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Autore: cerconicknamesugoogle    28/01/2013    1 recensioni
Se Katniss fosse stata una ragazza come tutte le altre? Un semplice tributo sopravvissuto alla furia di Capitol City? Se non ci fosse stata nessuna rivolta? Se i Distretti avesser continuato ad abbassare la testa davanti al potere costituito?
Siamo alla Centesima edizione degli Hunger Games, la quarta edizione della Memoria. I giochi saranno diversi.
Due Tributi. Distretti diversi, famiglie diverse, ferite e cicatrici diverse. Due destini separati, se credete nel destino. Due destini che sono destinati ad intrecciarsi, per la gioia degli spettatori.
Questa volta ci sarà un solo vincitore per gli Hunger Games.
Che i Giochi abbiano inizio? Tenete gli occhi incolati sullo schermo, ci sarà da divertirsi.
*Fanfiction scritta a quattro mani da Wania97 e Clalla97, per la gioia di chi ama i loro scleri, cioè nessuno ù-ù Un personaggio a testa, uno per uno non fa male a nessuno.*
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La natura di un predatore

Come un esercito, si cade
uno ad uno
(Linkin Park, In my remains)

Corri.
Le gambe di Lenore stavano obbedendo già prima che quell'ordine fosse impartito.
Correva senza sapere di correre; respirava senza sapere di respirare; sentiva nelle orecchie il battito accelerato del suo cuore senza sapere di averlo ancora, un cuore. Puntava dritta verso la Cornucopia, dove la attendevano armi, provviste, possibilità.
Corri.
I primi zaini si stavano avvicinando, o lei si avvicinava a loro, ma non le interessavano. Era quello che c'era più avanti, che doveva conquistare. Il filo tagliente della lama di una spada le sorrideva da lontano, lì nella bocca della Cornucopia. Lenore ebbe la tentazione di ricambiare, ma non aveva più una bocca per sorridere. Quello che in lei contava erano solo le gambe, in movimento verso l'obbiettivo. Era al di là del sentire, al di là del pensare, al di là del vedere, al di là dell'udire. Sorda, muta, cieca. Inconsapevole, ignara... Incontrollabile.
Corri.
E all'improvviso qualcosa decise di mettersi fra lei e l'arrivo. La attaccò da dietro, quel contrattempo codardo, uno strano modo di tentare il sorpasso.
Ma appena sentì quella freddezza metallica premere con dolorosa insistenza alla base del suo collo capì che nessuno voleva superarla.
Troppo lenta.
Qualcuno era già arrivato dove lei non era riuscita a giungere, per poi tornare indietro a finire chi non aveva corso abbastanza velocemente.
Per finire quelli come lei.
Era in trappola. Braccata appena pochi secondi dopo il suono del corno di caccia. Preda e non predatrice. Messa all'angolo da qualcosa che aveva braccia e armi, oltre a gambe e piedi.
Ma non era così che doveva essere. Il lupo non era fatto per essere ucciso dalla pecora.
Eppure la lama tagliò la carne della sua gola con un gemito di soddisfazione, prendendosi il nutrimento che le spettava, rubandole la vita. Penetrò a fondo. Ma non abbastanza. Non abbastanza per ucciderla.
E fu un errore fatale, per quell'assassino incapace.
La mano candida che reggeva il manico dell'arma era salita troppo in alto, troppo vicina a quella bocca che Lenore si era dimenticata di avere.
Mordi.
I denti affondarono nella carne cedevole, lottando contro la resistenza della pelle, fino a quando la ragazza non sentì un sapore salato e metallico che ricopriva, invadente, tutto il suo palato.
Il coltello cadde a terra con un rumore sordo, coperto totalmente dall'urlo di dolore che si mischiò a quello di molti altri, nell'aria.
Bastò un secco colpo al viso, con il gomito, perché poi il corpo del suo aggressore cadesse a terra, rantolando debolmente, stringendosi al petto la mano ferita e posando l'altra a fermare il sangue che usciva copioso dal naso quasi sicuramente rotto.
Ma a Lenore non bastava.
Raccolse il coltello e si voltò, lasciando che la rabbia facesse il proprio dovere.
Distinse il fragile corpo di una ragazza, i capelli neri come i suoi, le stesse rade efelidi che spuntavano sul suo naso quando il sole picchiava troppo forte... Ma gli occhi erano sbagliati. Troppo scuri, talmente tanto da sembrare vuoti, privi di espressione.
Perciò quella pallida somiglianza non bastò a fermarla. La lama calò verso il basso, precisa, priva di esitazioni.
Un solo colpo. Len non avrebbe sbagliato.
Un fiotto liquido le bagnò le guance e quando si passò le dita sulla pelle le ritirò rosse.
Rosse di esultanza, di soddisfazione, di vittoria...
Ed ecco che le cose tornavano al loro posto. Il lupo che finalmente apriva la sua caccia.
Lo sentite, il mio ululato?
Bastarono pochi rantoli perché la vita scivolasse via da quel corpo ormai inutile. Pochi secondi per riconoscere quella che era stata Lydia, del Distretto 3.
