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Autore: Niglia    28/01/2013    17 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXX

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi.

La scuola era iniziata a pieno ritmo: anche io mi ero rimboccata le maniche come tutti, buttandomi a capofitto nello studio per cercare di dimenticare. Cosa che comunque si rivelava essere più difficile del previsto, dato che della mia ‘disavventura’ ne parlava praticamente tutto il paese; persino i professori mi guardavano in modo strado, per non parlare delle mie compagne di classe, che mi fissavano come se fossi stata una specie di creatura aliena con tre teste e una pelle verdognola. Era una fortuna che Alessandra fosse nella mia stessa classe e mi facesse da scudo, perlomeno nei primi tempi: averla dalla mia parte mi aveva permesso di ignorare le altre compagne pettegole e di provare a fingere che tutto fosse normale. Man mano che il tempo passava, grazie a Dio, la vicenda della quale ero stata vittima e testimone andava via via diradandosi nella mente di tutti, soppiantata da pettegolezzi più nuovi e succulenti, e io potei riprendere ad uscire più o meno tranquillamente.

Per Natale, solo io e la mia famiglia ricordavamo l’accaduto.

Non sentii più Enrico né Betta, ma sapevo – tramite voci indiscrete – che era stato messo in un certo senso agli arresti domiciliari, che ogni giorno gli agenti di polizia andavano a casa sua per fargli firmare una sorta di foglio delle presenze e per controllare che tutto fosse a posto. Tecnicamente non era ancora stato accusato in versione definitiva, ma durante la prima parte del processo – alla quale io non avevo voluto partecipare – il giudice sembrava aver ritenuto più sicura la soluzione della misura cautelare, in attesa del giudizio conclusivo. Sapevo che la seduta finale dell’udienza si sarebbe tenuta in primavera, tra una cosa e l’altra, in data ancora da destinarsi; tuttavia mi era arrivata una lettera dal tribunale nella quale venivo invitata a presentarmi come parte lesa, testimone e non so cos’altro… Fu mio padre a spiegarmelo, e anche senza capire il linguaggio giuridico-burocratico avevo afferrato il senso generale, e cioè che stavolta non avrei potuto evitare di andarci. Nascondere la testa sotto la sabbia non sarebbe servito a nulla, dopotutto, e magari affrontare anche quell’ultimo ostacolo mi avrebbe potuto aiutare a concludere quel capitolo della mia vita senza bisogno di ricorrere davvero a uno psicologo – di cui peraltro continuavo a credere di non aver bisogno. L’unica cosa che mi preoccupava, in realtà, era ritrovarmi nella stessa stanza insieme ad Enrico.

Mi era capitato di pensare spesso a lui, in quegli ultimi tempi, specialmente quando mi trovavo da sola a letto, nel buio, prima di addormentarmi. Ripensavo a tutto quello che era successo durante l’estate e alle situazioni che, volente o nolente, mi avevano legata a lui e fatta persino affezionare – non ho un pezzo di ghiaccio al posto del cuore, alla fin fine – per non parlare delle ultime parole che mi aveva detto quel giorno in ospedale, quando gli avevo annunciato di non voler più avere nulla a che fare con lui… Ti amo, ti amo, ti amo, aveva detto, proprio così, e più ci ripensavo, sforzandomi di trovare nell’intonazione con cui quelle parole erano state pronunciate qualcosa che mi tranquillizzasse sul fatto che fosse l’ennesima bugia, l’ennesimo tentativo di coercizione, insomma, uno dei suoi trucchi.

Non potevo tollerare che fossero sincere, non dopo tutto quello che era successo.

Una settimana dopo Capodanno mi capitò di incontrare Stefano, per caso. Alessandra aveva organizzato una cena in pizzeria per il suo compleanno, e si può dire che quella fosse la mia prima vera e propria uscita spensierata dopo mesi in cui facevo la spola dall’ospedale alla polizia, che di tanto in tanto mi convocava per qualche dettaglio mancante o poco chiaro del mio fascicolo; erano mesi che non vedevo Enrico e che non avevo sue notizie – neppure da mia madre, che mi aveva detto di non aver più sentito Betta dal giorno in ospedale in cui avevo parlato con il figliastro.

Lo incontrai alla toilette – ci scontrammo sulla soglia, per la verità, mentre io cercavo di uscire e lui di entrare. Mi bloccai a metà di un movimento e sentii l’aria defluire dai polmoni, improvvisamente spaventata all’idea di poter trovare anche qualcun altro insieme a lui; tuttavia le buone maniere ebbero la meglio, e riuscii a salutarlo e persino ad accennare un breve sorriso. “Ciao, Stefano…” Mormorai, lanciando un’occhiata verso il corridoio dal quale era arrivato.

