Capitolo
Tre – Autunno
Una
mano gentile gli accarezzò la schiena per svegliarlo.
«Farai
tardi al lavoro» lo spronò gentilmente la moglie.
Diego
si rivoltò sul materasso con uno sbuffo, allungando le
braccia per afferrare la consorte e farla ruzzolare sulle lenzuola
assieme a
lui.
Si
erano sposati non appena le ferite sulla schiena
dell’uomo erano guarite. Antonio e Lovino avevano preso il
mare da qualche mese
quando erano riusciti finalmente ad organizzare le nozze; la loro
assenza era
stata l’unica pecca della cerimonia, tenutasi nella culla
tiepida del mese di
giugno.
Diego
aveva temuto il momento in cui il francese, che li
aveva assunti come dipendenti nel suo atelier, avrebbe pronunciato il
discorso
di congratulazioni in vece di Antonio, ma la sua paura si era rivelata
immotivata: Francis aveva accantonato le creste più frivole
del suo carattere
per il tempo dell’omelia, ed esibito un sorriso malinconico
nel celebrare il
loro amore.
Consuelo
lo colpì con il guanciale per riottenere la sua
libertà, e si rialzò puntando le mani ai fianchi.
«Sveglierai
Domingo» non aveva terminato di rimproverarlo
che un vagito infastidito si levò dalla culla poco distante.
Avevano ricavato
il giaciglio per il neonato da una cesta di vimini, opportunamente
imbottita e
decorata dalle sartine dell’atelier, elettrizzate per la
nascita.
Anche
Domingo era nato in assenza di Antonio e Lovino.
Consuelo
sollevò il figlio e lo strinse al seno, cullandolo
piano per non farlo strillare.
Il
tempo aveva cambiato le date e le persone: le ferite
sulla schiena di Diego erano ormai cicatrici sbiadite, e i capelli di
Consuelo
erano cresciuti fino a sfiorarle le spalle, robusti dopo il taglio
radicale. Le
mani della donna, che avevano impugnato una pistola contro gli
Inquisitori, ora
reggevano con delicatezza il neonato, e le dita dell’uomo,
cui erano stati
legati degli aghi avvelenati durante lo scontro con Nicolas, avevano
rinsaldato
le loro ossa, sebbene un po’ storte, e l’anulare si
beava della fede nuziale.
I
camerieri erano ora impiegati in un atelier, l’uomo e la
donna erano divenuti marito e moglie.
Consuelo
osservò il suo sposo da sopra la spalla.
«Spero
che Lovino e Antonio tornino presto. L’atmosfera è
più allegra, quando ci sono loro» si
augurò.
Diego
annuì, chinato per allacciarsi le scarpe.
Ogni
tanto, quando di sera stavano abbracciati sul letto,
avevano parlato della vita alla locanda. Sarebbe stato bello tornare
tutti
insieme ad accogliere forestieri e chiacchierare con i bucanieri di
fiducia. Ma
era impossibile: loro erano sposati, e avevano bisogno di
stabilità per il
bambino, mentre Lovino e Antonio avevano intrapreso una strada di maree
e
creste di spuma salata. Inoltre, non erano più tutti
insieme: qualche volta
aveva osservato il mare, e chiuso gli occhi per arrivare con la mente
fino allo
scoglio dove avevano adagiato il cuoco.
La
nostalgia del passato si era ripresentata alla loro
soglia, ma l’avevano sempre scacciata in poco tempo: bastava
abbracciare il
coniuge o cullare il figlio per gioire del presente, nonostante i tempi
difficili che avevano attraversato.
Baciò
Consuelo sulle labbra e Domingo sulla fronte prima di
uscire per iniziare una giornata di lavoro.
E,
come ogni mattina, il suo cuore inviò un saluto al cuoco,
ad Antonio e a Lovino.
Che
potessero avere una buona giornata, ovunque si
trovassero.
***
Avevano
una
faccia spaesata, come se fossero approdati su di un altro mondo, e non
sulle coste
marsigliesi.
