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Autore: Gloom    12/02/2013    1 recensioni
-Sai, essere figli di genitori che non si amano è una fregatura: dentro noi siamo per metà come un genitore e per metà come l‘altro. Se non sono riusciti a restare insieme loro, ancora più difficile sarà per noi. . . Perché loro si sono potuti separare; noi invece dobbiamo faticare per mettere d’accordo geni incompatibili dal principio.
 
L'Allegra Brigata non aveva altre ambizioni se non quella di passare indenne i sedici anni dei propri componenti. Ma quando mai le cose più semplici danno mostra di esserlo? Lauretta, Giak, Cicca, Margherita e Riccardo dalla loro hanno che si vogliono bene: per il resto, che si preparino pure ad una sfida dalla quale nessuno uscirà indenne... c'è una spiaggia alla fine della corsa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Povero Daniele: tra i genitori che si tormentavano e i fratelli che si picchiavano sempre più selvaggiamente, lui continuava ad esistere senza sapere neanche come facesse ad andare avanti. Era un bambino, ovviamente: per distrarsi gli bastava passare il pomeriggio da un amico oppure immergersi nella sua cesta dei giochi tenuta amorevolmente sotto al letto a castello. La camera dei tre era piccola, ma piena di cose: Giak sotto al materasso teneva i disegni, Lucio le sigarette, Daniele i giochi.
Tra i tre, l’unico passatempo che i genitori approvavano era quello dell’ultimogenito. Dopotutto, era il più normale.
 Dal momento che ultimamente la madre trascorreva molto più tempo a casa della nonna inferma, di pomeriggio aveva arrangiato i suoi figli come meglio poteva: Daniele usciva di scuola mezz’ora dopo le quattro del pomeriggio, Lucio e Giak invece prosperavano in casa, godendosi quell’autonomia dalla scadenza incerta.
Prima che tornasse il loro padre dal lavoro, tuttavia, qualcuno si doveva pur preoccupare di riportare Daniele a casa. . . E ovviamente il compito toccò a Giak.
 Il nostro eroe non aveva davvero voglia di dover sottostare a quell’ennesimo onere, ma, per amore del suo fratello pseudo-preferito, dovette chinare la testa. Per un po’ riuscì a gestire la situazione; ma, quando i pensieri sono troppi e confusi, è facile che si perdano. Giak spesso si chiedeva a quante faccende potesse badare un cervello. Immaginava un limite, come gli hard disk dei computer, e in quell’ultimo periodo temette di averlo raggiunto.

 Un giorno in cui il cielo era talmente nuvoloso da sembrare nero, Giak tornò a casa ancora più depresso e frustrato del solito: a scuola aveva ricevuto un compito di matematica in cui aveva ricevuto un cinque stiracchiato (troppo poco per recuperare) e, subito dopo, era stato interrogato in greco: sbalordì la prof con uno splendente cinque e mezzo –be’, lei si aspettava un quattro: era stato pur sempre un miglioramento- ma ovviamente gli aveva abbassato ancora di più il morale. Con quei voti, rischiava davvero di dover portare greco a settembre.
Aveva anche visto Alex di sfuggita ma lei, dopo aver fatto finta di non vederlo, gli era passata davanti con uno svolazzare di capelli.
E poi la solita tortura di non parlare con nessuno degli amici, mentre loro intorno a lui riuscivano ancora a scambiarsi due chiacchiere. Forse più fredde del solito, ma pur sempre chiacchiere. . . 
Era davvero a terra. Neanche la musica riusciva a tirarlo su. Quando uno come Giak non riesce neanche più a sentire musica, ma solo rumore, vuol dire che le cose erano davvero messe male.
 Quel giorno dovette sopportare Lucio che girava per casa con una cicca in bocca (da quando Giak l’aveva scoperto -e aveva lasciato perdere il proposito di tradirlo- se in casa non c’era nessuno fumava con sempre più disinvoltura), ed aveva così tanti compiti e interrogazioni da preparare. . .
 
Febbraio si avvicinava faticosamente alla fine, dopo aver scatenato su Polverano così tanta pioggia e vento che i suoi abitanti si erano più volte chiesti se davvero il bel tempo fosse mai esistito.
