trattenerlo, nemmeno quando il prezzo era un viaggio intercontinentale.

Chris e Liam si ritrovarono spesso a contendersi lo stesso ruolo, ma nessuno dei due pensava seriamente all’altro come un rivale, semplicemente non erano così che erano cresciuti. Chris era il fratello maggiore e Liam continuava a guardarlo con quel misto di gelosia, orgoglio e soggezione e probabilmente non avrebbe mai smesso.

C’era un ruolo in particolare che li stava facendo disperare, perché lo volevano fortemente entrambi e sembravano essere entrambi perfetti.

Kenneth Branagh era un regista che avevano bazzicato poco anche da spettatori, ma era un nome, il primo grosso nome che capitava a entrambi. Il revival del cinema-comic aveva portato ad investire cifre spropositate in produzioni che – prima di Hugh Jackman o Robert Downey jr., almeno – venivano guardate con una certa sufficienza, e ad entrambi veniva offerto proprio quello: la possibilità di essere un eroe da fumetto, di essere Thor.
Inizialmente fu Chris ad avere la peggio e fu scartato al primo giro. Liam no, ma non sapeva se rallegrarsene o dispiacersi per suo fratello. Si rilassò solo quando Chris gli diede una pacca sulle spalle offrendosi di aiutarlo ad imparare la parte quando, era sicuro, l’avrebbe ottenuta.
La seconda volta che Branagh chiamò, però, non fu per Liam, ma proprio per Chris, perché avevano sfoltito la rosa dei nomi – lo avevano già scelto, in pratica, ma non glielo dissero – e volevano rivederlo per un nuovo provino.
Liam la prese con filosofia, in fondo non era la prima volta Chris lo superasse proprio al photofinish e di sicuro non sarebbe stata l’ultima. Aveva appena vent’anni e tutto il tempo del mondo e gli avevano proposto un nuovo ruolo che già sentiva suo: andava bene anche così. Ma Chris non era convinto di potercela fare a quel punto, se avevano scartato anche Liam voleva dire che avevano cambiato idea sul tipo fisico da cercare, quindi perché perdere tempo? Ne aveva parlato addirittura con Joss(4) durante le riprese del film, ed era stato proprio lo sceneggiatore a tranquillizzarlo, quasi ad imporgli di fare quel provino, perché era sicuro sarebbe andato benissimo, e allora perché no?

Prepararsi per quel nuovo screen test fu più dura del previsto, perché non gli era mai capitato di dover preparare un provino mentre recitava in un altro film. Eppure, in quel 2009 che sembrava correre verso la fine, stava succedendo anche quello. Sua madre era volata a Vancouver dall’Australia per dargli coraggio ed aveva finito per dargli una mano con le scene che gli avevano chiesto di preparare, leggendo le battute di Odino come controparte.
Forse era stato proprio quello l’ulteriore sprone a fargli fare lo scatto successivo perché, tornato a Los Angeles, Branagh non lo lasciò quasi finire lo screen test prima di dirgli che era stato scelto, che lui e solo lui sarebbe stato Thor: era talmente incredulo e felice che avrebbe urlato e abbracciato quel nanerottolo di Branagh – non l’aveva immaginato così basso vedendolo seduto – fino a strizzarlo come un cencio.
Qualcuno alle spalle del regista stava parlando al cellulare, si scusava per via del fuso a quel che poteva sentire, ma Chris non gli badò più di tanto, se anche stesse chiamando un suo rivale per la parte, non gl’importava: era sua, l’aveva spuntata. Lui era Thor.

Branagh, che non ne voleva saper di essere chiamato signore – non sono così vecchio! – o Kenneth – troppo formale -, gli diede un biglietto da visita su cui aveva scritto il suo numero ed il suo indirizzo personale, con una data: lo aspettava per poter parlare meglio del ruolo e per fargli conoscere i suoi compagni di viaggio.

“A proposito, sono felice di annunciarti che Tony è riuscito a liberarsi, sarà lui Odino. Non potevamo sperare di meglio.”
“Tony?”
“Sì, Hopkins! Ti avevamo detto che volevamo lui per il ruolo, no?”