D’altronde,
erano digiuni di diverse informazioni. Fu un pomeriggio costellato di
racconti
e ricordi, mentre tutto l’atelier narrava agli stupiti
corsari il matrimonio di
Consuelo e Diego, e la nascita di Domingo. Antonio, in particolare,
aveva
un’espressione esterrefatta; mi ha ricordato una novella
fantasiosa, in cui il
protagonista cade addormentato sotto un incantesimo e si risveglia dopo
duecento anni, trovando il mondo completamente stravolto: la piega
della sua
bocca e l’interrogativo nei suoi occhi erano gli stessi di
quel personaggio.
Consuelo
aiutò
Antonio a prendere in braccio Domingo, e il piccolo agitò le
manine per
afferrargli le guance. E notai gli occhi di Lovino: il loro bel castano
ramato
si era incupito, come un fuoco soffocato da un panno bagnato.
Chissà quante
volte quella domanda ha attraversato la sua mente: “sarebbe
stato meglio se io
fossi nato donna?”
Ah,
Lovino, è il
destino di noi tutti affrontare almeno una volta quel terribile
interrogativo:
l’amore del nostro compagno sarebbe più completo
se il nostro sesso fosse
diverso?
Vorrei
dire al
leoncino italiano di rilassare i suoi nervi troppo tesi e il suo
cervello
troppo ansioso: non esiste creatura al mondo, di alcun sesso, razza o
religione,
che avrebbe mai fatto dimenticare il mare ad Antonio; nessuno, eccetto
Lovino.
Un uomo con l’oceano nelle vene che adora la terraferma solo
perché calpestata
dalla persona che ama: è quasi un miracolo, come se un pesce
imparasse a volare
per raggiungere il gabbiano di cui si è invaghito.
Io
non sono
riuscito a catturare il mio squalo. Continua a rifugiarsi nei flutti,
ed esce
solo il tempo necessario per ferirmi ancora una volta. E, nonostante
questo, persisto
nel chiedere allo squalo di uscire dall’acqua per regalarmi
uno dei suoi
sanguinosi baci.
Le
cose non
cambierebbero, nemmeno se il mio sesso fosse diverso: avrei solo una
propensione più spiccata al pianto una volta rimasta sola, a
filare al telaio.
Se
lo squalo non
vuole abbandonare l’oceano, l’airone deve essere
libero di volare. E trovare
qualcuno con cui dividere l’immensità del cielo.
Arthur
non disse una parola.
Rimase
pietrificato sulla poltrona, un’espressione
ostentatamente neutra sul volto rigido.
L’attenzione
della sala era rivolta al gruppetto spagnolo:
Diego e Consuelo non avevano ancora terminato di aggiornare Lovino e
Antonio
sugli avvenimenti degli ultimi mesi, e le sartine facevano a turno per
coccolare Domingo.
Solo
l’inglese era stato stravolto da un piccolo intralcio
di una novantina di centimetri piazzato sulle ginocchia del francese.
I
vestiti del pupo provenivano indubbiamente dall’atelier di
Francis: avrebbe riconosciuto la cura maniacale per i dettagli e le
cuciture tra
tutte le sartorie esistenti al mondo, nonché la predilezione
del francese per
il colore dei fiordalisi. Non era altrettanto chiaro quale fosse la
provenienza
delle fattezze del moccioso: gli occhi avevano lo stesso azzurro
intenso di
Francis, ma i lineamenti erano ancora troppo arrotondati
dall’infanzia per
scorgere la benché minima somiglianza con il francese. I
capelli erano castani,
senza alcuna traccia del biondo vigoroso dell’uomo.
Il
bambino lo fissava, vacuo, ciondolando le gambette tozze
nel vuoto.
«È
tuo?» domandò infine, rinunciando a un esordio
più
morbido.
Francis
appoggiò il mento sulla testa del bambino,
sfoggiando un irritante sorriso sornione.
«Possibile»
tastò il francese.
«Non
prendermi in giro» sibilò il capitano.
«Non
è mia intenzione» Francis mosse le ginocchia, in
modo
che il bambino sopra di esse sobbalzasse e ridesse per il gioco.
«Potrei aver
cercato compagnia durante i tuoi pellegrinaggi per mare.»
