Capitolo XXX
Trascorsero i giorni, le settimane, i
mesi.
La scuola era iniziata a pieno ritmo:
anche io mi ero rimboccata
le maniche come tutti, buttandomi a capofitto nello studio per cercare
di
dimenticare. Cosa che comunque si rivelava essere più
difficile del previsto,
dato che della mia ‘disavventura’ ne parlava
praticamente tutto il paese;
persino i professori mi guardavano in modo strado, per non parlare
delle mie
compagne di classe, che mi fissavano come se fossi stata una specie di
creatura
aliena con tre teste e una pelle verdognola. Era una fortuna che
Alessandra
fosse nella mia stessa classe e mi facesse da scudo, perlomeno nei
primi tempi:
averla dalla mia parte mi aveva permesso di ignorare le altre compagne
pettegole e di provare a fingere che tutto fosse normale. Man mano che
il tempo
passava, grazie a Dio, la vicenda della quale ero stata vittima e
testimone
andava via via diradandosi nella mente di tutti, soppiantata da
pettegolezzi
più nuovi e succulenti, e io potei riprendere ad uscire
più o meno
tranquillamente.
Per Natale, solo io e la mia famiglia
ricordavamo l’accaduto.
Non sentii più Enrico
né Betta, ma sapevo – tramite voci
indiscrete – che era stato messo in un certo senso agli
arresti domiciliari,
che ogni giorno gli agenti di polizia andavano a casa sua per fargli
firmare
una sorta di foglio delle presenze e per controllare che tutto fosse a
posto.
Tecnicamente non era ancora stato accusato in versione definitiva, ma
durante
la prima parte del processo – alla quale io non avevo voluto
partecipare – il
giudice sembrava aver ritenuto più sicura la soluzione della
misura cautelare,
in attesa del giudizio conclusivo. Sapevo che la seduta finale
dell’udienza si
sarebbe tenuta in primavera, tra una cosa e l’altra, in data
ancora da
destinarsi; tuttavia mi era arrivata una lettera dal tribunale nella
quale
venivo invitata a presentarmi come parte lesa, testimone e non so
cos’altro… Fu
mio padre a spiegarmelo, e anche senza capire il linguaggio
giuridico-burocratico avevo afferrato il senso generale, e
cioè che stavolta
non avrei potuto evitare di andarci. Nascondere la testa sotto la
sabbia non
sarebbe servito a nulla, dopotutto, e magari affrontare anche
quell’ultimo
ostacolo mi avrebbe potuto aiutare a concludere quel capitolo della mia
vita
senza bisogno di ricorrere davvero a uno psicologo – di cui
peraltro continuavo
a credere di non aver bisogno. L’unica cosa che mi
preoccupava, in realtà, era
ritrovarmi nella stessa stanza insieme ad Enrico.
Mi era capitato di pensare spesso a
lui, in quegli ultimi tempi,
specialmente quando mi trovavo da sola a letto, nel buio, prima di
addormentarmi. Ripensavo a tutto quello che era successo durante
l’estate e
alle situazioni che, volente o nolente, mi avevano legata a lui e fatta
persino
affezionare – non ho un pezzo di ghiaccio al posto del cuore,
alla fin fine – per
non parlare delle ultime parole che mi aveva detto quel giorno in
ospedale,
quando gli avevo annunciato di non voler più avere nulla a
che fare con lui… Ti amo, ti amo,
ti amo, aveva detto,
proprio così, e più ci ripensavo, sforzandomi di
trovare nell’intonazione con
cui quelle parole erano state pronunciate qualcosa che mi
tranquillizzasse sul
fatto che fosse l’ennesima bugia, l’ennesimo
tentativo di coercizione, insomma,
uno dei suoi trucchi.
Non potevo tollerare che fossero
sincere, non dopo tutto quello
che era successo.
Una settimana dopo Capodanno mi
capitò di incontrare Stefano, per
caso. Alessandra aveva organizzato una cena in pizzeria per il suo
compleanno, e
si può dire che quella fosse la mia prima vera e propria
uscita spensierata
dopo mesi in cui facevo la spola dall’ospedale alla polizia,
che di tanto in
tanto mi convocava per qualche dettaglio mancante o poco chiaro del mio
fascicolo; erano mesi che non vedevo Enrico e che non avevo sue notizie
–
neppure da mia madre, che mi aveva detto di non aver più
sentito Betta dal
giorno in ospedale in cui avevo parlato con il figliastro.
Lo incontrai alla toilette –
ci scontrammo sulla soglia, per la
verità, mentre io cercavo di uscire e lui di entrare. Mi
bloccai a metà di un
movimento e sentii l’aria defluire dai polmoni,
improvvisamente spaventata
all’idea di poter trovare anche qualcun
altro insieme a lui; tuttavia le buone maniere ebbero la
meglio, e riuscii
a salutarlo e persino ad accennare un breve sorriso. “Ciao,
Stefano…” Mormorai,
lanciando un’occhiata verso il corridoio dal quale era
arrivato.