No, non glielo avevano detto e, visto il numero di scene che probabilmente avrebbero avuto in comune, a Chris venne quasi voglia di ridargli il copione, sorridere e dirgli che si erano sbagliati, era stato uno scherzo e poi andarsene per la sua strada.
Ma non lo fece, si limitò a trattenere le urla fino all’arrivo nel suo appartamento, dove telefonò a Liam e gli urlò nella cornetta un Sono io Thor, poppante! che lo aveva liberato sia dall’ansia che dall’adrenalina in eccesso. Liam si era limitato a ridere e rifargli il verso.
Durante il lunghissimo volo da Los Angeles verso Heatrow aveva alternato momenti di estatica soddisfazione a scoramenti abissali, più leggeva il copione accostando i nomi dei protagonisti agli interpreti, più si sentiva un ragazzino senza speranze: che era saltato in mente a quelli della Marvel? Mica potevano essere tutti Hugh Jackman e tener testa al Sir(5) di turno!
Nemmeno i nomi – il nome – sconosciuto del suo co-protagonista riusciva a tranquillizzarlo, perché Ken gliene aveva parlato, qualcuno gli aveva fatto l’elenco dei ruoli che aveva interpretato e dei premi vinti perché vuoi mettere, altro che fumettone, avrebbero avuto tre ex-studenti RADA sul set!
Dalla foto microscopica che aveva a disposizione, non riusciva nemmeno a capire bene come guardarlo, perché sembrava un ragazzino, ma era anche più grande di lui. E come se non bastasse era laureato a Cambridge, aveva frequentato Eton, cos’altro? Un fighetto con la faccetta pulita, perfetto. Chris non aveva un buon presentimento.

Arrivare a Sunningdale fu meno problematico di quanto avesse pensato, perché Ken aveva organizzato le cose per bene ed aveva mandato qualcuno a prenderlo in aeroporto. Qualcuno che non sembrava avere fretta e scelse la strada panoramica per mostrargli la campagna inglese, senza badare al fatto il cielo fosse plumbeo e la nebbia nella brughiera poteva essere tagliata con un coltello. Chris continuava a non avere un buon presentimento.

La tenuta di Branagh era più appariscente di quanto si fosse aspettato, ma era pur vero lui non avesse avuto la minima idea di come fosse la campagna inglese fino ad un’ora prima. In realtà ancora non aveva ben presente come fosse visto il tempo di merda, di sicuro era umida e fredda, troppo fredda per i suoi gusti.
Ken gli aprì i cancelli vestito come se attendesse nobili a cena e nemmeno quello si era aspettato: ripassò mentalmente il suo abbigliamento e il contenuto della sua valigia e sperò la terra lo inghiottisse.

“Chris, benvenuto! Tutto bene il volo? Sono contento, vieni dentro che ricomincerà a piovere sicuramente, non badare a come sono vestito, ho un appuntamento dell’ultimo momento al Royal questa sera e non posso mancare.”
“Grazie, sì, beh, se sei occupato posso trovare un albergo o…” Inizio promettentissimo, ma che bello.
“Sciocchezze, ho già fatto preparare una stanza per te ed una per Tom, le prossime settimane saranno pienissime e non voglio perdere ulteriormente tempo.”
“Tom? Hiddleston intendi?” Ma così, a bruciapelo?
“Sì, lui. È arrivato stamattina, ha già avuto modo di ambientarsi, quindi ti farà da cicerone in mia assenza, spero non ti dispiaccia. Per qualunque problema, c’è Terry a disposizione.”
“Ma assolutamente no.” Ma assolutamente sì!

Hiddleston li stava aspettando in biblioteca, ovviamente, e dove potevi trovarlo un tipo come quello? Chris perse la scommessa contro se stesso perché non lo trovarono a leggere né il copione né uno dei vecchi tomi sugli scaffali, ma a bere il tè con la signora Branagh: e se non era uno stereotipo quello non sapeva cosa lo fosse.

Gli avevano detto fosse stato anche lui in lizza per il ruolo di Thor, ma a guardarlo bene non è che ne capisse il motivo. Era molto alto, d’accordo, ed era biondo con gli occhi azzurri. O verdi, boh. Comunque a parte i colori non c’era nulla potesse accostarlo al personaggio di Thor, perché era magro come un chiodo e sembrava un ragazzino con quei riccioli incasinati sulla testa.
Ken li aveva presentati in fretta e si erano stretti la mano meccanicamente, era sfinito per il viaggio e il jat lag cominciava a farsi sentire e la battuta sul fatto fosse tornato quasi al giorno prima di Hiddleston, mica l’aveva capita. Branagh aveva riso però, quindi magari un sorriso conveniva farlo. Erano rimasti seduti in salotto a chiacchierare e prendere il tè – caffè per lui: tutto, ma il tè no – per quasi mezz’ora prima che i padroni di casa guardassero l’orologio e li salutassero per tornare a Londra.
Ken aveva preso la sua graziosa, paffuta signora sottobraccio e li aveva incoraggiati a continuare a chiacchierare, voleva si conoscessero meglio, se avessero avuto bisogno di qualunque cosa potevano chiedere a Terry, l’aveva già detto, giusto? Terry poteva risolvere qualunque problema si fosse presentato, non dovevano aver timore di chiedere.

