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Autore: Angeline Farewell    24/01/2013    8 recensioni
What if Pre-Thor (Movies).
Tom Hiddleston ha sognato di diventare attore da quasi tutta una vita spesa ad inseguire rune e lingue magiche e morte: in apparenza tranquillo e solare, nessuno - nemmeno i suoi genitori - erano mai riusciti ad intuire la polpa più profonda delle sue pulsioni e delle sue ambizioni.
Chris Hemsworth è sempre stato troppo bello per non essere notato, persino in una famiglia come la sua in cui la bellezza è normalità. Il voler diventare attore seguendo le orme del fratello maggiore sembra una scelta quasi scontata che persegue però con insolita testardaggine e dedizione, perchè Chris non lascia mai le cose a metà.
Nessuno dei due è abituato a farlo, persino se sono cose cominciate tanto tempo prima, in un tempo e in un mondo che non ricordano.
[Hiddlesworth/Thunderfrost (sort of)]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: What if? | Avvertimenti: Incest
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- Questa storia fa parte della serie 'Samskeyti '
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E il cuore altrove


Atto III, Scena I.

In New Mexico fa troppo caldo per Tom. Lui è inglese, è abituato alle mattine nebbiose in cui tagli la foschia con un coltello, in cui il freddo è tanto pungente da poterlo quasi toccare. È abituato all’aria frizzante che ti brucia i polmoni e gli occhi, ai colori scuri e sfumati. In New Mexico fa troppo caldo e i colori sono troppo accesi. Fa troppo caldo e sta perdendo troppo peso, ha fame ma non riesce a mangiare. Perché fa troppo caldo. Perché è troppo nervoso e ha paura gli risalga tutto in gola senza preavviso.
Kat quella mattina gli ha tenuto da parte un muffin al cioccolato ripieno di crema e gli è venuto quasi da piangere, perché lui adora i muffin, ma avrebbe girato una scena con Tony (e, Dio, ancora non riusciva a credere di poter chiamare per nome – e con un diminutivo! – Anthony Hopkins) e la paura di vomitargli addosso mentre era strizzato nei panni di Loki era stata più forte della fame, dunque si era trovato costretto a declinare e a mentirle.

“Ho già fatto colazione, mia cara, ma ti ringrazio infinitamente di aver pensato a me, la tua sola presenza ha illuminato questa altrimenti uggiosa giornata.”

Il sole era già alto e rovente nonostante fosse mattino presto e Tom le aveva preso la mano per baciarne il dorso. Kat aveva finto di arrossire vezzosa e poi aveva addentato il muffin mangiandone metà. Era diventato un gioco carino quello tra loro, Kat adorava quando si atteggiava a gentiluomo d’altri tempi esasperando in modo anche comico il suo accento britannico, le recitava con studiato istrionismo oscuri poemetti shakespeariani solo per il gusto di vederle sollevare un sopracciglio poco convinta. Tutti pensavano stessero flirtando – persino Ken. E Chris. – ma la verità era non riuscisse più ad inquadrare il suo stesso posto nel mondo: dodici mesi prima una ragazza come la Dannings sarebbe stata talmente al di fuori della sua portata che avrebbe evitato persino di guardarla troppo a lungo. Ed invece si ritrovava in una specie di deserto statunitense con i capelli di un altro colore e Kat che nemmeno si preoccupava di cambiarsi il pigiama prima di portargli i muffin. Ma non stavano flirtando, perché avevano entrambi già qualcuno e una storia da set senza alcun futuro non interessava a nessuno dei due. Forse.

In realtà era capitato un paio di volte si fossero ritrovati decisamente troppo vicini e troppo soli per riuscire a frenare la voglia di mordere quella bocca bellissima, ma erano state debolezze di un momento che non avevano lasciato tracce né imbarazzo, perchè avevano più o meno la stessa età e che male poteva fare giocare un po’? Katy aveva sempre finto di non reggere l’alcol, dopo, gli aveva dato una pacca sul culo e l’aveva salutato baciandolo di nuovo.

Kat era bella da morire e aveva tutto quello che gli era sempre piaciuto in una donna, ed era simpatica e intelligente e terribilmente pungente.
In un'altra vita l’avrebbe considerata perfetta e si sarebbe preso una cotta da non dormirci la notte. Ma.
Il problema erano probabilmente i capelli, non era abituato a guardarsi allo specchio e non trovarci una massa indomabile di riccioli biondi: era un golden retriever e l’avevano trasformato in un terranova. O un pincher. Sì, più un pincher, non era mai stato nemmeno così affilato e, trattandosi di lui, era tutto dire.
Quando lui e Chris erano ancora a Londra, almeno, aveva ancora un corpo decente, credeva lui.