Lui dovette comprendere al volo la situazione perché mi rassicurò subito. “Lui non c’è, stai tranquilla”, disse piano dopo aver ricambiato il saluto. Mi chiesi quanto sapesse di quello che era successo in ospedale, quanto Enrico gli avesse raccontato, e se, in qualche modo, mi disprezzasse per come avevo troncato ogni rapporto con il suo migliore amico. Per quanto ritenessi di essere dalla parte della ragione, infatti, non potevo fare a meno di provare un certo imbarazzo, quasi come se l’avessi tradito io.

“Come stai?” Mi chiese, gentilmente. Sembrava non esserci nessun fine, ma chi mi diceva che non sarebbe andato a riferire quello che gli dicevo ad Enrico?

Scrollai le spalle, quasi indifferente. “Bene, bene… Tu?” Avrei voluto chiedergli se avesse avuto problemi con la polizia anche lui, ma come si fa ad essere delicati nel chiedere a qualcuno se era indagato in un caso di omicidio?

“Anche io, grazie”; sorrise, e fu spontaneo. Come se trovasse del tutto normale chiacchierare con me, quando invece l’unica occasione in cui avevamo scambiato qualcosa di più dei semplici saluti di circostanza era stata esattamente quella del terribile fattaccio. Sul suo viso passò qualcosa, un’ombra o una ruga tra le sopracciglia chiare, e poi con un sospiro, come se in realtà non volesse, aggiunse: “Non posso dire lo stesso di Enrico, però.”

Solo sentir pronunciare il suo nome ad alta voce mi formò un groppo in gola. “Stefano, non ne voglio parlare”, replicai a mezza voce, cercando di superarlo e andarmene. Tuttavia lui mi posò una mano sulla spalla per trattenermi – doveva essere una prerogativa di Enrico e dei suoi amici quella, evidentemente.

“No, ascoltami, sarò breve. Per favore”, mi supplicò quasi. E allora ricordai che Enrico era suo cugino, che oltre ad essere amici erano anche parenti, e che probabilmente malgrado ciò in cui erano invischiati fino alla punta dei capelli gli voleva davvero bene, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Forse persino mettere una buona parola con me? Ah! Poteva provarci, ma era fiato sprecato.

Mi voltai senza rispondergli, facendogli capire che malgrado tutto l’avrei ascoltato.

“Puoi anche non crederci, ma non mi ha mandato lui”, esordì, avanzando di un passo verso di me. Ebbi modo di rendermi conto solo in quel momento quanto gli somigliasse, anche fisicamente, non fosse stato per il fatto che Stefano aveva una carnagione meno olivastra e i capelli di un castano chiaro – che un tempo forse erano stati biondi. Niente a che vedere con la folta chioma corvina di suo cugino che io, fatico ad ammetterlo, adoravo. “So che non è un ragazzo facile da gestire, lo conosco da una vita, ma ti posso assicurare che non ti ha mai preso in giro sui suoi sentimenti per te. In genere è sempre stato molto chiuso, è orgoglioso e testardo, e quando mi ha raccontato quanto si fosse lasciato andare con te non ci ho neppure voluto credere… Capisco che quello che è successo non sia facile da digerire, ma sei davvero convinta che non valga nemmeno la pena di provarci?”

Lo guardavo senza sapere che cosa ribattere, tenendo le braccia ostinatamente incrociate sul petto e continuando a mordicchiarmi il labbro inferiore dall’agitazione. Non mi aspettavo di dover affrontare una predica persino da parte di Stefano, prima o poi – la prossima volta avrei cercato di non allontanarmi dai miei amici da sola – e inoltre trovavo anche un filino assurdo che avesse la faccia tosta di chiedermi di provare a dimenticare quello che era successo. Non stavamo parlando di un furto di caramelle, che diamine, ma di un ragazzo di venticinque anni che aveva ammazzato a sangue freddo uno dei suoi amici, e che per di più non sembrava neppure provarne rimorso!

“Senti, Stefano, non so che cosa pensi di ottenere con questo discorso…” Tentai alla fine, dopo aver lasciato passare una lunga manciata di secondi in silenzio. “Mi dispiace che Enrico stia male, davvero, non sono un’insensibile, ma non posso farci niente. Tra me e lui non può funzionare, siamo troppo diversi, le nostre vite sono troppo diverse, e io questo gliel’ho già detto. ”

Mi fa paura anche solo l’idea di trovarmi vicino a lui, aggiunsi silenziosamente, senza trovare il coraggio di dirglielo ad alta voce. Forse tacqui perché sapevo che Stefano avrebbe fedelmente riferito quella conversazione a suo cugino, e malgrado tutto una frase del genere sembrava troppo crudele estrapolata dal contesto – oh, Dio, ero così confusa! Doveva preoccuparmi la mia attuale incapacità di ferire anche solo indirettamente Enrico, la causa principale dei miei problemi?

