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Autore: Aya_Brea    13/02/2013    3 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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10. L'alba di un uomo solo




Il sole si attardava a tramontare, ma alle sue spalle, dai grandi finestroni del suo ufficio, si dispiegavano due grandi lingue di luce rossa, che rifrangendosi sulla mobilia e sul parquet, creavano un’insolita atmosfera di polvere in sospensione. Aiko Kirara stava scrivendo le ultime righe del proprio rapporto, a tratti la penna a sfera incespicava sul foglio bianco, poi riprendeva a trattenerla con forza fra le dita. Le nocche le divennero quasi bianche, non appena si accorse di aver confuso una parola del testo, con una che le stava frullando nella testa. La mano infatti, scriveva automaticamente, ma la sua mente era totalmente altrove. Quando sollevò il capo per guardarsi intorno, si rese conto che il giorno stava ormai volgendo al termine. 
Il capitano le aveva consigliato caldamente di rientrare a casa il prima possibile, senza aspettare inutilmente la fine del proprio turno lavorativo; eppure lei era stata assorbita da quell’incarico e fra una cosa ed un’altra non aveva fatto fede alla promessa. Raccolse in fretta le proprie cose e spinta dal timore che i suoi pensieri potessero divenire realtà, si fiondò verso l’ascensore principale: presso le scale d’uscita vi erano due agenti ad aspettarla. Li guardò entrambi con aria interrogativa.
“Cosa ci fate voi qui?” Trattenne le scartoffie che si portava sottobraccio. 
“Il capitano ci ha ordinato di farle da scorta, Agente. E’ piuttosto preoccupato per la sua incolumità.”
“E’ vero, con gente simile alle calcagna la prudenza non è mai troppa.” 
Aiko sollevò le sopracciglia. “Non ne avevamo parlato. Insomma, ha fatto tutto da solo. Poteva almeno mettermi al corrente di queste sue decisioni così azzardate.” L’idea di essere seguita da altri due agenti non la allettava, anzi, le sarebbero stati d’intralcio, così fastidiosamente appiccicati alle costole. “Per questa sera passi pure la sua decisione, ma da domani parlerò io con il Capitano. Posso cavarmela benissimo da sola. E poi è una questione fra me e loro.” Kirara sapeva benissimo di aver intrapreso una missione rischiosa e fra le altre cose, sapeva anche di star combattendo una battaglia personale. Nessuno, infatti, sapeva che lei stessa si occupava del caso. 
I tre poliziotti scesero le scale e furono in strada: a quell’ora non c’era molto traffico, le macchine passavano di rado. Il cielo era ormai di un bluastro pallido, in alcuni punti vi erano alcune spruzzate di viola e su quel manto colorato le ultime rondini si apprestavano a cercare i ripari per trascorrere la notte. Anche le persone stavano rincasando. Soltanto quelle tre anime in pena, percorrevano il viottolo che costeggiava la striscia delle villette a schiera. Erano ormai lontani dal centro abitato. Aiko si strinse nel suo giubbotto d’ordinanza e si guardò intorno con circospezione: seppur volesse dare l’impressione di non essere agitata, gli eventi della notte precedente l’avevano scossa. Non riusciva più a chiudere occhio, non dormiva da almeno due giorni e non avrebbe mai immaginato che quella tensione così forte avrebbe gravato in quel modo sul suo fisico. Non si reggeva neanche in piedi.
“Si sente bene, Agente?” Uno dei due poliziotti la prese sottobraccio, ma lei lo respinse prontamente. 
“Sto bene, per fortuna siamo quasi arrivati. Ho soltanto bisogno di sdraiarmi sul divano.” 
La ragazza percorse una decina di metri, ma poi si accorse di non essere seguita. I due uomini di scorta erano rimasti indietro. Si voltò per poterli richiamare, ma una violenta manganellata la colpì alla tempia. La vista le si offuscò immediatamente, un mugolio di dolore sfuggì dalle sue labbra, ma fortunatamente quel colpo non le fece perdere i sensi. I due poliziotti erano ancora di fronte a lei e successe tutto così in fretta che non riuscì a capire nulla: la afferrarono per i polsi, poi le strinsero entrambe le braccia per impedirle di muoversi ulteriormente.  
Un violento colpo di spranga si abbatté sulla tempia di Aiko, che, perso l’equilibrio, crollò in terra con un tonfo. L’asfalto era fredda e dura, lei sollevò il capo e lo vide: alto ed imperioso in quel suo cappotto nero, col solito ghigno stampato sul volto. 
“Che tu sia maledetto, Gin!”
Il biondo la osservò mentre sveniva, mentre i suoi occhi verdi si richiudevano contro la propria volontà, mentre i suoi muscoli dapprima tesi, si rilassavano. “Io sarò pure maledetto, Agente, ma tu sei veramente una sciocca.” I due uomini che avevano scortato Aiko si rivelarono infatti, due tirapiedi dell’Organizzazione, assoldati per evitare di incorrere in problemi con un’eventuale scorta affibbiata alla ragazza. Tutto stava filando liscio come l’olio. 
“Portatela nella cella all’ultimo piano interrato. E’ giunto il momento di far chiarezza.”
 