«Non
hai ancora risposto alla mia domanda» sottolineò
l’inglese.
«No,
non l’ho fatto» il sorriso del francese
aumentò,
screziato dall’espressione tormentata degli occhi.
«L’incertezza non è una
sensazione piacevole, non è così?»
La
linea della mascella del capitano si indurì sotto
quell’accusa non troppo velata.
Era
una vendetta, per le tante – troppe – volte in cui
aveva
preso il largo senza di lui.
Arthur
portò una mano al ventre, avvertendo una strana
fitta. Francis aveva sopportato quell’acido caustico sul
fondo dello stomaco
per mesi e mesi, facendosi bastare l’ostinata speranza che,
prima o poi, le
vele della Queen of Pirates
avrebbero
squarciato di nuovo il cielo marsigliese. Qual era stato il momento
preciso in
cui la sua testardaggine era venuta meno, e aveva smesso di sospirare
al mare
per mormorare all’orecchio di una donna?
Francis
passò una mano tra i capelli fini del bimbo, e
considerò:
«Il
nostro è sempre stato un rapporto senza promesse e senza
garanzie. Non dovresti sorprenderti troppo.»
L’inglese
estrasse la pipa dal tascapane, meditabondo e
corrucciato.
Quello
che diceva Francis corrispondeva alla verità, eppure
lui aveva sempre coltivato l’immotivata convinzione che il
francese lo avrebbe
aspettato fedelmente. Forse era stato poco realista nel giudicare il
compagno:
un capitano fantasma valeva meno di una donna in carne ed ossa.
Non
si era mai aspettato verginale candore da Francis,
durante i mesi di separazione: era certo che qualche volta anche lui
avesse avuto
bisogno di sfogarsi, e il fatto che non ne parlassero tra di loro non
annullava
la presenza di quelle tresche notturne. Ma non aveva mai contemplato un
marmocchio come via di uscita dalla soffocante attesa.
Osservò
il tabacco pressato sul fondo scuro della pipa, e
l’odore pungente dell’erba schiacciata gli
restituì il ricordo delle parole di
Antonio, quindici anni prima.
È
bello essere
liberi.
Aveva
capito quali sentimenti si nascondessero in quella
frase solo molto tempo dopo, durante una nottata in cui Antonio gli
aveva
parlato dell’Inquisizione: una mole inimmaginabile di
sofferenza e un immenso
sollievo di essere di nuovo padrone del proprio destino.
Arthur
amava la sua libertà: ricordava ancora ogni nota dei
profumi della città di Marsiglia, la sera in cui era fuggito
lungo i suoi
acciottolati, ogni sfumatura della notte cupa che lo aveva nascosto
dalla cerca
dei pirati. E lo scricchiolio della porta che si era aperta offrendogli
asilo,
e gli occhi color fiordaliso avvampati di curiosità nel
sentire l’idioma
anglosassone srotolarsi dalla bocca ansante dello straniero.
Francis
lo aveva ospitato finché non aveva racimolato i
soldi necessari per imbarcarsi in direzione della sua amata
Inghilterra. Non si
erano visti per anni, finché la pubertà
più avanzata non aveva cosparso una
barba irregolare sul volto di entrambi. Arthur vestiva
l’uniforme da ufficiale
di medio rango, e Francis era diventato il braccio destro dei genitori
nella
gestione dell’atelier di famiglia quando si erano incontrati
di nuovo. La sua
nave aveva fatto scalo in Francia svariate volte, ma solo in quel
giorno di
maggio era inciampato nuovamente nel ragazzo che lo aveva aiutato tanti
anni
prima.
Le
sopracciglia folte del capitano si incontrarono in un
cipiglio scorbutico.
Era
stato allora che era cominciato tutto. Doveva essere un
rapporto senza impegno, e per lui lo era stato, almeno in principio:
era bello
essere senza catene, e non aveva intenzione di rinunciare alla sua
libertà per
nessuno. Anche la loro sovrana, la Regina Vergine, aveva preferito
evitare ogni
legame sentimentale, e lui avrebbe seguito il suo esempio.