Lui dovette comprendere al volo la
situazione perché mi rassicurò
subito. “Lui non
c’è, stai
tranquilla”, disse piano dopo aver ricambiato il saluto. Mi
chiesi quanto
sapesse di quello che era successo in ospedale, quanto Enrico gli
avesse
raccontato, e se, in qualche modo, mi disprezzasse per come avevo
troncato ogni
rapporto con il suo migliore amico. Per quanto ritenessi di essere
dalla parte
della ragione, infatti, non potevo fare a meno di provare un certo
imbarazzo,
quasi come se l’avessi tradito io.
“Come stai?” Mi
chiese, gentilmente. Sembrava non esserci nessun
fine, ma chi mi diceva che non sarebbe andato a riferire quello che gli
dicevo
ad Enrico?
Scrollai le spalle, quasi
indifferente. “Bene, bene… Tu?” Avrei
voluto chiedergli se avesse avuto problemi con la polizia anche lui, ma
come si
fa ad essere delicati nel chiedere a qualcuno se era indagato in un
caso di
omicidio?
“Anche io,
grazie”; sorrise, e fu spontaneo. Come se trovasse del
tutto normale chiacchierare con me, quando invece l’unica
occasione in cui
avevamo scambiato qualcosa di più dei semplici saluti di
circostanza era stata
esattamente quella del terribile fattaccio.
Sul suo viso passò qualcosa, un’ombra o una ruga
tra le sopracciglia chiare, e
poi con un sospiro, come se in realtà non volesse, aggiunse:
“Non posso dire lo
stesso di Enrico, però.”
Solo sentir pronunciare il suo nome ad
alta voce mi formò un
groppo in gola. “Stefano, non ne voglio parlare”,
replicai a mezza voce,
cercando di superarlo e andarmene. Tuttavia lui mi posò una
mano sulla spalla
per trattenermi – doveva essere una prerogativa di Enrico e
dei suoi amici
quella, evidentemente.
“No, ascoltami,
sarò breve. Per favore”, mi supplicò
quasi. E
allora ricordai che Enrico era suo cugino, che oltre ad essere amici
erano
anche parenti, e che probabilmente malgrado ciò in cui erano
invischiati fino
alla punta dei capelli gli voleva davvero bene, e avrebbe fatto
qualsiasi cosa
per lui. Forse persino mettere una buona parola con me? Ah! Poteva
provarci, ma
era fiato sprecato.
Mi voltai senza rispondergli,
facendogli capire che malgrado tutto
l’avrei ascoltato.
“Puoi anche non crederci, ma
non mi ha mandato lui”, esordì,
avanzando di un passo verso di me. Ebbi modo di rendermi conto solo in
quel
momento quanto gli somigliasse, anche fisicamente, non fosse stato per
il fatto
che Stefano aveva una carnagione meno olivastra e i capelli di un
castano
chiaro – che un tempo forse erano stati biondi. Niente a che
vedere con la folta
chioma corvina di suo cugino che io, fatico ad ammetterlo, adoravo.
“So che non
è un ragazzo facile da gestire, lo conosco da una vita, ma
ti posso assicurare
che non ti ha mai preso in giro sui suoi sentimenti per te. In genere
è sempre
stato molto chiuso, è orgoglioso e testardo, e quando mi ha
raccontato quanto
si fosse lasciato andare con te non ci ho neppure voluto
credere… Capisco che
quello che è successo non sia facile da digerire, ma sei
davvero convinta che
non valga nemmeno la pena di provarci?”
Lo guardavo senza sapere che cosa
ribattere, tenendo le braccia
ostinatamente incrociate sul petto e continuando a mordicchiarmi il
labbro
inferiore dall’agitazione. Non mi aspettavo di dover
affrontare una predica
persino da parte di Stefano, prima o poi – la prossima volta
avrei cercato di
non allontanarmi dai miei amici da sola – e inoltre trovavo
anche un filino
assurdo che avesse la faccia tosta di chiedermi di provare a
dimenticare quello
che era successo. Non stavamo parlando di un furto di caramelle, che
diamine,
ma di un ragazzo di venticinque anni che aveva ammazzato a sangue
freddo uno
dei suoi amici, e che per di più non sembrava neppure
provarne rimorso!
“Senti, Stefano, non so che
cosa pensi di ottenere con questo
discorso…” Tentai alla fine, dopo aver lasciato
passare una lunga manciata di
secondi in silenzio. “Mi dispiace che Enrico stia male,
davvero, non sono
un’insensibile, ma non posso farci niente. Tra me e lui non
può funzionare,
siamo troppo diversi, le nostre vite sono troppo diverse, e io questo
gliel’ho
già detto. ”
Mi fa
paura anche solo
l’idea di trovarmi vicino a lui, aggiunsi silenziosamente,
senza trovare il coraggio di dirglielo ad alta voce. Forse tacqui
perché sapevo
che Stefano avrebbe fedelmente riferito quella conversazione a suo
cugino, e
malgrado tutto una frase del genere sembrava troppo crudele estrapolata
dal
contesto – oh, Dio, ero così confusa! Doveva
preoccuparmi la mia attuale
incapacità di ferire anche solo indirettamente Enrico, la
causa principale dei
miei problemi?