 
 
 
 
Gin camminava a passo spedito, lo sguardo fisso e concentrato, l’impermeabile che volteggiava ad ogni suo passo cadenzato. Il suo respiro era leggermente accelerato, sentiva i battiti del suo cuore non più così regolari, il tremolio impossessarsi febbrilmente delle sue mani. In fondo al corridoio scorse il figurino atletico di Kirsch. 
“Dove vai così di corsa, Gin?” La ragazza si frappose fra lui e l’ascensore, poi spalancò le braccia con aria di sfida.
“Levati di mezzo, Kirsch. Devo occuparmi di una piccola mosca fastidiosa.” Gin la scansò in malo modo e tentò di proseguire per la propria strada, ma la ragazza si pose nuovamente a difesa delle proprie motivazioni, afferrandolo per i lembi dell’impermeabile. 
“Ehi, si può sapere che cosa avete tutti quanti? Irish si comporta in modo strano, Vermouth è imperscrutabile, ora ti ci metti anche tu.”
Gin serrò i denti e la fulminò con lo sguardo. “Dimentichi del luogo in cui ti trovi, Kirsch. Ripeto,  Levati dai piedi, ora. Sparisci.” Avanzò nuovamente e premette il pulsante per richiamare l’ascensore, poi aggiunse: “A sistemare te, ci penserò più tardi.” 
Quando le porte dell’ascensore si richiusero, lei sentì un brivido intenso correrle lungo la schiena, poi i suoi occhietti si spalancarono e si fusero col freddo acciaio di fronte a lei. 
 
 
 
 
 
Aiko Kirara si risvegliò in un momento della giornata imprecisato, non seppe giudicare quanto tempo fosse passato dall’aggressione, ma si accorse immediatamente di essere seduta su una sedia, il suo corpo era ancorato ad essa con delle corde robuste che le impedivano qualsiasi movimento. Una striscia di nastro argentato le premeva sulle labbra, infatti non appena provò ad articolare alcune parole, una serie di mugoli si sparse per la stanza, riecheggiando cupamente. Le pareti erano di un grigiastro smorto e spento, non si udivano rumori ad eccezione dei cigolii della propria sedia, del suono sordo ed ovattato dei suoi respiri. Una goccia di sudore le solcò la guancia, poi improvvisamente il terrore si impadronì del suo corpo. Iniziò a dimenarsi come un animaletto in trappola, a gemere nel tentativo vano che qualcuno la sentisse. Ma dove diavolo era finita? 
D’un tratto la porta della cella si spalancò, poi si richiuse con un clangore metallico: Gin non poté far a meno di annusare l’aria stracolma di umidità, di chiuso, di stantio. “Non deve essere stato un bel risveglio, dico bene, Agente?” 
La ragazza lo fissò, ben presto i suoi occhietti divennero due fessure iniettate di sangue. Si dimenò in uno spasmo di rabbia e lo vide avvicinarsi pericolosamente a lei, mentre con la mano destra si stava sfilando una sigaretta dal pacchetto delle sue stramaledettissime sigarette. Non poteva neanche controbattere. 
Il biondo piazzò la punta della sua scarpa sulla sedia, fra le gambe di lei, poi, col gomito poggiato sul ginocchio, gli sbuffò una nuvola di fumo proprio contro il viso. “Se sei reclusa qui dentro, sappi che è soltanto colpa tua. Non avresti dovuto ficcare il naso nei nostri affari. Ma una cosa positiva c’è stata, effettivamente.” Abbandonò la sua posizione minacciosa e prese a camminare intorno alla ragazza. “Ora ho la certezza che dietro Kirsch non si celi una scaltra poliziotta.” 
Aiko strinse i denti con tutta la forza che aveva in corpo, provò a divincolarsi nuovamente dalle corde che la stringevano come un salame, ma ebbe come unico risultato, quello di cadere rovinosamente a terra, con tutta la sedia. Un mugolio di dolore le si strozzò nella gola. 
Gin rise sommessamente, poi le si avvicinò nuovamente e le spinse il piede contro lo stomaco. “Piantala di muoverti come un’assatanata, non hai speranze di sbrogliare quei nodi con la sola forza del pensiero.” La stava trattando come uno dei suoi tanti mozziconi di sigaretta, gettata a terra senza alcun riguardo, incurante del fatto che il pavimento fosse sporco e pieno di condensa. “I nostri uomini hanno perquisito la tua casa. Sai cosa vi hanno trovato? I nostri documenti riservati, le nostre azioni, tutti i nostri contratti e le nostre informazioni tracciabili. Non ho bisogno di capire come tu sia arrivata ad averli, ma so soltanto che fra meno di due ore quella miniera d’oro brucerà, e la tua fatica si trasformerà in un cumulo di cenere e fumo.”
Aiko sbarrò gli occhi: avrebbe incendiato la sua casa? La notizia inizialmente non la preoccupò, anche perché per il momento la sua priorità era quella di sopravvivere. Ripensando però alla vita vissuta fra quelle quattro mura, gli occhi le si riempirono di lacrime. Non fiatò. 
“E’ buffo, non trovi? Che ora sia io ad avere il coltello dalla parte del manico. E’ vero, avrai pure avuto il tuo piccolo momento di gloria, in cui i tuoi superiori si saranno congratulati con te per aver messo K.O un famoso fuorilegge. Ti sarai sentita orgogliosa e piena di coraggio, non è forse così?” Rimase in silenzio ad osservarla, poi sbuffò del fumo verso il soffitto. “Ecco, ora permettimi di riprendere quel momento, dolcezza. Te lo ruberò con il sangue e con i denti.” 
 
