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Autore: CaiusJ    20/01/2013    2 recensioni
Sette anni dopo la sua morte, il suo ricordo non è mai cessato. A raccontarlo è l'unico ragazzo che mai gli sia stato vicino, Jake Carter. Da un trauma della gioventù, alla storia di una grande amicizia che legherà per sempre Jake al suo maestro...
Joker
Genere: Azione, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Violenza
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CAPITOLO 1




Dal diario di Jake Carter.


Sede centrale Channel 3, 24 dicembre 2017 ore 21:00.



-Ricordo quel giorno come se fosse ieri...-



La pioggia cadeva fitta dal cielo in quella tarda sera di novembre, il fragore dei tuoni sovrastava prepotentemente la monotonia dei rumori della città. Gotham in quegli anni era uno spettacolo raccapricciante, la corruzione aveva raggiunto e logorato anche le più salde tra le istituzioni, la mafia esercitava il suo potere sulla gente incontrastata; la gente versava in uno stato di povertà e paura.
Camminavo per una strada secondaria della città, stringendomi dentro ad un cappotto blu; sentivo la pioggia scorrere lungo la mia giacca e intaccare quel poco di pelle che rimaneva scoperta. L'umidità mi
penetrava nelle ossa e, in qualche modo, intorpidiva i miei sensi; con la mano sinistra giocherellavo con una pistola che, da qualche settimana, si trovava costantemente nella mia tasca.
Il frastuono causato dal famoso treno sospeso di Gotham, progettato dal defunto Thomas Wayne, mi fece distrarre e accidentalmente inciampai in una pozzanghera, infradiciandomi fino al midollo.
Pensai a quelle povere persone che cercavano riparo dal freddo e dall'acqua dentro quel treno e, in quegli anni, non potevo fare meno di provare della compassione per loro.
Anche io stavo attraversando un momento di difficoltà in quel periodo ma, tutto sommato, me la cavavo abbastanza bene: avevo una casa con un tetto e un letto su cui dormire; in più, grazie ai risparmi di molti anni, riuscivo ancora a permettermi di andare in università per proseguire i miei studi.
Il ticchettio della pioggia sull'asfalto mi irritava molto, mi metteva in un terribile stato di ansia; l'ansia mi portava ad accelerare il passo sperando di giungere a destinazione il prima possibile.
Per spiegare il motivo per cui mi trovavo a camminare sotto la pioggia incessante alle dieci di sera di quel freddo novembre, dobbiamo interrompere la narrazione per tornare a quel pomeriggio. Era un giorno normale,  niente aveva interrotto la mia routine quotidiana fino a quel pomeriggio quando, rientrato a casa dall'università, trovai uno strano messaggio sulla mia segreteria telefonica; si trattava della voce di un uomo anziano che mi invitava a recarmi quella sera stessa al suo studio legale per discutere di una questione importante.
Intanto, mentre il mio cervello elaborava tutte le informazioni di cui ero al corrente cercando di capire il motivo della telefonata, raggiunsi l'edificio corrispondente all'indirizzo segnato su un foglietto di carta.
Era una costruzione d'epoca di due secoli fa, molto più simile ad un palazzo che ad una villa. La prima cosa che vidi dietro all'altissimo cancello di ottone che recintava la proprietà fu un immenso bosco; sì, si trattava di un vero e proprio bosco, e anche molto fitto per giunta, talmente fitto da lasciare intravedere solo parte dell'edificio che vi si trovava nascosto dietro.
In mezzo al bosco, come dal nulla spuntavano delle rotaie su cui era posto un vagoncino.
All'improvviso qualcos'altro attirò la mia attenzione.
Avvitata sopra il cancello c'era una grande targa di una lega metallica scura, che non riconobbi, con delle incisioni strane. Non saprei riportarvi ora quello che c'era scritto dato che  le condizioni di logoramento in cui versava quella targa non mi permisero di comprendere il suo significato.
Esitai un momento prima di varcare il cancello, che aveva cominciato meccanicamente ad aprirsi quando avevo camminato di fronte ad una fotocellula nascosta.
Feci qualche passo nella ghiaia sul limitare del boschetto prima di raggiungere le rotaie; da un paletto posto sulla destra, una gracchiante voce metallica risolse i miei dubbi:
 -Si prega di prendere posto nel vagoncino-.
Non appena ebbi appoggiato la mia schiena contro uno dei quattro sedili presenti nel vagoncino, questo immediatamente partì. Il tragitto fu più lungo di quanto avessi pensato, quindi rimasi seduto al caldo a guardare le gocce di pioggia che rigavano il finestrino.
