Le
gambe gli dolevano e il cuore sembrava essersi stancato
di pulsare; i polmoni erano un incendio doloroso, e gli occhi vedevano
il mondo
come una massa acquosa.
Ma
non smise di correre.
Doveva
trovare Haru. Era l’unico in grado di spiegargli cosa
stesse succedendo.
Il giapponese lo
fissò perplesso, una punta di spavento nelle iridi scure.
«Va…
tutto bene?»
tentennò. Il colorito paonazzo, gli occhi allucinati e
l’espressione
terrorizzata dell’altro ridicolizzavano la sua domanda, ma
Haru la pose
comunque per correttezza.
«Ho un
problema»
ansò il ragazzo. E scoprì la spalla.
Haru non si
lasciava mai andare a manifestazioni plateali di sentimenti; per questo
sentì
le vene raggelarsi quando gli occhi del giapponese si spalancarono per
la sgradita
sorpresa.
«Hai
un problema» convalidò
Haru. Si alzò ed esaminò la spalla
dell’amico, premendovi sopra le dita
fresche.
«Che…
che cos’è?»
domandò l’altro, deglutendo a fatica.
L’asiatico
morse il
labbro inferiore, impensierito. E la sua diagnosi non fu per nulla
rassicurante.
«Una
cosa molto
spiacevole, probabilmente.»
Parte
Tre – Sesto Anno
1
La
cicatrice
«Wunderbar!» gioì
Bartold, subito rimesso
a sedere dal più rigido fratello.
«Cerca
di
contenerti, almeno un po’» abbaiò
Achill, con l’unico effetto di incrementare
le urla dell’esagitato consanguineo.
Il
maggiore degli Scholz si afferrò le tempie con le dita di
acciaio, premendo forte. Era la seconda partita della stagione, e lo
stadio
sembrava impazzito. Durante la precedente – Gryffindor
contro Ravenclaw – il
pubblico si era
scatenato, ma non in quel modo: i
palchi che sorreggevano gli studenti sarebbero crollati, se non
avessero
abbassato il volume degli strepiti.
Al
primo anno, non avrebbe immaginato che i due studentelli
che aveva preso come assistenti per punizione sarebbero diventato
così
popolari. I loro genitori erano conosciuti in tutto il mondo magico,
per merito
o per infamia, e i figli si stavano dimostrando degni successori, anche
se il
consenso che riscuotevano tra i compagni era dovuto ad altri fattori.
Le
ragazze trovavano adorabile il “faccino da
cerbiatto” di Albus, e Malfoy, a
detta loro, costituiva la sua perfetta controparte oscura, il
“bel tenebroso”.
Achill ringhiò un sospiro esasperato: avrebbero dovuto
vederli durante le prove
che aveva loro assegnato, per rivoluzionare completamente la loro
visione del
“cerbiatto” e del “tenebroso”.
Poi,
come tocco finale, l’elemento a sorpresa, emerso
durante il quinto anno, quando Hufflepuff
aveva dovuto cambiare portiere. Lo studente giapponese si era proposto
alle
selezioni spinto più dal suo Prefetto, Dallas Dudley, che da
convinzione
personale. L’asiatico aveva sbaragliato gli altri aspiranti,
e le sue parate
feline erano diventate un mito ad Hogwarts e una piaga per i suoi
avversari.
Era
stata una sorpresa per Haru stesso: non avrebbe mai
immaginato che i suoi allenamenti nelle arti marziali sarebbero serviti
a
giocare una partita a cavallo di una scopa.
Era
così giunto il giorno dell’attesissima partita Hufflepuff contro Slytherin,
“cerbiatto” Cercatore e
“tenebroso” Battitore contro il
portiere orientale. Schiaffò la faccia nelle mani ruvide,
sperando che tutta
quella confusione cessasse presto.
Come ogni anno,
Rose si era seduta nei posti limitrofi alla sezione Slytherin,
in modo da poter parlare con Nott.
«Non
hai
partecipato nemmeno quest’anno alle selezioni?»
strillò lei, per sovrastare la
folla.
«Se
mai dovessi
decidere di morire, lo farei in un modo rapido e pulito. Tipo il
veleno» la
mascherina onnipresente non cancellò il disprezzo nella sua
voce. «Quel campo
maledetto non avrà nemmeno una goccia del mio sangue. Mai.»
Vedere
Nott immutato nonostante il passare degli anni donava
uno strano senso di rilassatezza: la sua fobia per i germi non si era
attenuata
da quando lo avevano conosciuto, così come il suo brutto
carattere non si era
minimamente ammorbidito. Gli unici cambiamenti visibili erano nelle
guance e
nella mascella, che avevano abbandonato le forme morbide
dell’infanzia in
favore di lineamenti più spigolosi e asciutti, e nel tono di
voce, scuritosi
con il tempo.
Rose si
tappò le
orecchie con le mani: la folla intorno a lei impazzì quando
Albus sfiorò le
transenne. Si concentrò anche lei sul cugino, seguendo il
suo folle
inseguimento del Boccino, tallonato dal Cercatore di Hufflepuff.