 
 
 
 
La porta della cella si richiuse nuovamente. 
Finalmente le urla erano cessate, finalmente il sangue aveva smesso di scorrere, finalmente, quell’uomo se n’era andato. 
Aiko giaceva in terra, aveva il volto pieno di lacrime e lividi violacei: un tremore intermittente si era impadronito di lei ed i suoi pensieri fluivano veloci come un torrente in piena. Il silenzio della cella era così opprimente da darle fastidio. Quel mostro gliele aveva date di santa ragione, si ritrovò persino a maledire il giorno in cui aveva deciso di dar loro la caccia. 
‘Che stupida.’ Pensò. Per via dello scotch sulla bocca non poteva neanche esprimere a parole tutto il dolore che provava, era come un tarlo che la rosicchiava da dentro e che non avrebbe potuto rimuovere. Era un fardello insopportabile, una sensazione quasi paragonabile alla terribile inerzia che prova l’uomo quando si ritrova intrappolato in un incubo da cui non riesce a svegliarsi. E lei si ritrovava catapultata a capofitto in quello strazio. 
Sbarrò gli occhi quando udì nuovamente il rumore della porta, sentì quasi il ‘sapore’ delle percosse sulla pelle. Ma contrariamente a quanto aveva immaginato, dalla porta comparve una ragazza dalla tuta nera e i capelli corvini legati in una coda fluente. 
Era Kirsch.
Aiko Kirara farfugliò qualcosa e cominciò a dimenarsi, ma il tocco gentile della ragazza la fece acquietare quasi subito.
“Stai tranquilla, sono qui per liberarti.” La ragazzina stava abilmente sbrogliando i nodi che la tenevano prigioniera ma dal suo tono flebile e dai suoi movimenti frettolosi, la poliziotta capì che doveva fare in fretta, e che tutto quel che stava facendo, lo stava facendo nella più completa clandestinità. “Al piano superiore c’è una porta che dà sul retro. Devi attraversare la sala macchine e un paio di corridoi. La porta è blindata, ha un codice di sicurezza che ne consente l’apertura. Ventiquattro, novantanove, settantanove. Non te lo dimenticare.” 
Un mugolio interrogativo fuoriuscì dalla bocca della poliziotta: la stretta delle corde si faceva sempre più lenta, presto sarebbe stata in grado di liberarsene. Avrebbe voluto chiederle il motivo di quel comportamento: non rientrava nei suoi piani, in nessuno dei suoi schemi vi era quella remota possibilità di fuga. La situazione stava scivolando via dalle mani di entrambe. 
Quando Aiko fu finalmente libera, la prima cosa che fece fu quella di strapparsi con rabbia il nastro argentato dalla bocca, poi si alzò in piedi. Kirsch aveva compiuto uno scatto verso la porta e stava per dileguarsi; prima di farlo sorrise con sincerità. Fu un sorriso dolce e carico di malinconia. Uno di quei sorrisi che non si regala a chiunque, ma soltanto a chi se lo merita davvero. Eppure un misto di nostalgia trapelava da quegli occhi verdi. “Sei una poliziotta in gamba. Mi hai sempre ricordato qualcuno. Qualcuno che al contrario di te, non ha mai avuto il coraggio per cambiare le cose. Addio, Aiko.” 
Kirsch corse via come un fulmine, non si voltò neanche quando sentì Kirara urlare il proprio nome. Non voleva voltarsi e lasciare che quella poliziotta così coraggiosa vedesse il suo volto bagnato di lacrime. Non era giusto. 
 
