Bentrovati al secondo capitolo. Più vado avanti e più mi rendo conto di quanto sia articolata questa scrittura (escludendo tutti i sinonimi di 'sguardo' che devo inventarmi XD). Questo mi porta a dover rimaneggiare alcune frasi per renderle comprensibili e credibili in italiano, ed è questo che mi porta via tanto tempo.
I capitoli sono diventati 6. Non vedo l'ora di arrivare in fondo.
Buona lettura!
***
John
Watson arrivò al dipartimento di investigazione criminale la mattina
successiva, mani in tasca e colletto della giacca sollevato sul retro del collo
a combattere il freddo. Era vestito bene e sfoggiava la sua solita postura
militare, ma la sonnolenza nei suoi occhi tardiva la stanchezza. Sally Donovan
attendeva di incontrarlo all’accettazione; le sorrise quando la vide, più che
altro per cortesia. Non erano mai stati grandi amici.
Sally
gli rifilò un altro sorriso di rimando. “Il detective ispettore Lestrade mi ha
detto di condurti nel suo ufficio,” disse, scortandolo attraverso l’edificio.
John la seguì, ma avrebbe potuto percorrere la strada a memoria. Si guardò
intorno così spesso da catalogare ogni dettaglio che era cambiato. “Hai tirato
fuori qualcosa di utile da Holmes?”
Il
sorriso di John vacillò. “Niente di concreto,” ammise e Sally si sentì
egoisticamente vendicata. Tentò di scacciare quel pensiero, c’erano traguardi
più grandi da raggiungere dinanzi a loro, ma era difficile non trarre piacere
dal fatto che Holmes non era così utile come tutti solevano credere.
“Lestrade
sembra pensare che quell’omicida ci aiuterà,” disse e si protese per premere il
pulsante dell’ascensore. John attese pazientemente al suo fianco, mantenendo la
sua espressione auto-protettiva mentre lei proseguiva. “Credo che stiamo
perdendo tempo. A Holmes piace guardaci correre intorno facendo ciò che ci
dice. Lo trova divertente. Siamo insetti per lui, John.”
John
la giudicò con attenzione, poi si guardò i piedi. “Ricordo di averti sentito
dire le stesse cose quando ancora lavoravamo con lui.”
Sally
sussultò interiormente a quella memoria. “Tutti mi hanno dato della paranoica.
So di aver dato quell’impressione, ma anche quando si è rivelato vero, non sono
riuscita a dire ‘ve l’avevo detto’.”
Specialmente
non al corpo spezzato che era andata a trovare in ospedale, con le interiora
maciullate e gli occhi tristi. John aveva sicuramente ottenuto il peggio da
quel tradimento. Il volto di lei arrossì e non proseguì oltre quella
conversazione. John non insistette. Non aveva il desiderio di ripensare a quei
fatti più di quanto non ne avesse lei.
Trascorsero
il tempo in ascensore in un silenzio teso.
***
Per
la prima volta, John si ritrovò nel mezzo del dipartimento di investigazione
non come poliziotto, ma come testimone. La nostalgica familiarità che avvertì
nell’essere tornato nel luogo in cui aveva lavorato per anni lo scosse. Lo
condusse al limite. Inoltre, non era stato completamente se stesso dai giorni
del Berkshire e gli inquietanti sorrisi di Sherlock.
Era
seduto nell’ufficio di Greg mentre l’ispettore sfogliava le sue trascrizioni
della conversazione con Sherlock, la sua emozione iniziale all’arrivo di John
si stava lentamente smorzando in frustrazione. Era scoraggiante guardarlo
arrivare alle stesse conclusioni a cui era giunto John a causa dell’ambiguità
delle risposte di Sherlock.
Alla
fine, Greg lasciò cadere i fogli sul tavolo e si riappoggiò allo schienale con
espressione corrucciata. “Solitamente non è così criptico,” sospirò. “In genere
non vede l’ora di dirti cosa sa realmente.”
John
annuì. La sua postura era eretta, suo malgrado apprensiva. “Non so cosa
farmene. Ha detto molte cose, ma sono tutti indovinelli.” John fece una pausa
significativa e si inumidì le labbra. “Potrebbe sapere più di quanto ci dica.”
Greg
si grattò la testa, gli occhi stretti a fessure. “Come se il killer stesse
comunicando con lui?”
“Lo
lascia intendere.”
John
non aveva idea di cosa l’omicida potesse usare per comunicare e, data
l’espressione di Greg, nemmeno lui.
Cambiarono velocemente argomento.
“E
ha detto qualcosa a proposito delle conoscenze informatiche delle vittime.”
John dovette tirare verso di sé gli appunti, rileggerli e ricordarsi le esatte
parole.
“Qualcosa
a proposito delle loro dita suggerisce che non erano persone molto
tecnologiche. Non so come l’abbia capito, ma potrebbe essere un collegamento o
un motivo per cui il killer ha scelto loro. Abbiamo i loro computer?”
Greg
annuì, riacquistando la carica. “Abbiamo accesso a tutto. Cosa devo dire alla
scientifica di cercare?”
“Procurati
una lista di somiglianze tra loro.” John si sentì tornare indietro al suo ruolo
di poliziotto. Qualcosa avrebbe potuto saltar fuori. “Dev’esserci un punto
d’incontro.”
“Bene,”
concordò Greg. Si piegò in avanti con ansia. “Così puoi portare l’elenco a
Holmes.”
La
testa di John si sollevò così in fretta che Greg reagì come se avesse sentito
lo schiocco di una frusta. “Cosa?”
“Beh,”
iniziò Greg, sorpreso. “Ci ha dato una nuova direzione da seguire. Forse
potrebbe dirci di più.”
“Non
sappiamo nemmeno se questa sia una
direzione,” protestò John, il panico aveva preso il sopravvento sul suo primo
istinto di cordialità. “Non sappiamo nemmeno se sia davvero dalla nostra parte.
Non tornerò là a meno che io non debba.”
I
grandi occhi castani di Lestrade guizzarono su John, la bocca si mosse senza
produrre alcun suono prima di piegare la testa ed evitare lo sguardo di John.
“Giusto. Mi dispiace.”
John
si appoggiò all’indietro, producendo un sospiro quasi impercettibile. “Non
voglio fare il difficile. Ma non sono… pronto. Mentalmente, intendo.”
L’ossessione
di Sherlock per lui era evidente e preoccupante. John non aveva idea di come
avesse potuto non notarla prima, dato che avevano lavorato insieme, alcune
volte da soli e appartati riversando l’attenzione sulle prove, durante molti
casi difficili. Lo Sherlock che aveva conosciuto in prigione gli aveva
richiesto ogni grammo del suo coraggio per restare calmo in sua presenza mentre
l’interno del suo corpo lo tradiva, il cuore batteva troppo velocemente e la
pelle iniziava a sudare.
“Capisco,”
disse Greg, anche se non ne aveva idea. John accettò, comunque, grato per il
tentativo di comprensione. La sua cicatrice iniziò a prudere attraverso
l’addome.
Greg
aveva fatto del suo meglio, dopo tutto. La sera prima, John aveva chiamato Greg
appena sceso dal treno dal Berkshire che lo aveva portato a casa, e aveva
raccontato cos’era accaduto in maniera cautamente sobria. Si sentiva
prosciugato fino alle ossa dopo un così lungo periodo in compagnia di Sherlock,
e Greg, cogliendo la tensione nella sua voce, non aveva fatto altro che
ordinargli di andare a dormire e lasciare il resoconto per il giorno dopo.
Queste
persone erano dalla parte di John. Lavoravano assieme, cercando di catturare
quel maniaco.