La prima volta che l’aveva visto ci era rimasto come un idiota, perché davvero, come avevano fatto ad avere tanti problemi con il casting di Thor? Quel tipo era Thor in tutto e per tutto, le sue braccia erano la metà di quelle dell’australiano anche quando aveva cominciato a mettere su massa muscolare. Ed aveva preso quasi dieci chili, non certo pochi grammi.

Dopo l’imbarazzo del primo incontro le cose tra loro erano andate inaspettatamente bene, quasi correre alle sei del mattino su un prato ancora bagnato di pioggia potesse essere considerato un collante plausibile.

Tom correva dagli anni di Eton, lo aveva sempre aiutato a rilassarsi e a pensare meglio e preferiva di gran lunga farlo all’aria aperta, anche se sotto la pioggia. Chris, dal canto suo, aveva sempre fatto tantissimo sport e – onestamente – si notava, il jogging era solo uno dei tanti e non gli cambiava nulla correre sulla spiaggia a su un tapis roulant, perché in entrambi i casi poi afferrava la tavola e correva a cavalcare onde.

Avevano corso per svariati chilometri prima di tornare indietro verso la tenuta ed avevano chiacchierato per quasi tutto il tempo, o meglio, Tom aveva chiacchierato, Chris si era limitato a rispondere e dire qualche volta la sua; cosa che a Chris sembrava non dispiacere più, lo aveva lasciato parlare liberamente, aveva persino riso alle sue battute – riso davvero – e ai suoi commenti caustici. Tom aveva scoperto con piacere che avevano il medesimo senso dell’umorismo e la passione per gli stessi film, che la loro infanzia non era stata così diversa, perché le famiglie felici si somigliano sempre ed anche la sua, tanto tempo prima, era stata una famiglia felice.

E nel bel mezzo del deserto del New Mexico, un po’ sentiva di essere tornato ai suoi otto anni, quando giocava con le sue sorelle e i suoi cuginetti ad inventare storie avventurose per poi metterle in scena in giardino, o in salotto: doveva indossare un costume pomposo e un elmetto scintillante, un mantello da cavaliere e un’arma di altri tempi, poteva fingere di star calpestando un prato erboso inseguendo altri bambini come lui.

Tom non aveva mai avuto davvero paura delle sfide, gli piaceva anzi l’eccitazione che l’ignoto gli procurava, ogni nuovo progetto era per lui una pagina nuova da riempire, schizzare, scrivere fino all’ultima riga e nel miglior modo possibile. Nel lavoro non lasciava mai nulla al caso, si esercitava e provava, ogni passo era un esercizio di disciplina e rigore, perché un piccolo errore poteva diventare una nuova tacca a suo sfavore e non poteva permetterselo. Aveva un sogno da realizzare e qualcuno da portare sul tappeto rosso a testimoniare la sua vittoria.
Quindi quella scena con Tony doveva necessariamente andare bene e doveva riuscire al primo ciak, perché Anthony Hopkins non amava essere costretto a ripetere le scene, la perfezione a lui riusciva naturale.
Quindi niente muffin, nemmeno al cioccolato, niente distrazioni – nemmeno la bocca di Kat – e niente insicurezze.

“Allora Tom, sei pronto?”

Kenneth gli era arrivato alle spalle senza che se ne accorgesse e aveva dovuto fare appello a tutto il suo autocontrollo per non trasalire. Il regista era imbacuccato in una grossa sciarpa scura che gli copriva mezza faccia e – Tom ne era quasi certo dopo avergli vissuto incollato per mesi in Svezia – sicuramente l’aveva indossata perché si era dimenticato di radersi. O di lavarsi la faccia. Forse entrambe le cose. Non che Branagh fosse sciatto, il problema era che soffriva del male che coglie molti attori di professione che vivono di teatro: diventava un tutt’uno con i suoi personaggi e l’essere stato Kurt Wallander per i precedenti due anni era stato piuttosto deleterio per un irlandese già prono di suo all’intimismo. Ed anche un po’ allo struggimento eccessivo, ecco, perché la verde Irlanda è umida più che felice, e Joyce è la prova che non è solo in Danimarca che c’è del marcio.