 
 
 
 
Gin si era finalmente concesso un attimo di riposo: dopo essere entrato nella propria stanza, era andato in bagno a lavarsi le mani. L’acqua che turbinava nel lavandino si mescolò subito al sangue rosso vivo, poi, come se nulla fosse, scivolò giù nelle tubature, portandosi con sé il misfatto appena compiuto. Con quelle stesse mani ormai pulite si diede una lavata anche al viso., come se potesse veramente pulire lo sporco che aveva dentro. 
L’acqua grondò giù dal mento, poi un altro rumore si accavallò con prepotenza a quello del rubinetto aperto. Qualcuno bussava con insistenza alla sua porta. 
“Un momento, Cristo.” Si passò un asciugamano sul volto e aprì la porta. Vermouth aveva il viso contrito in una smorfia. 
“Gin, la poliziotta.” 
“Cosa? Cosa diavolo è successo?” 
“E’ fuggita.” La donna aveva la lingua riarsa ed il fiatone. Molto probabilmente aveva corso per permettergli di apprendere la notizia. Il biondo allora fu scaltro e rapido, uscì assieme a Vermouth e corse lungo il corridoio, impartendo ordini alla donna come se ormai non vi fosse più una gerarchia da rispettare. 
“Raduna i nostri uomini ma tienili a debita distanza. Voglio occuparmene personalmente.” 
“Gin!” 
“Fa’ come ti dico!” 
Dopo aver superato la donna, egli continuò a correre verso l’uscita: come diavolo aveva fatto a scappare, quella maledetta? Fu allora che notò Kirsch in fondo al corridoio, armeggiare con un telefono cellulare fra le mani. Le si avvicinò e le afferrò un braccio con forza, costringendola a guardarlo negli occhi. “Tu vieni con me.”
“Cosa?” Kirsch cadde letteralmente dalle nuvole, nonostante si sentisse estremamente colpevole dell’accaduto. Si lasciò strattonare dall’uomo, incapace di reagire. “Che ti dice il cervello, Gin? Non ho fatto niente, dannazione.”
“Non ho detto nulla di simile. Ti ho ordinato di seguirmi.” E così facendo, egli la trascinò letteralmente con sé. Le torse quasi il polso per scortarla fino al garage sotterraneo. 
“Ahia, mi fai male, porca miseria. Lasciami, ti sto seguendo e posso farlo anche senza la tua presa ferrea.”
Gin si comportava come se non la stesse neanche ascoltando. La scaraventò vicino al posto di guida e richiuse la portiera con un gesto stizzito, dopodiché si mise al volante. Inserì la retromarcia e con una rapida sterzata sgommò verso l’uscita. 
Kirsch ritirò le gambe presso il petto e le avvolse con entrambe le braccia. Oltre il parabrezza poteva osservare le luci giallastre della città farsi spazio oltre la coltre di nebbia e di acqua lungo le strade. Pioveva a dirotto e il cielo sembrava coperto da un manto di nuvole grigio topo, l’atmosfera era rarefatta per via della fitta, ma intensa pioggerella. Ogni gocciolina sferzava sulla carrozzeria della Porsche, producendo un ritmico concerto di ticchettii. 
“Si può sapere per quale motivo mi hai portato con te?” 
“Lo scoprirai presto, tesoro.” Gin strinse le mani intorno al volante, le riservò un’occhiata rapida e fugace, prima di ritornare ad osservare la strada di fronte a lui. 
A quel punto Kirsch rimase in silenzio. Trascorsero altri minuti interminabili, fin quando lei non ruppe nuovamente il ghiaccio. “Senti, mi spieghi come fai a sapere dove è diretta la poliziotta?”
“Semplice. Non appena le ho detto che avremmo bruciato la sua casa, le saranno venuti in mente i bei ricordi che aveva di suo padre. Magari le spediva delle lettere, magari conserva ancora gli album fotografici e idiozie di questo genere. Sarà andata a riprendersele prima che le fiamme gliele inghiottiscano per sempre. Ma per sua sfortuna noi saremo più veloci di lei.”
Kirsch deglutì, continuò ad osservare i lampioni balenare fra la pioggia arrabbiata. “Non capisco ancora cosa c’entro io in questa storia.”
Gin tornò nuovamente serio, stavolta sembrò faticare per trovare le parole da pronunciare. Non era affatto facile. “Voglio metterti alla prova.” 
La ragazzetta non ebbe neanche il tempo per rispondere, poiché Gin aveva inchiodato bruscamente la sua vettura retrò. “Eccola, è lei!” Oltre il marciapiede, infatti, la poliziotta in uniforme si stava addentrando in un viottolo buio: la videro entrambi scendere le scale e sparire nei cunicoli della metropolitana. Il biondo ciccò la sua sigaretta nel posacenere della Porsche, si slanciò fuori dall’automobile, seguito da Kirsch. L’aria era umida, non aveva ancora smesso di piovere e le pozzanghere si susseguivano sul selciato irregolare. Corsero entrambi nell’oscurità della notte, seguendo la fuggitiva. 