“Se
hai bisogno che lo consulti, allora andrò,” si offrì John. “Ma sto parlando di
ultima spiaggia.”
“Bene,”
disse Greg. “No, grande, John. Sei già stato d’estremo aiuto.” Il suo tono di
voce era molto sincero. Si alzarono entrambi e si strinsero la mano, Greg lo
fece con cautela come temendo di spezzare il metacarpo di John. “Ti serve
qualcuno che ti accompagni fuori?”
“Me
la caverò,” lo rassicurò John, stringendo fermamente la mano di Greg e poi
lasciandola. “Tienimi aggiornato.”
“Certamente.”
Greg fece balenare un sorriso che metteva in luce la speranza di nuove prove e
uscì a grandi passi dall’ufficio per dare istruzioni alla sua squadra. John lo
seguì con qualcosa che sembrava attenzione e cercò di tenere la testa bassa
finché non si fosse allontanato. Voleva tornare a casa, sdraiarsi, e lavorare
alla sua nuova storia.
Stava
indossando la giacca quando una grande mano gli afferrò la spalla. Era il
detective ispettore capo Toby Gregson, con un luccichio amichevole negli occhi.
L’appena promosso detective ispettore capo Gregson era un uomo alto, solido,
con una forte personalità che John aveva visto mutare da affabile con i
testimoni a estremamente intimidatoria con i sospettati. In quel momento era
piacevole.
Forse
era un’opinione azzardata, ma John sentì di essere finito in trappola.
“John,”
disse Toby gioviale, come se si fossero incontrati per caso in un pub. “È bello
vederti, come stai?”
“Bene,”
rispose John con un sorriso fugace. “Sto bene. Riposo.”
Toby
si guardò attorno fugacemente per accertarsi che la sua squadra stesse
lavorano, poi ricambiò il sorriso di John. “Perché non vieni a chiacchierare un
po’ con me nel mio ufficio?”
John
aveva una vaga idea di ciò di cui voleva parlare. “Sono un po’ occupato,
veramente…” mentì.
“Cinque
minuti,” promise Toby, e ignorando ogni protesta guidò John in un ufficio ben illuminato con grandi finestre
e modernamente ammobiliato.
“Senti,”
disse John, dopo esser stato letteralmente spinto su una sedia e una tazza gli
fu messa tra le mani. “So cosa intendi dirmi e non sono interessato.”
Toby
si sedette di fronte a lui e bevve un sorso del proprio tè. Non offese
l’intelligenza di John e andò dritto al punto. “Potrei farcela se un agente
esperto come te tornasse con noi, John. Tutti noi potremmo farcela.”
John
scosse la testa e posò cautamente la tazza su un piattino. “Non avete bisogno
di me. Non sono più di alcuna utilità alla polizia.”
“E
se fossi io a decidere cos’è utile e cosa non lo è?” Gentile, ma salda
pressione. Era come una leggera spinta sulla spina dorsale per farlo muovere
nella giusta direzione. Toby aveva una voce così placida mentre diceva alle
persone cosa dovevano fare. “Non ho mai avuto un uomo come te, John. Il modo in
cui hai gestito la cosa di Holmes, ieri…” Toby in interruppe per emettere un
basso fischio. “Vorrei essere stato lì.”
John
non aveva gestito Sherlock, Al contrario, la loro conversazione si era svolta
unicamente secondo le regole di Sherlock. “Mi piace la vita che conduco ora,”
disse con fermezza, nel tentativo di portare la conversazione a una
conclusione. “L’ultimo caso in cui ero coinvolto mi ha quasi ucciso. Non voglio
passarci di nuovo, questa volta.”
“A
me sembri stare bene,” disse Toby in tono ragionevole. “Sono quasi cinque
anni.”
“Io
sto bene,” rispose John un po’ troppo sulla difensiva. Fissò il tè che si
raffreddava, le guance arrossate.
“Allora
dovresti tornare a fare ciò in cui sei più bravo.” Toby si appoggiò allo
schienale della sedia producendo uno scricchiolio, sistemandosi il risvolto
della giacca con il pollice. “Ci sono vie, nella Polizia Metropolitana, che
potrebbero permetterti di tornare al lavoro facilmente, e con grandi benefici.
Non devi fare nulla, mi occuperò di tutto io. Solo, fai a tutti un favore e
lavora a questo caso per noi.”
John
esitò prima di rispondere e Toby parlò di nuovo.
“Abbiamo
due giorni prima che la prossima ragazza muoia, John.” Era tutto fuorché
contento. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.”
Le
foto balenarono nella mente di John in
forma di tagli sanguinanti e trasalì. Nel profondo, qualcosa dentro di lui
stava pregando, supplicando di lasciarlo in pace, di andarsene adesso e
riprendersi prima che qualcosa, nella sua mente, si rompesse a causa di tutta
quella tensione.
Ma
se John poteva davvero fare qualcosa per questi omicidi…
Inghiottì
la sua stessa paura e incontrò lo sguardo inflessibile di Toby. “Va bene,”
disse. “Ma ho bisogno di velocizzare le cose. Devo vedere la scena del crimini
con i miei occhi.”
“Certo.”
Toby sembrava sollevato. “Dirò a Lestrade di portartici. Per qualunque cosa,
John, bussa alla mia porta.”
***
Ogni
volta che Sherlock veniva legato, per permettere la pulizia della stanza, il
dottor Culverton Smith appariva e cercava di ottenere una reazione da lui. O,
come gli faceva piacere dire, “psicoanalizzarlo’. Quell’uomo era ridicolmente
semplicistico. Sherlock compativa l’intero sistema della salute mentale se un
uomo come quello ricopriva una tale carica in un ospedale psichiatrico.
Culverton
portò con sé delle lettere per Sherlock, da una larga varietà che alcuni noiosi
idioti credevano essere unica, o che i giornalisti cercavano per mettere su una
storia.
“Ci
sono molte signore impazzite che ti mandano lettere, Sherlock,” rimarcò
Culverton, sedendosi sul suo cappotto e sfogliandole con gesti pomposi.
“Credono di poterti cambiare. In cosa? Un vegetariano?” Rise alla propria
stupida battuta.
Sherlock
non rispondeva mai ai suoi ammiratori. Tutte le lettere sembravano fondersi
l’una con l’altra, dopo un po’ di tempo, ma le leggeva comunque quando era
annoiato. La bocca iniziava a dolergli, per cui tese la mandibola contro la
maschera, simile a una museruola, che gli teneva i denti lontani dalla faccia
di chiunque, imitando uno sbadiglio, poi fece schioccare i denti. Il suono fece
fare un salto a Dimmock, che asciugava il pavimento di fronte a lui.
“Eppure,”
commentò Culverton con un ghigno furbo. “Non sono esattamente le donne a
stuzzicarti, non è così Sherlock?”
Ovvio.
Tipico di Culverton. Prendere una reazione isolata ed applicarla all’intero
genere. L’umore di Sherlock, già non dei migliori, virò a pessimo alla presenza
di tale idiozia.
“La
conoscono tutti, sai,” continuò Culverton. Sherlock desiderò poter voltare la
testa. “La tua ossessione per quel
piccolo ex poliziotto. Ero così ansioso di conoscerlo, ma è davvero così
ordinario, anche se un po’ a pezzi. Non sono sicuro del fascino, per quanto mi
riguarda.”
Lo
disse come se costituisse un insulto per Sherlock e attese una reazione che
Sherlock non gli avrebbe offerto. In verità, Sherlock si sarebbe sentito più
offeso se a Culverton fosse piaciuto John
Watson.
