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Autore: Beatrix Bonnie    14/02/2013    5 recensioni
-Seguito de Il torneo Trecolonie-
Edmund, ormai figlio adottivo del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda, si lascia alle spalle il suo passato, per diventare Edmund McPride, un giovane ambizioso, bello e pieno di talento. Ma presto dovrà fare i conti con la realtà: l'uomo in cui ha riposto la sua fiducia si rivelerà essere un meschino arrivista, mentre il suo passato verrà a bussargli alla porta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Un misterioso orologio d'oro con le lancette ferme, una setta di folli scienziati, un codice impossibile da decifrare...
Ma quando, tra il clima di terrore e le sconvolgenti rivelazioni sul suo passato, Edmund non riuscirà più a vedere la luce, nel suo orizzonte si staglierà l'unica cosa certa: l'amicizia di Mairead e Laughlin.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 23
Fuga dalla realtà






Edmund cercò di scollarsi di dosso quella piattola di Dedalus, con una lunga e ostile occhiataccia: la trasfigurazione umana era già abbastanza complicata senza che ci si mettesse anche lui.
«Lo sai che esistono dei vermi indiani che hanno una peluria su tutto il corpo di questo stesso colore?» gli chiese Dedalus, ignorando totalmente la reazione dell'altro e facendo strane facce alla sua immagine riflessa allo specchio: seguendo le istruzioni del professor Cumhacht, si era trasfigurato le sopracciglia di un acidissimo color verde.
Edmund, dal canto suo, visto che aveva avuto già in passato una brutta esperienza con le sopracciglia, non aveva ancora tentato l'impresa. Né aveva alcuna voglia di sopportare le folli declamazioni di Dedalus su vermi indiani, ma il Llapac gli si era incollato dall'inizio della lezione e non voleva saperne di lasciarlo in pace. A dire la verità, era da una settimana a quella parte che i membri del FIE parevano essersi messi d'accordo per pedinarlo durante tutta la giornata e non lasciarlo mai solo. Il peggio era stato quando Lily Sharpaty, stupida e testarda come solo una Raloi poteva essere, l'aveva seguito persino in bagno, suscitando numerose proteste da parte degli altri ragazzi che già si trovavano ai servizi.
«Allora, McPride?» lo richiamò proprio in quel momento il professor Cumhacht. «Abbiamo intenzione di lavorare o siamo qui a fare tutù per Mollicci?»
«No, signore» borbottò Edmund, contrariato per essere stato ripreso. Si osservò allo specchio, si concentrò e tentò la trasfigurazione. Tentò, perché non successe un bel niente. Tutta la classe si fermò a guardarlo, perché era una novità che non riuscisse in qualcosa al primo colpo. Tentò di nuovo, frustrato, e poi un'altra volta ancora.
Non successe nulla.
Edmund cominciò a sudare, messo in agitazione dal suo insuccesso davanti a tutti; si sentì come se non fosse più capace di fare nulla, come se fosse un'inutile nullità. Agitato come non mai, certo che, di nuovo, non ce l'avrebbe fatta, provò la trasfigurazione per l'ultima volta. E proprio per quel suo gesto frustrato e impotente, la bacchetta gli schizzò via dalla mano, come se avesse una volontà propria e si rifiutasse di sottostare agli ordini di un padrone così incapace.
Qualcuno trattenne il fiato, altri si lasciarono sfuggire “oooh” sbigottite; il professor Cumhacht lo squadrò con un misto di delusione e scherno ma ciò che davvero salvò Edmund fu la fine della lezione: l'orologio batté i colpi per segnare l'ora e il ragazzo ne approfittò per ficcare la sua roba in borsa, raccogliere la bacchetta rotolata lontano e squagliarsela alla svelta, seguito dagli sguardi increduli dei compagni.
Ancora scosso per quello che era successo, non si accorse di essere pedinato finché il suo inseguitore non gli fu affianco.
«Ehilà, Ed!» lo salutò allegro Bearach, facendolo trasalire. «Come ti butta?»