Trattenne il fiato quando un Bolide sfrecciò dritto
nella loro direzione, e lo rilasciò in un sospiro sollevato
poco dopo: il
pronto intervento di Scorpius aveva salvato il collo di Albus, e
aizzato la
curva Slytherin ad un tifo ancora
più
concitato.
Rose
fu tentata di fasciarsi la testa con la sciarpa azzurro
e bronzo della sua Casa per arginare le grida che la circondavano.
Aveva
pescato alcuni commenti nella folla: apprezzamenti sui capelli chiari
di
Scorpius, tenuti abbastanza lunghi da ricadere sul collo, e sul viso
che si era
affilato con la crescita. Altre si complimentavano di come Albus, il
nanerottolo di Slytherin, avesse
guadagnato dei centimetri durante l’estate, raggiungendo
quasi la statura
dell’inseparabile amico. Rose sogghignò a quelle
considerazioni: aveva
trascorso quasi ogni giorno insieme ad Albus e Scorpius, e non aveva
quasi
notato i loro cambiamenti. Se ne era accorta quando,
quell’estate, aveva
riesumato delle vecchie foto del primo anno, e delle facce paffute e
dei corpi
puerili l’avevano salutata dalle istantanee.
Erano
ormai entrati a pieno titolo nell’adolescenza, nelle
sue forme angolose e nei suoi mutamenti graduali ma costanti.
Tra
di loro, quello che aveva subito variazioni meno
sostanziali era Haru: ad eccezione dei capelli, lasciati liberi di
crescere
fino a metà della schiena nel sempiterno codino, il
giapponese non era
praticamente cambiato, e non solo nel fisico: i suoi atteggiamenti
erano quelli
di sempre, come se fosse nato già adulto.
L’asiatico,
dalla sua posizione fluttuante vicino ai cerchi,
si voltò per un attimo ed incrociò il suo
sguardo: nel vedere le iridi nere che
la fissavano con un interrogativo divertito, Rose si accorse di essersi
soffermata ad osservarlo. Rispose con un’occhiata carica di
ostilità, dopodiché
voltò il capo, facendo nascere un risolino sulle labbra
pallide dell’orientale.
«Gente,
vi invito a
notare la sorprendente parata di Harunobu»
proclamò Valentine al microfono. Le
spalle del giapponese si contrassero nel sentire il suo nome
pronunciato per
intero: era così antiquato.
«Io
non sarei mai
riuscito a fare una cosa del genere» proseguì
Valentine, scomponendosi come di
consueto sulla tribuna del commentatore: in quel momento era
completamente
addossato alla balaustra. «Non senza spezzarmi un braccio. O
lussarmi un
gomito. Voglio dire, questo ragazzo deve avere delle articolazioni
d’acciaio
per riuscire a…»
«Valentine Cross!» gli anni
avevano
accentuato le rughe sul volto della preside e infiacchito le sue
membra, ma
aveva ancora voce e autorità sufficienti per zittire quel
prolisso
commentatore.
«Attenzione,
la
Pluffa torna in gioco» ricominciò il giovane,
cinguettando nel microfono. «E Potter
tallona il Boccino. E… oh, ciao Louis!» il ragazzo
si sporse pericolosamente
dalla tribuna per sbracciarsi in direzione del piccoletto del terzo
anno.
«Louis, non fare finta di non conoscermi! Sto salutando
proprio te!»
«Vai avanti, Cross!»
tuonò la McGranitt.
Louis
ringraziò
intimamente la preside, innalzando la sciarpa rossa e oro a difesa del
volto.
Che vergogna essere della stessa Casa di quel degenerato. E che
vergogna averlo
come tutore.
«Oh,
si nasconde.
Non è carino? Cioè, guardatelo bene, è
davvero
carino!» insistette Valentine, godendosi lo spettacolo delle
guance della sua vittima
che perdevano ogni colorito umano.
«È…»
«In
nome di cielo,
Cross! Se tu vuole tubare, fallo quando tu
non ha microfono in mano!» esplose Achill.
«Grazie»
approvò
solennemente la McGranitt, sollevata dal disturbo di dover intervenire
ancora.
«Concentriamoci sulla partita, gente. Non
facciamo arrabbiare il buon vecchio Achill» riprese
Valentine. Diede una
scrollata sbarazzina ai riccioli scuri e riprese a commentare.
Haru
si lanciò a parare un ennesimo attacco, e la Pluffa
tornò in campo, rimbalzando fino agli anelli di Slytherin. I Bolidi si scontrarono
più volte con la mazza di
Scorpius, deciso a difendere i suoi compagni. Albus sfrecciava a pochi
centimetri da terra, proteso in avanti per afferrare il Boccino.