“Qualcuno
ha fatto delle analisi sulla tua strana cotta. Ci sono stati degli articoli.”
Suonava
leggermente geloso, e Sherlock sapeva esattamente il perché. “Il tuo libro è
stato rifiutato da un altro editore,” disse in tono piatto e Culverton prima
sussultò per la risposta, ma poi la sua espressione tornò di pietra.
“Non
lo sarebbe stato se tu ti aprissi un po’ con me,” scattò.
Sherlock
sospirò, deluso. “Non ho alcun interesse nel fornirti altra credibilità o
denaro.”
Il
personale continuava a pulire, tenendo fermamente le teste basse contro
l’atmosfera pungente della stanza.
Poi
Culverton, il suo sguardo fisso su Sherlock, si chinò e afferrò deliberatamente
la foto di John che Sherlock custodiva. Sherlock si lanciò contro di lui, ma
non riuscì a muoversi di un centimetro a cause delle costrizioni. Ciò fece
ghignare Culverton.
“Spero
che gli darai una bella occhiata quando verrà a visitarti, dottor Holmes,” lo schernì
Culverton. “Terrò questa con me.”
E
il pessimo umore di Sherlock diventò omicida.
***
A
metà strada tra la macchinetta del caffè e il suo ufficio, con una tazza di
forte caffè nero, Greg fu fermato dalla larga mano del detective ispettore capo
Toby Gregson che si serrò sulla sua spalla.
“Lestrade.
Ho bisogno che porti John Watson sulle scene del crimine,” disse Toby, con un
preoccupante luccichio di determinazione negli occhi. Accennò oltre la sua
spalla, dove John sedeva nel suo ufficio, guardando assente fuori dalla
finestra e muovendosi appena per respirare. Come se fosse stato legato alla
sedia da prigioniero e si fosse stancamente rassegnato al suo destino.
Greg
aggrottò le sopracciglia e si raddrizzò un poco. Non era sicuro che fosse una
buona idea e un sentimento strisciante, sgradevolmente simile al senso di
colpa, gli attanagliò lo stomaco. “John lavora al caso?”
Toby
annuì. Sembrava, Greg non poté fare a mano di notarlo, soddisfatto di se
stesso.
“Come
accidenti hai fatto a convincerlo a farlo?” La voce di Greg assomigliava a una
risata inquieta. “Quando abbiamo parlato sembrava essere sul punto di correre
fuori dall’edificio.”
Toby
scrollò le spalle con leggerezza. Era sempre stato bravo a persuadere le
persone. “Ricorda solo questo, Lestrade,” disse serio, scrutando Greg da sotto
la fronte bassa. “Il coinvolgimento di Watson è molto importante per
quest’investigazione, quindi cerca di non spaventarlo. Lascia che sia lui a
fare le cose.”
Greg
strinse gli occhi. “Importante?” chiese, Toby continuò a guardarlo impaziente.
“Oh,
sì. Essenziale.” Toby sollevò un sopracciglio. “Ricorda, se abbiamo Watson
abbiamo anche l’accesso a qualcuno di molto utile.”
Greg
deglutì con amarezza e represse un brivido. “Sherlock Holmes,” disse, riluttante.
“Sherlock Holmes.” Toby
lo disse con soddisfazione. Gli assestò un’altra manata sulla spalla, il palmo
caldo contro la stoffa della giacca, e gli lanciò un’occhiata penetrante.
“Tieni John con noi, Lestrade, non importa come. Ora vai.”
***
Fu
un viaggio tranquillo in direzione sud, verso Guildford, umido e piovigginoso.
Greg
guidava, picchiettando spesso le dita sul volante, come se stesse battendo un
ritmo di musica. Occasionalmente gettava occhiate incuriosite al suo
passeggero, che aveva iniziato la giornata vigile e pronto ad aiutare, ma che
adesso sembrava parecchio pallido. John era chiuso in se stesso sin dalla prima
scena del crimine.
John
passò la maggior parte del viaggio a guardare fuori dal finestrino le distese
di grigio, gli occhi che guizzavano sopra l’asfalto, il cielo, le nuvole, il
luccichio dell’auto grigia di Lestrade. La pioggia, che batteva pesantemente
sul parabrezza, aveva un effetto soporifero sul suo umore. Si concentrò sui
rivoli di pioggia che si allargavano come ragnatele nel tentativo di
dimenticare gli schizzi rossi che avevano macchiato le pareti dell’appartamento
a Londra.
Non
era il pensiero giusto. Proprio di fronte agli occhi di John c’era uno schizzo
di pioggia che aveva colpito il vetro, e tutto ciò che John poté vedere fu un
corpo bagnato di sangue stampato su una carta da parati, poi l’immagine di una
giovane donna macellata. Trasse un respiro profondo e scacciò un brivido
fissando lo sguardo sulle proprie mani. Greg lo stava guardando preoccupato.
“Stai
bene?”
John
strinse le mani a pugno finché non sentì male alle braccia. “Quand’è che sono
diventato così molle?” chiese, per metà ridendo, per metà attraverso i denti
stretti.
Gli
occhi di Greg erano dolci e comprensivi, o almeno tentavano di capire. Avrebbe
dovuto prestare più attenzione alla strada. “Sei stato lontano dal lavoro per
molto tempo,” disse con ragionevolezza. “E hai visto più di quanto altri uomini
hanno fatto.”
John
annuì, sfregando un pollice sulla pelle secca del dorso della mano. Non
sembrava convinto.
“Vuoi
ascoltare un po’ di musica?” domandò Greg in tono più gioviale, ma John scosse
la testa.
“Non
sono molto in vena.” Ammiccò in direzione di Greg. “Voglio dire, puoi
ascoltarla se vuoi – ”
“No,
va bene così.” Greg sorrise educatamente, anche se non riuscì a nascondere la
preoccupazione nei suoi occhi. Dopo alcuni minuti tesi parlò di nuovo.
“Ascolta, John. È davvero grandioso, sai. Tu, quello che stai facendo.”
John
chinò di nuovo il capo. “Beh,” disse, con un colpo di tosse. “Se ho il potere
di aiutare…”
“Mi
sento male, alle volte. So che ci siamo persi di vista dopo che ti sei
ritirato, e non voglio che tu pensi che ti stia usando –”
“Greg,”
disse John stancamente, a voce bassa. “Va tutto bene.”
La
pioggia si stava facendo più fitta e il cielo più nero quando smontarono per
andare verso l’appartamento della seconda vittima. Greg aveva un ombrello,
quindi scese per primo e lo aprì prima di andare dal lato di John. Riuscirono
ad arrivare all’interno quasi asciutti.
“Chiavi?”
chiese John, sembrando leggermente agitato, e Greg gli sventolò davanti la
cartellina con un ghigno.
La
vittima viveva al secondo piano, salirono le scale assieme. Era un bel
condominio, pensò John. Spazioso. Soffitti alti.
“Credi
che faccia parte del metodo del killer?” chiese John mentre Greg perdeva tempo
col lucchetto. “Entrambi gli omicidi sono avvenuti nelle case delle vittime.”
“E
quindi?” Greg si bloccò, le mani sulla maniglia.
John
agitò la cartellina nelle sue mani e si leccò le labbra secche. “Forse,”
suggerì, “c’è qualcosa, nel suo metodo, che fa sì che possa colpire le sue
vittime solo quando si trovano in casa.”
Greg
annuì seccamente. “Sì, forse,” disse, la bocca leggermente aperta. “È questo
che ha detto Sherlock?”
A
quel nome, John represse un sussulto. Dio, stava diventando patetico. “Ha
menzionato qualcosa in merito ai computer, ricordi?”