«Lasciami in pace» fu la sua gelida risposta, per quanto sapesse benissimo che non sarebbe bastata quella a demolire l'incrollabile spirito d'iniziativa di Bearach.
«Che avete fatto di bello oggi a lezione?» domandò infatti quello, sfoggiando un sorriso a trentadue denti.
«Lasciami in pace» ripeté Edmund, usando il tono più sgarbato che conoscesse.
Non fu affatto a sufficienza. «Eddai, Ed!» ci scherzò su Bearach, dandogli un finto spintone sulla spalla. «Non fare il brontolone!» Fu allora che Edmund estrasse la sua bacchetta fedifraga e gliela puntò contro. Vide Bearach sgranare i suoi occhi nocciola e, da qualche parte in fondo allo stomaco, la sua coscienza si ribellò, facendo nascere in lui uno sgradevole senso di colpa, ma decise di ignorarlo. «Si può sapere cosa diavolo vuoi?» sbraitò furibondo.
Bearach alzò le mani in segno di innocenza. «Volevo solo fare due chiacchiere con te» si giustificò, tentando di apparire naturale. Ma, forse a causa della bacchetta puntata contro di lui, la voce gli uscì simile ad uno squittio spaventato.
Edmund non gli avrebbe mai fatto del male, certo, ma in quel momento... era furioso. Furioso e stufo di essere pedinato: voleva capire cosa avessero in mente quei disgraziati e perché non lo lasciassero in pace. Lui li trattava tutti da schifo, pur di restare solo: per quale motivo si ostinavano ad essere gentili con lui e a stargli vicino?
«Non mi mentire, Bearach!» intimò al ragazzino, stringendo la presa sulla bacchetta. «Che cosa state progettando?»
Bearach scosse la testa, improvvisamente impaurito dalla reazione folle di Edmund. Tentò di negare, di mugugnare qualcosa, ma alla fine cedette, perché non era uno stupido Raloi coraggioso. «È un'idea di Laughlin» rivelò sottovoce. «Ci ha ordinato, letteralmente, di stare con il naso incollato al sedere di Eddy» ripeté la frase del fratello, poi specificò: «Il tuo sedere, insomma».
La rabbia di Edmund si sgonfiò come un palloncino: per quanto fosse assurdamente furibondo, gli venne da ridere, perché quella era proprio il genere di cosa che avrebbe potuto dire Laughlin. Ma subito l'ilarità fu sostituita da una fitta di nostalgia per i suoi amici: non parlava con loro da settimane e, per quanto volesse fingere il contrario, gli mancavano terribilmente. Avrebbe voluto confidarsi con loro, ma come avrebbero reagito quando avesse confessato loro tutta la verità? Quando avesse ammesso di non essere altro che il malvagio esperimento voluto dal capriccio di un mago oscuro? Un clone di Voldemort, un'arma nelle sue mani, una volta che lo avesse trovato.
No, per il loro bene avrebbero fatto meglio a stargli lontani. Lui era una minaccia per chiunque gli si avvicinasse e non poteva coinvolgerli in quella storia: voleva loro troppo bene per rischiare di metterli in pericolo. Doveva allontanarli da sé, a ogni costo.
Bearach era ancora lì a guardarlo, spaventato e insieme preoccupato.
«Di' agli altri di lasciarmi in pace» mormorò stancamente Edmund, improvvisamente piegato da tutto l'orrore che aveva intorno. Non riusciva più nemmeno ad essere arrabbiato.
Finalmente Bearach capì che non era proprio il caso di insistere oltre e lo lasciò andare via abbattuto.
Edmund si diresse verso la torre dei Raloi, verso il suo dormitorio, alla ricerca del kit di manutenzione delle bacchette magiche che Moira e gli altri gli avevano regalato per il suo compleanno. Ignorando completamente le altre lezioni della giornata, cercò di capire cosa ci fosse che non andava nella sua bacchetta. Non gli era mai successo che questa non rispondesse ai suoi comandi.