Forse avrei dovuto prendere sul serio l’invito di Alessandra e andare in terapia.

Stefano si avvicinò di un altro passo, e quando parlò la sua voce era di qualche ottava più bassa. Nel bagno c’eravamo solo noi, da chi aveva paura di farsi sentire? “Giulia, Enrico non è una persona che va in giro a sparare alla gente senza motivo”, sussurrò, con un’espressione terribilmente seria e, potrei giurare, anche un po’ arrabbiata. No, dico, scherziamo? Che motivo aveva di arrabbiarsi con me? “È stato un incidente, e lui adesso è a pezzi – e non lo dico per farti sentire in colpa o per far leva sulla tua pietà, ma perché vi ho visto insieme, e so cosa c’era tra di voi anche se tu sei così codarda da voler continuare ad ignorarlo.”

Boccheggiai, incredula. “Come ti permetti? Tu non sai niente…”

“No, ascoltami, io so più di quanto pensi, non sono un idiota”, mi interruppe, avvicinandosi ancora e costringendo me a premermi contro il muro per allontanarmi da lui. “Ma non vedi che state soffrendo tutti e due? In questo momento Enrico ha la tua stessa espressione, perché stare lontano da te lo sta uccidendo più di quanto non stiano facendo gli arresti domiciliari. E io non voglio vedere mio cugino in queste condizioni per colpa tua, lo capisci? Per non parlare del fatto che non si tratta solo di una semplice questione sentimentale, ma anche giuridica – sta rischiando la galera solo perché ha fatto tutto il possibile per impedire a Lorenzo di violentarti, voglio che questo ti sia chiaro!”

Adesso mi stavo arrabbiando sul serio, basta essere gentili.

“Oh, ma insomma, Stefano, che cosa vuoi? So benissimo quello che è successo e so che cosa ho visto, e ho già detto che mi dispiace per quello che sta passando Enrico, l’ho detto a suo tempo anche a lui! Ma non sono una santa né tantomeno una martire, e dopo tutto quello che io ho passato quest’estate direi che ho il sacrosanto diritto di infischiarmene del prossimo e pensare per un po’ solo ed esclusivamente a me stessa! Capisco il tuo punto di vista, stai difendendo tuo cugino e mi sta bene, mi sta bene anche che tu mi consideri una stronza. Non me ne frega niente! Non è sgridandomi né tantomeno minacciandomi che otterrai qualcosa da me, anche perché è lo stesso metodo che ha utilizzato il tuo adorato cugino per costringermi a frequentarlo e hai visto in che modo di merda è finita questa storia. Per cui, se era tutto qui quello che sei venuto a dirmi, allora puoi anche andartene prima che io inizi a diventare volgare.”

Speravo di essere riuscita ad esprimermi in modo piuttosto conciso.

Lui mi fissò per un po’ in silenzio, mordendosi l’interno del labbro inferiore come se si stesse sforzando di non dire qualche altra cattiveria; scosse lentamente la testa, senza smettere di guardarmi, poi indietreggiò restituendomi il mio spazio personale e permettendomi di tornare a respirare normalmente. La sua somiglianza con Enrico non sarebbe stata una buona cosa qualora la discussione si fosse accalorata un tantino di più. “Stai facendo un errore, Giulia”, disse alla fine, con un tono più pacato di prima e forse anche rassegnato. “Lui ti ama davvero.”

Sobbalzai, non aspettandomi una conclusione del genere. Lui ti ama.

Porca puttana, Giulia, io ti amo!

Con un gemito sofferente mi massaggiai le tempie, come a voler dimenticare una volta per tutte quelle parole. Tentativo inutile! Ma che diavolo avevo combinato nella mia vita precedente per meritarmi una tale quantità di disgrazie in questa?

“Può anche essere, Stefano, ma questo non basta”, ribattei, abbassando lo sguardo. “Non mi basta.”

Il suo sospiro mi arrivò con lo stesso furioso rimbombo che avrebbe fatto un grido. “Enrico mi aveva detto che eri testarda, ma io non ci avevo voluto credere.”

Non roteai gli occhi solamente perché avevo serrato con forza le palpebre. “Non è questione di essere testarda, Stefano, possibile che nemmeno tu lo capisca? È questione di avere dei principi, di seguire delle regole, di avere dei paletti! Paletti che, come abbiamo visto, Enrico non si fa scrupoli a ignorare. È un cane sciolto, una… una mina vagante! Non sai mai che cosa puoi aspettarti, da lui. Dio, ma ti sembra normale uno che ti fa rapire per essere sicuro che tu accetti il suo invito a uscire? Che ti fa seguire dai suoi amici? O che gira con una pistola carica in macchina, e che non esita a usarla? Dimmi, è testardaggine, questa? Io credo che il mio sia solo un feroce istinto di autoconservazione.”