“Giusto.”
Greg tornò a guardare la porta, poi nuovamente John, con cautela. “È lo stesso
dell’altra volta. Polizia e scientifica sono già state qui e hanno preso tutto
ciò che serviva loro. Se non ti sentirai a tuo agio –”
“Starò
bene,” disse John, leggermente brusco. Era infermo sulle gambe e si sentiva già
sul punto di non farcela. Con un brivido, nonostante il calore dell’atrio, John
spinse le mani nelle tasche.
Greg
lo squadrò, poi inclinò la testa e aprì la porta dell’appartamento.
Le
luci erano spente, la stanza immersa nelle tenebre. Le loro ombre si
proiettavano sul tappeto grazie alla luce del corridoio, sopra a una pedana con
un incontaminato miscuglio di scarponi invernali, scarpe da ginnastica e con i
tacchi. C’era un cappotto di un grigio tenue appeso dietro alla porta, una
delicata ragnatela si tendeva dal morbido polsino fino alla carta da parati
stampata. John avvertì un tuffo al cuore e si protese in avanti, distruggendo
il filo col tocco del suo indice e accarezzando gentilmente la pelliccia.
Dietro di lui, Greg lottava contro il fascio di luce tremolante della torcia.
“Dove
sono i maledetti interruttori…”
Si
udì un click e la stanza fu inondata di luce. Greg richiuse la porta dietro di
loro e John indietreggiò, guardandosi attorno. Era un bell’appartamento, forse
un po’ disordinato. La porta di fronte si apriva nell’area pranzo la quale era
collegata a una cucina con i piatti ancora impilati nel lavello. C’era un
divano imbarcato, un tavolino da caffè di fronte alla televisione, con i cerchi
lasciati dalle tazze su tutta la superficie, un paio di riviste di gossip.
Aveva ricoperto i davanzali con ornamenti.
“Da
questa parte,” disse Greg, una mano sulla spalla di John.
“Aspetta,”
disse John. “Ricordami, a che ora è stata uccisa?”
“Uuh…”
Greg sfogliò il fascicolo. “Il patologo fissa l’ora della morte alle 7 e mezza
di sera.”
Un
orario inusuale per uno strano omicidio, pensò John, ma poi ricordò che niente,
in quel caso, era normale. Lei aveva appena finito la cena. Probabilmente si stava
rilassando guardando la televisione o altro. Quindi, perché era stata uccisa
nella camera da letto? Aveva provato a fuggire dal suo aggressore? Mentre Greg
gli faceva strada, John eliminò mentalmente quell’opzione. La porta era intatta
e non aveva segni di forzatura.
Greg
spalancò la porta e John su assalito nuovamente dalla visione di schizzi rossi
sulle pareti, il pavimento e la trapunta sgualcita, come un tipo di arte
astratta particolarmente morboso. Batté le palpebre, già stanco, e compì un
passo all’interno.
“Le
ha preso i reni,” stava dicendo Greg mentre procedeva verso la sagoma di nastro
bianco dove il corpo era stato trovato sventrato, riverso sul materasso. “Solo
dopo averla pugnalata diverse volte con uno dei suoi coltelli da cucina.
L’abbiamo trovato la prima volta in cui siamo entrati nell’appartamento.
L’aveva riposto nel ceppo dei coltelli.” Greg deglutì faticosamente, ricordando
quella particolare sorpresa. “Nessuna impronta, ovviamente, ma il metodo di
esecuzione di quest’uomo prevede che non lasci quasi nessuna traccia dietro di
sé.”
Come
l’impronta di scarpa parziale, taglia 43, nel sangue sul pavimento. John annotò
sul fascicolo del caso tutti i dettagli che individuava a mano a mano che si
addentrava nella piccola stanza, aggirando attentamente il sangue spanto. Greg
sfogliò alcune pagine dietro di lui.
“È
stata trovata il giorno dopo da un amico a cui non aveva risposto al telefono e
quando siamo arrivati abbiamo riconosciuto subito le somiglianze con il caso di
Holmes.” Greg inspirò lentamente e scosse la testa. “Quel momento di
realizzazione è stato terrificante.”
John
lanciò un’occhiata al luogo dove il computer portatile della ragazza era stato appoggiato
sul tavolo nell’angolo della stanza, prima che la scientifica lo portasse via
per analizzarlo. La sedia era stata tirata indietro. Andò più vicino, come
attirato da quello spazio, con la strana sensazione di stare evitando qualcosa
di estremamente importante. Lo stuzzicava da un margine della sua mente come un
movimento colto con la coda dell’occhio. Visibile, tuttavia completamente
indistinguibile.
Greg
lo guardò. “Ti sei fatto una buona idea delle scene, dunque?” domandò.
“Sì,”
disse John lentamente. Strinse forte i pugni e fissò lo sguardo tra il tavolo
vuoto e il letto macchiato di sangue.
***
Quella
notte, dopo che Greg l’ebbe portato a casa, John non dormì. Fissava il
soffitto, le membra flosce, la mente al lavoro mentre ripassava tutto ciò che
sapeva sul caso, le prove, ma soprattutto le vittime. Il cuore di John piangeva
per loro. Sapeva che passare troppo tempo a compiangere le vittime, invece che
focalizzarsi a riordinare la confusione, non era una buona pratica. Come
poliziotto, questa era una delle cose che gli facevano odiare di più la sua
etica professionale. Il fatto era che risultava difficile, per John, vedere le
persone come statistiche, o nomi su una pagina, o fotografie sanguinose. Non
poteva fare a meno di provare empatia.
E
lui era inesorabilmente connesso a questo caso come nessun altro. La minaccia
implicita per cui, quando l’emulatore avrebbe iniziato ad esaurire le vittime,
sarebbe rimasta una sola persona.
Hai considerato il
finale del gioco di questo killer?
John
rabbrividì e si rigirò nel letto, le
mani raccolte sotto il cuscino.
Queste
persone avevano un metodo per scegliere le vittime. Quello di Sherlock era più
casuale e difficile da predire, prendendo persone che lo irritavano e
pianificando le loro morti nei modi più crudeli, con qualunque cosa gli fosse
capitata in mano. L’emulatore avrebbe dovuto essere più efficiente. Doveva
adottare un metodo che gli fruttasse una vittima nel giorno in cui Sherlock
aveva ucciso la sua. Non poteva seguire una persona a caso, in quel giorno, e
sperare che vivesse da sola, o che non avesse un incontro urgente con qualcuno
che non avrebbero incontrato. Diversamente da Sherlock, lui non le rapiva, non
era ritualizzato, al contrario uccideva le sue vittime nel luogo in cui si
trovavano in quel momento.
Forse
non aveva abbastanza forza per farlo. O forse la scoperta dei corpi, i quali lo
collegavano a Sherlock, era considerata più importante del modo in cui gli
omicidi erano portati a termine.
Ma
come riusciva a trovare le vittime in casa da sole? Come riusciva a vederle?
Sherlock
lo saprebbe, pensò John, stringendo forte i pugni come se si stesse preparando
a una rissa. Forse l’avrebbe capito quando avesse visto i rapporti dei casi, e
ora avrebbe solo voluto vedere cosa sarebbe accaduto se se ne fosse rimasto
zitto. E mancava un solo giorno prima che l’emulatore colpisse di nuovo.
Alla
fin fine, non è che avesse davvero scelta.
***
La
mattina successiva era fredda e invernale, e Greg spese qualche minuto seduto
fuori, su una panchina della stazione con un silenzioso John Watson e una tazza
di caffè istantaneo zuccherato con una goccia di whiskey. Il treno di John per
il Berkshire era in ritardo.