Tom aveva tenuto naturalmente per se quelle considerazioni e si era limitato a sorridere tentando di mascherare l’apprensione, ma se non aveva una telecamera – o un pubblico – davanti, fingere gli riusciva malissimo. Perché Ken gli aveva dato una pacca sulla spalla con un sorriso paterno e l’aveva spinto verso l’interno degli studi senza aggiungere altro.
Chris ovviamente non c’era, lui non aveva scene per quel giorno e probabilmente era rimasto a Santa Fè, in palestra.

Quindi era da solo. Più o meno. Tony era già in studio e parlava da solo nonostante fosse circondato da tecnici e costumisti, era evidente non vedesse nessuno e fosse già proiettato nella scena, e a Tom mancò un battito. Non poteva rovinare tutto, ma aveva paura, non vedeva l’ora di potersi provare in quella scena terribile, ma sentiva la lingua come un blocco di marmo.
Kenneth gli si era avvicinato di nuovo, con circospezione stavolta, e gli aveva offerto una bottiglietta d’acqua con un gesto secco. L’aveva preso piano per un braccio e aveva cominciato a parlargli in modo quasi cospiratorio guardandolo dritto negli occhi, serio e rigido.

“Tom, ascoltami bene. Per questa scena voglio che ti spogli completamente di qualunque emozione razionale e adulta, voglio vedere un figlio tradito, voglio vedere un bambino disperato, voglio che qualunque parvenza di ragionevolezza, maturità, carisma tu possieda sparisca completamente. Non sei più un uomo, sei di nuovo un bambino.”

Un bambino. Ken voleva un bambino triste, disperato. Alzò lo sguardo verso la figura rigida e fiera di Odino che si stagliava netta contro lo sfondo dorato. Disperato.

Tom non si accorse quando smisero di girare, capì che la scena era conclusa perché Tony si stava rialzando con l’aiuto di un paio di attendenti: si spostò lasciando che il vecchio attore si rialzasse, impacciato dal voluminoso costume di scena. Aveva il viso bagnato, Tony aveva gli occhi lucidi, Ken era quasi uno straccio – ma nel suo caso era quasi scontato – e parecchi tecnici non avevano un’aria migliore. Non si era nemmeno accorto d’aver cominciato a piangere e, d’un tratto, temette d’aver esagerato, di aver caricato troppo l’interpretazione: il cinema non è come il teatro, l’istrionismo non solo è sconsigliato, ma ridicolo.

Stava per andare da Ken, da Tony, voleva chiedere scusa, pregarli di fare un altro ciak, ma i due stavano già chiacchierando, Ken gli stava ovviamente facendo i complimenti e non riuscì a credere alle sue orecchie quando sentì Tony congratularsi per “il ragazzo”, perché era stato bravo, molto bravo. Tom non aveva potuto far altro che rispondere con un sorriso ebete allo sguardo compiaciuto, persino orgoglioso di Ken.

Quando era tornato al suo trailer era pomeriggio inoltrato.

Era stanco, soddisfatto e affamato e, visto com’era andata la giornata, poteva tranquillamente concedersi non solo la cena, ma anche un po’ di quei muffin al cioccolato: chissà dove se li procurava Katy.

Quando Chris era entrato – senza bussare – aveva appena finito di rivestirsi, ma non se ne preoccupò, fosse anche arrivato dieci minuti prima, non si era mai sentito in imbarazzo davanti a lui e avevano diviso abbastanza docce in palestra da essere a proprio agio l’uno con l’altro.

Quel che lo preoccupò fu proprio la sua presenza sul set, perché Chris non aveva scene da girare quel giorno.

“E’ successo qualcosa di cui dovrei essere informato?” era stato l’unico saluto, ma l’altro non se n’era adombrato. Presumibilmente non se n’era nemmeno accorto.
“Assolutamente nulla, sono qui perché dovevamo fare dei sopralluoghi per la scena di domani notte, volevo provare il terreno. Ma cos’è questa?”
“Aspetta, fermo, Chris è pericoloso…”
“Ma è una frusta! Che ci fai con una frusta qui dentro?” e lo sguardo che gli aveva rivolto era tutt’altro che innocente. E, quasi a voler dare conferma di una qualche impronunciabile perversione, Tom era arrossito.
“Non è quello che pensi! Mi serve per allenarmi! Mettila via ora, potresti farti male.”
“Andiamo, non farmi ridere, sono cresciuto come un selvaggio, andavo a caccia di alligatori prima ancora che tu mettessi piede a Eton.”
“Molto spiritoso. Non è questo il punto, bisogna sapere come si usa, potresti cavarti un occhio.”
“Io dico di no.”
“Io dico di sì.”
“No.”
“Sì- Oh, fa’ come ti pare.”