Fu strano, eppure così naturale, in quel momento, ripensare alla sua Stilista, a ciò che avrebbe detto vedendo quel corpo abbandonato a terra con tanta mostruosa grazia.
“Che spreco.” sussurrò. Sì, avrebbe detto proprio così, Sybil.
Travestile come vuoi, ma le pecore resteranno sempre pecore.
Lenore si voltò e non le ci volle poi molto per capire che non poteva correre di nuovo nella stessa direzione. Gli animali avevano seguito tutti il suo stesso istinto e la mischia si era formata proprio davanti alla bocca della Cornucopia, in un affascinante miscuglio di urla, ferite e colpevole soddisfazione. I predatori avevano già circondato le prede... Il sentore della paura di quegli animi braccati già si spandeva attorno a lei.
Troppo tardi.
Il sorriso della spada si era trasformato in un ghigno di scherno, di fronte alla consapevolezza che Lenore non l'avrebbe mai impugnata.
Fu un'altra mano, un altro animale, a toglierla dal suo posto, a profanare quell'arma che sarebbe dovuta essere solo sua.
E lei dovette accontentarsi di afferrare il primo zaino che le capitò fra le mani, il più grande fra quelli che aveva davanti a sé. Perché non poteva gettarsi in quel groviglio di corpi per rivendicare ciò che le apparteneva.
Il branco è più forte del lupo solitario.
Non poteva correre di nuovo nella stessa direzione, ma poteva correre comunque. Le gambe scattarono, portandola verso destra, cercando di allontanarsi il più possibile dal massacro. Cercando di mettersi al sicuro.
Tu corri, corri... Ma dove stai correndo, Lenore?
La ragazza si bloccò, rendendosi finalmente conto di che cosa la circondava.
La punta finale della coda della Cornucopia arrivava quasi a sfiorare il soffitto della grande grotta di forma vagamente circolare. Le poche lampade alogene concedevano solamente una luce fioca a quelle ombre che combattevano per la vita proprio lì sotto, bloccate da quell'unica parete curva, irregolare, fatta di fili di roccia tagliente che sembrava pericolosamente vicina a crollarsi addosso.
Una sola, grande sala. Nessuna via di fuga.
Ma non poteva essere tutto lì, pensò la ragazza, facendo vagare febbrilmente lo sguardo. Non potevano averli rinchiusi lì dentro.
Lenore non aveva possibilità, in quella grotta. Se ne rendeva conto da sola.
Lei aveva bisogno di acqua. E non solo per sopravvivere, ma anche per sentirsi viva. Per avere una forza che senza acqua non sarebbe durata in eterno.
Sapeva anche che il panico sarebbe arrivato presto se non avesse di nuovo respirato all'aria aperta, ma per quei pochi secondi di calma che ancora le rimanevano Lenore continuò a cercare un'uscita.
Quelle pareti, che in realtà erano fuse in una sola, sembrarono chiudersi su di lei, soffocandola, affogandola nel loro pulviscolo pietroso, ma fu proprio perché erano ormai così apparentemente vicine che riuscì a vederle per la prima volta nella loro interezza.
Ed eccole, finalmente, quelle fenditure che si nascondevano, traditrici, confondendosi nella penombra della sala, nei deboli giochi di quella luce artificiale.
Erano solo spaccature, larghe a malapena per un uomo. Lenore non sapeva se l'avrebbero portata veramente in superficie o se l'avrebbero gettata nelle viscere della terra, ma il solo pensiero di allontanarsi da lì, di scampare al massacro, la fece sentire talmente leggera da pensare di poter arrivare a battere la testa sul soffitto con un solo salto.
E per una volta correre ebbe un senso.
Scelse la strada più stretta che riuscì a distinguere, stretta a tal punto che fece non poca fatica ad infilarcisi dentro, facendo poi seguire lo zaino voluminoso.
Scelse proprio quella con la consapevolezza che nessuno di troppo pericoloso avrebbe mai avuto la possibilità di seguire la stessa via e continuò a spostarsi lentamente, di profilo, sentendo le braccia e la schiena graffiate incessantemente da quella roccia impietosa che cercava di trattenerla dentro di sé. Fu un'avanzata lenta, claustrofobica e sfibrante, tanto che Lenore credette veramente che non sarebbe uscita da quei corridoi stretti e che sarebbero passati giorni prima che la fame o la sete ponessero fine alle sue sofferenze, lasciando che il liberatorio colpo di cannone esplodesse per testimoniare a tutti la sua uscita di scena.
Ma poi l'oscurità divenne gradualmente penombra, e la penombra si trasformò alla fine in luce. Una luce solare talmente forte che la ragazza ne fu accecata, dopo quelle ore immersa nel buio più totale.
Bianco. Solo bianco, un bianco talmente puro da cancellare tutto il sangue e l'oscurità che lei si portava addosso da troppo tempo, da sempre...
C'era aria, intorno a lei, sopra di lei, dentro di lei... Aria fresca, ossigeno che arrivava al suo cervello facendola barcollare di vita.
Così rimase lì, cieca, a sentire quel ribelle refolo di vento che baciava la sua pelle accaldata, che accarezzava con dita gentili i graffi che la pietra le aveva crudelmente inferto.