I loro passi frenetici riecheggiavano chiaramente, accompagnandoli gradino dopo gradino, sempre più giù. Le luci al neon vibravano con tutto il loro vigore, e a differenza dell’atmosfera precedente, sembrava di essersi immersi in un luogo senza tempo e senza riferimenti. La metropolitana a quell’ora era pressoché deserta. 
Gin afferrò saldamente il polso di Kirsch e la trascinò con sé: quando giunsero nei pressi della banchina, scorsero la figura di Aiko aggirarsi nervosamente fra le imponenti colonne rossastre che sorreggevano il soffitto. La metro tardava ad arrivare, il tabellone indicava che mancavano ancora sei minuti all’arrivo del prossimo treno. Il biondo fece guizzare lo sguardo dalle lettere verdastre al blu scuro dell’uniforme di Aiko. Un ghigno si dipinse sulle sue labbra. 
“Sei minuti, Agente. Più che sufficienti per eliminarti dalla faccia della terra.” Mentre pronunciava a gran voce tali parole, sentì Kirsch dimenarsi nel tentativo di sciogliersi dalla sua presa. 
Aiko fu come paralizzata: aveva sentito i loro passi farsi sempre più vicini, ma la voce dell’uomo aveva un’intensità totalmente differente. Non ebbe neanche il coraggio per voltarsi. Era rischioso buttarsi a capofitto in quella sparatoria, ma era altrettanto folle dar credito ai propri pensieri. Alla fine optò per l’ultima soluzione possibile: corse rapida come un fulmine e non esitò neanche quando giunse sul ciglio del baratro, oltre la linea gialla che non bisognava mai sorpassare. Si gettò sui binari e vi cadde rovinosamente. Faticò a rialzarsi e quando lo fece si rese conto di essersi sbucciata un ginocchio per via dell’impatto al suolo metallico, stracolmo oltretutto del pietrisco della massicciata. 
“E’ completamente pazza.” Bofonchiò l’uomo biondo, che non aveva potuto evitare quel gesto disperato di fuga: aveva provato a spararle, ma la ragazza si era lanciata prima che il proiettile potesse raggiungerla. A quel punto prese anche lui la decisione drastica di seguirla: non poteva lasciarla sfuggire, non ora che l’aveva quasi in pugno. 
Gin scivolò assieme a Kirsch sulle rotaie: in fondo al tunnel si scorgeva la poliziotta correre, balenare in quel buio pesto come una microscopica macchiolina blu. 
“No Gin, ti prego! Tu sei pazzo almeno quanto lei!” Kirsch gli si era ancorato al petto come una sanguisuga, lo scuoteva vigorosamente nel tentativo di fargli cambiare idea. Ma l’uomo in nero era inamovibile e fermo nella sua missione redentrice. La scansò gentilmente e le sorrise sardonico. “Pensa a correre, dolcezza.” 
Entrambi si avventurarono nella pesta oscurità di quel cunicolo: sei minuti scarsi e la metro avrebbe nuovamente ripercorso la sua corsa abitudinaria.  
Gin sollevò il braccio con il quale impugnava saldamente la pistola: scaricò un intero caricatore contro la poliziotta in fuga. Proiettile dopo proiettile, la loro distanza andava riducendosi progressivamente, Aiko si sentiva braccata, aveva il respiro pesante, in fondo alla gola sentiva il sapore aspro del sangue, il cuore le stava impazzendo nel petto. 
Il tunnel era lungo ed accidentato, la pesante ghiaia fra le rotaie rendeva incredibilmente difficoltosa la corsa dei tre. 
Kirsch seguiva con fatica il biondo, era impressionata dai suoi scatti così rapidi, oltretutto non sembrava per nulla stanco da quell’inseguimento. Continuava a ricaricare la propria arma anche in corsa: era un killer professionista, ormai. 
Aiko si strinse una mano contro il petto, nella convinzione che stavolta il cuore le sarebbe balzato fuori dal corpo: un proiettile le perforò la gamba sinistra, ma lei non sentì alcun dolore. Era terrorizzata dal fatto che le sue articolazioni avessero ceduto e che improvvisamente quel colpo l’avesse fatta crollare a terra. Allora il suo viaggio poteva dirsi concluso? 
Si voltò faticosamente indietro: contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, Gin e Kirsch non la stavano seguendo, ma si erano immessi in una biforcazione che li avrebbe ricondotti nuovamente fuori dalla metropolitana. Richiuse gli occhi per qualche attimo, poi ritornò a guardare dritto di fronte a sé. Il terreno sotto di lei tremava, un roboante boato si faceva minacciosamente più vicino. 
Due occhi gialli la fissavano, correvano verso di lei, sembravano accecarla con la loro luce così intensa e forte. 
 