Chris gli aveva rivolto il suo sorriso migliore, aperto e sfrontato, perché l’aveva avuta di nuovo vinta e avrebbe giocato con il giocattolo proibito. E Tom non aveva potuto fare a meno di sorridere a sua volta. Si era allontanato un po’, però.

Chris si era posizionato come tutti i dilettanti, a gambe larghe e con l’impugnatura della frusta rivolta verso se stesso invece che verso l’esterno del corpo. Aveva tentato di suggerirgli una posizione differente, ma troppo tardi, Chris aveva già lanciato la corda. Che gli era ritornata ovviamente dritta in un occhio.

Atto III, Scena II.

L’autista che si occupava dei loro spostamenti era un tipo terribilmente silenzioso nonostante le evidenti origini latine. O almeno, il pregiudizio dei latini tutti rumorosi e chiacchieroni era duro a morire e, sia Tom che Chris, avevano difficoltà a non sentirsi a disagio davanti alla faccia brunita ed immobile di Rafael. Cosa che non rendeva esattamente rilassanti i due viaggi giornalieri di trenta minuti ciascuno dal set a casa.

Quella sera, però, Tom sembrava aver rimosso la faccia di marmo dell’autista, riusciva solo a fissare Chris tentando di non scoppiare a ridergli in faccia. Impresa vana.

“Non fare quella faccia, in fondo ci hai procurato due giorni di vacanza imprevisti. Non è meraviglioso?”

Chris si era abbandonato sul comodo divanetto posteriore del grosso SUV con l’aria afflitta e una borsa di ghiaccio sull’occhio che cominciava a gocciolare ovunque, ma trovò comunque la forza di mostrargli il dito medio.

“Hiddleston, non una parola di più.” Aveva provato a ringhiare. Il problema era che con Tom proprio non gli riuscisse di arrabbiarsi davvero, nemmeno quando lo prendeva così palesemente per il culo.

“Questa è tutta colpa tua!” E non aveva avuto intenzione di dirlo come se stesse piagnucolando.

Tom aveva non solo cominciato a ridere più forte, a quel punto era in debito d’ossigeno. Bastardo.

Solo quando erano entrati in casa – la casa che dividevano ormai da svariate settimane – Tom aveva smesso di ridacchiare e gli aveva tolto il sacchetto del ghiaccio ormai quasi completamente sciolto dal viso.

“Guarda che non sei Puffo Ghiacciolo per davvero, non mi calmi il bruciore con la sola imposizione delle mani.”

Tom gli aveva fatto la linguaccia e aveva smesso di tastargli il gonfiore che cominciava a tendere ad un pericoloso bluastro.

“Sei tu quello che sta diventando blu, principessa.” E l’aveva trascinato in cucina, perché Tom non era un medico, ma le due bistecche che tenevano in frigo sarebbero state utili sia per il buco che aveva nello stomaco, che per l’occhio di Chris.

Il mattino seguente Chris si era svegliato con la testa pesante e la faccia che – miracolosamente – non gli faceva male quasi per niente e non sapeva se dover ringraziare la bistecca (che poi si era anche mangiato, nonostante l’espressione vagamente disgustata di Tom: era buona!) o gli anti dolorifici. In entrambi i casi, sentiva odore di bacon, quindi il resto passava in secondo piano.

Tom era in cucina e, da quel che poteva vedere dallo stato in cui era, si era svegliato da parecchio.

“Buongiorno. Potevi svegliarmi, un paio di vasche le avrei fatte volentieri anch’io.”

Tom si era girato a guardarlo sorpreso, ma si era rilassato subito ed aveva ripreso a controllare il bacon che sfrigolava allegramente in padella.
La sua routine giornaliera era cominciata già da un paio d’ore e i capelli arruffati e ancora leggermente bagnati denunciavano la capatina in piscina, ma faceva caldo e il richiamo dell’acqua era stato davvero troppo invitate per poterlo ignorare. Aveva ancora addosso il costume da bagno e l’enorme t-shirt – che probabilmente era di Chris, ma non ci aveva fatto troppo caso, aveva preso la prima cosa pulita trovata – che indossava era bagnata in più punti.