Forse avrei dovuto prendere sul serio
l’invito di Alessandra e
andare in terapia.
Stefano si avvicinò di un
altro passo, e quando parlò la sua voce
era di qualche ottava più bassa. Nel bagno
c’eravamo solo noi, da chi aveva
paura di farsi sentire? “Giulia, Enrico non è una
persona che va in giro a
sparare alla gente senza motivo”, sussurrò, con
un’espressione terribilmente
seria e, potrei giurare, anche un po’ arrabbiata. No, dico,
scherziamo? Che
motivo aveva di arrabbiarsi con me? “È stato un
incidente, e lui adesso è a
pezzi – e non lo dico per farti sentire in colpa o per far
leva sulla tua
pietà, ma perché vi ho visto insieme, e so cosa
c’era tra di voi anche se tu
sei così codarda da voler continuare ad ignorarlo.”
Boccheggiai, incredula.
“Come ti permetti? Tu non sai niente…”
“No, ascoltami, io so
più di quanto pensi, non sono un idiota”, mi
interruppe, avvicinandosi ancora e costringendo me a premermi contro il
muro
per allontanarmi da lui. “Ma non vedi che state soffrendo
tutti e due? In
questo momento Enrico ha la tua stessa espressione, perché
stare lontano da te
lo sta uccidendo più di quanto non stiano facendo gli
arresti domiciliari. E io
non voglio vedere mio cugino in queste condizioni per colpa tua, lo
capisci? Per
non parlare del fatto che non si tratta solo di una semplice questione
sentimentale, ma anche giuridica – sta rischiando la galera
solo perché ha
fatto tutto il possibile per impedire a Lorenzo di violentarti, voglio
che
questo ti sia chiaro!”
Adesso mi stavo arrabbiando sul serio,
basta essere gentili.
“Oh, ma insomma, Stefano,
che cosa vuoi? So benissimo quello che è
successo e so che cosa ho visto, e ho già detto che mi
dispiace per quello che
sta passando Enrico, l’ho detto a suo tempo anche a lui! Ma
non sono una santa
né tantomeno una martire, e dopo tutto quello che io ho passato quest’estate
direi che ho il sacrosanto diritto di infischiarmene
del prossimo e pensare per un po’ solo ed esclusivamente a me
stessa! Capisco il
tuo punto di vista, stai difendendo tuo cugino e mi sta bene, mi sta
bene anche
che tu mi consideri una stronza. Non me ne frega niente! Non
è sgridandomi né
tantomeno minacciandomi che otterrai qualcosa da me, anche
perché è lo stesso
metodo che ha utilizzato il tuo adorato cugino per costringermi a
frequentarlo
e hai visto in che modo di merda è finita questa storia. Per
cui, se era tutto
qui quello che sei venuto a dirmi, allora puoi anche andartene prima
che io
inizi a diventare volgare.”
Speravo di essere riuscita ad
esprimermi in modo piuttosto conciso.
Lui mi fissò per un
po’ in silenzio, mordendosi l’interno del
labbro inferiore come se si stesse sforzando di non dire qualche altra
cattiveria; scosse lentamente la testa, senza smettere di guardarmi,
poi
indietreggiò restituendomi il mio spazio personale e
permettendomi di tornare a
respirare normalmente. La sua somiglianza con Enrico non sarebbe stata
una
buona cosa qualora la discussione si fosse accalorata un tantino di
più. “Stai
facendo un errore, Giulia”, disse alla fine, con un tono
più pacato di prima e
forse anche rassegnato. “Lui ti ama davvero.”
Sobbalzai, non aspettandomi una
conclusione del genere. Lui ti ama.
Porca
puttana, Giulia, io ti
amo!
Con un gemito sofferente mi massaggiai
le tempie, come a voler
dimenticare una volta per tutte quelle parole. Tentativo inutile! Ma
che
diavolo avevo combinato nella mia vita precedente per meritarmi una
tale
quantità di disgrazie in questa?
“Può anche
essere, Stefano, ma questo non basta”, ribattei,
abbassando lo sguardo. “Non mi
basta.”
Il suo sospiro mi arrivò
con lo stesso furioso rimbombo che
avrebbe fatto un grido. “Enrico mi aveva detto che eri
testarda, ma io non ci
avevo voluto credere.”
Non roteai gli occhi solamente
perché avevo serrato con forza le
palpebre. “Non è questione di essere testarda,
Stefano, possibile che nemmeno
tu lo capisca? È questione di avere dei principi, di seguire
delle regole, di
avere dei paletti! Paletti che, come abbiamo visto, Enrico non si fa
scrupoli a
ignorare. È un cane sciolto, una… una mina
vagante! Non sai mai che cosa puoi
aspettarti, da lui. Dio, ma ti sembra normale uno che ti fa rapire per
essere
sicuro che tu accetti il suo invito a uscire? Che ti fa seguire dai
suoi amici?