 
 
 
 
Kirsch seguì Gin senza batter ciglio, silenziosa ed abbattuta come un cagnolino che torna regolarmente a piangere sulla tomba del proprio padrone. Teneva gli occhi bassi e si trascinava priva di vitalità, gradino dopo gradino, sempre più in alto. Vedeva l’impermeabile nero del suo ‘partner’, il fumo che lo succedeva le si infiltrava nelle narici. Una serie di ricordi la investirono come una tempesta violenta. Il biondo spinse la mano contro la maniglia di una porta metallica ed in un baleno furono entrambi colpiti dal silenzio di quella notte. Finalmente aveva smesso di piovere. Il cielo era ancora disseminato di nuvole grigie, che stagliandosi sul nero, sembravano essere delle nette pennellate di vernice. 
Kirsch avanzò di qualche passo: erano soli su quel terrazzo, soltanto un’esile ringhiera li separava dallo strapiombo. Le mattonelle del pavimento erano chiare, l’aria fredda e pungente come se si preparasse per nevicare. 
Gin si avvicinò alla ringhiera e vi posò il fucile di precisione appena prelevato dal bagagliaio della sua auto. Richiamò la ragazzina con un gesto e poi si accese una sigaretta. 
“Aiko si è salvata. Non so come abbia fatto, ma si è salvata. I nostri uomini sono pronti ad entrare in azione.” 
Kirsch riconobbe l’abitazione della poliziotta, una cinquantina di metri distante dalla loro posizione. Una fitta al cuore. 
“Non appena comparirà all’orizzonte la farai fuori una volta per tutte. Un solo colpo, non tollero errori.” Gin si appoggiò alla ringhiera e diede le spalle al palazzo di fronte: aveva gli occhi puntati su Kirsch. Riconobbe quel tremolio nei suoi occhi spaventati. 
“Perché io? Non puoi farlo tu?” Sembrò agitarsi.
“Ho bisogno che lo faccia tu.” Il suo sguardo imperscrutabile era perennemente posato sulla ragazza, freddo, glaciale. Ostile. Voleva torturarla psicologicamente prima che sputasse la verità, prima che si dipingesse chiara e nitida come uno schizzo di sangue sul muro. L’avrebbe condotta mano nella mano verso l’Inferno, poi l’avrebbe spinta giù. 
Kirsch annuì. Era consapevole delle sue intenzioni, non le serviva altro per capire che lui, aveva capito tutto. Ogni cosa. 
Lasciò scorrere le mani sul metallo del fucile, dopodiché lo imbracciò saldamente fra le braccia. Non lo ricordava così pesante e difficile da maneggiare. Si sentiva sul corpo lo sguardo appiccicoso di Gin. Una lacrima le attraversò la guancia: tremava per il freddo, ma tremava anche perché non si era mai sentita così male in vita sua. Nel crocicchio del mirino comparve Aiko, grazie al cielo era viva. 
“Sparale. La vedo anche io da qui.” La voce dell’uomo la fece sussultare. L’indice si appuntò contro il grilletto. Era colta dagli spasmi, non avrebbe beccato neanche una lattina a cinque metri in quelle condizioni. Quando il terrore era giunto all’apice sopportabile, lei si spazientì e scaraventò il fucile a terra. “Non ce la faccio, cazzo! Non ce la faccio, io non posso spararle! Io non sono come te!” La ragazzina continuava ad urlare in faccia al biondo, con gli occhi rossi di lacrime. 