“Buongiorno. Guarda che ci ho provato a svegliarti, ma sembrava bussassi all’uscio di una catacomba: mi ha risposto il nulla. Lo sapevo che l’odore di fritto ti avrebbe riportato dal mondo dei morti.”

“Spiritoso. Ho fame, ieri sera non mi hai fatto cenare!”
“Hai mangiato metà della tua bistecca e parte della mia, come fai a dire che non hai cenato?”
“Mi hai costretto a rinunciare a metà della mia bistecca, cedermi un misero boccone della tua è stato il minimo che potevi fare.”
“Un misero… Quella carne era stata a contatto con la tua faccia gonfia, sanguinante e unta d’antisettico: non potevi mangiarla.”
“L’avrei cotta, il fuoco disinfetta tutto.”
“Chris, non funziona proprio così…”
“Ho fame, dai, voglio il bacon…”
“D’accordo, d’accordo, è pronto, tieni.”

Non era abitudine per loro, nonostante vivessero insieme non avevano mai avuto il tempo di prepararsi una colazione vera a casa: uscivano che di solito era da poco sorto il sole e Tom non amava fare colazione appena sveglio, quindi preferivano arrivare sul set e mangiare qualcosa con gli altri e rilassarsi prima di cominciare le riprese. Eppure sembrava non avessero fatto altro tutta la vita data la semplicità con la quale per loro tutto diventava quieta routine. Nonostante la loro evidente diversità.

“E poi andiamo a nuotare: non mi sono fatto un occhio nero per niente.”

Avevano scelto quella casa esattamente per quel motivo, per quel giardino sul retro che ricordava ad entrambi gli spazi dell’infanzia. L’avevano scelta soprattutto per quel che conteneva quel giardino. Chris era quasi impazzito quando aveva letto l’annuncio nella bacheca dell’agenzia immobiliare, erano andati lì per cercare una casa da fittare per quei mesi a Santa Fè, ci erano andati tutti, nessuno voleva passare il tempo in un albergo. Tom si era sentito tirare da una parte e si era visto indicare l’annuncio con infantile trasporto e un sorriso immenso. Tom non sapeva quando avessero deciso di vivere insieme, in realtà non sapeva nemmeno se l’avessero davvero fatto, non ricordava neppure ne avessero parlato. Eppure quel dettaglio non sembrò turbarlo per niente, ne sembrò turbare Chris, che già era corso a parlare con un impiegato.

“Avete già opzionato quella? No, stavo pensando di prenderla anch’io!”

Nemmeno Natalie sembrava turbata dal fatto lui e Chris avrebbero vissuto insieme: nessuno sembrava essersi aspettato nulla di diverso a quanto sembrava. Neanche lui a pensarci bene.

E dunque si erano ritrovati lì, a bordo piscina, dopo aver trascorso la mattinata di quel prezioso giorno libero giocando come bambini nell’acqua, lanciandosi dal trampolino in evoluzioni ridicole e scoordinate, ma soprattutto scivolando ridendo come stupidi dal meraviglioso water slide che li aveva spinti verso quella casa in primo luogo.

Era quasi ora di pranzo e avrebbero dovuto ritrovarsi alla Posada entro un paio d’ore, avevano prenotato la sera prima proprio perché nessuno dei due aveva voglia di cucinare o di take away. Il ristorante era a pochi minuti da casa loro, d’accordo, ma avrebbero comunque dovuto cominciare a vestirsi; almeno a farsi la doccia.

Invece niente, se ne stavano sdraiati a bordo piscina punzecchiandosi come ragazzini. E Chris continuava a prendere in giro Tom.

“Oh, andiamo, perché non vuoi dirmelo?”
“Ma non c’è niente da dire, lo sai che ho già una ragazza!”
“Che non vedi da mesi e non senti già da un bel po’. Viviamo sotto lo stesso tetto e sono cresciuto con due fratelli, la privacy è un concetto relativo e io ci sento benissimo. Quindi sputa il rospo: è vero quel che si dice?”
“Ma piuttosto vorrei capire cosa si dice, e su quali basi, poi.”
“Tu e Kat! E andiamo, Tom, sei inglese, mica scemo, non venirmi a dire che non hai notato che le piaci.”
“Anche lei mi piace, ma questo non vuol dire debba essere successo chissà cosa. Non sono caloroso fino a questo punto.”