Conclusi la mia tirata fissando un punto indefinito del pavimento, e anche se così non potevo vederlo in faccia era palese che non si fosse perso nessuna parola del mio discorso. Enrico poteva amarmi e – okay, sì, potevo provare qualcosa anche io – ma non poteva essere sufficiente! Non si può vivere di solo amore, e chi dice il contrario è soltanto un folle romantico innamorato più dell’idea dell’amore che non dell’amore stesso.

Io volevo una vita tranquilla, porca miseria. Non era una richiesta così impossibile, la mia!

Benché fossi quasi convinta che quella discussione fosse appena entrata nel vivo, Stefano mi sorprese scrollando le spalle con aria definitiva. “Beh, io ho fatto la mia parte. Mi dispiace di non essere riuscito a farti ragionare”, disse, improvvisando un debole sorriso che non raggiunse gli occhi.

Veramente ero convinta di essere l’unica ad aver mantenuto quella rara capacità di riflettere, ma a quanto pare lui non era dello stesso avviso: evidentemente per quelli come loro ragionare significava finire per accettare ed essere d’accordo su qualsiasi cosa dicessero. In tal caso avrei dovuto dargli ragione, non sarebbe mai riuscito a farmi “ragionare”.

“Allora divertiti con i tuoi amici. Ci vediamo in giro”, mi salutò alla fine, aggirandomi e uscendo dal bagno. Solo quando il tonfo della porta che si chiudeva dietro di lui rimbombò nella stanza mi permisi di sospirare, sentendomi intimamente stanca per quel confronto imprevisto che, peraltro, mi aveva lasciata con una marea di dubbi e persino di sensi di colpa in più di cui ad essere sincera avrei fatto volentieri a meno. Imprecai due o tre volte, ma non servì a scaricare la tensione.

“Non è colpa tua”, dissi decisa al mio riflesso. Il suono della mia voce parve terribilmente patetico nell’ovattato silenzio della toilette, e prima che iniziassi a intavolare una discussione anche con lo specchio aprii il rubinetto dell’acqua e mi sciacquai il viso, sperando che il freddo mi aiutasse a tornare in me.

Una volta tornata al tavolo, feci del mio meglio per fingere che quella conversazione non fosse mai avvenuta. Per fortuna Alessandra era distratta da Riccardo e dagli altri amici, dunque quando ripresi posto accanto a lei e allungai una mano tremante verso il mio bicchiere di acqua fresca si limitò ad osservarmi con un sopracciglio inarcato e ad esclamare: “Dov’eri finita, geme? Ti avevamo data per dispersa!”

E a mia volta mi limitai a sorriderle e a bere la mia acqua, che tuttavia non servì per niente a rilassarmi. “C’era un po’ di fila in bagno, e poi ne ho approfittato per sistemarmi il trucco”, risposi, complimentandomi tra me e me per essere riuscita a non far tremare anche la voce.

Non volevo rovinarle il compleanno con i miei problemi; Stefano aveva guastato la mia serata, ma io non avrei fatto lo stesso con la mia amica – quella situazione aveva messo indirettamente in pericolo anche lei, in fondo. Non mi ero dimenticata di quando Enrico aveva minacciato di far del male ai miei amici se io non avessi accettato di uscire con lui – Dio, quanto suonava ridicola l’intera faccenda! E poi, mi fa male ammetterlo, ormai avevo iniziato a confidarmi sempre meno con Alessandra per timore di intaccare la sua felice storia d’amore con Riccardo – anche se suppongo che un altro timore non meno grave fosse il mio essere certa che lei non avrebbe mai capito se un giorno le avessi rivelato quali erano davvero i miei sentimenti.

Avrei voluto che Stefano avesse ragione, in quel caso, davvero, ma purtroppo ciò che provavo non era abbastanza. Mi chiesi se potesse mai esserlo, in futuro.

 

 

 

 

 

*

 

 

Cinque mesi dopo.

 

Il processo si tenne in un’assolata e calda giornata di giugno, esattamente a un anno dall’inizio di tutta quella storia.