Corri.
L'esortazione si propagò lungo la sua spina dorsale, con la violenza di una scarica elettrica, facendola sussultare di fronte a quella disperata urgenza.
Era un suicidio, certo, avanzare, senza vedere cosa la circondava. Ma era anche peggio rimanersene lì, ferma, ad aspettare, inerme, che qualcuno, o qualcosa, la trovasse.
Così corse, di nuovo. Senza sapere dove la stessero portando i suoi piedi, verso il vuoto di un burrone o verso l'ombra ristoratrice di un salice, con le sole mani sporte in avanti per non colpire qualcosa in quella febbrile fuga.
Corse più veloce che poteva, accelerando gradualmente fino a sentire i muscoli bruciare per lo sforzo prolungato.
Corse e inciampò, una, due, tre volte... Cadde battendo il mento a terra, fermando la caduta con ginocchia e palmi, sbucciandoseli immancabilmente ogni singola volta. E ogni singola volta si rialzò con più fretta, spazzando via i sassolini che si conficcavano nella carne arrossata e rimettendosi in moto, senza badare all'umiliazione di trovarsi faccia a terra davanti a se stessa.
Quel bianco che prima l'aveva avvolta con tanta benevola freschezza si trasformò velocemente nel rosso di un sole che batteva, insistente, contro le palpebre serrate.
Rosso, di nuovo...
Troppo chiaro per ricordarle una ferita.
Abbastanza scuro per ricordarle che poteva diventarlo.
E tutto scivolò via di nuovo, pensieri, ragionamenti, paure... rimase solo l'istinto, fedele compagno di viaggio, e il suo corpo, pronto ad obbedire ai suoi ordini muti.
Socchiuse lentamente le palpebre, cercando di mettere a fuoco l'ambiente circostante.
Il profilo decadente delle montagne di macerie che la circondavano si dipanò in fretta davanti ai suoi occhi. Calcinacci, intere lastre di cemento, strutture in ferro, schegge di metallo... avrebbe potuto giurare di aver visto persino un lavandino sbeccato.
Ma non era quello a preoccuparla.
Dopo centinaia di metri percorsi a folle rapidità, era ancora allo scoperto, esposta su tutti i fronti.
Quegli instabili agglomerati di detriti non le avrebbero dato nemmeno lontanamente la protezione di cui aveva bisogno.
Non c'era acqua, nutrimento... nemmeno erba. Il sole bruciava il suolo con la stessa forza di un incendio.
No, la sua meta era più avanti, distante almeno il doppio di quanto si era già lasciata alle spalle.
Il limitare della foresta la attendeva con impazienza lì davanti. Anche dalla sua posizione riusciva a distinguere l'algida fierezza con cui gli alberi si ergevano a testimoniare la loro posizione.
Sì...
Non aveva nemmeno preso in considerazione l'ipotesi che le rocce potessero essere un buon nascondiglio, realisticamente non lo erano, eppure per qualcuno avevano funzionato.
Il corpo schizzò verso di lei talmente inaspettatamente che Lenore non ebbe la prontezza di reagire nemmeno quando due mani più grandi e più forti delle sue le circondarono il collo con violenza, facendo esplodere una profusione di puntini e scie luminose davanti ai suoi occhi, portandole via quella vista così faticosamente riconquistata.
No...
Sotto quella ferrea presa, da cui non riusciva a sottrarsi nemmeno dibattendosi convulsamente, l'ossigeno cominciò ben presto a scarseggiare.
Hai un coltello, idiota! Usalo!
La mano di Lenore tagliò l'aria incoerentemente, agitando la lama quasi a caso, eppure, stranamente, il colpo trovò da solo il proprio bersaglio.
L'aria tornò ad invadere i suoi polmoni, mentre il suo aggressore la lasciava con un grugnito di dolore. Lenore non si fermò ad aspettare una seconda mossa.
Si gettò a peso morto contro la sagoma sfocata del ragazzo, che barcollò per poi cadere a terra, trascinandosi dietro anche lei.
E ancora una volta la lama sembrò agire di volontà propria. Affondò nella carne e cozzò contro l'osso con quella superba facilità che prima o poi avrebbe condannato definitivamente Lenore.
Perché le bastò aprire gli occhi per capire che il colpo non era nemmeno lontanamente mortale, che aveva sprecato l'unica possibilità che le rimaneva.
Eppure le braccia del ragazzo non la circondarono, soffocandola di nuovo, non ci fu alcuna risposta a quella ferita, innocua ma sicuramente dolorosa.
La ragazza provò la malsana voglia di ridere, quando alla fine vide la tempia sanguinante che aveva colpito le pietre sotto di loro. Tramortito ma non ucciso.
Quelle stesse macerie che lo avevano protetto fino a quell'istante erano diventate in una frazione di secondo la causa della sua morte.
Perché era ovvio che Lenore non lo avrebbe risparmiato.
Non fidarti di niente e di nessuno. Ogni cosa, può uccidere, nell'Arena. Persino una pietra.