Eppure,
si era ritrovato più volte a desiderare di approdare
a Marsiglia e, benché avesse addomesticato quella brama come
si fa con un
animale troppo rumoroso, non era riuscito a cancellarla completamente.
Così
l’aveva ignorata, per distaccarsi da una relazione che
avrebbe potuto
coinvolgerlo troppo.
E
ora si sentiva sconfitto e umiliato, come un capitano
stupido che non ha saputo riconoscere il tesoro più prezioso
nel suo forziere e
ha permesso ad un ladro occasionale di sottrarglielo.
Francis
vide passare le mille ombre del dubbio e del rimorso
sul volto scultoreo del capitano: sapeva riconoscere gli infinitesimali
mutamenti nel suo broncio saldato. Solleticò il pancino del
bimbo e lo appoggiò
a terra, spingendolo con gentilezza verso il gruppo festante delle
sartine.
«Non
è mio.»
Arthur
sentì uno strappo allo sterno, come se un pescatore
avesse preso il suo cuore all’amo e glielo avesse strappato
dal petto. Gli
occorse qualche istante per articolare:
«Non
è tuo?»
«È
il figlio di mia sorella» Francis picchiettò un
indice
sulla coda dell’occhio sinistro. «Ha preso le iridi
dei Bonnefoy. Per questo mi
chiedono spesso se sia mio figlio.»
Arthur
non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che
il francese continuò, lapidario:
«Non
è mio, ma potrebbe esserlo. È vero che sono
l’ultimo
dei romantici, dei veri
romantici»
sogghignò melodrammatico, reclinando il capo
all’indietro. «E questo mi ha
permesso di aspettarti ogni volta, per tutto il tempo necessario.
Credimi,
Arthur, non avrei atteso nessun altro al mondo con la stessa pazienza.
Ma…»
lasciò per un attimo la frase in sospeso e socchiuse gli
occhi: «Ma non so mai
quando tornerai, e se tornerai. E,
per quanto io sia innamorato di te…»
abbassò la voce su quell’ultima parte, per
non mettere in imbarazzo il capitano. «L’idea di
invecchiare da solo mi
spaventa. Per questo voglio essere onesto fino in fondo: il bambino non
è mio,
ma forse un giorno tornerai a Marsiglia e mi troverai accasato, con un
nanerottolo che mi gironzola attorno.»
«E
saresti soddisfatto?»
Il
tono dell’inglese fu assolutamente piatto, così
come la sua
espressione, e fu compito di Francis spezzare l’atmosfera con
una risata priva
di allegria.
«Voglio
provare ad essere il coniuge ufficiale, per una
volta. Essere sempre l’amante bistrattato da tuo marito,
l’oceano, è snervante.
E avvilente.»
Di
nuovo, l’inglese non poté aggiungere nulla: una
sartina
arrivò a trascinare Francis per un braccio verso il gruppo
di spagnoli, chiocciando
qualcosa su quanto fosse adorabile il piccolo Domingo.
Arthur
sprofondò nella poltrona e nei propri pensieri.
Una
relazione “senza promesse e senza garanzie”, come
l’aveva definita Francis, non poteva che finire con una
separazione: ognuno
avrebbe scelto il cammino più confacente alla propria
indole, allontanandosi
inevitabilmente dall’altro.
Soppesò
la pipa nella mano destra, pensoso.
Sarebbe
cambiato qualcosa, tra di loro, se solo ci fosse
stato un appiglio più tangibile di una speranza effimera?
***
«Ti
sei scordato la tua pipa.»
Francis
entrò nella stanza di Arthur senza nemmeno bussare.
Dopo
la discussione avuta il primo giorno, non avevano
passato nemmeno una serata da soli. Aveva previsto una reazione simile
da parte
dell’inglese, ma sopportare la solitudine mentre il capitano
era ad una sola
porta di distanza era frustrante oltre ogni dire.
Aveva
approfittato della scoperta della pipa di Arthur sul
proprio comodino per fare irruzione nella stanza dell’ospite:
come
quell’oggetto fosse finito in camera sua era un mistero, ma
Francis non si era
preoccupato di risolverlo.