Si sentiva stanco, inutile, provato. Non si ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva fatto un pasto completo, o quando avesse riposato sereno per tutta la notte. Da un mese a quella parte incubi terribili sconvolgevano il suo sonno, facendolo svegliare in un bagno di sudore senza che ricordasse nulla di quanto aveva sognato. Non riusciva più a stare attento a lezione, non riusciva più a studiare e ora anche la sua bacchetta si rifiutava di obbedirgli.
Aveva pensato più volte di non meritare nemmeno di vivere. Un mostro come lui non sarebbe dovuto esistere. Non era altro che il clone di un altro uomo, un'arma creata per rispondere ciecamente ai suoi capricci. E se anche fosse riuscito a sfuggire a Voldemort (cosa che dubitava fortemente) il suo destino era segnato: era la sua copia genetica, sarebbe diventato malvagio come lui.
E tuttavia non aveva davvero la forza di porre fine alla sua vita. Un brivido orribile di puro gelo gli attraversava il corpo tutte le volte che ci pensava.
No, non poteva morire, non ancora. Voleva delle risposte da McFarren, voleva sapere. L'interventista doveva essere ancora vivo, da qualche parte, altrimenti non avrebbe potuto inviargli l'orologio del Gran Maestro e lasciargli le istruzioni per trovare il laboratorio di Lerwick. E Edmund aveva anche trovato il modo di contattarlo: inviare alla ricerca dell'uomo un Patronus che potesse portare il suo messaggio. Il problema era che in quelle condizioni non riusciva nemmeno ad evocare una timida nebbiolina argentea, figuriamoci un Patronus corporeo.
Per di più, ora si era aggiunto il problema della sua stramaledetta bacchetta magica. Che cosa le era preso? Perché si rifiutava di obbedire?
Secondo il kit di manutenzione non aveva nulla che non andava, per cui immaginò che non sarebbe bastata una ricerca in biblioteca per capire cosa le fosse accaduto: aveva bisogno di farla vedere ad un esperto.
Gli venne immediatamente in mente il signor Olivander: era il miglior fabbricante di bacchette del mondo, a quanto si diceva. Sapeva anche come raggiungerlo, dato che aveva letto un libro sui luoghi magici dell'Europa e quindi sapeva tutto di Diagon Alley. Gli sarebbe bastato usare il passaggio segreto per uscire dal Trinity, approfittando del fatto che tutti gli altri studenti erano a lezione, materializzarsi a Londra, raggiungere il Paiolo Magico e trovare il negozio di Olivander.
Fu più facile a dirsi che a farsi, soprattutto per via della Materializzazione: non aveva considerato che tentare quella magia nelle sue condizioni sarebbe stato un azzardo. Per fortuna non successe nulla di grave, senonché arrivò in un vicolo di Londra e si accasciò a terra pronto a vomitarsi l'anima. In realtà non fece altro che rivoltarsi lo stomaco, dal momento che non aveva nulla dentro da poter vomitare. Attraversò le strade di Londra prima e di Diagon Alley poi in uno stato febbricitante: era pallido e sudato, allo stremo delle forze, ma non ebbe intenzione di fermarsi. Doveva assolutamente capire cosa fosse successo alla sua bacchetta.
Non prestò alcuna attenzione ai manifesti affissi alle vetrine e ai muri, che indicavano Silente come nemico latitante e segnalavano una serie di maghi fuggiti dalle prigioni di Azkaban al seguito di un certo Sirius Black. Semplicemente, si diresse senza esitazione verso le vetrine di Olivander, sporche e disordinate.
Entrò titubante nel negozio. Era piccolo e angusto, quasi soffocante, con tutte quelle scatole ordinate di bacchette che si inerpicavano sulle alte pareti. Uno scampanellio delicato avvertì del suo ingresso e poco dopo comparve dal retrobottega il signor Olivander. Era anziano e inquietante proprio come Edmund se lo ricordava, con quei suoi due occhi argentei scoloriti e spalancati.