Era stato mio padre a prendere accordi con il legale di Enrico, tale avvocato Martis, per cui sapevamo di doverci trovare davanti al tribunale almeno un’ora prima di entrare in aula – anche in modo che lui potesse rivedere insieme a me le domande che mi avrebbe fatto durante la mia testimonianza. L’ultima volta che ci eravamo incontrati nel suo ufficio, alla presenza dei miei genitori, mi aveva avvertito che anche il Pubblico Ministero avrebbe potuto intervenire e pormi qualche domanda, e in tal caso io non mi sarei dovuta lasciar prendere dal panico ma dimostrare sicurezza e rispondere in tutta sincerità. Più facile a dirsi che a farsi! Non avevo mai assistito in prima persona ad un processo – se si escludono quelli dei film – e l’idea di dover parlare a un’aula di tribunale piena di gente, compreso Enrico, la mia famiglia e chissà chi altri, non era un pensiero che mi riempiva di tranquillità. Comunque avevamo fatto le prove, e quando mia madre mi aveva suggerito con un mezzo sorriso di prenderla come un’esercitazione in vista dell’orale dell’esame di maturità qualche interruttore dentro di me si attivò e mi permise di concludere l’appuntamento con l’avvocato più facilmente di quanto avessi immaginato.

Inutile dire che, trovandomi di fronte alla facciata in stile greco del tribunale – nel cui centro un altissimo pronao retto da pilastri e colonne era completato da una grande scritta recante la parola latina IVSTITIA – tutti i buoni propositi erano spariti e l’ansia e l’agitazione erano tornate più forti di prima.

Mentre mio padre si era allontanato per andare a caccia di parcheggio, io, mia madre e mia sorella iniziammo ad entrare nell’edificio per cercare un po’ di frescura – e perché loro due avevano bisogno di trovare un bagno, mentre io, immersa nel mio subbuglio interiore, non riuscivo a provare nessuna urgenza fisica – né sete, né fame, né nient’altro, come se le mie viscere si fossero attorcigliate tutte su loro stesse bloccando qualsiasi voglia. Per cui ero rimasta da sola nell’ampio ingresso – sola in senso figurato, visto il via vai continuo di persone che affollavano il palazzo di giustizia. Con un gesto nervoso sistemai le bretelline sottili del mio vestito al di sotto della giacchetta color panna che indossavo per non entrare in aula con una scollatura inadeguata alla situazione; mi passai una mano tra i capelli, mi feci aria con la mano, sfiorai prima gli orecchini e poi il girocollo, in un’apparente sequenza senza fine di gesti inequivocabili di trepidazione e disagio. Non sapevo se ero più terrorizzata dall’idea di rivedere Enrico dopo quelli che sembravano secoli o dall’idea di testimoniare a suo favore davanti a una marea di gente – probabilmente era un giusto miscuglio di entrambi. Che stupida, perché non avevo pensato di farmi prescrivere dei tranquillanti dal mio medico? Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che sentire il mio cuore battere con una tale ferocia all’interno della mia cassa toracica da farmi sudare freddo e da rimbombarmi nelle orecchie come un tamburo.

Oddio, non mi era mai capitato di persona ma speravo di non essere prossima ad uno svenimento. Per sentito dire sapevo che non sarebbe stata una bella esperienza.

“Giulia?”

Al suono di quella voce rabbrividii e trattenni il respiro, pietrificata. Eccolo, il momento della verità! Lo sapevo che sarebbe successo, insomma, ero praticamente lì per lui, però... Oh, Dio, non sono ancora pronta per questo confronto. Non sono pronta. Non sono pronta!

Deglutii, presi un profondo respiro e mi voltai, stringendo la borsa con entrambe le mani per evitare di torcermele come una bambina nervosa. E a quel punto fu inevitabile posare i miei occhi su di lui.

Il primo pensiero che mi venne in mente fu piuttosto sciocco: all’improvviso Enrico mi sembrava più alto e quasi imponente. Era vestito in modo impeccabile – se avessero dovuto giudicarlo per lo stile lo avrebbero assolto da qualsiasi colpa e peccato – indossava un elegante completo di un blu tanto scuro da sembrare nero, e la giacca sbottonata sul petto lasciava intravedere una camicia bianca e una cravatta altrettanto scura. Al suo fianco c’era l’avvocato Martis, con un’aria terribilmente professionale e una valigetta ventiquattr’ore in mano, tutto impegnato a concludere una telefonata. Comunque non dedicai all’uomo troppa attenzione, occupata com’ero a ri-familiarizzare con la persona di Enrico. Insomma, maledizione, era bello. Troppo bello. Più di quanto mi ricordassi!

Ecco perché nei mesi scorsi avevo fatto il possibile e l’impossibile per tenermi alla larga da lui: sapevo l’effetto che aveva su di me, e se avessi anche solo accettato di vederlo una volta per parlare a mente fredda, come mi aveva più volte chiesto tramite messaggi in segreteria a cui non avevo mai risposto, mi avrebbe attirato nella sua ragnatela con una facilità impressionante. Cosa che, se avessi continuato ad osservarlo ancora un po’, sarebbe indubbiamente successa.