L’inglese
squadrò la pipa tra le dita dell’uomo senza
particolare interesse, e spostò di nuovo la sua attenzione
fuori dalla finestra
mentre dichiarava:
«Non
l’ho scordata.»
Francis
lanciò un’occhiata interrogativa al tabacco
pigiato,
come se quelle foglioline scure potessero rispondere al suo quesito.
«Cosa
intendi dire?» chiese quindi.
Arthur
rialzò la testa e le spalle, ma gli occhi acquamarina
continuarono ad essere rivolti al vetro notturno e le labbra rimasero
sigillate.
Come
sempre, il francese dovette interpretare il silenzio
dell’inglese, e la sua mente ricamò con chiarezza
gli eventi che li avevano
portati a quel punto: Arthur che si macerava nei dubbi come il giorno
in cui
gli aveva fatto conoscere il suo nipotino, con la solita espressione
granitica scolpita
in viso per non far trasparire i suoi pensieri; il capitano che
continuava a
rigirarsi la pipa tra le mani, finché proprio
quell’oggetto non era diventato
la soluzione ai suoi problemi; l’inglese che entrava nella
sua stanza per
appoggiare la pipa sul comodino e poi se ne andava, senza nemmeno un
biglietto
per spiegare quel gesto.
Francis
picchiettò indeciso sull’imboccatura consumata.
Era
davvero l’ultimo dei romantici se pensava una cosa simile di
un orpello
dimenticato nella sua camera… la domanda
scoppiettò sulle sue labbra prima che
se ne rendesse conto:
«È
la garanzia che aspettavo? Un pegno?»
Arthur
si strinse nelle spalle, borbottando:
«Dovrò
tornare a prenderla.»
La
pipa venne portata all’altezza degli occhi azzurri, che
sorbirono ogni suo dettaglio. Non era un anello, non era una promessa
insaporita di parole dolci: era una dichiarazione di legno dal profumo
secco,
perfettamente in sintonia con il carattere aspro dell’inglese.
Non
doveva essere troppo felice: se il capitano si fosse
stancato del clima francese, avrebbe sempre potuto acquistare una nuova
pipa da
qualche altra parte. Ma Francis, al contrario dell’inglese,
non era nato per
soffocare le proprie emozioni: appoggiò la pipa sul
cassettone, con la massima
cura permessa dalle sue mani tremanti, e con quelle stesse dita
instabili
abbracciò saldamente il capitano.
Arthur
protestò verbalmente, ma il corpo rimase fermo nella
stretta del francese. Francis lo cinse con maggiore forza, mormorando:
«Quindi
non mi lascerai invecchiare da solo.»
Vide
la nuca del capitano aggrottarsi, e sorrise sui suoi
capelli crespi. Certe espressioni dell’inglese erano visibili
perfino di
spalle.
«Niente
marmocchi. Odio i loro strilli» patteggiò brusco
Arthur.
«Niente
marmocchi» accordò Francis. «Ma
tornerai.»
Le
parole furono veicolate da un sospiro esasperato:
«Devo
riprendere la mia pipa.»
Lo
sbuffo si ingolfò in un’esclamazione inviperita
quando la
mano del francese cominciò a sbottonargli la camicia.
«Che
diavolo fai?» inveì Arthur, stringendo nel pugno i
lembi aperti.
«Tra
poco ripartirai. E abbiamo già sprecato troppo
tempo»
rispose angelico il francese, continuando a spogliare il capitano.
«Non
hai un minimo di decenza?» si ribellò
l’inglese,
voltandosi di scatto nell’abbraccio dell’altro.
La
fronte di Francis si appoggiò a quella del corsaro, ed il
suo respiro accarezzò il viso del compagno con la successiva
risposta:
«Ne
ho avuta fin troppa. In questi giorni, e nei mesi
precedenti.»
Il
viso dell’inglese si abbatté sulla sua clavicola,
e le
parole si sbriciolarono contro la sua camicia.
«Almeno
spegni la luce, voyerista.»
Francis
lasciò a malincuore il capitano per andare a
smorzare il lume della lampada ad olio, e si ricongiunse a lui il prima
possibile.