«Buongiorno, signor Burke» lo salutò, e se anche dovesse essere sorpreso di ritrovarselo in negozio, non lo diede affatto a vedere.
A Edmund invece fece uno strano effetto sentirsi chiamare con il suo vecchio cognome. Dopo essersi abituato ad usare quello del suo padre adottivo, provava un'insolita sensazione di nostalgia nel ricordare che Burke era stato il suo cognome di orfano. Ovviamente il signor Olivander non poteva conoscere gli ultimi avvenimenti dell'Irlanda né sapere che lui ora era diventato Edmund McPride. Ma lo era diventato davvero?
Scacciò quei pensieri dalla testa ed estrasse la sua bacchetta. «Non funziona più bene» disse semplicemente, mostrandola al fabbricante. «Oh, ricordo» mormorò Olivander. «Un lavoro di O'Tunnel, vero?» chiese e poi si fece passare la bacchetta: prese a osservarla per qualche secondo, infine sospirò.
«Cos'ha che non va, signore?» domandò Edmund, preoccupato.
Olivander scosse la testa, sospirò nuovamente e solo alla fine si decise a rispondere: «La sua bacchetta non ha nulla che non va, signor Burke».
«Ma... com'è possibile?» sbottò Edmund. «Non obbedisce più ai miei comandi!»
L'anziano mago se la rigirò tra le mani, come fosse sovrappensiero, poi sospirò: «Tredici pollici, legno di abete e crine di Kelpie, rigida».
«Conosco le proprietà della mia bacchetta, signore» precisò Edmund, con un certo disappunto; gli avevano detto che nessuno conosceva l'arte delle bacchette magiche meglio di Olvander, tuttavia sembrava proprio che l'uomo non sapesse soddisfare i suoi dubbi.
«A quanto pare, non le conosce abbastanza» fu la replica del mago. «Vede, l mio esimio nonno, Gerbold Octavius Olivander, ha sempre definito quella di abete “la bacchetta del sopravvissuto”, perché l'aveva venduta a tre maghi che, in seguito, avevano superato indenni un pericolo mortale».
Edmund chiuse e riaprì la mano destra con fare irritato. «Questo cosa c'entra con me?» sbuffò innervosito.
«È la bacchetta a scegliere il mago, glielo hanno mai detto?» chiese Olivander, invece di rispondere alla sua domanda.
Edmund sbuffò: non gli interessava una lezione sull'argomento, perché l'unico scopo di quella visita era capire cosa fosse successo alla sua. «L'ho letto da qualche parte» rispose alla fine, visto che l'anziano mago non sembrava intenzionato a soddisfare il suo quesito.
Olivander sorrise, quel suo sorriso senza allegria che lasciava gli occhi freddi e incolori. «Ha letto giusto. Vede, questa bacchetta la scelse perché vide in lei l'unico mago in grado di dominarla» spiegò tranquillo.
«Dominarla?»
«La sua è una bacchetta molto potente, signor Burke» lo informò l'anziano fabbricante. «Il legno di abete, provenendo dall'albero più resistente in assoluto, crea bacchette che richiedono ai loro legittimi proprietari un potere stabile e propositi fermi. Allo stesso tempo, il Kelpie è un animale ingannevole e infido, per cui il suo crine produce bacchette molto potenti ma volubili. L'avevo avvertita l'anno scorso, al torneo Trecolonie: la sua bacchetta predilige un padrone dal comportamento deciso, determinato e, di quando in quando, intimidatorio». Fece una pausa, come per sottolineare l'ultima parola, poi concluse: «Si rivela invece uno strumento scarso nelle mani di una persona indecisa e incostante».
«Io non sono una persona indecisa e incostante» protestò Edmund, offeso da quell'ipotesi quanto mai presuntuosa.
Eppure Olivander sorrise in modo ambiguo e fastidioso. «Non le è successo nulla in questo periodo, signor Burke, che abbia sconvolto il suo mondo, che l'abbia turbata, rendendola... incerta e indecisa?» domandò, come se conoscesse già la risposta.