Per cui mi schiarii la voce e cercai di accennare un sorriso – tentativo inutile, dato che i miei muscoli facciali sembravano essersi paralizzati. “Ciao”, dissi soltanto. Dio mio, che situazione imbarazzante... E adesso, come mi sarei dovuta comportare? L’ultima volta che ci eravamo parlati era stato quando… Beh, meglio non pensarci: negli ultimi mesi mi ero sforzata con tutta me stessa di dimenticare quella conversazione, nonché la dichiarazione che ne era derivata. Grazie al cielo, fu proprio l’avvocato a togliermi da ogni impiccio.

“Buongiorno, signorina Ordiano. Pronta per l’interrogatorio?” Cercò di sdrammatizzare, sporgendosi verso di me per stringermi la mano in un educato saluto.

“Ho fatto i compiti a casa”, mi limitai a rispondergli, ricambiando la stretta. Malgrado la presenza del legale, continuavo a sentirmi i perforanti occhi chiari di Enrico puntati addosso che mi facevano prudere la pelle, per cui non sapevo bene dove girarmi per evitarlo. Alla fine decisi di rivolgermi di nuovo all’uomo. “E… A che ora inizia l’udienza, di preciso?”

L’avvocato diede un’occhiata all’orologio che portava al polso sinistro, e una ruga si formò in mezzo ai suoi occhi. “Tra quarantacinque minuti dovremmo essere seduti tutti dentro”, rispose gentilmente, tornando a guardarmi. A giudicare dall’incipiente grigiore ai lati delle tempie doveva avere più di quarant’anni, eppure quando Enrico si voltò verso di lui per intimargli di lasciarci un po’ da soli lo vidi annuire e sparire in mezzo alla folla adducendo una scusa qualsiasi come un comune lacchè.

Beh, io non volevo rimanere da sola con lui, per cui feci per dargli le spalle e andare alla ricerca della mia famiglia che sarebbe già dovuta essere uscita dalla toilette, accidenti a loro – ma ormai avrei dovuto conoscere Enrico abbastanza bene da immaginare che non mi avrebbe lasciata sparire senza fare niente. Infatti, prevedibile come la trama di Beautiful, sentii la sua mano stringersi intorno al mio polso e prima che potessi iniziare a protestare venni trascinata via, dietro una grossa colonna in un angolo appartato. Sarà difficile che i miei mi trovino qua dietro, pensai irritata, lanciando un’occhiata infastidita al mio sequestratore.

“A cosa devo il piacere di questa sceneggiata?” Sibilai non appena mi liberò la mano, per poi incrociare le braccia sul petto e indietreggiare lontano da lui. “Non sono venuta per scambiare quattro chiacchiere con te, Enrico. Ci siamo detti già tutto.”

“Non è quello che penso io”, ribatté lui, per nulla intenzionato a cedere. Malgrado avessi i tacchi, in quel momento mi sembrò davvero più alto – sembrava torreggiare su di me. Forse era solo la mia agitazione che mi stava procurando le allucinazioni?

Malgrado tutta la buona volontà non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata. Non lo avevo già assecondato abbastanza in passato? “Va bene, come vuoi. Starò al gioco. Che cosa pensi tu?” Aggiunsi, parafrasandolo. A giudicare dall’ombra che gli attraversò lo sguardo stavo già riuscendo nell’intento di innervosirlo: bene, evidentemente certe capacità non si perdono col tempo.

“Penso che tu debba a stare a sentire quello che non mi hai lasciato spiegare quel giorno in ospedale”, esordì a mezza voce, chinandosi verso di me. “Ho avuto modo di riflettere in tutto questo frattempo, Giulia, credimi, e ho accettato che tu possa avere tutti i diritti di questo mondo di essere arrabbiata e di avere paura di me e di quello che faccio… Ma che sia dannato se ti permetterò di essere ancora così codarda da rifiutare di vedere quello che c’è tra noi!”

“Non posso credere che tu stia tirando fuori questi discorsi mezz’ora prima del processo!” Ribattei con il suo stesso tono di voce, sinceramente allibita; decisi di ignorare che era già la seconda volta che venivo tacciata di codardia, anche se avrei voluto sapere da che razza di pulpito stava venendo tale accusa. “Non hai una testimonianza da ripassare invece di fare la predica a me?”

“Ho avuto praticamente sette mesi per imparare a memoria la mia deposizione”, mi mise a tacere subito, eliminando la questione con un gesto della mano. “E ho anche avuto lo stesso lasso di tempo per pensare a tutte le cose che voglio dirti. Giulia, io ho bisogno di dirtele e tu hai bisogno di sentirle, per cui adesso starai buona e zitta e mi lascerai parlare!”