 Per qualche strano motivo, dovuto forse a sua madre che per pranzo aveva avuto un impegno e a suo padre che l’aveva invitata a magiare da lui, Lauretta si ritrovò per strada, sola, a piedi, verso le cinque del pomeriggio. Un orario in cui vorresti essere in qualsiasi posto tranne che per strada, se hai da recuperare diverse insufficienze e il giorno dopo hai un compito di latino. I vecchi Articolo 31 cercavano di cantare come meglio potevano alle orecchie di Lauretta, ma lei era cosciente solo di un rumore dalle parti della testa e una voce che cantava di scazzottate contro il mondo. Stava camminando distrattamente verso casa; ma, quando passò davanti ad una scuola elementare, si rese conto di dove si trovava. Ci era venuta con Giak, una volta, a riprendere il fratellino del suo ex migliore amico.
Meccanicamente gettò lo sguardo verso l’ingresso; l’orario di uscita dei pargoli era passato da una mezz’oretta o poco più, in giro non c’era quasi nessuno. Però il portone era aperto e, seduto sui gradini, c’era qualcuno rannicchiato con la testa sopra le ginocchia. . .
 Lauretta si avvicinò, perplessa.
 -Daniele?- chiamò, staccandosi le cuffie dalle orecchie.
Il bambino alzò lo sguardo e Lauretta notò che aveva gli occhi arrossati, come se avesse pianto.
 -Come mai sei ancora qui?
 Lui alzò lo sguardo e qualcosa in fondo ai suoi occhi sembrò brillare:
 -Lauretta! Ciao!- esclamò. -Sto aspettando Giak, deve venire a riprendermi. . .
 Lauretta represse un moto di stizza:
 -Oh, capisco. . .
Poi si rese conto che qualcosa non quadrava, e controllò l’orologio.
 -Sono quasi le cinque e dieci, e tu esci alle quattro e mezza. . . Perché sei ancora qui?
 Daniele abbassò lo sguardo, a metà fra l’amareggiato e il deluso.
 -Devo aspettare Giak. . .- mormorò.
 Lauretta pensò al compito di latino del giorno dopo e alla media di Giak. Probabile che si fosse messo a studiare, che non si fosse accorto dell’ora. . .
 -Non può essersi dimenticato di venirmi a prendere, no?- mugolò Daniele. Lauretta pensò che fosse proprio così, ma non ebbe cuore di dirlo al bambino.
 -Ehm. . . tua madre non c'è?
 Il bambino scosse la testa: -mamma è dalla nonna. Ultimamente deve passare un sacco di tempo con lei, perché sta male, quindi ha detto a Giak di venirmi a prendere. . .
 Oddio. Non posso lasciarlo qui.
Ma non aveva neanche la minima intenzione di rivolgere la parola a Giak, se era per quello.
 -Senti, tu la sai la strada di casa, sì? Posso chiedere alle maestre se ti posso accompagnare io. . . Non ho molto da fare- mentì - e almeno non rischi di restare qui fino a quando quello stupido non si sveglia. . .
 -Per me è ok. . . Vieni, la segreteria è qui, c’è sempre qualcuno dietro la scrivania.
 Daniele si alzò e, senza curarsi di prendere lo zaino, condusse Lauretta dentro l’edificio.
 Scoprirono che non c’era verso di portare Daniele a casa se non con uno dei genitori o con il fratello. Le maestre non avevano la minima intenzione di lasciare uno dei loro alunni in mano a una tipa che aveva bisogno di una bella dormita, o, al limite, di una pettinata a quei capelli che stavano ricrescendo più arruffati di quanto non fossero mai stati; Lauretta non poté neanche biasimarle. Però era davvero un problema.
 -Se conosci il fratello di Daniele, puoi chiamarlo e avvertirlo. Ci metterà giusto una decina di minuti per arrivare, no?- disse la signora seduta dall’altro lato di una tristissima cattedra dall'aspetto unticcio.
 -Be’. . . Immagino che non ci sia altra soluzione- convenne Lauretta. 