Il fruscio delle piante piegate da un vento leggero, il rumore sommesso del vagoncino sulle rotaie, il battito accelerato del mio cuore, producevano un'armonia di suoni che, al contrario del ticchettio sull'asfalto, era quasi rilassante.
Finalmente il vagoncino si fermò e la porta si aprì, permettendomi di scendere.
Lo spettacolo che mi si presentò davanti fu mozzafiato.
La villa era di una magnificenza inaudita; sulla facciata principale si potevano notare delle grandi arcate con finestre di vetro colorato, ogni dettaglio di quella visione era perfettamente curato, dai merletti in cima al tetto fino ai ghirigori presenti sul pomolo della porta d'ingresso.
La porta era enorme,  intagliata nel legno massiccio, e di colore scuro, quasi nero;  l'unico dettaglio che contrastava quei colori scuri era una piccola targhetta di ottone sulla quale era incisa una semplice parola:
"AVANTI"
Lentamente entrai nell'edificio. L'ingresso era illuminato da un piccolo lampadario posto al centro della stanza, per terra ovunque c'erano dei tappeti persiani e sulla sinistra un grosso appendi-abiti di metallo lasciava a intendere che nella casa non erano ammessi cappotti gocciolanti.
Quello che successe dopo, lo ricordo in maniera confusa, perché tutto avvenne in una manciata di minuti.
Sentii un urlo squarciare il silenzio che fino a quel momento aveva sovrastato l'intero edificio. Un urlo e poi nient'altro. Diciamo che feci la prima cosa che mi venne in mente: estrassi la pistola e corsi verso le scale, in direzione del suono.
Arrivai davanti ad una porta socchiusa da cui si intravedeva una fioca luce.
-E' Permesso?...-provai a dire, ma non udendo risposta spalancai la porta. Vidi fu il corpo di un vecchio uomo penzolare dal soffitto tutto coperto di sangue sul volto.
Feci una smorfia e mi avvicinai di un passo; il mio istinto mi diceva di girare i tacchi e correre via il più velocemente possibile, ma, siamo sinceri, quante volte ascoltiamo il nostro istinto? Così mi avvicinai all'uomo.
Il mio sguardo si posò su uno strano particolare che interrompeva la sobrietà del suo abbigliamento: nel taschino del vestito al posto di un fazzoletto c'era... una carta da gioco. La presi in mano e la girai vedendo quello che sarebbe stato il disegno a me più comune per i seguenti anni: un Jolly.
Sentii un fruscio e non feci in tempo a voltarmi che provai un fortissimo dolore alla nuca. Poi l'oscurità avvolse i miei occhi e i miei sensi.
Quando mi svegliai non riuscivo a capacitarmi del luogo in cui ero stato portato e soprattutto chi mai potesse essere il mio aggressore.
Sentivo qualcosa di freddo bagnare la mia fronte, alzai lo sguardo e per la prima volta osservai veramente la mia prigione. Ero in un sotterraneo probabilmente, ma non quello della villa; no, l'architettura di questo posto era decisamente più recente.
Provai a girare la testa per vedere meglio, ma qualcosa me lo impediva, e di nuovo tornava quella sensazione di freddo sulla fronte; conclusi che molto probabilmente la mia testa era bloccata da una fascia metallica.
Percepii dei passi provenire da dietro di me.
Il battito del mio cuore accelerò notevolmente. Ero in preda al panico più totale.
La figura che si avvicinò a me era poco nitida, ricordo che indossava un vestito viola e che i suoi capelli erano verdi. Poi si girò e potei vedere la faccia di colui che mi teneva prigioniero: era tutta bianca con un ghigno rosso disegnato sulla bocca; era... un clown.
Venne sempre più vicino fino a sfiorare con il suo naso il mio.
-Ciao Jake- mi disse.Dopo questo breve colloquio il mio terrore non fece che aumentare: il ghigno non era disegnato, erano cicatrici.
Cominciai a dimenarmi per tentare di liberarmi, finalmente avevo capito dove avevo già visto quelle cicatrici... lui era il criminale che temevano tutti, il criminale con cui nemmeno la mafia voleva avere a che fare... il suo nome mi venne in mente come un lampo che illumina la notte. Joker. Iniziai ad urlare e a sbattere i piedi. Lui allora si avvicinò a me e disse queste semplici parole:
-Riposati un po'- e con un ghigno iniettò un liquido azzurro nel mio braccio sinistro.
Poi il buio, di nuovo.










Spazio dell'autore.
Ciao a tutti! Innanzitutto grazie se siete arrivati fino a qui. Questo capitolo è un pochino noioso secondo me, per questo ci ho impiegato più tempo a scriverlo e l'ho scritto quasi a forza... è uno di quei capitoli che fanno da intermezzo ad un punto bellissimo che si ha perfettamente in testa ma non si sa come collegarlo alla storia... bene, detto questo vi saluto e mi raccomando, recensite in più che potete, ho bisogno di sapere cosa pensate!
ciao 
  
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