La
Pluffa disegnava rapidi archi nel cielo, mentre i
giocatori la passavano ai compagni o la rubavano alla squadra
avversaria; i
Portieri galleggiavano davanti agli anelli, pronti a scattare nel
momento in
cui la palla fosse arrivata troppo vicina; i Battitori segnavano
l’aria di lampi
colorati, saettando da una parte all’altra del campo per
deviare i Bolidi.
Fu
in quel momento che accadde.
Le
dita di Albus stavano per serrarsi attorno al Boccino,
quando all’improvviso tutto il corpo del ragazzo si
accartocciò su se stesso,
facendogli perdere l’assetto di volo. Il Cercatore venne
disarcionato dalla
propria scopa, e rotolò a terra sollevando un coro di
sorpresa.
Rose
si protese dalla tribuna, preoccupata: il cugino non si
mosse per alcuni istanti, completamente ritorto su se stesso. Anche se
gli era
visibile solo la schiena, infagottata nella divisa della sua Casa,
poteva
immaginare l’espressione sofferente di Albus e
quell’idea le diede una stretta
al cuore.
Inoltre,
non capiva perché il cugino sembrasse patire tanto
per quella caduta: stava volando rasoterra, quando aveva perso
l’equilibrio,
quindi non poteva essersi fatto troppo male. Aveva sopportato ruzzoloni
peggiori, durante le partite di Quidditch – Rose si era
sentita morire quella
volta che, al quinto anno, lo aveva visto sgambettare nel vuoto, appeso
alla
sua scopa solo con una mano, sbalzato di sella dalla scorrettezza del
Cercatore
rivale.
Perfino
i professori parevano spiazzati dallo Slytherin
che ancora non si alzava:
l’espressione statuaria della McGranitt tremava, Achill non
era mai stato umano
come in quel momento; Bartold aveva afferrato la scopa, pronto ad
intervenire
direttamente sul campo per aiutare il suo allievo, e il colorito della
Eeriemay
era mortalmente illividito, mettendo ancora più in risalto
il rossetto
scarlatto.
La curva Slytherin scoppiò in un
ruggito di
incoraggiamento quando Albus cominciò faticosamente a
rialzarsi in piedi.
Scorpius
non poteva abbandonare il suo ruolo di Battitore, o
i suoi compagni sarebbero stati gettati a terra dai Bolidi, ma
ciò non gli
impedì di controllare con la coda dell’occhio
l’eroica risalita dell’amico:
Albus si issò a carponi, e utilizzò la scopa come
bastone per sollevarsi in posizione
eretta. Restò qualche istante fermo, in attesa che le gambe
si stabilizzassero,
poi riposizionò il manico in assetto di volo e vi
saltò sopra spavaldo,
partendo immediatamente alla ricerca del Boccino.
L’aria
si tinse di verde e argento quando gli Slytherin
fecero roteare le loro sciarpe
come incitamento per il loro Cercatore coraggioso.
Le
iridi verdi scoccarono da una parte all’altra del campo
alla ricerca del Boccino, e lo individuarono poco dopo: le ali dorate
battevano
ad una velocità da capogiro, cercando di sfuggire al
Cercatore di Hufflepuff.
Lo
stadio si zittì improvvisamente quando Albus mise in atto
il suo piano di azione: si gettò a capofitto verso il
Boccino, ma in direzione
opposta rispetto all’altro giocatore. Se non fossero stati
più che attenti, si
sarebbero violentemente scontrati.
Il
cervello iper-allenato di Rose calcolò velocemente che,
se effettivamente il cugino avesse tentato di raggiungere il Boccino
seguendo
lo stesso percorso del Cercatore avversario, sarebbe arrivato con un
disastroso
ritardo, e i cento punti sarebbero andati ad Hufflepuff.
Ma era comunque una follia buttarsi in un’operazione
così rischiosa: il timido Albus di tre anni prima non
avrebbe mai azzardato
un’azione simile. Non che Albus avesse perso la sua dolcezza
o la sua ingenuità
in quegli anni, ma era subentrata una vena di fermezza e
caparbietà che rendeva
finalmente chiaro perché il Cappello Parlante lo avesse
assegnato a Slytherin.
Rose
si aggrappò al braccio di Macauley; Nott era così
assorto nell’osservare la partita che non protestò
per i batteri del contatto
fisico. Perfino Valentine aveva smesso di sbrodolare stupidaggini al
microfono.
I
due Cercatori si avvicinarono sempre più, le dita di
entrambi tese fino allo spasmo per recuperare il prezioso Boccino.
Albus
avvertì le ali dorate solleticargli i polpastrelli prima di
scontrarsi
rovinosamente contro l’altro giocatore.
I
colori delle due squadre si mescolarono in un groviglio di
gambe e braccia, le scope che roteavano nell’aria prive di
bagaglio umano, e l’aggrovigliamento
di Slytherin e Hufflepuff
si abbatté al suolo con un tonfo secco.
Achill
scavalcò lo spalto degli insegnanti con un salto da
mastino, e accorse a districare i suoi allievi, seguito da una
preoccupatissima
Eeriemay e da un boccheggiante Bartold.