Avrebbe
voluto assaporare con calma quel momento, ogni asola
slacciata, ogni stridio della fibbia dei pantaloni, ogni fruscio di
stoffa. Ma
aveva aspettato troppo a lungo per rispettare quel desiderio.
Un
sentore di lavanda si spanse dalle lenzuola pulite quando
si sdraiarono sul letto. Arthur serrò proteste e gemiti
dietro le labbra
morsicate, e Francis si portò le sue gambe attorno alla vita
per unirsi a lui.
Lo
baciò più a lungo e più a fondo quella
notte di quanto
non avesse fatto in tutte le altre serate che avevano passato insieme:
quel
pegno, anche se era solo una pipa impregnata di tabacco, aveva reso il
capitano
più suo, lo aveva ancorato a quell’atelier, e
Francis volle degustare infinite
volte le labbra che avevano giurato di fare ritorno.
Fu
la prima volta che giacque con l’inglese senza avvertire
la falce del mare incombere su di loro.
***
«Monsieur.»
Una
mano nivea lo scosse docilmente per la spalla,
riscuotendolo dal suo torpore.
«Vi
siete assopito, monsieur»
si giustificò la sartina, inchinandosi con grazia.
Francis
coprì lo sbadiglio con una mano e si stiracchiò
sulla poltrona.
Non
aveva dormito molto, nelle ultime notti, ma il motivo
della sua insonnia non avrebbe potuto essere più piacevole.
Lanciò
un sorriso beato al monile che aveva posizionato sul
caminetto, in modo da poterlo vedere in ogni momento della giornata. La
pipa
gli restituì un orgoglioso luccichio sul legno lavorato.
Le
vele dei corsari avevano di nuovo galoppato il vento,
portando lontano il galeone e il suo capitano. Aveva salutato il
veliero con
uno spirito nuovo, rinato grazie al pegno legnoso e rinvigorito dalle
notti
passate con l’inglese.
«Aspetto
con ansia il tuo ritorno» sussurrò alla pipa e al
capitano assente. E non aveva mai creduto tanto nelle sue stesse
parole: aveva
la certezza che Arthur sarebbe davvero tornato.
Francis
si alzò in piedi, un sorriso splendente negli occhi
e nel cuore.
«Coraggio
ragazze!» le animò, prendendo posto al suo tavolo
da lavoro. «Abbiamo un sacco di ordinazioni da
soddisfare!»
Lo
squalo era
tornato all’oceano, lasciando l’airone.
Ma
il volatile
non era più solo: avrebbe aspettato il ritorno dello squalo
grazie alla goccia
di mare che gli era stata regalata.
Era
proprio un
airone innamorato per emozionarsi tanto per un dono privo di qualunque
romanticismo. Innamorato, e felice. Nostalgico, ma felice.
L’autunno
incalzava, l’inverno incombeva.
E
le stagioni
non avevano esaurito le loro sorprese.
…
ovviamente
dico: “Voglio postare in una settimana” e via che
partono i giorni -.-“
Vi
chiedo scusa,
ma preparare l’ultimo esame è stato massacrante
çAç
Ma
ora – e lo
dico con la massima gioia possibile – gli esami sono
finalmente FINITI e io
sono libera e felice di scrivere<3 (finiti nel modo
più assoluto, ad ottobre
laurea, se lo stage in Giappone va bene *O*)
Ed
eccoci giunti
al terzultimo capitolo ç_______ç Di
già ;________; Basta,
devo staccare il cordone ombelicale da
questa fanfic, o l’addio sarà traumatico XD
Diramerò
però ai
quattro venti una dichiarazione d’intenti: finita questa
storia, si aprirà una
nuova saga piratesca. Anche se i corsari della fanfic che sta pian
piano
prendendo forma nella mia testa affollata e incasinata non hanno molto
a che
spartire con i protagonisti di questa saga XD Fandom Hetalia, of
course<3
Ambientazione: spazio galattico<3
Come
sempre,
grazie per essere arrivati fin qui a leggere :D<3
A
presto<3
Red
P.S.
Mi pongo di
nuovo l’obiettivo di aggiornare esattamente tra sette giorni.
Che Francis mi
schiaffeggi con i fiordalisi se non rispetto l’impegno u.u