Le ciglia del ragazzo già tremavano impercettibilmente, segno che prima o poi avrebbe aperto di nuovo gli occhi per tentare di nuovo di ucciderla. Ma non ne avrebbe avuto il tempo.
E fu proprio Lenore, e non il coltello stesso, a guidare per l'ennesima volta la lama, nello stretto spazio fra le costole fino a trovare il cuore, con lentezza, sotto lo sguardo del Tributo del Distretto 6 che alla fine si era svegliato, appena in tempo per fungere da spettatore alla propria morte.
Il petto smise lentamente di sollevarsi nel suo ostinato moto meccanico e le palpebre smisero di fremere nel vano tentativo di rimanere alzate.
La bocca rimase leggermente socchiusa, la lingua pesta per un morso di cui probabilmente il Tributo non si era nemmeno reso conto.
Ma Lenore non rimase a notare tutte quelle cose. Pulì la lama sulla giacca del Tributo e si alzò con calma, voltando le spalle al corpo e ricominciando la sua corsa verso la rassicurante ombra del bosco.
Il lupo continuava il suo lento massacro.
Non essere stupida, Lenore. Non sarai mai un lupo. Non sei abbastanza forte. Sii un rapace, piuttosto. Gioca di furbizia. Mantieniti in volo. Confondili. Sii un puntino nero nell'aria. Fa' che non capiscano se sei solo un pettirosso a bassa quota o una aquila, centinaia di metri sopra di loro. E quando vedrai che è il momento giusto scendi in picchiata e prenditi ciò che ti è dovuto.
Comportati da predatrice quando puoi. Ma fino a quel momento... vola via.

E quando il colpo di cannone risuonò Lenore non poté impedirsi di sorridere sapendo che era colpa sua.
Merito suo.

La semplicità dell'Arena la metteva a suo agio. Forse anche troppo.
Ci aveva provato davvero, a rimanere guardinga, ma i risultati non erano stati poi così soddisfacenti.
Era la foresta di conifere a fregarla veramente.
Perché sapeva di casa.
Non casa: quattro cadenti pareti di legno tarmato, qualche mobile zoppicante e aria intrisa di odio, litigi e recriminazioni. No. Casa: aghi sotto le piante dei piedi, terreno umido, odore di pino nell'aria, vita, tante vite attorno a lei, sciabordare lento e scostante ma allo stesso tempo metodico dell'acqua, silenzio rumoroso del tempo che scorre... Semplicemente, Casa.
Non era riuscita nemmeno a correre fra gli alberi. C'era troppa pace in quel luogo per infettarlo con i suoi febbrili movimenti scoordinati.
Aveva camminato lentamente, passando le dita sui tronchi degli alberi, flettendole con leggera fatica dopo che questi le avevano lasciato piccole schegge di legno sottopelle come regalo di benvenuto.
Aveva passato in rassegna l'intero contenuto dello zaino: una tela cerata, filo di ferro e di nylon, una borraccia, un paio di contenitori ermetici, qualche scatoletta, presumibilmente di cibo, sottovuoto, un pacchetto di gallette, una polvere che odorava di brodo di carne e un piccolo set di coltelli da lancio, piccoli ma familiari, nel peso e nella forma.
Aveva ringraziato il suolo umido, ma non fangoso, che le permetteva di muoversi senza fare rumore ma senza lasciare tracce troppo evidenti.
Aveva ascoltato, come solo chi è abituato al silenzio dei boschi sa fare, e aveva sentito il gorgogliare allegro di un ruscello o di un fiume, poco distante.
Aveva sorriso perché lei, lì, era forte.
Ma soprattutto aveva ignorato quella persona che la seguiva da quando si era addentrata tra le piante, cosa più facile a dirsi che a farsi visto tutto il rumore che quel Tributo stava facendo.
Lenore era arrivata persino a pensare che lo stesse facendo di proposito, soprattutto perché sembrava aver calpestato tutti i rametti secchi caduti a terra nel raggio di due chilometri.
Perciò era rimasta in attesa di un suo attacco, rilassata, mantenendo però i sensi all'erta, protesi a captare qualsiasi movimento che facesse scattare il suo sistema d'allarme.
Ma dopo quasi un'ora lui, o lei, non era ancora uscito allo scoperto.
E lei continuava a camminare, consapevole che fare la prima mossa avrebbe fatto sfumare tutto il vantaggio che aveva: quello di sapere di essere seguita di fronte a qualcuno che credeva di passare inosservato e di essere in grado di agire di conseguenza.
Consapevole di quanto quella situazione la stesse esasperando e della promessa fatta a se stessa di ucciderlo non appena avesse raggiunto la cima del piccolo dosso che stava salendo in quel momento, quando si sarebbe trovata in posizione sopraelevata rispetto a lui e quindi più sicura.
Un altro passo.
Un altro ancora.
Lentamente.
Passò il coltello dalla mano destra a quella sinistra, stringendo con forza il manico, per poi allungare le dita fino alle tasche laterali dello zaino, prendendo una di quelle piccole lame da lancio, i muscoli tesi come la corda di un violino.
Le bastava solo girarsi e...
Acqua.
Nessun attacco. Nessuna reazione.