O che gira con una pistola carica in macchina, e che non esita a
usarla? Dimmi,
è testardaggine, questa? Io credo che il mio sia solo un
feroce istinto di
autoconservazione.”
Conclusi la mia tirata fissando un
punto indefinito del pavimento,
e anche se così non potevo vederlo in faccia era palese che
non si fosse perso
nessuna parola del mio discorso. Enrico poteva amarmi e –
okay, sì, potevo
provare qualcosa anche io – ma non poteva essere sufficiente!
Non si può vivere
di solo amore, e chi dice il contrario è soltanto un folle
romantico innamorato
più dell’idea dell’amore che non
dell’amore stesso.
Io volevo una vita tranquilla, porca
miseria. Non era una
richiesta così impossibile, la mia!
Benché fossi quasi convinta
che quella discussione fosse appena
entrata nel vivo, Stefano mi sorprese scrollando le spalle con aria
definitiva.
“Beh, io ho fatto la mia parte. Mi dispiace di non essere
riuscito a farti
ragionare”, disse, improvvisando un debole sorriso che non
raggiunse gli occhi.
Veramente ero convinta di essere
l’unica ad aver mantenuto quella
rara capacità di riflettere, ma a quanto pare lui non era
dello stesso avviso:
evidentemente per quelli come loro ragionare
significava finire per accettare ed essere d’accordo su
qualsiasi cosa
dicessero. In tal caso avrei dovuto dargli ragione, non sarebbe mai
riuscito a
farmi “ragionare”.
“Allora divertiti con i tuoi
amici. Ci vediamo in giro”, mi salutò
alla fine, aggirandomi e uscendo dal bagno. Solo quando il tonfo della
porta
che si chiudeva dietro di lui rimbombò nella stanza mi
permisi di sospirare,
sentendomi intimamente stanca per quel confronto imprevisto che,
peraltro, mi
aveva lasciata con una marea di dubbi e persino di sensi di colpa in
più di cui
ad essere sincera avrei fatto volentieri a meno. Imprecai due o tre
volte, ma
non servì a scaricare la tensione.
“Non è colpa
tua”, dissi decisa al mio riflesso. Il suono della
mia voce parve terribilmente patetico nell’ovattato silenzio
della toilette, e
prima che iniziassi a intavolare una discussione anche con lo specchio
aprii il
rubinetto dell’acqua e mi sciacquai il viso, sperando che il
freddo mi aiutasse
a tornare in me.
Una volta tornata al tavolo, feci del
mio meglio per fingere che
quella conversazione non fosse mai avvenuta. Per fortuna Alessandra era
distratta da Riccardo e dagli altri amici, dunque quando ripresi posto
accanto
a lei e allungai una mano tremante verso il mio bicchiere di acqua
fresca si
limitò ad osservarmi con un sopracciglio inarcato e ad
esclamare: “Dov’eri
finita, geme? Ti avevamo data per dispersa!”
E a mia volta mi limitai a sorriderle
e a bere la mia acqua, che
tuttavia non servì per niente a rilassarmi.
“C’era un po’ di fila in bagno, e
poi ne ho approfittato per sistemarmi il trucco”, risposi,
complimentandomi tra
me e me per essere riuscita a non far tremare anche la voce.
Non volevo rovinarle il compleanno con
i miei problemi; Stefano aveva
guastato la mia serata, ma io non avrei fatto lo stesso con la mia
amica –
quella situazione aveva messo indirettamente in pericolo anche lei, in
fondo. Non
mi ero dimenticata di quando Enrico aveva minacciato di far del male ai
miei
amici se io non avessi accettato di uscire con lui – Dio,
quanto suonava
ridicola l’intera faccenda! E poi, mi fa male ammetterlo,
ormai avevo iniziato
a confidarmi sempre meno con Alessandra per timore di intaccare la sua
felice
storia d’amore con Riccardo – anche se suppongo che
un altro timore non meno grave
fosse il mio essere certa che lei non avrebbe mai capito se un giorno
le avessi
rivelato quali erano davvero i miei sentimenti.
Avrei voluto che Stefano avesse
ragione, in quel caso, davvero, ma
purtroppo ciò che provavo non era abbastanza. Mi chiesi se
potesse mai esserlo,
in futuro.
*
Cinque mesi dopo.
Il processo si tenne in
un’assolata e calda giornata di giugno,
esattamente a un anno dall’inizio di tutta quella storia.
Era stato mio padre a prendere accordi
con il legale di Enrico,
tale avvocato Martis, per cui sapevamo di doverci trovare davanti al
tribunale
almeno un’ora prima di entrare in aula – anche in
modo che lui potesse rivedere
insieme a me le domande che mi avrebbe fatto durante la mia
testimonianza.