Così erano rimasti soli in biblioteca. Fuori era già buio e pioveva a dirotto ormai, ma in casa si stava bene, per la prima volta in vita sua vedeva un caminetto in funzione che non servisse ad arrostire salsicce e l’idea non gli dispiaceva, vivere al freddo aveva i suoi vantaggi.
Hiddleston aveva cominciato a chiacchierare appena la porta d’ingresso si era richiusa, gli chiese del viaggio, dell’America, era stato anche lui a Los Angeles, ma per poco, per i provini, lui ci viveva quindi? Era australiano però, vero? Non era mai stato in Australia, ma gli piacerebbe tanto, com’era l’Australia?

“Cavolo, con calma, ma quanto chiacchieri?”

Chris non aveva inteso essere scortese, ma era stanco, frustrato e il non riuscire a sovrapporre il tipo di cui gli avevano parlato e di cui aveva letto con quel ragazzino iperattivo che lo bombardava di domande, lo snervava.
Hiddleston si era zittito di colpo ed era rimasto un attimo immobile prima di tentare di ricomporsi e nascondere il rossore con una risatina nervosa.

“Scusa, hai ragione, me lo dicono tutti che parlo troppo, mi dispiace.”

Erano rimasti seduti in silenzio per un po’, senza osare nemmeno muoversi, imbarazzati ed improvvisamente a disagio nella loro stessa pelle. Almeno, Chris si sentiva profondamente fuori posto. Che ci faceva in quel salotto elegante con le pareti coperte di libri, il tè e i pasticcini sul tavolinetto e un inglese con un pedigree di classe che sembrava pure sforzarsi di andargli a genio? Quello non era il suo mondo, chissà se lo sarebbe mai stato.

Non era un maleducato però, e non era stato molto gentile con il suo futuro collega. In un maldestro tentativo di chiedere scusa, gli versò dell’altro tè nella tazza prima di prendersi dell’altro caffè.
Tom di solito nel tè ci metteva prima un goccio di latte, ma questo Chris non poteva saperlo, quindi rimase zitto ed accettò l’offerta di pace anche con gratitudine.
Chris bevve il suo caffè sempre in silenzio ascoltando il crepitio della legna che bruciava nel caminetto, a quel punto gli dispiaceva aver interrotto Hiddleston, almeno riempiva i silenzi.

“Riesci a crederci che siamo qui?”

Chris rimase per un attimo sconcertato. Si voltò a guardare il suo interlocutore aspettandosi un sorrisetto di scherno, magari, qualunque cosa, non lo sguardo serio, leggermente intimorito che gli veniva rivolto. Non ci aveva pensato, ma erano sulla stessa barca entrambi: quello era il primo grosso ruolo per entrambi, la prima grandissima occasione della vita.
E avevano praticamente la stessa età, in fondo erano due ragazzini in quel mondo complicatissimo e sconosciuto che era il cinema.

“No, è tutto incredibile.”

Hiddleston, Tom, gli aveva sorriso senza smettere di guardarlo, finchè non erano scoppiati a ridere entrambi, troppo felici e spaventati e sbalorditi.
Quando si erano ripresi, Tom si era offerto di chiamare Terry e di aiutarlo a sistemarsi in camera.

“Domani non dovrebbe piovere, che ne dici di andare a fare jogging nel parco? La casa ne ha uno immenso.”

Sì, andare a correre era davvero un’ottima idea.








Note:

(1) Björn, Rymr: entrambi nomi con i quali veniva definito Thor in norse antico, sono rispettivamente Orso e Rumore.
(2) Dea del pantheon norreno associata al raziocinio e al giudizio, poteva vedere nel cuore degli uomini e scorgerne i segreti.
(3) Soap opera australiana di grande successo al pari di Home and Away.
(4) Ovviamente il nostro amato Joss Whedon, co-sceneggiatore e co-produttore di The Cabin in the woods in cui recita Patato Hemsworth.
(5) Sir Ian McKellan a.k.a. Magneto! Hopkins e McKellan hanno in comune il titolo onorifico.

   
 
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