Il fiume era lì, a cantare sulla superficie delle rocce, danzando insieme ai pesci argentei che si inseguivano trasportati dalla corrente.
Acqua.
Lenore corse a rotta di collo lungo il piccolo pendio, saltando con impazienza sulle pietre che la separavano da quella miniera di vita, dimentica di tutto ciò che la circondava.
Il suono metallico del coltello che cadeva accanto a lei non la fermò, non la fermò la presenza di quel Tributo dietro di lei, non la fermò il pericolo, né la paura, né la cautela.
Era acqua, dopotutto.
Crollò in ginocchio sul piano irregolare, senza badare al dolore che aggredì con ferocia le sue articolazioni già abbastanza maltrattate.
E fu con esitazione che all'inizio le dita sfiorarono il pelo tremolante dell'acqua.
Affondarono lentamente, centimetro per centimetro, fino a quando anche le vene pulsanti dei polsi non furono lambite da quella sensazione di freschezza, di pulizia... di perdono.
Eppure non bastava: le unghie erano ancora sporche di terra, sangue e sudore; i polpastrelli, le nocche e il dorso della mano erano graffiati irrimediabilmente; i capillari spiccavano quasi violacei sulla pelle pallida di tensione.
Perdonata sì, ma non abbastanza.
E in quel momento sopraggiunse la paura. Paura di vedersi, di guardarsi. Paura dell'odio che la sua immagine avrebbe potuto suscitare.
Lenore aveva semplicemente paura di sporgersi e di scontrarsi contro il proprio riflesso, contro un viso stravolto dall'accusa verso se stesso, dai segni che quegli omicidi avevano lasciato irrimediabilmente sopra di lei. Perché Lenore aveva bisogno di quel perdono.
Ma non era lei a partecipare a quei giochi: c'era Len, da qualche parte, che sbraitava per essere stata rinchiusa in un piccolo angolino di mente e che le urlava di riprendere il controllo perché, cazzo, dietro di lei c'era qualcuno che l'avrebbe fatta fuori da un momento all'altro. Era quella creatura plasmata da Gregory che impugnava il coltello senza chiedersi chi stava uccidendo ma solo quale era il modo migliore per farlo, che non aveva bisogno di conferme o assoluzioni ma che guardava il proprio riflesso con il distacco di chi non appartiene a se stesso bensì ad uno scopo, che amava il sapore di quelle vite che si prendeva con la forza.
Era Len, l'animale.
Era Len, che avrebbe vinto.
Ma era Lenore che in quel momento decise di ignorarla, trovando, sepolto da qualche parte nelle profondità della sua umanità, il coraggio di fare quel gesto che tanto la spaventava.
Sollievo.
Sono ancora io.
Orrore.
Sono... davvero così?
Rosso.
Rassegnazione.
Sì. Ormai Len è parte di me.
C'era il sangue, ancorato con ostinazione alla sua pelle, ad indicare con chiarezza il marchio che andava delineandosi, il tarlo della violenza che cominciava il suo minuzioso lavoro. Schizzi di vita strappata che aveva raggiunto le guance, pasticciato le ciocche di capelli sfuggite alla coda... E altrettanti residui dalla vita che invece era così ansiosa di abbandonare lei che colavano pigramente dal labbro spaccato e dalla lunga ferita che partiva dalla base del collo, appena sopra lo sterno, e che raggiungeva l'attaccatura dell'orecchio sinistro in una parabola di morte mancata.
C'erano i lividi provocati dalla stretta ferrea del Tributo del 6 che se ne stavano lì ad abbracciare lo sfregio sulla sua pelle, in un tacito segno di solidarietà, anche nel comune fallimento.
Ma c'erano quegli zigomi così rossi, dopo che il sangue era affluito con velocità invidiabile al suo viso, che parevano dirle che di vita ne aveva ancora, eccome.
E c'era quella piega soddisfatta che non riusciva ad abbandonare le labbra, ostinatamente contratte in quella dimostrazione di freddo cinismo.
Rabbia.
Soddisfazione.
Eppure non erano lì, le risposte che cercava. Non le bastavano, quelle che aveva già ottenuto.
Voleva vedersi negli occhi. Guardare al di là della superficie di ghiaccio e vedere quello che c'era in lei, quello che c'era dentro di lei. Quello che stava nascondendo anche a se stessa. Quello di cui aveva paura.
E lo sguardo si avvicinò cauto al bianco della sclera, che riflesso sull'acqua pareva azzurro anch'esso, dirigendosi verso il confine che segnava l'ingresso alla sua anima.
E venne sbalzata indietro.
Il ghiaccio stesso le impedì il passaggio, respingendo ogni tentativo di intrusione. Portandole via ogni sentimento che le era ancora rimasto addosso, lasciandola vuota e priva di energie per continuare quella lotta estenuante con le proprie forti debolezze.
Aveva pensato di trovare una luce, all'uscita di quell'infinito corridoio nero. Ma si era sbagliata.
Non c'era luce in fondo al tunnel.
Crack.
Eccola, finalmente, la crepa in quel freddo artico, pensò, ma la verità non impiegò poi molto tempo a far presa su di lei.