L’ultima volta che ci eravamo incontrati nel suo ufficio,
alla presenza dei
miei genitori, mi aveva avvertito che anche il Pubblico Ministero
avrebbe
potuto intervenire e pormi qualche domanda, e in tal caso io non mi
sarei
dovuta lasciar prendere dal panico ma dimostrare sicurezza e rispondere
in
tutta sincerità. Più facile a dirsi che a farsi!
Non avevo mai assistito in
prima persona ad un processo – se si escludono quelli dei
film – e l’idea di
dover parlare a un’aula di tribunale piena di gente, compreso
Enrico, la mia
famiglia e chissà chi altri, non era un pensiero che mi
riempiva di
tranquillità. Comunque avevamo fatto le prove, e quando mia
madre mi aveva suggerito
con un mezzo sorriso di prenderla come un’esercitazione in
vista dell’orale
dell’esame di maturità qualche interruttore dentro
di me si attivò e mi permise
di concludere l’appuntamento con l’avvocato
più facilmente di quanto avessi
immaginato.
Inutile dire che, trovandomi di fronte
alla facciata in stile greco
del tribunale – nel cui centro un altissimo pronao retto da
pilastri e colonne era
completato da una grande scritta recante la parola latina IVSTITIA – tutti i buoni
propositi erano spariti e l’ansia e
l’agitazione erano tornate più forti di prima.
Mentre mio padre si era allontanato
per andare a caccia di
parcheggio, io, mia madre e mia sorella iniziammo ad entrare
nell’edificio per
cercare un po’ di frescura – e perché
loro due avevano bisogno di trovare un
bagno, mentre io, immersa nel mio subbuglio interiore, non riuscivo a
provare
nessuna urgenza fisica – né sete, né
fame, né nient’altro, come se le mie
viscere si fossero attorcigliate tutte su loro stesse bloccando
qualsiasi
voglia. Per cui ero rimasta da sola nell’ampio ingresso
– sola in senso
figurato, visto il via vai continuo di persone che affollavano il
palazzo di
giustizia. Con un gesto nervoso sistemai le bretelline sottili del mio
vestito
al di sotto della giacchetta color panna che indossavo per non entrare
in aula
con una scollatura inadeguata alla situazione; mi passai una mano tra i
capelli, mi feci aria con la mano, sfiorai prima gli orecchini e poi il
girocollo, in un’apparente sequenza senza fine di gesti
inequivocabili di
trepidazione e disagio. Non sapevo se ero più terrorizzata
dall’idea di
rivedere Enrico dopo quelli che sembravano secoli o dall’idea
di testimoniare a
suo favore davanti a una marea di gente – probabilmente era
un giusto miscuglio
di entrambi. Che stupida, perché non avevo pensato di farmi
prescrivere dei
tranquillanti dal mio medico? Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che
sentire
il mio cuore battere con una tale ferocia all’interno della
mia cassa toracica
da farmi sudare freddo e da rimbombarmi nelle orecchie come un tamburo.
Oddio, non mi era mai capitato di
persona ma speravo di non essere
prossima ad uno svenimento. Per sentito dire sapevo che non sarebbe
stata una
bella esperienza.
“Giulia?”
Al suono di quella voce rabbrividii e
trattenni il respiro,
pietrificata. Eccolo, il momento della verità! Lo sapevo che
sarebbe successo,
insomma, ero praticamente lì per lui, però... Oh, Dio, non sono ancora pronta per questo
confronto. Non sono pronta.
Non sono pronta!
Deglutii, presi un profondo respiro e
mi voltai, stringendo la
borsa con entrambe le mani per evitare di torcermele come una bambina
nervosa.
E a quel punto fu inevitabile posare i miei occhi su di lui.
Il primo pensiero che mi venne in
mente fu piuttosto sciocco:
all’improvviso Enrico mi sembrava più alto e quasi
imponente. Era vestito in
modo impeccabile – se avessero dovuto giudicarlo per lo stile
lo avrebbero
assolto da qualsiasi colpa e peccato – indossava un elegante
completo di un blu
tanto scuro da sembrare nero, e la giacca sbottonata sul petto lasciava
intravedere una camicia bianca e una cravatta altrettanto scura. Al suo
fianco
c’era l’avvocato Martis, con un’aria
terribilmente professionale e una
valigetta ventiquattr’ore in mano, tutto impegnato a
concludere una telefonata.
Comunque non dedicai all’uomo troppa attenzione, occupata
com’ero a
ri-familiarizzare con la persona di Enrico. Insomma, maledizione, era
bello.
Troppo bello. Più di quanto mi ricordassi!
Ecco perché nei mesi scorsi
avevo fatto il possibile e
l’impossibile per tenermi alla larga da lui: sapevo
l’effetto che aveva su di
me, e se avessi anche solo accettato di vederlo una volta per parlare a
mente
fredda, come mi aveva più volte chiesto tramite messaggi in
segreteria a cui
non avevo mai risposto, mi avrebbe attirato nella sua ragnatela con una
facilità impressionante. Cosa che, se avessi continuato ad
osservarlo ancora un
po’, sarebbe indubbiamente successa.