Chris si era sollevato su un gomito ed aveva cominciato a studiarlo con attenzione. Senza il cerone, che lo smagriva ulteriormente, si notavano tutte le minuscole efelidi che gli coprivano il naso e le guance: non ci aveva mai fatto caso, ma c’erano e il sole le rendeva ancora più evidenti.
Da quanto vivevano insieme, due mesi? Forse anche di più. In quei mesi Chris aveva sentito regolarmente – e ad orari assurdi causa fuso orario – la sua famiglia, anche via e-mail, era riuscito addirittura a rosicchiare un po’ di tempo per qualche videochiamata un po’ più privata con Elsa. Perché Elsa gli piaceva e gli piaceva molto, anche se si erano conosciuti da poco. Per questo dunque non riusciva a capire Tom: in tutto quel tempo le telefonate che aveva diviso con sua madre poteva contarle sulla punta delle dita, quelle con suo padre probabilmente non c’erano proprio state, aveva sentito qualche volta sua sorella minore via e-mail, e Susannah l’aveva sentita nominare sì e no un paio di volte.

“Non siamo una famiglia molto espansiva, siamo inglesi.”
“E questo dovrebbe avere senso?”

Tom aveva riso, ma senza allegria, per quanto si sforzasse non riusciva a fingere più di tanto e Chris, chissà perché, sembrava sempre capire tutto.

“Non lo so, per me è sempre stato così, però. Quindi suppongo vada bene.”

Ed aveva provato a sorridere di nuovo. Era un sorriso orrendo, era falso, tirato e privo di calore, un sorriso di circostanza che si offre quando non si sa cosa dire o fare e Chris l’aveva odiato immediatamente. Tom non gli aveva mai sorriso in quel modo, nemmeno nel lontano giorno del loro primo incontro, Tom aveva visto uno sconosciuto e gli aveva sorriso come se fosse stato felice di vederlo.

Forse era stata quella la molla che lo aveva fatto scattare, o forse no, non c’era stata nessuna molla. Sapeva di voler cancellare quel sorriso che sembrava una ferita mal cicatrizzata, ma c’erano tanti modi per poterlo fare. Avrebbe potuto buttarlo in piscina, ad esempio, una spintarella e sarebbe rotolato oltre il bordo.

Invece si era abbassato e l’aveva baciato, cancellando il sorriso, la ferita e il tempo.

Atto III, Scena Finale.

“Non pensi sia strano?”

Il sole si era spostato ancora, probabilmente avevano perso la prenotazione per pranzo e l’ombrellone sotto il quale erano stesi non faceva più molta ombra, ma non aveva importanza.

“Cosa?”

Chris non aveva voglia di muoversi dalla posizione in cui era, perché era incredibilmente comoda e rassicurate e … familiare? Sì, anche quello, perché non riusciva a provare il disagio delle nuove esperienze. Quindi non alzò la testa che aveva abbandonato sul petto di Tom, continuò a sonnecchiare e farsi accarezzare i capelli cortissimi come un cucciolo pigro.

“Beh… che non sia strano.”

Era vero, non era strano. E avrebbe dovuto esserlo, ma non lo era.

“Preferiresti fosse strano?”
“No.”
“Dunque?”
“Io ho una ragazza.”
“A quanto pare.”
“E anche tu.”
“Lo so.”
“Dunque?”

Solo allora Chris si era deciso a sollevare il capo e guardare Tom negli occhi. Temeva di trovarlo turbato, ansioso, spaventato, ma l’altro sembrava solo divertito. Come se stessero dividendo un gioco divertente: sorrideva e la ferita non c’era più.

Si erano ritrovati a sorridersi come il primo giorno, poi a ridere respirando la stessa aria e lo stesso calore, la vicinanza era troppa perché fosse appropriata, ma che importanza poteva avere?

“Se ci sbrighiamo forse riusciamo ad arrivare in tempo per la prenotazione. Ho voglia di tacos.”
“Sei inglese, tu un vero tacos non l’hai nemmeno mai visto, ammettilo.”
“Appunto per quello ne ho voglia.”

Erano rientrati in casa senza fretta, senza particolari preoccupazioni, perché avevano un altro giorno di vacanza dinanzi a loro e amici da vedere, videogiochi a cui sfidarsi, tacos da assaggiare, e nulla era strano.

Se avevano notato il grosso fulmine caduto in pieno sole nel deserto, beh… forse il cielo era arrabbiato, ma per loro, neanche quello risultava strano.

Fine.

   
 
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