Solo l'ennesimo rametto spezzato da quel goffo intruso.
Fu sufficiente.
Bastò a ribaltare la situazione di quel penoso braccio di ferro.
Len irruppe con tutta la forza che possedeva, occupando tutto quel vuoto involucro di carne e Lenore si lasciò cancellare di buon grado, perché il lento logorio del senso di colpa non era preferibile nemmeno all'oblio. Anzi, accolse quella perdita di coscienza come un dono.
E così rimase solo l'animale, a contemplare quel volto tirato dalla tensione, che per lui aveva due occhi al posto giusto, un naso non ancora rotto, un labbro che forse aveva bisogno di una leccatina a favorire la coagulazione del sangue, ma niente di più. Un viso normale, come tanti. Un viso a cui bastava una semplice lavata.
L'acqua colpì la sua pelle accaldata, facendola rabbrividire di piacere, scrostando via ogni disagio. E fu allora, ancora bagnata da quel getto di vita, che Len si sentì terribilmente forte. Non tanto da affrontare la parte di sé che aveva rinchiuso da qualche parte nella propria mente, ma abbastanza da andare avanti e fare ciò che doveva.
Avrebbe ucciso il Tributo, annegandolo in quelle goccioline che adornavano la punta delle sue dita, o spillandogli ogni goccia di sangue rimasta nel suo inutile corpo.
Raccolse di nuovo le sue armi, facendo forza sulle cosce per sostenersi, nel tornare in posizione eretta, e sorrise, con il ghigno di un predatore che non ha nessuna intenzione di farsi braccare.
“Allora? Quanto credi che dovrò aspettare, ancora, prima che tu ti decida ad attaccarmi?”

Hamal- il nome era ancora chiaro nella memoria della ragazza- la fissava compiaciuto, appoggiato con studiata, pigra indifferenza al tronco di un larice piuttosto spoglio.
“Mi chiedevo quando te ne saresti accorta.” la schernì con un mezzo sorriso.
Lenore non ritenne indicativo contraddirlo rivelandogli la verità, ma la sua espressione fu di gran lunga sufficiente a spegnere il principio di quel falò autocelebrativo che si stava accendendo nel ragazzo.
“Non voglio ucciderti.” si affrettò a chiarire lui, avanzando di qualche passo, con un tentativo di mostrarle i palmi delle mani, per tranquillizzarla, rovinato però dall'effetto della spada che stringeva nel pugno destro.
La spada.
La spada che doveva essere sua.
“Molto convincente.” ribatté lei, impassibile.
“Non mi credi. Normale. Ma se devo dire la verità quella più pronta a uccidere qualcuno, fra noi due, sei tu. Io sono ancora pulito. Tu, invece, sembri avere proprio voglia di piantarmi qualcosa nello stomaco.”
Lenore non rispose, ma la contrazione involontaria degli angoli delle sue labbra palesò il suo assenso.
“Grandioso. Quanti ne hai già silurati? Uno? Due?” borbottò lui, avvicinandosi ancora.
“Facciamo che te ne stai lontano, eh? Così sono più portata a credere ai tuoi ideali non violenti.” lo fermò la ragazza, con un semplice cenno del mento, senza muovere le braccia che se ne stavano apparentemente distese lungo i fianchi.
“Va bene, come vuoi.”
Len piegò la testa da un lato, fissandolo con sguardo tagliente.
“Hamal. Distretto Dodici.” si presentò lui, con una cortesia decisamente fuori luogo.
“Lo so.”
“E io so chi sei tu, ovviamente. Lenore. Quattro.” continuò, imperterrito.
“Senti, se non mi vuoi uccidere, allora cosa vuoi?” chiese lei, senza lasciare che dalla sua voce trapelasse la curiosità che invece la divorava, interrompendo bruscamente i convenevoli dell'altro.
“Un alleanza.”
Un alleanza.
Se Len non fosse stata così basita probabilmente si sarebbe messa a ridere, ma in quel momento rimase semplicemente immobile a fulminarlo e a sperare che una saetta scendesse veramente dal cielo risparmiandole il lavoro sporco.
“Grande scusa. Complimenti.” si limitò a rispondere a quei folli vaneggiamenti.
“Sto parlando sul serio. Insomma, potremmo aiutarci a vicenda. Io ti aiuto a difenderti e tu mi aiuti a cercare da mangiare e roba varia.”
Alla fine la risata riuscì a sfuggire dalla bocca della ragazza, che la soffocò, tramutandola in singhiozzi di ilarità di fronte a quella divisione dei compiti estremamente sessista.
“Che c'è?”
“Nulla, continua pure. Convincimi.”
Evidentemente Hamal era immune a qualsiasi segnale di ironia, perché prese alla lettera l'invito e ricominciò a blaterare.
“Ti seguivo da prima che entrassi nella foresta. Ti ho visto uccidere il tizio del Sei...”
“Ah sì?” lo interruppe lei, bruscamente “Ci ho quasi rimesso la pelle. Se vuoi davvero un'alleanza, il fatto di non essere intervenuto non fa pendere esattamente la bilancia a tuo favore. Non cominciamo per niente bene.”