Per cui mi schiarii la voce e cercai
di accennare un sorriso –
tentativo inutile, dato che i miei muscoli facciali sembravano essersi
paralizzati. “Ciao”, dissi soltanto. Dio mio, che
situazione imbarazzante... E
adesso, come mi sarei dovuta comportare? L’ultima volta che
ci eravamo parlati
era stato quando… Beh, meglio non pensarci: negli ultimi
mesi mi ero sforzata
con tutta me stessa di dimenticare quella conversazione,
nonché la
dichiarazione che ne era derivata. Grazie al cielo, fu proprio
l’avvocato a
togliermi da ogni impiccio.
“Buongiorno, signorina
Ordiano. Pronta per l’interrogatorio?”
Cercò di sdrammatizzare, sporgendosi verso di me per
stringermi la mano in un
educato saluto.
“Ho fatto i compiti a
casa”, mi limitai a rispondergli,
ricambiando la stretta. Malgrado la presenza del legale, continuavo a
sentirmi
i perforanti occhi chiari di Enrico puntati addosso che mi facevano
prudere la
pelle, per cui non sapevo bene dove girarmi per evitarlo. Alla fine
decisi di
rivolgermi di nuovo all’uomo. “E… A che
ora inizia l’udienza, di preciso?”
L’avvocato diede
un’occhiata all’orologio che portava al polso
sinistro, e una ruga si formò in mezzo ai suoi occhi.
“Tra quarantacinque
minuti dovremmo essere seduti tutti dentro”, rispose
gentilmente, tornando a
guardarmi. A giudicare dall’incipiente grigiore ai lati delle
tempie doveva
avere più di quarant’anni, eppure quando Enrico si
voltò verso di lui per
intimargli di lasciarci un po’ da soli lo vidi annuire e
sparire in mezzo alla
folla adducendo una scusa qualsiasi come un comune lacchè.
Beh, io non volevo rimanere da sola
con lui, per cui feci per
dargli le spalle e andare alla ricerca della mia famiglia che sarebbe
già
dovuta essere uscita dalla toilette, accidenti a loro – ma
ormai avrei dovuto conoscere
Enrico abbastanza bene da immaginare che non mi avrebbe lasciata
sparire senza
fare niente. Infatti, prevedibile come la trama di Beautiful, sentii la
sua
mano stringersi intorno al mio polso e prima che potessi iniziare a
protestare
venni trascinata via, dietro una grossa colonna in un angolo appartato.
Sarà difficile che i miei mi
trovino qua
dietro, pensai irritata, lanciando un’occhiata
infastidita al mio
sequestratore.
“A cosa devo il piacere di
questa sceneggiata?” Sibilai non appena
mi liberò la mano, per poi incrociare le braccia sul petto e
indietreggiare
lontano da lui. “Non sono venuta per scambiare quattro
chiacchiere con te,
Enrico. Ci siamo detti già tutto.”
“Non è quello che
penso io”, ribatté lui, per nulla intenzionato a
cedere. Malgrado avessi i tacchi, in quel momento mi sembrò
davvero più alto –
sembrava torreggiare su di me. Forse era solo la mia agitazione che mi
stava
procurando le allucinazioni?
Malgrado tutta la buona
volontà non riuscii a trattenermi dal roteare
gli occhi, esasperata. Non lo avevo già assecondato
abbastanza in passato? “Va
bene, come vuoi. Starò al gioco. Che cosa pensi tu?” Aggiunsi, parafrasandolo.
A giudicare dall’ombra che gli
attraversò lo sguardo stavo già riuscendo
nell’intento di innervosirlo: bene,
evidentemente certe capacità non si perdono col tempo.
“Penso che tu debba a stare
a sentire quello che non mi hai
lasciato spiegare quel giorno in ospedale”, esordì
a mezza voce, chinandosi
verso di me. “Ho avuto modo di riflettere in tutto questo
frattempo, Giulia,
credimi, e ho accettato che tu possa avere tutti i diritti di questo
mondo di
essere arrabbiata e di avere paura di me e di quello che
faccio… Ma che sia
dannato se ti permetterò di essere ancora così
codarda da rifiutare di vedere
quello che c’è tra noi!”
“Non posso credere che tu
stia tirando fuori questi discorsi
mezz’ora prima del processo!” Ribattei con il suo
stesso tono di voce,
sinceramente allibita; decisi di ignorare che era già la
seconda volta che venivo
tacciata di codardia, anche se avrei voluto sapere da che razza di
pulpito
stava venendo tale accusa. “Non hai una testimonianza da
ripassare invece di
fare la predica a me?”
“Ho avuto praticamente sette
mesi per imparare a memoria la mia
deposizione”, mi mise a tacere subito, eliminando la
questione con un gesto
della mano. “E ho anche avuto lo stesso lasso di tempo per
pensare a tutte le
cose che voglio dirti. Giulia, io ho bisogno di dirtele e tu hai
bisogno di
sentirle, per cui adesso starai buona e zitta e mi lascerai
parlare!”