Edmund scrutò a fondo l'anziano mago: possibile che sapesse qualcosa? Che avesse avuto modo di informarsi su quanto era accaduto a Lerwick? Il ragazzo rimase ad osservare l'altro per parecchi secondi, alla ricerca di qualche segno di bluff. No, non era possibile che conoscesse quella storia: il segreto degli Interventisti sulla sua nascita era al sicuro. Fu allora che Edmund arrischiò una provocazione: «Cosa ne sa, lei?»
Il sorriso di Olivander svanì leggero, sostituito da quell'espressione compiaciuta di chi sa di aver indovinato. «Io so solo quello che leggo nella sua bacchetta» rispose tranquillo, allungando le braccia per restituirgliela.
Edmund gliela strappò di mano quasi con violenza. Si voltò di scatto, con sdegno, ma il pavimento sotto i suoi piedi cominciò ad ondeggiare e fu costretto ad aggrapparsi al bancone. Sentì come se una qualche creatura mostruosa gli risucchiasse via le forze, mentre il mondo intorno a lui oscillava sinuoso.
Fu in quel momento che vide (o si immaginò?) un bambinetto moro entrare in quello stesso negozio per comprare la sua prima bacchetta magica. Era alto per la sua età, vestito alla Babbana. Aveva lo sguardo torvo e gli occhi... gli occhi erano rossi. Gli assomigliava.
Era lui da giovane o era un lord Voldemort bambino?
«Signor Burke, si sente bene?» domandò una voce lontana.
Il bambino scomparve nel nulla.
Da qualche parte dentro di sé, Edmund trovò la forza sufficiente per biascicare un: «Sì, grazie» e uscire dal negozio.
Fu per strada - dopo pochi metri o aveva camminato molto di più? Non sapeva dirlo... - fu per strada che intravide un uomo dai capelli rossi che gli sembrava di conoscere. L'aveva già visto, ma non sapeva dire dove. Allungò una mano verso di lui (e la tizia vicino aveva davvero i capelli viola o era uno scherzo della stanchezza?). Fra le tante cose che poteva dire, gliene uscì solo una: «Silente, devo vedere Silente».
E poi si accasciò a terra privo di forze.

«Siete per caso impazziti?»
«Ti ho detto che lo conosco! E poi non potevamo abbandonarlo lì svenuto».
«E allora? Questo è il Quartier Generale dell'Ordine, non il San Mungo!»
Erano voci fastidiose, che tuonavano nella sua testa, rombavano, rimbombavano, risuonavano. E non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Né di come ci fosse arrivato.
«Aveva chiesto di Silente». La voce di prima.
E poi quell'altra, raschiante e dura: «Fastastico, Arthur! Perché non porti qui anche il Ministero, allora? Anche loro chiedono di Silente!»
Edmund aprì lentamente gli occhi, ma il mondo parve appannato come se qualcuno avesse calato un vetro sporco davanti al suo viso. Doveva essere sdraiato, perché sulla sua testa penzolava un lampadario cigolante che odorava di cera.
«Non è uno del Ministero: è l'amico irlandese della mia figlioccia» disse di nuovo la voce di prima.
Edmund si voltò di fianco, lentamente, incerto nei suoi movimenti come un bambino appena rimesso da un'influenza quasi letale. Qualcuno gli aveva tolto la giacca della divisa e gli aveva slacciato i primi bottoni della camicia e la salopette, che ora penzolava sulle gambe. Realizzò di essere steso su un vecchio divano, puzzolente di muffa e di chiuso: il tessuto era liso, con piccole macchie di bruciatura, il legno delle gambe e dei braccioli eroso dalle tarme. Considerando che il vecchio divano non si meritava tutta questa attenta analisi, Edmund spostò gli occhi sugli occupanti del vecchio salotto: c'era la bizzarra ragazza con i capelli viola, il padrino di Mairead (Arthur! Era lui che si chiamava Arthur, no?) e un terzo figuro dall'aspetto inquietante. Indossava un ampio mantello nero, che però non nascondeva la gamba di legno; i lunghi capelli brizzolati incorniciavano un volto crudo, distorto, come scolpito da uno scultore inesperto, attraversato da cicatrici vecchie e nuove; gli mancava un abbondante pezzo di naso e la bocca non sembrava altro che una cicatrice più grossa e più scura delle altre. Ma gli occhi... gli occhi avevano qualcosa di innaturale: il destro era scuro e penetrante, il sinistro era grosso, di un blu elettrico, e pareva muoversi in totale autonomia rispetto all'altro.