Greg
continuava a lanciare occhiate a John, non poteva farne a meno, l’uomo sembrava
una statua se si ignorava il vento che gli agitava i capelli. Ti ci ho fatto entrare io, in tutto questo, era
tutto ciò che Greg riusciva a pensare e il pensiero gli stava consumando la
mente come un veleno. “Come ti senti?” chiese, per la terza volta da quando era
passato a prendere John, nonostante lui non lo avesse chiamato.
“Sto
bene,” disse con un sorriso stirato, le sue parole fuoriuscivano in nuvole
sottili. Si strinse meglio il cappotto attorno al corpo e alzò gli occhi al
cielo. “Starò bene. So cosa mi aspetta questa volta.”
“Te
ne puoi semplicemente andare, ricordalo,” disse Greg. “Se si spinge troppo
oltre. Lui ti vuole lì. Sei tu quello che ha il potere.”
John
annuì in tacito consenso e sorseggiò il suo caffè caldo. “Lo so,” mormorò. “Ma
non è quello che sembra.”
La
memoria della confusione in cui John era precipitato dopo l’ultima volta che aveva visto Sherlock
balenò nella mente di Greg, e gli angoli della sua bocca si tirarono
rabbiosamente. Si guardò attorno alla ricerca della bancarella dei biglietti.
“Forse dovrei venire con te.”
“No,”
disse John immediatamente. “Mi servi alla stazione al mio ritorno. Se avrò
delle informazioni, avrò bisogno di te per iniziare a lavorarci il prima
possibile.”
Con
la coda dell’occhio Greg scorse un bagliore e si girò per vedere l’arrivo
ritardato del treno. Le persone iniziarono ad alzarsi, radunando le borse e
sospirando in direzione dei loro orologi. Qualcosa nell’espressione di John si
era indurita; finì il caffè, gettando la tazza nel cestino di fianco mentre il
treno si trascinava con uno stridio d’acciaio.
Greg
percorse con lui quei pochi metri, sentendosi protettivo per ragioni che non
voleva analizzare. John si voltò a guardarlo quando fu salito a bordo, una
piccola mano guantata afferrata alla maniglia della porta. Sembrava un po’
perplesso, ma aspettò che fosse Greg a parlare.
Dobbiamo
mantenere un atteggiamento professionale, Greg ricordò a se stesso. “Ricorda,”
disse seriamente, “il collegamento di questo caso con Sherlock è ancora segreto
finché non decideremo il contrario. Non dirlo a nessuno.” Concluse, ricordandosi
i verbali. “Specialmente al dottore capo, non mi piace.”
“Me
ne ricorderò,” disse John e le porte si chiusero. Attraverso il finestrino,
Greg lo vide spostarsi alla ricerca di un posto, camminando con cautela sul
treno oscillante. Aspettò sul binario finché il treno non scomparve alla sua
vista.
***
Il
dottor Culverton Smith fu molto meno amichevole dell’ultima volta in cui John
Watson era apparso alla sua porta. John fu lasciato fuori dall’ufficio del
dottore, ad aspettare, ascoltando alcune telefonate rabbiose a mala pena
attutite dal muro. Apparentemente la sua presenza stava interferendo con una
delle punizioni di Sherlock. Si udì un’invettiva particolarmente rumorosa che fece sollevare un sopracciglio a
John, e un inserviente che spingeva un carrello con ruote attraverso i corridoi
catturò la sua attenzione. I due si scambiarono un sorrisetto.
“Non
mi piace,” disse più tardi Culverton, un’affermazione che ormai era più che
ridondante considerata la sua espressione, come un capitano la cui ciurma si è
appena ammutinata. “Questo è il mio ospedale e diventa spaventosamente
difficile dirigerlo se sono schiacciato dalla
burocrazia!”
“Mi
occorrono solo alcuni dettagli in più su questo caso, dottore,” disse John
rigidamente. C’era una pila di giornali sulla scrivania di Culverton che attirò
il suo sguardo.
“Perché
così tanta fretta?”
“Nessuna
fretta,” gli assicurò John. “È solo che abbiamo così tanto tempo libero da
riempire con questo genere di cose. Programmi, capisce.” Sorrise, ma si bloccò
quando notò la foto in prima pagina del giornale in cima. Culverton seguì il
suo sguardo, un sogghigno a stento nascosto, ma John capì che fremeva in attesa
di ricevere domande in proposito, quindi tenne la bocca chiusa.
Anche
se Culverton non aveva l’autorità per negare a John il permesso di entrare,
questa volta fu molto meno cortese, delegando a qualcun altro il compito di
scortarlo e borbottando qualcosa a proposito dei suoi diritti. Attraverso occhi
furiosi stretti a fessure guardò la piccola figura di John scomparire nel
corridoio, poi tornò a sedersi, pensieroso. La sua penna dorata appoggiata
contro il labbro inferiore arricciato.
La
psichiatria cannibale sembrava un premio quando era arrivato per la prima
volta: Culverton credeva di aver trovato il biglietto per uno stile di vita tra
gli autori famosi.
Ma
Sherlock non era testabile e non parlava mai con nessuno.
Oh,
ma aveva visitatori, il numero schizzava ogni qual volta un omicidio finiva tra
le notizie e dei professori di psicologia volevano sfruttare quel momento per
farsi un nome – ma venivano lasciati tutti a mani vuote e frustrati da
quell’uomo pallido che giaceva in silenzio sulla sua branda e apriva bocca solo
per dispensare insulti taglienti. Lo dicevano con occhiate saccenti – avere a
che fare con Sherlock faceva sicuramente venire voglia di gridare per la
frustrazione a Culverton.
E
poi c’era John. Culverton si infilò con cautela la penna in tasca e sollevò il
giornale più recente. John era impallidito quando lo aveva visto lì appoggiato
sulla scrivania, quel giovane affettato e vivo per miracolo, ma poi si era
ripreso e aveva scandagliato Culverton con un’occhiata che poteva essere
descritta solo come disprezzo. Ciò aveva portato Culverton a odiare John
immensamente;
detestava
essere interrotto durante i suoi tentativi di fiaccare l’animo.
Dopo
cinque anni di sdegnoso silenzio da parte di Sherlock, arriva John Watson, e
tutt’un tratto sente parlare di come quell’uomo riesce ad avere Sherlock alla
sua mercé. Si era aspettato un John sudato e terrorizzato ricomparire dopo
dieci minuti, ma no, Sherlock lo aveva trattenuto là sotto per più di un’ora
con una discussione impegnata. Era apparso soddisfatto quanto un gatto ben
nutrito per il resto del giorno.
La
stampa non sapeva nulla delle visite di John alla casa di cura e, Culverton
aveva controllato, non era più un vero detective. C’era sicuramente qualcosa di
sospetto sotto, e non avrebbe fatto più alcun tentativo per risultare
accomodante con tutti coloro che trattavano il suo ospedale come un caffè dove
incontrarsi e salutarsi.
Quindi
alzò il telefono per fare una soffiata anonima alla stampa.
***
Quando
John arrivò alla cella di Sherlock, notò subito cos’era cambiato.
Sherlock
era seduto al suo tavolo ora vuoto, la sua elegante figura completamente
immobile, le mani giunte come in preghiera sotto il suo mento. Come parte della
sua pena per dei crimini non menzionati, la cella di Sherlock era stata privata
di ogni cosa remotamente stimolante per il suo cervello. Il suo letto era un
piccolo quadrato, senza cuscini. I suoi libri e i suoi giornali erano spariti,
persino le mensole erano state tolte dai muri, esponendo i supporti di metallo
come una ferita. Tutto ciò che aveva erano il suo letto, una sedia, un tavolo e
la toilette. Apparentemente, aveva fatto qualcosa di abbastanza grave.