Accidenti, non me lo ricordavo così insistente e prepotente; non credevo che il suo carattere sarebbe mai potuto peggiorare, e invece… Diamine, era successo proprio l’impensabile! Comunque il fatto di trovarci in un luogo pubblico che pullulava di poliziotti e guardie armate mi confortò sul mio destino e mi fece accondiscendere al suo attuale capriccio; non poteva venirne nulla di peggio, no?

“Bene!” Sbottai quindi, sempre più innervosita. “Parla. Sono qui, ti ascolto.”

Lui non parve molto convinto del mio cedimento, e mi fissò per un po’ dal di sotto delle lunghe ciglia scure – ma poi sembrò ricordarsi di avere i minuti contati, così si riscosse e ritrovò il filo dei suoi pensieri. “Sarò rapido”, chiarì, avvicinandosi. Dio, era passato parecchio tempo dall’ultima volta in cui ci eravamo trovati così vicini – non ero più abituata a sentire il suo profumo, e mi ritrovai ad annusarlo con più delizia di quanto fosse lecito. Mi domandai, per insultarmi mentalmente subito dopo per averlo fatto, se avesse notato che avevo schiarito i capelli o che avevo indossato un vestito, dato che lui aveva avuto modo di vedermi indossare solo jeans e derivati nei miei vani tentativi di apparire assolutamente il meno provocante possibile quando uscivo con lui… Focalizza, Giulia!

“Non ce la faccio più a starti lontano”, disse piano, costringendomi a sostenere il suo sguardo. Sembrava lottare ferocemente contro l’istinto di toccarmi. “Non ci vediamo né sentiamo da settembre… Mio Dio, non una parola da parte tua, neppure un messaggio! Cosa ti costava rispondere a uno solo di quelli che ti ho mandato?”

Avrei voluto ribattere chiedendogli quale parte di non ti voglio più vedere e non cercarmi più detta in ospedale non gli fosse stata sufficientemente chiara, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che mi dissuase dal stuzzicarlo in modo così spudorato. Insomma, stava solo parlando – non c’era niente di male in quello; e poi lo sapevo che prima o poi il karma avrebbe fatto in modo che anche lui avesse la sua occasione di illustrarmi il suo punto di vista, dato che l’ultima volta che ci eravamo visti ero praticamente fuggita impedendogli di farlo. Per cui, in poche parole, mi morsi la lingua e lo lasciai proseguire.

“Dovevo venire a sapere di te tramite i miei amici che ti vedevano di sfuggita all’uscita da scuola, o dal mio avvocato che ti convocava una volta ogni tanto. Non hai idea di quello che ho passato in questi mesi, soprattutto visto il modo in cui ci siamo… lasciati”, aggiunse, avvelenando la propria voce su quell’ultima parola. “Sembra che quello che ti ho detto non abbia avuto davvero nessun effetto su di te… Però voglio che tu sappia che anche se è passato del tempo io ribadisco e confermo ogni singola parola che ti ho detto quel giorno. Ogni singola parola. E tu sai di cosa parlo, vero? Non sono perfetto, non ho mai avuto l’arroganza di pensarlo né l’ambizione di esserlo, e so – credimi, Giulia, lo so – di non avere una vita facile. Ma sono anche terribilmente egoista, e non sono capace di starti lontano per il tuo bene – continuerò a volere te in questa vita incasinata, fino alla fine.”

Solo quando smise di parlare mi accorsi di aver trattenuto il fiato fino all’ultimo. Deglutii a fatica e ripresi a respirare, sentendomi un fastidioso groppo in gola, e abbassai gli occhi perché, contrariamente a ogni buonsenso, mi sentivo prossima al pianto – e non sapevo quanto potesse giovare entrare nell’aula del processo con gli occhi gonfi e arrossati. Con la coda dell’occhio vidi il movimento della sua mano che si sollevava e andava ad accarezzarmi i capelli, e ciò mi rese di nuovo padrona delle mie capacità motorie. Mi scansai, trovando una via di fuga laterale e allontanandomi il tanto necessario per riguadagnare il controllo di me stessa e ricacciare indietro le lacrime.

“No, Enrico”, mormorai. Dovevo ignorare i suoi maledetti occhi che mi fissavano come se fossi stata un tesoro prezioso, maledizione! Mi schiarii la voce e mi asciugai l’angolo di un occhio umido, poi con un estremo sforzo continuai. “Mi dispiace, ma no. non posso. E prima verrai a patti con questa cosa meglio sarà per tutti”, aggiunsi, sforzandomi di sembrare risoluta.

A quel punto il suo sguardo perse l’espressione appassionata e timorosa e si fece feroce. “Porca puttana, non puoi liquidarmi così un’altra volta…”

Probabilmente aveva ancora parecchie cose da dire a sua discolpa, e avrebbe di sicuro continuato quell’assurdo dibattito se non fossero venuti a cercarci.