“Non puoi rimproverarmi di non aver rispettato un'alleanza che non avevo ancora stretto.”
Non aveva tutti i torti.
“Ma la volevi stringere. O ti è saltato il grillo ora?” insisté, comunque, la ragazza.
Hamal sbuffò, scuotendo la testa.
“Pensala come vuoi. Questa è la mia proposta.”
“E se io preferissi rifiutare?”
“Dovrei ucciderti.”
Il ragionamento, effettivamente, non faceva un grinza.
“Ottima ragione per accettare, quindi. Solo...” il sorriso e la voce di Len grondavano miele.
Il coltello da lancio fendette l'aria e si piantò nel tronco d'albero alle spalle di Hamal, prima che questi avesse il tempo di reagire o anche solo di rendersi conto del gesto.
Miele pieno di mosche.
“Chi uccide chi?” concluse la ragazza, placidamente, di fronte agli occhi sgranati dell'altro.
“Merda.” era evidente che il Tributo stava rigirando il Sette della Valutazione di Len contro il Nove del proprio e si stava chiedendo dove fosse il trucco, così come era evidente che la cosa lo infastidiva parecchio. “Ascolta, ho fatto una promessa. E in altri casi non me ne fregherebbe un cazzo, ma questa volta Dieci ha ragione: è una buona idea. Un'ottima idea.”
Lenore aggrottò le sopracciglia.
“Dieci? Che c'entra Jamie?” chiese perplessa.
“No, non quella serpe. Thomson.” chiarì l'altro, come se la cosa fosse ovvia.
“Darren?
Non era ovvio per niente e l'espressione del ragazzo mutò considerevolmente quando vide la rabbia di lei spandersi in tutto il corpo, irrigidendo muscoli e postura.
“Che hai, ora?”
“Cosa ti ha detto quel bastardo?” sibilò Lenore con la mascella irrigidita dalla tensione.
“Perché?”
“Dimmi che ti ha detto.” il tono della ragazza non lasciava spazio a obiezioni.
“Che potevamo esserci utili a vicenda. E poi mi ha fatto promettere, testualmente, di darti una mano e di tenerti un po' d'occhio. È stato convincente. Non mi sembrava poi una così brutta idea.”
Darren. Ancora lui. Sempre lui. Sempre in mezzo.
Si era immischiato anche nelle questioni dell'Arena di Len.
Beh, le opzioni erano palesemente due: o il suo fratellastro teneva veramente a lei e voleva che qualcuno cercasse di proteggerla, visto che non poteva farlo lui stesso, o stava cercando di toglierla di mezzo in un modo rapido e per lui indolore.
Stando a come erano andate le cose fino a quel momento la ragazza sentiva di propendere per la seconda ipotesi.
Scoppiò a ridere di nuovo, amaramente, fissando la pedina del piano di Darren che le stava davanti e la guardava, perplesso.
“Che figlio di puttana...” sussurrò tra sé e sé.
Poi scoppiò a ridere con maggiore forza.
Forse avrebbe dovuto smetterla di affibbiare al ragazzo epiteti che avrebbe dovuto rivolgere solo e solamente a se stessa.
Gli aveva dato del bastardo quando lo era anche lei.
Gli aveva dato del figlio di puttana quando in realtà era Len ad esserlo propriamente.
Ma aveva scoperto di odiarlo veramente, alla fine, e scaricargli addosso tutta la rabbia dei propri pensieri era diventato estremamente liberatorio.
“Sai che ti dico, Hamal? Va bene. Accetto.”
Lo avrebbe tenuto d'occhio e fatto fuori al primo cenno sospetto. Ma tutto sommato poteva esserle utile, in qualche modo.
“Finalmente qualcosa di sensato, Quattro.”

“Allora? Mi rispondi?”
Camminavano da un paio d'ore, ormai, alla ricerca di un riparo sicuro che non fosse in cima ad un albero visto che a quanto pareva il ragazzo soffriva di vertigini. E Hamal non aveva smesso di parlare un solo istante, anche di fronte all'ostinato mutismo di Lenore, che veniva interrotto solo in occasione degli improperi verso tutto il rumore a lui prodotto.
Anche a quell'ennesima domanda la risposta si fece pregare parecchio.
“Lo sai che la mia impressione era giusta? Sei proprio stronza.” la informò allora lui, con lo stesso tono con cui le avrebbe fatto un cortese complimento. “E sembri anche un po' frigida. Sei frigida, Reeds?”
Len si voltò a freddarlo con un'occhiata ostile. In quelle due ore tutte le sue prospettive di utilità si erano praticamente azzerate.
“Senti, te ne vuoi stare zitto e smetterla di ciarlare? Sei una palla al piede.” sbottò bruscamente.
L'altro la fissò, risentito.
“Si chiama verità radicale, consiste nel dire sempre ed esattamente quello che si pensa.” le spiegò con una offesa scrollata di spalle.
“Bene, in questo caso... Se fiati ancora ti uccido.” ribatté, ripagandolo con la stessa moneta.
“E come? Io ho una spada, tu no.” gongolò l'altro.
La ragazza gli sorrise dolcemente, in netto contrasto con quella che poi fu l'asprezza della sua voce.