“John,”
disse col suo basso brontolio, senza muoversi. “Ho saputo che tu e Lestrade
avete trascorso molto più tempo insieme, di recente.”
I
suoi tristi occhi si posarono su John e le sue narici si dilatarono
temporaneamente mentre inspirava.
John
decise di ignorarlo e si sedette, avvertendo un brivido di trepidazione lungo
la spina dorsale mentre osservava la cella spoglia, la tensione che faceva
contrarre la mascella di Sherlock come il conto alla rovescia di una bomba.
Appese la giacca allo schienale della sedia, gli occhi spalancati in
confusione. “Cos’è successo?” domandò, realizzando solo allora in cosa
consistesse la “punizione” di cui Culveron aveva parlato.
Sherlock
non rispose per lungo tempo, poi le sue labbra di allungarono improvvisamente
in un ghigno. “Quel dottore privo di senso ed io abbiamo avuto una discussione.
Questo è il mio compenso. Non che non me lo aspettassi – a quanto pare sono
mentalmente malato, non ho i diritti che hanno gli assassini sani.”
“Forse
potrei parlargli,” iniziò John, ma Sherlock reagì sbattendo con violenza le
mani sul tavolo, quasi ringhiando. John si ritrasse.
“Forse. Forse forse forse. Che parola
inutile. Sei solo una delusione dopo l’altra, vero?” Si alzò, la sedia si
schiantò sul pavimento dietro di lui, e fu in piedi contro il vetro con i suoi
furiosi, freddi occhi così in fretta che per poco John non cadde all’indietro.
“Allora, hai passato un giorno sul caso e hai già rinunciato? Non mi meraviglia
che la tua vita sia un tale casino.”
John
ricambiò lo sguardo con freddezza, ma la sua bocca era del tutto asciutta. “Non
parlarmi così,” rispose, ma Sherlock stava già ridendo prima che avesse finito.
“Posso
parlarti come voglio,” disse bruscamente. “E tu accetterai le mie parole, vero?
È una singolare virtù, John, sei una vittima di prima classe.”
John
resse quell’occhiata folle il più possibile, poi si alzò, prendendo la giacca
con gli occhi bassi.
Lo
sguardo di Sherlock si fece più tagliente. “Dove stai andando?” grugnì,
indignato, le mani premute contro il vetro.
“A
casa,” disse John semplicemente, con tutta l’autorità che riuscì a radunare.
“Sono venuto per ricevere aiuto, non perché qualcuno mi urlasse contro.”
“Non
puoi andartene e basta!” esclamò Sherlock.
“Sì
che posso,” rispose John, un’espressione dura sul volto. Fece qualche passo.
Alle
sue spalle poté percepire Sherlock ribollire di rabbia “Capisco,” mormorò a
bassa voce. “Un gioco di potere. Che bassezza da parte tua, John, manipolarmi
in quel modo.”
John
si bloccò e si voltò, incontrando quello sguardo feroce. “Non far finta di
essere estraneo alla manipolazione.”
Sherlock
lo ignorò, le mani scivolarono lungo il vetro con uno stridio di pelle premuta.
Appariva spettrale sotto la forte luce, i suoi vestiti candidi e la pelle erano
quasi abbaglianti. “Credi di avere in mano le redini del nostro piccolo accordo
solo perché mi fa piacere vederti?” chiese, il suo sorriso era quasi pietoso.
Assunse un atteggiamento sdegnoso in un secondo, come se qualcuno avesse acceso
un interruttore. “Ti dimentichi che, anche se mi godo il fatto di averti
attorno, non mi faccio problemi a sbarazzarmi di te per un’esigenza personale.”
La
cicatrice di John prudeva sotto la camicia, sgradevole pizzicore di nervi
recisi e sudore.
Un
coltello attraverso la morbida carne.
“Non
l’ho dimenticato,” disse a bassa voce.
“Allora
smetti di dire idiozie e siediti.” Sherlock si fece indietro, gesticolando
verso la sedia come se stesse invitando un ospite di mettersi a proprio agio.
“Perché darsi tanta pena per fingere di andarsene? La vita è piena di menzogne
così com’è senza doverne aggiungere altre alla messinscena.”
“Non
è una menzogna,” disse John fermamente. La mano richiusa a pugno sopra alla
giacca. “Posso andarmene quando voglio.”
Sherlock
emise una risata quasi muta, ruotando gli occhi all’indietro. “No, non puoi.
Non se vuoi salvare la prossima vittima.”
John
si irrigidì.
“E
tu lo vuoi, vero?” continuò Sherlock candidamente. “Vuoi salvare tutti. È ciò
che ti fa andare avanti, è ciò che ti ha fatto tornare nelle forze di polizia
dopo tutto quel tempo –” la sua mano colpì il vetro mentre parlava “ – anche se
ti risucchiano la vita da fin dentro le ossa. Permetti a quelle persone di
usarti e valuti la vita di questi estranei più della tua. Non sono un
disilluso. So che c’è una sola ragione per cui sei qui, a parlare con me.”
John
realizzò che stava respirando come se avesse corso. Si inumidì le labbra, senza
ancora muoversi verso Sherlock. “Non ho messo in pericolo la mia vita venendo
qui.”
Il
sorriso di Sherlock si allargò. “È così?”
John
deglutì, spostò il peso su un piede. Si sentiva alla deriva.
“Fai
ciò che ho detto e siediti,” ordinò Sherlock, il sorriso scomparve dal suo
volto mentre si raddrizzava, rendendosi più alto. “Perché devi affrontare la
realtà. Sono io quello che ha il controllo. Sono io la ragione per cui sei
ritornato su questo caso. Sono io che decido cosa verrà dopo, perché se non mi
dai ciò che voglio, non ti rivelerò nulla.”
“Assumendo
che tu abbia qualcosa da dire,” replicò John bruscamente, così teso da sentire
dolore.
La
mandibola di Sherlock si contrasse, come se volesse mordere. “Siediti,” disse,
come se si trattasse di un suggerimento e non di un’istruzione.
John
voleva ribattere, voleva una valida ritorsione a tutto il veleno di Sherlock.
Invece tornò alla sedia, sentendo lo sguardo di Sherlock su di lui come corde
che lo trascinavano inesorabilmente più vicino. Poteva andarsene, scappare
prima di essere tirato ancora di più dentro a tutto questo, ma la codardia di
John sarebbe stata la ragione per cui un’altra ragazza avrebbe finito col
morire.
E
non poteva lasciare che ciò accadesse.
Sherlock
sembrava trionfante. “Bene,” disse in un sospiro. “Grazie, John.” Le sue mani
ricaddero dal vetro, ma rimase ancora inquietantemente vicino, gli occhi
pallidi che scorrevano sopra di lui come se stesse cercando di memorizzarne
ogni dettaglio.
“Okay,”
disse John, inclinando la testa. “Come ci riesce? Come le trova?”
“Non
così veloce,” disse Sherlock, con una breve contrazione delle labbra. “Non te
lo dirò in cambio di niente.”
“Sono
qui, no?”
Lo
sguardo di Sherlock si spostò di lato, le palpebre abbassate. “Per quanto
piacevole sia avere la tua forzata compagnia, John, la tua presenza, per quanto
gradevole, non vale ciò che so.”
John
lo osservò. “Cosa vuoi?”