«Albus
Sever… Albus
Sebaru…» Achill ringhiò quasi,
estraendo il suo vecchio apprendista da
quell’intrico di stoffa. «Io ti ha sempre detto che
tuo nome è troppo lungo!»
Bartold
aiutò il Cercatore di Hufflepuff,
stordito dalla caduta, a rialzarsi a sedere; la
Eeriemay si inginocchiò di fianco ad Albus, e lo
sollevò gentilmente
avvolgendogli le spalle con un braccio.
«Va
tutto bene?» si
premurò.
Gli occhi verdi
che
si posarono su di lei erano un po’ troppo vacui per
appartenere ad una persona
in perfetta salute, ma il suo studente diede prova di avere ancora un
minimo di
forze e di lucidità: sollevò nell’aria
il pugno, vittorioso. Le ali trasparenti
del Boccino palpitavano tra le sue dita chiuse.
«Vince
Slytherin!»
l’annunciò di Valentine quasi
sparì, sommerso dalle grida trionfanti della Casa in
questione.
La
fine della partita li aveva sollevati dai propri
incarichi, per cui Scorpius e Haru atterrarono quasi istantaneamente
accanto ai
professori. Il giapponese restituì la scopa al suo compagno
di squadra, mentre
Scorpius si avvicinò reggendo tra le mani quella di Albus.
«Come
sta?»
domandò, fallendo miseramente nel tentativo di mascherare la
propria ansia.
La Eeriemay
cercò
di tranquillizzarlo con un sorriso incerto.
«Credo
che stia
bene. Ma è meglio portarlo da Madamina» decise la
professoressa.
La
mano di Albus ricadde al suolo, e il Boccino ruzzolò
sull’erba. Gli occhi smeraldini cercarono quelli grigi e
rannuvolati di
preoccupazione, e le labbra si curvarono in un sorrisetto tenue.
«Abbiamo
vinto»
gioì Albus, prima di perdere i sensi.
***
Il carattere
giocoso di Hufflepuff permetteva
alla
Casa di non rammaricarsi troppo per
le sconfitte: utilizzarono le vivande comprate in previsione della
vittoria per
organizzare invece un piccolo rinfresco per la squadra e per qualunque Hufflepuff che avvertisse un languore
nello stomaco.
«Sei
stato
fantastico, Haru!» ruggì felice Dallas, battendo
una ciclopica pacca sulle
spalle esili del giapponese. «Ti muovi come un
felino!»
«Non
è niente di
speciale» minimizzò l’asiatico, ma la
sua replica si perse nel roboante
applauso che riempì tutta la sala principale.
«Voi
di Hufflepuff siete
molto… energici» notò
Rose. Era stata invitata da Dallas a prendere parte alla festicciola
– nonostante
la sconfitta, avevano giocato indiscutibilmente bene, per cui la
squadra
meritava di essere acclamata – e lei aveva accettato
volentieri: qualunque cosa
potesse evitarle il pensiero di suo cugino in infermeria era bene
accetta.
«È
abbastanza
divertente, quando ti abitui a questo stile di vita»
affermò Haru, sorbendo un
sorso del suo succo di zucca.
«Non
mi sembra che
tu sia rumoroso come Dallas» confutò Rose.
«Ho
detto
“abituarsi”, non
“adattarsi”» replicò serafico
l’asiatico.
«Sei
troppo
attaccato al significato delle parole» brontolò la
ragazza.
Nemmeno
il carattere di Rose aveva subito sostanziali
cambiamenti con il tempo. Al contrario del corpo: anche se tentava di
nasconderlo con le felpe larghe, sul suo fisico stavano pian piano
maturando le
forme di una giovane donna. Haru lo aveva notato quando una volta, in
biblioteca, la ragazza gli si era rovesciata addosso, e il suo petto si
era
premuto contro quello della giovane.
Haru
affogò quei pensieri in un sorso più lungo di
succo: indugiare
su quei dettagli lo faceva sentire un vecchio maniaco.
«Come
sta Albus?»
domandò, facendo cambiare strada alla propria mente. Finita
la partita, era
stato trascinato da Dallas nella Sala di Hufflepuff,
e non aveva avuto modo di raggiungere l’amico. Rose, al
contrario, era riuscita
ad evitare il delirio dilagante almeno il tempo sufficiente per fare
visita al
cugino.
«Era
ancora
svenuto, quando sono andata in infermeria. Ma Madamina mi ha garantito
che sta
bene» rimbrottò la ragazza.
Scorpius
era riuscito a restare al capezzale di Albus: le Slytherin
avevano ridacchiato e
gorgheggiato un “resta pure, lui ha bisogno di te”
con fare allusivo, e non
avevano fatto pressioni affinché i protagonisti della
giornata fossero presenti
alla baraonda che si sarebbe scatenata poco dopo nella loro Casa. I
ragazzi di Slytherin si erano
limitati a stringersi
nelle spalle e lasciarli soli.