“Tu hai anche il sonno pesante. Io no.”
Hamal la fissò, quasi spaventato dalla prospettiva che lei potesse conoscerlo così bene.
“Come fai a saperlo?” chiese cautamente.
“Lo so ora.” sghignazzò, celando dietro il suo sguardo una chiara promessa che fu certamente recepita. “Sì, questa verità radicale comincia a piacere anche a me.”
Purtroppo il silenzio così ottenuto non durò a lungo.
“Allora? Dove possiamo accamparci? Non si trova nulla?” chiese lui, impaziente.
“Cerchiamo qualcosa di sicuro e possibilmente nascosto.”
Len faceva saltellare il coltello dal palmo della propria mano, respirando lentamente dal naso.
“Prima di notte.”
“Già.”
“Ma se è nascosto mi sa che non lo troveremo neanche noi.”
La ragazza si ritrovò a puntare il filo della lama sotto al mento del ragazzo senza nemmeno essersi accorta del proprio movimento.
“Ripetimi di nuovo quei buoni motivi che avevo quando ho accettato l'alleanza. Ho la folle tentazione di farti fuori. Qui. Ora.” gli ringhiò contro.
Fu quella, la prima volta, per Hamal. La prima volta in cui il suo sguardo cozzò contro quello di lei. E ne rimase impietrito.
A Lenore sembrò quasi di vederlo, solo e sperduto su quell'iceberg deserto, a vagare sotto la neve, percosso dalla tempesta, alla ricerca di una scintilla di fuoco che non c'era. Non tra il ghiaccio perenne.
La pressione contro la sua gola si allentò, ma lo sconcerto del ragazzo non scemò con quel gesto.
Fu una prima volta anche per Lenore, tutto sommato: si chiese se Hamal potesse esserle davvero utile, se l'alleanza fosse stata realmente una buona idea. Ma non ci fu una risposta.
Se hai paura che un serpente ti morda di certo è meglio non dormire accanto a lui. Potresti essere l'unica cosa commestibile nei paraggi, nel caso gli venisse fame.
Ricordava di aver detto una cosa simile a Darren, quando si erano parlati per la prima volta.
Ma Hamal non era serpente. Così come non era una pecora.
No, Hamal era un lupo, si vedeva dal modo in cui impugnava la spada, dalla determinazione nei suoi occhi, dalla fame repressa...
Lui era un lupo e Lenore un rapace.
Forse il punto era proprio quello.
Sarebbe riuscito lui, a mantenersi in alto tanto quanto lei? Probabilmente le correnti ascensionali lo avrebbe sostenuto per un po', dandogli l'illusione di essere in grado di volare. Ma poi la direzione del vento sarebbe cambiata. E la realtà lo avrebbe fatto precipitare a terra. Lui non avrebbe mai avuto le ali.
E meglio che tu preghi che le tue correnti durino molto, Hamal.
Ma la realtà era che la cosa non la interessava. Non erano affari suoi.
Io dovrei pensare a me e basta. Se ci fosse una tempesta persino un paio d'ali potrebbe non essere sufficiente, in volo.
Lenore contrasse le labbra nel suo sorriso gelido, di fronte all'altro, ammutolito.
“Cerchiamo questo maledetto rifugio.”

clalla97 commenta:
Bene, come al solito non so cosa dire... Partiamo dalle prima cosa: lo so, questo capitolo non è nemmeno lontanamente all'altezza di quello precedente, di Darren, ma perdonatemi, in questo periodo il blocco dello pseudo-scrittore si è fatto sentire, eccome.
Detto questo, avrete capito che il capitolo non mi piace: l'intenzione era quella di inserire una prevalenza di paratassi per dare l'idea di azioni istintive, non pensate, insensate... la verità è che alla fine mi sono trovata davanti ad una semplicissima costruzione ipotattica che non era nei miei programmi. Quindi tutta la parte riguardante l'istinto è andata gentilmente a farsi benedire.
Len è animale: voi vi aspettavate di peggio, immagino, ma pensate che è ancora il primo capitolo e che la nostra “cara” ragazza avrà tutto il tempo per combinarne delle sue (e vedrete che cosa ho pensato... persino Wania ha detto che alcune sono un po' carognate).
Ebbene sì, Lenore e Hamal hanno un'alleanza. Alla fine lei ha accettato. Che cosa credete che abbia pensato Greg da fuori? Secondo me non è d'accordo u.u
Uh, ultima cosa (credo)... delusi dall'arena, vero? Già, è semplice... ma anche qui... è il primo capitolo ^-^ non è nulla di speciale, ma ci saranno altri “colpi di scena”. Insomma, alla fine cerchiamo di lavorare un po' in parallelo fra le due arene o in senso contrario (sì, il primo paragone sarebbe stato: prima arena fredda= seconda arena calda... in realtà il collegamento che ho fatto io è diverso u.u assurdo ma diverso) in parecchie vicende che accadono ai due... perciò, insomma, senza fare spoiler, starete a vedere! A proposito... vi ho mai chiesto come vi immaginate la fine?
Alla prossima (non linciatemi per questo orrore)
Clara
  
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