Gin sospirò soddisfatto. Era venuta allo scoperto senza che lui avesse detto o fatto nulla. “E così alla fine hai deciso di mostrarti per quella che sei veramente. Una brava ragazza. Dico bene? D’altronde non si possono cambiare le persone.” Le si avvicinò: solo alcuni centimetri si frapponevano fra lui, il carnefice, e lei. La vittima. 
“Ho riconosciuto immediatamente il modo in cui hai imbracciato il fucile. Riconosco il tuo profumo, le tue parole, la tua voce, nonostante sia cambiata.” Gin le sfiorò il mento con le dita, si fece ancor più vicino per toccarle le labbra. “E soprattutto, ricordo ancora i tuoi baci.” Con un gesto violento le strappò i capelli: fra le dita stringeva una stupida parrucca sintetica, una parrucca nera che per troppo tempo aveva nascosto quei suoi fluenti capelli biondi. 
“Un paio di lenti a contatto e una parrucca non ti rendono diversa, Lily.” 
La biondina si portò le mani sul volto e cominciò a singhiozzare: bruciava sentirsi dire quelle parole. Con il viso ancora immerso fra le dita, ella cominciò a raccontare.
“Il piano era quello di scoprire il più possibile sull’Organizzazione, Aiko mi aveva detto di collaborare, ma io avevo sempre rifiutato perché non volevo mettermi contro di te. Ma poi le cose sono sfuggite dalle previsioni di entrambe.” Finalmente lei lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Gin si era allontanato. 
“La poliziotta non sapeva che mi ero inserita nell’Organizzazione, non so se ha capito che dietro Kirsch c’ero io. Le fornivo tutti i documenti di cui aveva bisogno, mantenendomi nell’anonimato. Ma non potevo sperare di cavarmela con te. Sei sempre stato troppo intelligente. E troppo spietato.” 
Il biondo ascoltò le sue parole, poi scosse il capo. Riprese la sua pistola e gliela puntò contro. “Già. Troppo spietato. Mi sono buttato il passato alle spalle, ma ogni volta mi stavi fra i piedi nonostante non volessi farti fuori. Te la sei cercata. Sei corsa incontro alla morte, Lily.” 
Una folata di vento sferzò il volto di entrambi. 
“Vodka e gli altri prenderanno Kirara, la sua casa presto sarà inghiottita dalle fiamme. Perché? Perché l’hai fatto?”
Lily guardò altrove, non le piaceva vederlo mentre puntava quella sua arma contro di lei. Le faceva male, avrebbe preferito morire subito. “C’è qualcosa di più importante della semplice vendetta o della semplice guerra in onore della giustizia.” Una lingua di fuoco si era levata al cielo, crepitando. Si sentivano le urla della poliziotta. La bionda strinse i denti. “Non ti riconosco più. E’ proprio vero che Jake è morto. E mi dispiace. Gli volevo bene.”
“Smettila.” Gin strinse la mano contro il calcio della pistola. “Smettila o ti sparo.”
“Eppure hai gli stessi occhi di allora. Forse era destino.” Lei si morse il labbro e sentì che erano salate. “E no. Non ti scomodare. Ci penserò io.” 
Sfilò dalla cintola la propria pistola e se la puntò proprio alla tempia. Il grilletto le sembrò leggerissimo, non ci mise neanche un secondo a premerlo con tutta la forza che aveva dentro. E dopo quello sparo, la bionda crollò a terra, in un lago di sangue. 
Gin dischiuse le labbra e non riuscì a distogliere lo sguardo da quella piccola creatura stesa a terra. Indifesa, corrotta, ma allo stesso tempo pura. 
Era tornato tutto silenzioso, soltanto il crepitio del fuoco era vivo al di là della strada. 
Faceva freddo, nonostante tutto. 
 