 Lei e Daniele tornarono sulla soglia del portone, dove il bambino si accoccolò nella stessa identica posizione di prima, e Lauretta poté sospirare liberamente.
 Non voleva sentire Giak. Non avrebbe retto. Il solo suono della sua voce le risultava odioso. . . In che situazione si era andata a cacciare.
Avrebbe potuto fingere di trovare il cellulare occupato, o anche il telefono di casa, al limite, scusarsi con Daniele e andarsene dicendogli semplicemente di avere fede.
Ma non l’avrebbe mai fatto, ne era sicura. Inoltre non le piaceva che fosse Daniele a rimetterci per uno screzio che riguardava lei e Giak.
Pensò che nessuno dovrebbe permettere che eventuali terzi paghino le conseguenze di una litigata. Le venne quasi da ridere, una risata amara: esperienza diretta.
 Rassegnata, col cuore che batteva di rabbia e di fastidio, digitò il numero di Giak e si mise in attesa.
 -Pronto?
Per quanto Giak si fosse sforzato a tenere una risposta formale, Lauretta riuscì a intravedere un pizzico di perplessità in quell’unica parola.
 -Tuo fratello è qui davanti la scuola- disse in tono neutro.
 Sentì Giak esitare per una frazione di secondo, poi imprecare pesantemente.
 -Digli che lo sto venendo a prendere.
 -. . . Ciao-. Lauretta riattaccò.
 Si accorse che Daniele la fissava, ansioso di essere messo al corrente; lei si sforzò di sorridere.
 -Sta arrivando.
 -Oh, meno male! Mi ero rotto di aspettare qui.
 -Ci metterà poco, tranquillo.
 -Mi fai un po’ compagnia, nel frattempo che arriva? Non voglio stare solo. . .
 In realtà Lauretta non aveva la minima intenzione di rimanere, col rischio di incontrare Giak una volta che fosse arrivato; eppure le si spezzò il cuore a vedere Daniele così innocentemente implorante.
 -D’accordo-. Si sedette vicino a lui, chiedendosi di che diavolo avrebbero parlato.
 Fortunatamente (o sfortunatamente) Daniele era ancora un ottimo conversatore. Che poi la sua giovane età non lo aiutasse a distinguere cosa dire e cosa non dire era un altro discorso. . .
 -Lauretta, ma tu con Giak non ci parli più?- chiese infatti.
 Lauretta si morse il labbro:
 -Ehm, non molto in realtà. . . Abbiamo litigato.
 -E perché?!
 -Ehm. . . È una cosa stupida-. In effetti, ora non sarebbe riuscita a spiegare perché effettivamente Giak le riuscisse così antipatico. Sapeva solo di non volerlo vedere.
 -Se è stupida, allora potete fare pace.
 -Non credo. . .
 -Ma di chi è la colpa?
 -Ecco. . . Be’, penso sia stata un po’ di tutti e due.
 -Ah. Ma voi volete fare pace?
 Lauretta ora se lo stava quasi strappando, il labbro. Non aveva mai avuto a che fare con i bambini e la speranza di Daniele la stava spiazzando.
 -Boh. . . Dovrei sapere cosa pensa lui. Ma è impossibile, quindi probabilmente non si saprà mai. . .
 -Certo che vi fate davvero troppi casini in testa. Sembrate mamma e papà! Anche loro litigano sempre.
 Lauretta esitò, ma poi la curiosità ebbe la meglio; voleva sapere come se la passava Giak in casa:
 -Come vanno le cose? Un po’ meglio?
 -Mica tanto. Ma tanto ormai non si incrociano quasi più. Papà è al lavoro, mamma da nonna: tornano a casa solo per non lasciare noi da soli. Ieri mattina ho visto il divano letto aperto in salotto, mi sa che ci ha dormito papà. . .- Si bloccò immediatamente: era quasi sicuro che quella fosse una di quelle cose che non era conveniente dire.
 -Oh. . . Mi spiace. Stamattina era tutto normale, invece?
 Daniele non rispose, ma si limitò a mettere su un broncio triste e ad abbassare lo sguardo. No, quello che aveva capito quella mattina non l’avrebbe detto, poco ma sicuro.