Rose
tirò distrattamente la propria treccia rossiccia,
allungatasi negli ultimi anni. Aveva un sospetto, da molto tempo. Ma
aveva
bisogno di un parere imparziale.
«Haru»
chiese a
bruciapelo. «Tu cosa pensi di Albus e Scorpius?»
Gli occhi scuri
la
fissarono dal bordo dorato del bicchiere senza capire.
«Sono
entrambi due
ottimi giocatori e maghi capaci» stimò, calmo.
Rose lo
invitò a
proseguire con un gesto della mano.
«Scorpius
è forte
con l’orgoglio, e Albus con la dolcezza» aggiunse
Haru.
«Ma
cosa pensi di loro?»
insistette Rose.
Qualcosa nel
tono
impaziente della ragazza gli fece finalmente cogliere il fine
sottinteso della
frase.
«Di…
loro?» Haru le fece eco
nelle parole e
nel timbro. Rose annuì, e il giapponese si trovò
ad annaspare per ricamare una
risposta soddisfacente. «Non ho mai pensato a loro,
sinceramente… ma è plausibile,
suppongo.»
«Quindi?»
si ostinò
Rose.
«Quindi
credo che
la scelta spetti a loro»
concluse
Haru, annegando le labbra nel succo.
Un
assordante “la prossima volta li sconfiggeremo!”
rimbombò
nella Sala, impedendo la comunicazione tra i due. La Casa
continuò a brindare e
a formulare ipotesi su una futura rivincita ad un volume piuttosto
sostenuto,
così le parole di Haru furono udibili solo alla ragazza di Ravenclaw:
«E
tu cosa pensi
di me, Rose-san?»
La
giovane ebbe un guizzo stupito, e lo fissò incredula.
«Perché
questa
domanda?» pretese di sapere.
«Semplice
curiosità» ridimensionò Haru.
«Puoi evitare di rispondere, se lo ritieni
opportuno.»
Rose inalberò il
capo
fiammeggiante: il silenzio era lo scudo dei codardi o dei colpevoli.
«Penso
che tu sia
fondamentalmente un bravo ragazzo» lo lodò, per
smontarlo subito dopo: «Ma
credo anche che tu abbia una tremenda paura di aprirti agli
altri.»
«Non
posso darti
torto» assodò l’asiatico.
«Ci
conosciamo dal
quarto anno, eppure sappiamo pochissime cose di te»
seguitò Rose. «Ancora non
ti fidi di noi?»
Per tutta
risposta,
Haru le indicò una ragazzina del primo anno. Era piuttosto
graziosa, con i
codini castani, gli occhi verdognoli e il sorriso vivace.
«Vedi
quella
bambina?» si assicurò lui. «Aspettavo
con ansia il suo arrivo ad Hogwarts.»
«Conosci
Elizabeth?» si meravigliò Rose. Non era la
discendente di una famiglia magica
particolarmente prestigiosa, e la giovane Weasley sapeva il suo nome
solo
perché la piccoletta si era presentata dopo che si erano
incontrate
sull’Hogwarts Express. Allora non vi aveva prestato troppa
attenzione, ma Haru
aveva sollevato entrambe le sopracciglia nel vedere la bambina, e, per
l’indole
impassibile del giapponese, era come aver urlato a squarciagola.
«No.
Ma vorrei. È
la mia sorellastra.»
La
notizia le piovve come una doccia gelata sul collo, e
Rose sussultò, voltandosi di scatto verso l’amico.
«La
tua
sorellastra?» ripeté. «E non la
conosci?»
Haru
annuì, un’espressione serena e addolorata sul viso.
«Non
è che non mi
fido di voi» mormorò l’orientale.
«Ma il mio passato non è un argomento di
conversazione felice, nella maggior parte dei casi.»
Fu
il turno dell’asiatico per trasalire, quando Rose gli
circondò le spalle con un braccio.
«È
per questo che
servono gli amici: per affrontare le cose che ci hanno fatto soffrire e
risolverle» sentenziò gentile. «Ce ne
parlerai, quando ti sentirai pronto?»
Il
sorriso del giapponese fu uno dei più sinceri che avesse
mai usato in sua presenza.
«Ve ne
parlerò»
promise. Rose annuì soddisfatta e si staccò da
lui, per poi rivoltargli contro
la sua stessa domanda:
«E tu
cosa pensi di
me?»
L’asiatico
non fu rapido come lei nel rispondere. Giocò
pigramente con il bordo del bicchiere, percorrendolo più
volte con il dito, prima
di affermare, sincero:
«Sono
molto felice
di averti conosciuta, Rose-san.»
E
fu con enorme soddisfazione che vide le guance della
ragazza tingersi di un rosso appena percepibile.
***
Gli occhi di
Louis
possedevano un invidiabile colore azzurro slavato, paragonabile ad un
cielo
estivo. Quel giorno, però, il cielo era in tempesta.
«Non
farlo mai
più.»
«Cos’è
che non devo
fare?»
«Coinvolgermi
nelle
tue idiozie durante le partite di Quidditch.»