“Signor D’Angelo! L’abbiamo cercata dappertutto. Venga, è ora di entrare”, disse il signor Martis, con un’aria trafelata. I suoi occhi scivolarono dal suo cliente a me e una delle sue sopracciglia si inarcò con educata perplessità nel notare le nostre espressioni: mi chiesi se era stato illuminato sui nostri trascorsi, anche se a giudicare dall’inconsapevolezza che sembrava ondeggiare dietro i suoi occhiali non doveva essere stato messo al corrente di tutti gli altarini. “I suoi genitori stavano cercando anche lei, signorina Ordiano”, mi informò gentilmente. Annuii e mi diressi verso di loro – li avevo individuati che parlavano con i genitori di Enrico in modo più civile di quanto avessimo fatto invece noi, e grazie al cielo stavolta lui non fece nulla per fermarmi.

Tuttavia si sentì in dovere di aggiungere ancora qualcosa. “Ne riparleremo ancora, Giulia. Dopo il processo”, fece, alzando di qualche sfumatura il tono di voce in modo da accertarsi che io udissi anche quell’ultima promessa – o era una minaccia?

Di sicuro mi aveva fornito materiale più che sufficiente con cui occupare la mente durante l’udienza; avevo la terribile impressione che tutto il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo visti non aveva fatto altro che acuire il desiderio di un sentimento che avevo cercato con tutte le mie forze di non far neanche nascere. Insomma, secondo ogni logica la lontananza avrebbe dovuto farmi passare qualsiasi cosa avessi iniziato a provare per Enrico – perché a questo punto avevo rinunciato da tempo a raccontarmi l’idiozia di non essere minimamente coinvolta in senso emotivo, per quanto continuassi con caparbia ostinazione a non pronunciare né tantomeno pensare una determinata parola – e invece era bastato rivederlo e parlarci un’altra volta per farmi riprecipitare a caduta libera giù per la maledetta tana del bianconiglio.

Prima di entrare nell’aula presi un profondo respiro e strinsi la mano di mia madre, che mi guardava con l’aria di chi, purtroppo per me, aveva compreso ogni cosa e sin da subito, per di più. Mi diede un bacio sulla guancia e mi guidò verso la nostra postazione, nella terza fila dietro il banco di Enrico.

Forza e coraggio, Giulia.

 

 

 

 

 

 















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Angolo Autrice.

Bla bla bla bla... ritardo... Bla bla... insoddisfatta... bla bla... mesi e mesi... bla bla... scuse... bla... perdono... Bla bla bla... Bla!
Conoscete la tiritera, dunque ho mandato avanti la registrazione. xD Mi limiterò a ringraziare le splendide fanciulle che hanno recensito lo scorso capitolo, per l'esattezza chicchetta, Sylphs, Eleanor_Rigby, GreenRose93, luck_Y, Ibelieveinniley e Little Redbird - non so davvero cosa dire per ringraziarvi per le vostre splendide parole, siete così gentili e soprattutto pazienti, una dote estemamente indispensabile per poter seguire le mie storie! xD
E poi ovviamente un ringraziamento a chi mi incoraggia tramite FacciaLibro, che in momenti come questi adoro ♥ Speaking of, se vi capita di passare da quelle parti e avete 5 minuti del vostro pomeriggio da buttare - o se vi serve una scusa per poter usufruire di una ultra meritata pausa studio ù_ù - mi piacerebbe che deste un'occhiata a un umilissimo (ci tengo a precisarlo) video riguardante questa storia, che era nato per essere una specie di Trailer e che invece è finito per diventare una sorta di riassunto di questa trentina di capitoli :D Ma è breve, davvero, nemmeno 5 minuti!, e sarei contenta se mi deste un vostro parere. :)
QUI il video [si trova solo su Feisbuk perché davvero, non credo che meriti di starsene su Youtube x'D]
A questo punto sappiate che l'Epilogo è già scritto - dunque la qui presente autrice sa finalmente come concludere questa storia - e suppongo che manchi solo uno, o al massimo (ma DIO MIO spero di no) due capitoli prima di postare l'ultimo. I pianti li conserverò per allora. :'(
Una domanda spassionata e piena di curiosità: se doveste scegliere una canzone per questa storia, quale sarebbe? Ne volevo una da mettere nell'Epilogo (o in un prossimo video, muahahahaha) e concludere in bellezza, ma la mia cultura musicale non è così vasta, sicché... mi metto nelle vostre mani, se vi va di darmi un aiutino. :)
Orbene, suppongo di avere detto tutto per stavolta!
Ci leggiamo tutte al prossimo capitolo - o su Feisbuk per qualche spoilerino ;D
Baci e abbracci a tutte quante, e... Auf Wiedersehen!
La vostra,
Niglia.
   
 
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