 -Eccolo!- scattò improvvisamente in piedi, alzandosi sulle punte.
 Giak camminava con andatura veloce, sembrava che stesse praticamente marciando: fu davanti a loro in pochi secondi.
 Lauretta abbassò lo sguardo, senza sapere dove posarlo. Sicuramente non su di lui. Ora che Giak era vicino si sentiva improvvisamente vulnerabile, come se avesse un orso inferocito dietro le spalle pronto ad attaccarla.
 -Andiamo- disse Giak.
Daniele forse avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma il tono di Giak non ammetteva repliche.
 Afferrò in fretta lo zaino, sproporzionato rispetto alla sua corporatura esile, e si incamminò col fratello.
 Quando entrambi le furono di spalle, Lauretta fu in grado di alzare lo sguardo. Giak non stava parlando, si limitava a camminare con le mani in tasca e il fratello al fianco.
 Si sentì improvvisamente coraggiosa, come se l’orso ora fosse diventata lei.
 -Comunque prego, è stato un piacere!
 
Daniele non parlò a Giak per tutta la sera. Era arrabbiato come una bestia: tutta la fiducia che aveva sempre avuto in Giak si era volatilizzata in quel pomeriggio. Era stato dimenticato! Prima l’avevano dimenticato i genitori, poi Giak. Era stato davvero un colpo basso. Che andassero al diavolo, loro con i loro stupidi problemi!
Daniele pianse lacrime che a sette anni nessun bambino dovrebbe piangere, ma se ne sarebbe reso conto anni più tardi. Quando ormai risultò palese che quel periodo di cacca aveva temprato anche lui, così piccolo e malleabile.
 Giak lo cacciò in malo modo dalla cameretta e ci si chiuse dentro senza uscire neanche quando rientrò il loro padre. Non sentì quello che stava dicendo: se ne sarebbe accorto da solo che la loro madre sarebbe rimasta a dormire in casa della nonna.
Non se ne stupì: aveva perso il conto di quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che i suoi avevano dormito insieme. Per quanto la loro madre avesse sempre cercato di sistemare il divano letto prima che i figli si accorgessero che era stato usato, quel particolare non era sfuggito a nessuno dei tre.
Ora però il problema era stato risolto: la sera prima il padre era andato a dormire fuori, ora toccava alla mamma. Ecco quello che Daniele aveva taciuto a Lauretta.
 Alla frustrazione si aggiungeva altra frustrazione: ora c’era anche il fatto che era in debito con Lauretta.
 Giak si chiese perché le era venuto in mente di raccattare Daniele. Ne era rimasto infastidito: ora si sentiva grato a lei. E la cosa non gli piaceva.
 Eppure, oltre alla frustrazione sentiva una strana inquietudine dentro di sé; come se avesse ingoiato un boccone troppo grande che gli si era fermato a metà dell’esofago. Qualcosa da sputare, da cui liberarsi. . .
 Non è possibile liberarsi. Non ci sono vie d’uscita. . . Tutto va male, e non dipende da me. I miei amici non mi parlano, i miei genitori non parlano né con me né tra loro, e nessuno mi capirà mai perché nessuno ha mai voglia di capire le situazioni degli altri. Immedesimarsi in un’altra persona è come costringere qualcuno ad imitare la tua grafia. . . Per quanto ci si impegni, non riuscirà mai.
 Non era vero, e lo sapeva: Lauretta avrebbe -e aveva- capito perfettamente quello che stava vivendo.
 Lauretta è troppo occupata a fare la vittima.
 Magari però anche lei pensava che nessuno potesse capirla.
 Ma lei neanche si è sforzata! Lei sa quanto sto male, e non ha capito che. . .
 Ma importava se aveva sbagliato? Non era concesso neanche un errore? Alla resa dei conti, gli mancava. Aveva bisogno di lei.
 No. Posso farcela da solo.
Non era vero.
 Sì.
 Bene: si sarebbe preso in giro per un altro paio di giorni, in tempo perché il caso sistemasse le altre faccende e potesse far incastrare di nuovo tutti i pezzi della vicenda, come una linea di tetris destinata a scomparire.
  
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