Accidenti, non me lo ricordavo
così insistente e prepotente; non
credevo che il suo carattere sarebbe mai potuto peggiorare, e
invece… Diamine,
era successo proprio l’impensabile! Comunque il fatto di
trovarci in un luogo
pubblico che pullulava di poliziotti e guardie armate mi
confortò sul mio
destino e mi fece accondiscendere al suo attuale capriccio; non poteva
venirne
nulla di peggio, no?
“Bene!” Sbottai
quindi, sempre più innervosita. “Parla. Sono qui,
ti ascolto.”
Lui non parve molto convinto del mio
cedimento, e mi fissò per un
po’ dal di sotto delle lunghe ciglia scure – ma poi
sembrò ricordarsi di avere
i minuti contati, così si riscosse e ritrovò il
filo dei suoi pensieri. “Sarò
rapido”, chiarì, avvicinandosi. Dio, era passato
parecchio tempo dall’ultima
volta in cui ci eravamo trovati così vicini – non
ero più abituata a sentire il
suo profumo, e mi ritrovai ad annusarlo con più delizia di
quanto fosse lecito.
Mi domandai, per insultarmi mentalmente subito dopo per averlo fatto,
se avesse
notato che avevo schiarito i capelli o che avevo indossato un vestito,
dato che
lui aveva avuto modo di vedermi indossare solo jeans e derivati nei
miei vani
tentativi di apparire assolutamente il meno provocante possibile quando
uscivo
con lui… Focalizza, Giulia!
“Non ce la faccio
più a starti lontano”, disse piano,
costringendomi a sostenere il suo sguardo. Sembrava lottare ferocemente
contro
l’istinto di toccarmi. “Non ci vediamo
né sentiamo da settembre… Mio Dio, non
una parola da parte tua, neppure un messaggio! Cosa ti costava
rispondere a uno
solo di quelli che ti ho mandato?”
Avrei voluto ribattere chiedendogli
quale parte di non ti voglio più
vedere e non cercarmi
più detta in ospedale non
gli fosse stata sufficientemente chiara, ma c’era qualcosa
nel suo
atteggiamento che mi dissuase dal stuzzicarlo in modo così
spudorato. Insomma,
stava solo parlando – non c’era niente di male in
quello; e poi lo sapevo che
prima o poi il karma avrebbe fatto in modo che anche lui avesse la sua
occasione di illustrarmi il suo punto di vista, dato che
l’ultima volta che ci
eravamo visti ero praticamente fuggita impedendogli di farlo. Per cui,
in poche
parole, mi morsi la lingua e lo lasciai proseguire.
“Dovevo venire a sapere di
te tramite i miei amici che ti vedevano
di sfuggita all’uscita da scuola, o dal mio avvocato che ti
convocava una volta
ogni tanto. Non hai idea di quello che ho
passato in questi mesi, soprattutto visto il modo in cui ci
siamo…
lasciati”, aggiunse, avvelenando la propria voce su
quell’ultima parola. “Sembra
che quello che ti ho detto non abbia avuto davvero nessun effetto su di
te… Però
voglio che tu sappia che anche se è passato del tempo io
ribadisco e confermo
ogni singola parola che ti ho detto quel giorno. Ogni singola parola. E
tu sai
di cosa parlo, vero? Non sono perfetto, non ho mai avuto
l’arroganza di
pensarlo né l’ambizione di esserlo, e so
– credimi, Giulia, lo so
– di non
avere una vita facile. Ma sono anche terribilmente egoista, e non sono
capace
di starti lontano per il tuo bene – continuerò a
volere te in questa vita
incasinata, fino alla fine.”
Solo quando smise di parlare mi
accorsi di aver trattenuto il
fiato fino all’ultimo. Deglutii a fatica e ripresi a
respirare, sentendomi un
fastidioso groppo in gola, e abbassai gli occhi perché,
contrariamente a ogni
buonsenso, mi sentivo prossima al pianto – e non sapevo
quanto potesse giovare
entrare nell’aula del processo con gli occhi gonfi e
arrossati. Con la coda
dell’occhio vidi il movimento della sua mano che si sollevava
e andava ad
accarezzarmi i capelli, e ciò mi rese di nuovo padrona delle
mie capacità
motorie. Mi scansai, trovando una via di fuga laterale e allontanandomi
il
tanto necessario per riguadagnare il controllo di me stessa e
ricacciare
indietro le lacrime.
“No, Enrico”,
mormorai. Dovevo ignorare i suoi maledetti occhi che
mi fissavano come se fossi stata un tesoro prezioso, maledizione! Mi
schiarii
la voce e mi asciugai l’angolo di un occhio umido, poi con un
estremo sforzo continuai.
“Mi dispiace, ma no. non posso. E prima verrai a patti con
questa cosa meglio
sarà per tutti”, aggiunsi, sforzandomi di sembrare
risoluta.
A quel punto il suo sguardo perse
l’espressione appassionata e
timorosa e si fece feroce. “Porca puttana, non puoi
liquidarmi così un’altra
volta…”
Probabilmente aveva ancora parecchie
cose da dire a sua discolpa,
e avrebbe di sicuro continuato quell’assurdo dibattito se non
fossero venuti a
cercarci.