Valentine
ruotò gli
occhi al cielo. Ben due Case stavano festeggiando, chi per la vittoria
e chi
per consolazione, e loro erano in biblioteca a studiare. Davvero grama,
la vita
del tutore. Specie durante l’ultimo anno, da quando il
temperamento di Louis si
era diretto con decisione verso l’intrattabilità.
«Così
non ti
scorderai di me» minimizzò Valentine, scrollando
le spalle.
«Non
potrei mai
scordarmi di te» sibilò l’altro,
calcando con troppa forza il pennino sulla
pergamena: la punta si spezzò, spandendo
un’orribile macchia nera.
«Davvero?»
chiese
Valentine, mentre il più piccolo armeggiava per rimuovere
quello sbafo
ignominioso.
«È
dal primo anno
che sono costretto a sopportarti» rimuginò Louis.
«Non potrei scordarti nemmeno
se volessi.»
Si
aspettava una frecciatina, oppure una pagliacciata, ma
gli rispose solo il silenzio. Rialzò lo sguardo, e quasi si
spaventò nel notare
l’altro che lo fissava con un’espressione di
angelica beatitudine.
«Grazie»
si
compiacque Valentine.
«Non
era un
complimento» gli rese noto Louis.
«Invece
lo era. È
rassicurante sapere che qualcuno non si scorderà di me,
nemmeno se dovessi
sparire» fu la criptica replica del più grande.
Le
iridi cerulee si tinsero di incomprensione.
«Sparire?»
ripeté
Louis.
L’indice
di Valentine picchiettò sul libro di testo.
«Manca
l’ultimo
esercizio» gli ricordò, ammutolendo subito dopo.
Louis
lo fissò ancora qualche istante, indeciso, poi
riportò
sguardo e attenzione sulle esercitazioni.
C’erano
giorni in cui davvero non capiva cosa passasse
per la testa a soqquadro di Valentine.
***
«Ma
siete sposati,
per caso?»
Scorpius non
rispose subito: la sua concentrazione era assorbita dal volto pallido e
immobile dell’amico, e gli occorse qualche istante per capire
che Madamina
stava parlando con lui.
«Ogni
volta che uno
si fa male, l’altro resta al suo capezzale fino
all’alba» chiarì la dottoressa.
«Ho visto coppie sposate resistere molto meno.»
C’era
una chiara
contraddizione nel discorso di Madamina: non vedeva come, curando
adolescenti
dai quattordici ai diciassette anni, potesse mai avere avuto a che fare
con
coppie sposate. Ma non si azzardò a domandare: non voleva
che l’infermiera prendesse
il suo dubbio come un aggancio per narrargli delle sue passate
avventure. Non
che i racconti di Madamina fossero noiosi, anzi, la maggior parte delle
sue
vicissitudini avrebbe trovato un’ottima collocazione in
un’antologia di genere
avventuroso. Ma non aveva voglia di ascoltare le sue favole mentre
Albus era
ancora privo di sensi.
La
dottoressa controllò i valori del ragazzo, cambiò
la
flebo ed uscì, lasciandolo solo con il compagno.
«Hai
sentito?» domandò, rivolto al giovane
addormentato. «Fanno insinuazioni mentre tu non puoi
rispondere.»
Avrebbero
dovuto essere nella loro Casa a festeggiare,
invece erano di nuovo nel regno di Madamina.
Erano
finiti spesso in infermeria a causa del Quidditch:
dita insaccate, ginocchia sbucciate, caviglie provate erano
all’ordine del
giorno. Per non parlare del periodo in cui avevano fatto da apprendisti
ad
Achill: Madamina aveva quasi pensato di creare una tessera di
fedeltà solo per
loro.
Ma
non era mai stato inquieto come quel giorno. Aveva notato
la prima fase della caduta di Albus, anche se era stato deconcentrato
dalla
partita: l’amico era scivolato dalla scopa come se avesse
avuto un malore, e i secondi
in cui era rimasto a terra, appallottolato su se stesso, non avevano
fatto che
rafforzare quell’impressione.
Il
volto di Albus appariva diafano nella luce rarefatta
dell’infermeria, e Scorpius sollevò una mano per
sfiorare la guancia
dell’amico. Era tiepida e immobile, e non reagì al
suo tocco imporporandosi
come sempre.
Allungandosi
su di lui, però, Scorpius poté notare un
dettaglio che prima gli era sfuggito: una sottile linea scura spuntava
dallo
scollo rotondo della maglietta del giovane. Avrebbe pensato ad un
capello
incastrato nel colletto se il nero di quella riga non fosse stato
così
innaturale.
Sperò
che Madamina non rientrasse in quel momento, o avrebbe
dovuto sopportare le sue battutine per un bel pezzo: si sporse
sull’amico svenuto
e abbassò lo scollo della maglia in modo da denudare la
spalla.
Sentì
il sangue ritrarsi nelle vene quando, sulla pelle
liscia di Albus, fu visibile un’orribile stigmate scura.