Invece
di rispondere, Sherlock emise un lungo sospiro e si girò, calciando verso
l’alto la sedia ed afferrandola, sbattendola a terra di fianco al vetro.
Ricadde su di essa e unì insieme i polpastrelli, fissando John con il suo
sguardo di ghiaccio. Fece un cenno con la testa. “Porta la tua sedia più
vicino.”
John
rimase fermo, sentendosi molto simile a una preda.
“John…”
disse Sherlock piano. Un avvertimento.
Stava
testando il proprio potere.
Quando
John trascinò la sua sedia qualche metro più vicino, riuscì a scorgere il
sorriso compiaciuto di Sherlock da dietro le sue dita. “Eri qualcos’altro prima
di diventare un detective,” disse Sherlock, puntando le mani verso John. “Non è
così?”
John
si irrigidì, la mente prese a lavorare nel panico. “Questa non è una deduzione.
L’hai letto, o qualcuno te l’ha detto.”
Sherlock
proruppe in una risata sguaiata e si asciugò la bocca. “Ero sospettoso la prima
volta che ti ho incontrato,” ammise. “Così ho rubato un’occhiata ai tuoi file. È
stata una lettura alquanto interessante.”
Era
sempre stato interessato a John. John aveva interpretato il suo comportamento
come eccentricità, anche se ora lo conosceva meglio, molto meglio. “Non avevi
il diritto di farlo,” disse freddamente. “Quei file erano privati per una
ragione.”
Sherlock
allargò le mani in segno di scusa. “Mi avevi incuriosito. Non sono riuscito a
trattenermi.”
“Non
capisco. Perché hai bisogno che ti dica ciò che sai già?”
“Dimmelo
e basta,” disse Sherlock con semplicità, appoggiandosi allo schienale della
sedia come se si trattasse di un trono.
John
voltò la testa, sospettoso. “Sembra un prezzo bizzarro per la tua conoscenza.”
“Le
storie possono essere così prive di interesse quando sono inchiostro sulla
carta. Preferisco sentirlo dalle tue labbra.” Le sue dita erano di nuovo
premute insieme davanti alla bocca, i suoi occhi fissi in quelli di John.
“E
se lo faccio,” chiese John, “tu mi dirai come opera il killer?”
“Hai
la mia parola, John,” disse Sherlock, gli occhi si strinsero agli angoli in un
mezzo sorriso. “Qualunque cosa ciò significhi per te.”
Logicamente,
John sapeva che non doveva dare valore a una promessa proveniente da un bugiardo
di tale abilità. Al contrario, trovò la promessa di Sherlock stranamente
soddisfacente. “Okay,” disse, leccandosi nervosamente le labbra secche. Era
stato ripetutamente messo in guardia dall’aprirsi con Sherlock. “Prima di
essere un detective, ero un ufficiale delle forze armate.”
Gli
occhi di Sherlock sembrarono brillare a sentire ciò, e guardò le mani di John
appoggiate in grembo come cercando di trovare indizi, nonostante il fatto che
fossero passati molti anni dall’ultima volta in cui John aveva impugnato una
pistola, sparato un colpo. “È stato bello?” chiese, l’eccitazione gli vibrò in
gola.
Le
spalle di John si alzarono. “Molto bello.”
“Ti
è piaciuto?”
“Sì,”
ammise John, serrando leggermente il pugno sinistro. “Suppongo di sì.”
“Cosa
ti è piaciuto di più, dello sparare alla gente?” I suoi occhi luccicavano.
“Non
si trattava di quello,” ribatté John. “Si trattava di salvare vite.”
Sherlock
piegò la testa. “Prendendone altre?”
“Raramente
abbiamo dovuto sparare a qualcuno. Voglio dire… dovevamo mantenerci in
esercizio, poligono di tiro, procedure, eccetera. Non ci sono così tante
pistole a Londra, quindi alle volte ci bastava farci vedere per convincere i
criminali ad arrendersi. Ho sparato con l’intento di uccidere una volta sola.”
Irruzione attraverso la
porta principale, i secondi necessari ad abituarsi al buio, la corrente
tagliata. Appropriarsi della zona e salire le scale, combattendo contro il peso
del giubbotto antiproiettile, lo scricchiolio del legno sotto ai piedi. L’urlo
violento di un uomo.
Il grido di una ragazza
che si spegne all’improvviso.
John
rabbrividì a quel ricordo; il buio ambiente dell’ospedale lo stava facilmente
riportando al passato.
Lo
sguardo di Sherlock era senza pietà. “E il tuo intento è diventato realtà?”
Sangue schizzato sul
legno vecchio, penetrando nelle fessure come se stesse cercando di espandersi
il più possibile, cercando di fuggire.
“Sì.”
Sherlock
rimase in silenzio, osservandolo, affascinato. Le mani di John stavano tremando.
Lo notò solo quando ne fece scorrere una tra i capelli e questa tremò sopra al
suo orecchio.
“Il
killer usa un virus per trovare le sue vittime ideali,” disse Sherlock nel
mezzo del silenzio. “Sospetto che il programma si auto-elimini, ma se i tuoi
della scientifica informatica hanno abbastanza talento e tenacia, potrebbero
trovarne le tracce in entrambi i computer.”
John
fu trascinato nuovamente al presente e fissò Sherlock scioccato. “Un virus?
Come?”
Sherlock
si piegò in avanti. “Amavi il tuo lavoro.”
John
avvertì un’ondata di nausea.. “Non cambiare argomento!”
“Era
eccitante,” continuò Sherlock, ignorandolo. “Una scossa di adrenalina, facevi
del bene al mondo. E nonostante questo l’hai lasciato. Perché?”
“Forse
mi ero stancato,” ribatté John.
“Ma
non è così,” disse Sherlock, con un sorriso furbo. “Non mentirmi, John. Me ne
accorgo.”
John
lo guardò impotente, poi scosse la testa. “Volevo soltanto cambiare.”
Sherlock
respinse quella risposta. “Qualcosa ti sta dando la caccia,” disse, quasi
dolcemente. “Lo vedo nei tuoi occhi, in ogni respiro tremante che trai quando
pensi al tuo passato. Qualcosa ti ha spezzato, non è vero? Quel cambiamento di
carriera è stata, più che una decisione presa per capriccio, una necessità.”
John
si sentiva completamente spiazzato. “Perché vuoi che te lo dica?”
“Mi
diverte,” disse Sherlock. “Potrei chiederti così tanto, ma tutto ciò che voglio
da te è questo, John. Poi ti dirò quello che vuoi sapere.”
John
non ne parlava da anni e trovò difficile raggruppare gli eventi nella sua mente
tra le vecchie paure che ora stavano strisciando di nuovo in lui,
costringendolo sull’orlo del baratro. Sherlock rappresentava ora un punto di
stabilità, seduto nella sua cella con lo sguardo fisso, le gambe elegantemente
accavallate come se fosse tornato ad essere uno psichiatra nella propria casa.
Potrebbe sembrarlo, pensò John, se non fosse stato per qual bagliore feroce
dietro gli occhi di Sherlock non appena John aveva mostrato segni di
turbamento.
“Era
un giro di pedofilia,” disse infine John, dovendo masticare quelle odiate
parole. “Il caso andava avanti da mesi, forse anni, ma alla fine il sistema
aveva iniziato a incrinarsi. Avevano rintracciato uno dei principali implicati,
ma egli non si rivelò… collaborativo.”
Sherlock
piegò la testa, ma rimase in silenzio.