“Signor D’Angelo!
L’abbiamo cercata dappertutto. Venga, è ora di
entrare”, disse il signor Martis, con un’aria
trafelata. I suoi occhi
scivolarono dal suo cliente a me e una delle sue sopracciglia si
inarcò con
educata perplessità nel notare le nostre espressioni: mi
chiesi se era stato illuminato
sui nostri trascorsi, anche se a giudicare
dall’inconsapevolezza che sembrava
ondeggiare dietro i suoi occhiali non doveva essere stato messo al
corrente di
tutti gli altarini. “I suoi genitori stavano cercando anche
lei, signorina
Ordiano”, mi informò gentilmente. Annuii e mi
diressi verso di loro – li avevo
individuati che parlavano con i genitori di Enrico in modo
più civile di quanto
avessimo fatto invece noi, e grazie al cielo stavolta lui non fece
nulla per fermarmi.
Tuttavia si sentì in dovere
di aggiungere ancora qualcosa. “Ne
riparleremo ancora, Giulia. Dopo il processo”, fece, alzando
di qualche sfumatura
il tono di voce in modo da accertarsi che io udissi anche
quell’ultima promessa
– o era una minaccia?
Di sicuro mi aveva fornito materiale
più che sufficiente con cui
occupare la mente durante l’udienza; avevo la terribile
impressione che tutto
il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo visti non
aveva fatto altro
che acuire il desiderio di un sentimento che avevo cercato con tutte le
mie
forze di non far neanche nascere. Insomma, secondo ogni logica la
lontananza
avrebbe dovuto farmi passare qualsiasi cosa avessi iniziato a provare
per
Enrico – perché a questo punto avevo rinunciato da
tempo a raccontarmi l’idiozia
di non essere minimamente coinvolta in senso emotivo, per quanto
continuassi
con caparbia ostinazione a non pronunciare né tantomeno
pensare una determinata
parola – e invece era
bastato
rivederlo e parlarci un’altra volta per farmi riprecipitare a
caduta libera giù
per la maledetta tana del bianconiglio.
Prima di entrare nell’aula
presi un profondo respiro e strinsi la
mano di mia madre, che mi guardava con l’aria di chi,
purtroppo per me, aveva
compreso ogni cosa e sin da subito, per di più. Mi diede un
bacio sulla guancia
e mi guidò verso la nostra postazione, nella terza fila
dietro il banco di
Enrico.
Forza e coraggio, Giulia.
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Angolo Autrice.
Bla bla bla bla... ritardo... Bla bla... insoddisfatta... bla bla... mesi e mesi... bla bla... scuse... bla... perdono... Bla bla bla... Bla!
Conoscete la tiritera, dunque ho mandato avanti la registrazione. xD Mi limiterò a ringraziare le splendide fanciulle che hanno recensito lo scorso capitolo, per l'esattezza chicchetta, Sylphs, Eleanor_Rigby, GreenRose93, luck_Y, Ibelieveinniley e Little Redbird - non so davvero cosa dire per ringraziarvi per le vostre splendide parole, siete così gentili e soprattutto pazienti, una dote estemamente indispensabile per poter seguire le mie storie! xD
E poi ovviamente un ringraziamento a chi mi incoraggia tramite FacciaLibro, che in momenti come questi adoro ♥ Speaking of, se vi capita di passare da quelle parti e avete 5 minuti del vostro pomeriggio da buttare - o se vi serve una scusa per poter usufruire di una ultra meritata pausa studio ù_ù - mi piacerebbe che deste un'occhiata a un umilissimo (ci tengo a precisarlo) video riguardante questa storia, che era nato per essere una specie di Trailer e che invece è finito per diventare una sorta di riassunto di questa trentina di capitoli :D Ma è breve, davvero, nemmeno 5 minuti!, e sarei contenta se mi deste un vostro parere. :)
QUI il video [si trova solo su Feisbuk perché davvero, non credo che meriti di starsene su Youtube x'D]
A questo punto sappiate che l'Epilogo è già scritto - dunque la qui presente autrice sa finalmente come concludere questa storia - e suppongo che manchi solo uno, o al massimo (ma DIO MIO spero di no) due capitoli prima di postare l'ultimo. I pianti li conserverò per allora. :'(
Una domanda spassionata e piena di curiosità: se doveste scegliere una canzone per questa storia, quale sarebbe? Ne volevo una da mettere nell'Epilogo (o in un prossimo video, muahahahaha) e concludere in bellezza, ma la mia cultura musicale non è così vasta, sicché... mi metto nelle vostre mani, se vi va di darmi un aiutino. :)
Orbene, suppongo di avere detto tutto per stavolta!
Ci leggiamo tutte al prossimo capitolo - o su Feisbuk per qualche spoilerino ;D
Baci e abbracci a tutte quante, e... Auf Wiedersehen!
La vostra,
Niglia.