Aveva le dimensioni di
un insetto, ed il colore tenebroso che la costituiva non era fermo, ma
formato
da strani caratteri orientali in continuo mutamento
all’interno del confine dell’innaturale
cicatrice.
«Non
dovevi
scoprirlo così.»
Scorpius
non si sorprese troppo nel voltarsi e riconoscere
Haru, in piedi sulla porta della camera. Aveva sospettato un suo
coinvolgimento
nel momento stesso in cui aveva visto quegli ideogrammi agitarsi
all’interno
della ferita.
«E
come dovevo
scoprirlo?» rivestì la spalla
dell’amico, mentre poneva quella domanda. Ad
Albus non avrebbe fatto piacere rimanere scoperto troppo a lungo.
«Te ne
avrebbe
parlato lui» rispose Haru. Rose aveva fatto ritorno al
dormitorio della sua
Casa, e lui era riuscito a strisciare fuori dalla Sala per andare a
visitare
l’amico. Si era aspettato la presenza di Scorpius, ma non che
avesse scoperto
il segreto di Albus.
«E da
quando ne ha
parlato con te?» lo interrogò Scorpius.
«Da
quando mio
cugino ci ha attaccati.»
Il
grigio freddo delle iridi avvampò di irritazione,
visibile nonostante gli sforzi di Scorpius di contenersi.
«Quindi
sono passati
due anni.»
«Sono
davvero
spiacente» si scusò Haru.
Scorpius
ritrasse le labbra, per evitare di lasciarsi
sfuggire qualcosa di molto antipatico. Tutti loro si erano abituati
alla
riservatezza dell’asiatico, ma l’idea che Albus gli
avesse tenuto nascosto
qualcosa per tutto quel tempo lo irritava terribilmente.
«Era
sparito» lo
difese Haru. «Una settimana dopo, quel graffio era sparito
senza lasciare
traccia. Probabilmente pensava che si trattasse di una ferita
passeggera, e per
questo non ve ne ha parlato. L’ho creduto anche io, fino ad
oggi.»
Il
suo animo fu lievemente ammansito da quella seconda
informazione. Almeno, Albus aveva taciuto su una cosa che credeva
volatilizzata.
Lo avrebbe perdonato più facilmente, sapendo che non aveva
mantenuto un segreto
in malafede.
«Come
è successo?»
chiese Scorpius, passandosi una mano sul viso.
«Deve
essere stato
colpito da uno dei famigli di mio cugino» ponderò
Haru. «A giudicare dalla
forma della cicatrice, direi un verme.»
Quell’ultima
considerazione aprì uno squarcio nella memoria
di Scorpius: Macauley che puntava un dito tremante sulla spalla di
Albus,
tartagliando qualcosa su un lombrico. E lui lo aveva rimproverato,
dicendogli
che un invertebrato non avrebbe rappresentato il peggiore dei loro
problemi. Ironia
del destino, proprio quel lombrico era stato il veicolo della ferita
nera sulla
spalla di Albus.
«Era
sparita»
rimarcò Haru. «Senza lasciare la minima traccia.
Oggi è ricomparsa per la prima
volta in due anni.»
«Cosa
potrebbe
essere?» indagò Scorpius, ipnotizzato dalla spalla
dell’amico: anche se la
maglia era stata rimessa al suo posto, gli pareva di vedere ancora il
graffio
nero allungarsi sulla pelle lattea.
Haru
mostrò le mani
in segno di resa, sconsolato.
«Ho
cercato sui
miei testi di magia, ho consultato mio nonno, ne ho parlato anche con
Eeriemay-sama e il corpo docente. Nessuno conosce questa particolare
fattura.»
«Quindi
non avete
idea dei danni che potrebbe provocare» concluse gelido
Scorpius.
«No»
ammise
amaramente Haru. «Alla luce di quanto avvenuto oggi,
Eeriemay-sama ha supposto
che sia qualcosa di simile alla cicatrice che il padre di Albus-kun
aveva sulla
fronte. Anche Harry-san soffriva di terribili dolori
per…» Haru si sfiorò la
fronte, allusivo.
«Ma
tuo cugino non
ha tentato di uccidere Albus» ricordò Scorpius.
«No.
Infatti dubito
che sia in qualche modo riconducibile alla tipologia di suo
padre» confermò l’orientale.
«Il
problema
centrale resta» controbatté l’altro.
«Non sappiamo cosa sia e cosa potrebbe
comportare.»
Haru
annuì gravemente, incrociando le braccia.
I
pugni del ragazzo di Slytherin
si strinsero sulle ginocchia. Non poteva accettare che Albus
affrontasse quel
pericolo da solo, senza che lui potesse fare nulla.
Di
nuovo, fu la memoria a soccorrerlo.
«Potrebbe
trattarsi
di una di quelle nuove magie oscure di cui ci avevi parlato al quarto
anno?»
sondò.
«È
possibile»
asserì Haru.