John
trasse un respiro profondo. “Non avrebbe parlato con la polizia. Quando
ottennero il mandato ed entrarono in casa con la forza, lui sparò. Avevano giubbotti
antiproiettile, ma una di loro fu colpito all’avambraccio.” John sfregò un
pollice sopra al proprio braccio, consapevole dello sguardo di Sherlock che
baluginava su di lui. “Le ha frantumato l’osso.”
“Ah,
ricordo questo caso,” disse Sherlock, le labbra lievemente increspate.
“Sì,
beh, è difficile per tutti dimenticare,” mormorò John. “Siamo stati mandati là
non appena la stazione seppe della sparatoria.” Sollevò nuovamente la testa, la
bocca serrata. “C’era un ostaggio.”
I
pallidi lineamenti di Sherlock erano già rigidi nell’attesa, le labbra
leggermente aperte. Fece cenno a John di continuare.
“C’era
solo un uomo, all’interno, e gridava qualcosa su come non saremmo riusciti a
prenderlo, su come potesse fare qualunque cosa, perché niente di ciò che
avrebbe fatto avrebbe potuto peggiorare ulteriormente la sua situazione.
Agitava la pistola, urlando minacce a pieni polmoni. Lui… lui aveva una ragazza
tra le braccia.” John ammiccò velocemente. “Sua figlia.”
Sembrava così piccola
nelle sua braccia, il suo viso bagnato di lacrime divenute perfettamente
visibili dopo che la luce delle torce le ebbe illuminato gli occhi. Piangeva
silenziosamente, fissando John come se lui potesse fare qualcosa. John ansimava
nella sua pesante armatura, tremando, incredulo di fronte a quella scena, il ruggito
furioso di un uomo con la pistola premuta contro la testa di sua figlia.
“Posso ucciderla prima
che voi uccidiate me!”
“Non
sapevo cosa fare,” disse John, passandosi le mani tra i capelli come un tic
nervoso. “Non avevo in programma di sparargli, ma nessuno di noi si aspettava
la presenza della ragazza. La reggeva davanti a sé, come uno scudo, e la
pistola era premuta così fortemente contro il suo cranio da lasciarle un segno
rosso sulla pelle.” Si massaggiò la tempia con un dito. “Non avrei dovuto
sparagli.”
“Ma
l’hai fatto.”
John
si accasciò sulla sedia per alcuni secondi, la testa tra le mani mentre un’ondata
di nausea e rimpianto lo trascinavano giù. Non riusciva a smettere di tremare. “Credeva
di essere al sicuro con sua figlia come scudo,” disse rivolto al pavimento sotto
i suoi piedi. “Ma… ho creduto di poter sparare. Lei stava piangendo, e io… le
ho detto…”
“Andrà tutto bene,”
aveva promesso John, tentando un sorriso che lei non avrebbe potuto scorgere da
dietro la visiera.
“L’uomo
perse la testa, sentendomi. Non so cosa fosse, forse il modo in cui si mosse,
ma io sapevo che le avrebbe sparato. Ho reagito, soltanto…”
John
si strinse la testa, gli occhi serrati. “Era troppo tardi. Lei era… era morta.”
Sangue schizzato sul
legno vecchio.
Sherlock
si era proteso in avanti, adesso, i gomiti sulle gambe, completamente rapito.
John si raddrizzò, gli occhi pizzicavano. Sentiva la faccia calda e resistette
all’impellenza di asciugarsi i palmi sudati sui jeans mentre Sherlock se ne
stava lì con occhi attenti, crogiolandosi nella sua reazione emotiva.
“È
stata colpa mia,” disse John intontito. Unì le mani in grembo. “Avrei dovuto
portarlo fuori appena sono entrato e ho visto che c’era una bambina. Ma non l’ho
fatto, perché ho avuto paura di qualche… ordine che ci imponeva di portarlo via
vivo. Come potevo metterlo davanti alla vita di qualcuno?”
“Ti
sei trasferito,” disse Sherlock con voce roca.
John
annuì. Non riusciva a parlare.
“Sei
diventato ispettore in fretta.” Sherlock continuava a incoraggiarlo. “Si è
trattato di
uno
sforzo consapevole?”
John
scrollò le spalle, si schiarì la voce. “Se avessi lavorato abbastanza duramente
non avrei dovuto ripensare a ciò che era accaduto.”
“Ma
quando non lavori.” La sua voce lo sondava con cautela. “Quando ci sei solo tu,
solo e stanco. Pensi a lei, in quel momento?”
John
sollevò la testa per incontrare quegli occhi pallidi, i suoi stavano
probabilmente luccicando, ma non gli importava. “Tutto il tempo.”
Sentì
una lacrima minacciare di riversarsi lungo la sua guancia e si sfregò velocemente
gli occhi, tirando su col naso. Si sentiva quasi violato, Sherlock lo guardò in
silenzio per un po’. Improvvisamente, John udì la sedia grattare contro il
pavimento quando Sherlock si mosse, e alzò lo sguardo per vederlo afferrare una
scatola di fazzoletti dal suo letto e lasciarla cadere dentro la scatola
scorrevole.
“Non
intendo prendermi nient’altro da te,” disse, agitato, la voce proveniva da un
punto profondo nella sua gola.
“Sono
solo fazzoletti, John,” disse Sherlock con gentilezza, sedendosi nuovamente e
chiudendo gli occhi con le dita premute sotto al mento. Non guardò John prenderli
e tamponarsi gli occhi e il viso, come per concedergli un po’ di privacy.
Soltanto
quando John ebbe riacquistato la sua compostezza, lo sguardo onniveggente si
posò nuovamente su di lui.
“Sei
abbastanza a pezzi, vero?” rifletté. “Penso che un solo tocco potrebbe farti
andare in frantumi, se non fosse per il fatto che conosco personalmente la tua
forza.”
John
era troppo esausto per replicare. “Come fa l’emulatore a trovare le sue
vittime?” chiese, spingendo di nuovo i fazzoletti nella cella di Sherlock.
“È
un ragno al centro della sua rete,” disse Sherlock, con un sorriso vagamente
divertito. “Un virus viaggia attraverso internet e si infiltra nei computer
senza che lui li tocchi. Può accendere telecamere, microfoni, e quando trova qualcuno
da solo, vulnerabile, va da lui.” Il sorriso si ampliò. “E poi, fa il suo
lavoro.”
John
annuì. “Quindi… stiamo cercando qualcuno bravo coi computer?”
“Un
programmatore incredibilmente talentuoso,” specificò Sherlock, alzandosi. “Non sarei
sorpreso se fosse così che ha scoperto i dettagli del mio caso. Il database del
servizio di Polizia Metropolitana non è privo di falle nella sua sicurezza.”
Con un sospiro arrogante piegò il collo all’indietro e John udì un leggero
click. Sherlock gli andò più vicino. “Sembri così stanco, John,” mormorò. “Se
tu fossi mio, mi prenderei cura di te.”
John
arretrò con decisione. “Non ho bisogno di essere accudito.”
“Non
hai idea di come appari al resto del mondo, vero? È questa la tragedia,
davvero. Un’anima così resistente in un corpo tanto fragile.”
Sherlock
appoggiò il braccio sopra la testa contro il vetro, allungandosi verso di lui. “Le
persone ti guardano e tutto ciò che vedono è un uomo distrutto, in bilico sull’orlo
dell’autodistruzione.”
John
sbatté le palpebre lentamente, piegando la testa. “E cosa vedi tu?”
Sherlock
sorrise e la sua voce si abbassò. “Io vedo acciaio.”
Per
un istante, fu come se non ci fosse più un vetro tra loro.
“È
stato un piacere rivederti, John,” disse Sherlock piano e questa volta lo
sguardo famelico nei suoi occhi non venne mascherato.