 
 
 
 
Gin fermò la sua Porsche presso il promontorio che affacciava sulla città: gli ricordava un preciso momento della propria vita. Quel momento in cui il suo passato era morto assieme a Jake. Le ultime parole di Lily gli affollavano la mente, non riusciva a disfarsene. Era così difficile. 
La macchina emanava ancora il calore della marmitta e del motore: il biondo si sfilò l’impermeabile nero e lo gettò sull’erba bagnata, assieme al cappello che aveva sempre calato sul capo. Si sedette a terra ed appoggiò la schiena contro il paraurti della sua automobile. 
Sollevò lo sguardo verso il cielo, oramai sgombro di nuvole e stracolmo di stelle. Brillavano ad intermittenza, alcune più di altre. Poi c’erano quelle più piccole che sembravano affievolirsi, quasi stessero per morire da un momento all’altro. Spaziò il suo sguardo altrove, lungo la città. 
Rimase lì tutta la notte, immobile, a fumarsi le ultime sigarette rimastegli nel pacchetto. Lo aveva detto e pensato più volte, ma quella fu veramente la fine di Jake e l’inizio di Gin. 
La madre era morta, il padre lo aveva ammazzato a sangue freddo, Lily si era suicidata di fronte ai suoi occhi, ma era come se l’avesse uccisa lui, con le sue stesse mani. In un certo qual modo, aveva compreso la logica contorta per cui quella ragazza si era tolta la vita di propria spontanea volontà. Forse aveva voluto evitargli anche quel dispiacere. 
Ma era stato inutile. Era davvero buona, dopotutto. E lui, terribilmente solo in quello sputo di mondo.
L’ultimo mozzicone di sigaretta scivolò giù dal burrone, lanciò un’imprecazione per aver terminato l’unica compagna che avrebbe potuto alleviare il suo dolore. Quando sollevò nuovamente il capo vide che il cielo cominciava a tingersi di viola: uno spicchio timido di sole faceva capolino sulla linea frastagliata dell’orizzonte. 
Si ritrovò a pensare stupidamente, che il sole sorgeva per tutti. 
Indistintamente. 
Giorno dopo giorno. 

Ed anche per tutti coloro che non lo meritavano. 
 



"Ancora qui
ancora tu
ora però

Io so chi sei
chi sempre sarai


e quando mi vedrai
ricorderai
ancora qui
ancora tu
e spero mi perdonerai
tu con gli stessi occhi
sembri ritornare a chiedermi di me
di come si sta
e qui dall’altra parte
come va.

L’erba verde
l’aria calda
sui miei piedi
e sopra i fiori
si alza un vento tra i colori
sembri quasi tu
anche il cielo cambia nome
così bianco quel cotone
è veloce che si muove
perso in mezzo al blu."



 

 




Ok. Lo so che determinati passaggi non vi sembreranno molto chiari. 
Ma ultimamente non riesco a spiegare tutti i passaggi della mia storia, volutamente li lascio così, un po' sospesi. Non so perché, ma spero che vi sia piaicuto ugualmente. 
In realtà (ahimè sigh sob ç_ç) questo è il capitolo conclusivo della prima parte di questa storia, ed anche della vita di Gin. E la parte finale di quel mondo che ho inventato e creato di sana pianta... In realtà vorrei scrivere qualcosa che si avvicini di più al mondo Goshiano, quindi l'incontro con Shiho, con Akai e così via... Ma per farlo ho bisogno di tempo, devo rileggermi Conan e creare nuovamente un'atmosfera veritiera. 
Per questo ho deciso di troncare qui. La fine è un po' così, evanescente. Accade tutto così in fretta, sono sicura di avervi lasciato con l'amaro in bocca e con molti interrogativi, specialmente con la frase finale XD 
Ma era quello che sentivo di scrivere, spero che vi sia piaciuta questa storia, io mi sono divertita parecchio nel realizzarla. Adoro queste storie piene di sangue e sparatorie.. ahaaahhahahahaha!!! 
Vi lascio con la canzone che mi ha ispirata per questo pezzo finale. 
Mi piace terribilmente lasciare i credits alla fine XD Ascoltatela mi raccomando :) 


https://www.youtube.com/watch?v=lP-wrI8G1bE


Aya_Brea
  
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