«Quindi
la
soluzione potrebbe risiedere non nella magia conosciuta ma in un nuovo
incantesimo» teorizzò Scorpius. Il giapponese
annuì di nuovo e l’altro domandò:
«È possibile entrare a far parte di quel centro di
ricerca di cui ci avevi
parlato?»
Le
spalle dell’asiatico si raddrizzarono con serietà,
e il
suo sguardo si incupì.
«Scorpius-kun,
il
motivo per cui ti stai proponendo è nobile, ma ti invito a
riflettere con
serietà. Se deciderai di aderire, non potrai andartene dopo
aver trovato una
cura per Albus-kun: abbiamo bisogno di maghi che possano garantire un
impegno
assiduo e costante. Sei pronto ad impegnarti con il nostro gruppo per i
prossimi anni, se necessario?»
Scorpius
trovò la sua decisione nel viso scolorito
dell’amico: chi lo avrebbe aiutato, se lui si fosse tirato
indietro?
«Sono
pronto»
dichiarò sicuro.
Il
giapponese lo scrutò con mortale serietà, alla
ricerca di
un minimo tentennamento nella sua persona. Non ne trovò
nemmeno l’ombra, per
cui lo accolse formalmente:
«Benvenuto
tra noi,
Scorpius-kun. Domani parleremo meglio del tuo inserimento in uno dei
gruppi di
ricerca.»
Haru
sparì dalla stanza dopo essersi inchinato velocemente,
e Scorpius gli fu grato per la sua discrezione.
Le
sue dita scivolarono sulle coperte, andando a raggiungere
la mano di Albus, abbandonata lungo il fianco, e si strinsero attorno
alle
compagne.
Non
avrebbe lasciato andare quella mano.
Non
proprio ora che l’amico aveva bisogno di lui più
che
mai.
***
C’era
qualcosa di oscuro e strisciante,
tutto intorno a lui.
Lo
sentiva
arrotolarsi vicino alle sue caviglie come un serpente.
Rimase
immobile,
sperando che quella bestia lo sorpassasse velocemente. Invece la
presenza
viscosa rimase attaccata ai suoi piedi, e gli parve di avvertire il suo
ghigno
sadico contro la tibia.
Poi,
all’improvviso, dall’oscurità cadde
qualcosa. Una pesante goccia gli piovve sul
viso, seguita da un’altra sulle mani, e un’altra
ancora sul petto, finché quel
liquido pastoso non diventò un incessante scroscio intorno a
lui.
Lo
riconobbe.
Rosso,
salato,
caldo.
Era
sangue.
L’ombra
pioveva
sangue.
Si
risvegliò con il
cuore in gola e la fronte madida di sudore, le labbra spalancate in un
rantolo
inconsulto.
Riuscì
a calmarsi solo quando riconobbe le pareti chiare e
l’odore asettico dell’infermeria. Trascorse un
secondo e si agitò di nuovo, ma
per un motivo molto più piacevole: la sua mano era
intrappolata nella presa
gentile di quella di Scorpius.
«Sei
rimasto qui
tutta la notte?» esclamò, prima di riuscire a
controllare la sorpresa.
Scorpius
si rialzò mollemente dal materasso, battendo più
volte le palpebre incollate dal sonno. Anche lui impiegò
qualche istante per
mettere a fuoco il posto in cui si trovava.
Albus
sentì il cuore martellargli nella testa quando
l’altro
non lasciò la presa sulla sua mano, nemmeno quando fu del
tutto sveglio e
lucido. Al contrario, Scorpius avvicinò le dita
dell’amico al proprio petto
quando esordì, la voce ancora arrochita dal sonno:
«Albus,
devo
parlarti di una cosa…»
La
conversazione venne troncata sul nascere da un urlo
raccapricciante, che fendette l’aria insonnolita della
mattina.
«Valentine!»
strillò una voce femminile, scheggiata di panico e orrore.
Albus
rabbrividì da capo a piedi, mentre l’incubo
prendeva
forma nel mondo reale.
L’ombra
pioveva
sangue.
Finalmente
al
sesto anno, dove i giochi si complicano<3
Di
nuovo, mi
inchino e chiedo il vostro perdono per il ritardo
ç___ç Ma gli esami
universitari incalzano e, se non si passano, non si parte per il
Giappone a
marzo .-.
Anyway<3
Eccoci
finalmente
al sesto anno e i nostri eroi entreranno in tempesta
ormonale, cribbio! <3
Una
piccola nota
sui suffissi usati da Haru:
San:
suffisso onorifico piuttosto generico,
usato per le femmine e per i maschi.
Kun:
si utilizza tra coetanei, amici di
sesso maschile o ragazzi più piccoli; non si usa con le
ragazze (sarebbe come
dare loro degli uomini XD)
Sama:
onorifico più formale di –san,
utilizzato verso persone superiori in gerarchia.
Ciò
detto… mi
metto subito a scrivere il prossimo capitolo, non voglio farvi
aspettare ogni
volta quasi un mese ç_ç
A
presto<3
Red
Bacheca
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