Edmund si sentì attraversare da un brivido di gelo, ma non aveva forze a sufficienza per alzarsi dal divano. Intanto, l'uomo di nome Arthur e il tipo inquietante continuavano a discutere.
«Potrebbe aver bevuto una Polisucco!» protestò il mago con l'occhio blu elettrico.
«Certo!» esclamò Arthur. «Un Mangiamorte è andato appositamente in Irlanda per prendere un capello all'amico della mia figlioccia, ingannarmi e farsi portare dentro il Quartier Generale!»
«Potrebbe essere, sì!»
«Forse stai un po' esagerando, Malocchio» intervenne la ragazza dai capelli viola.
«Esagerare, io?» sbottò l'altro, che veniva chiamato Malocchio. «Vedrete che mi ringrazierete quando salverò le vostre sprovvedute chiappe dai Mangiamorte!»
Edmund decise che era giunto il momento di interrompere quell'assurda sceneggiata: raschiando il fondo per recuperare quel briciolo di energie che gli restavano, si tirò in piedi e fece un passo avanti, la mano sollevata per chiedere la parola.
Il tizio di nome Malocchio, con una rapidità incredibile per un uomo non più nel fiore degli anni, estrasse la bacchetta di tasca e gliela puntò contro, mentre Arthur alzava le braccia verso di lui, come per invitarlo a risedersi sul divano dal quale si era alzato.
«Non sono un Mangiamorte» spiegò Edmund, tentando di usare un tono calmo e sicuro, nonostante la bacchetta puntata contro di lui. «Sono Edmund... - esitò - ...Burke. E devo parlare con il professor Silente».
«Tu non parli proprio con nessuno!» tuonò il mago con l'occhio blu. «E te ne stai lì seduto finché non decidiamo che fare di te».
Edmund racimolò l'ultimo briciolo di forze per estrarre di tasca la bacchetta con una velocità sufficiente a impedire di essere disarmato come uno scolaretto alle prime armi. «Devo parlare con il professor Silente» ripeté, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe dovuto dirgli.
Malocchio lo guardò con sufficienza e disprezzo. «Non essere sciocco, ragazzino» gli consigliò. «Hai di fronte il miglior Auror del Regno Unito: non hai chance».
«E lei ha di fronte l'uomo più disperato del Regno Unito» replicò Edmund, senza abbassare la bacchetta. «E non sa quanto può essere forte la disperazione» aggiunse, cercando di essere convincente. In realtà, sapeva benissimo di non avere alcuna chance: in un duello ad armi pari, forse avrebbe anche potuto sperare di battere l'Auror di nome Malocchio, che dalla sua aveva l'esperienza ma non certo la freschezza degli anni; tuttavia, in quelle condizioni, allo stremo delle forze e con una bacchetta che non rispondeva ai suoi comandi, sarebbe crollato al primo assalto. Eppure, non aveva alcuna intenzione di subire un Incantesimo di Memoria ed essere rispedito al Tinirty senza aver concluso nulla.
«Edmund, sono Arthur Weasley, il padrino di Mairead» intervenne l'uomo dai capelli rossi, in un banale tentativo di conciliare le parti. «Ti ricordi di me, vero?» chiese e solo quando l'altro accennò ad un debole sì con la testa si azzardò a riprendere: «Bene, ora metti via la bacchetta e torna a sederti, così discutiamo con più calma».
Edmund soppesò la proposta per una manciata di secondi: ritenne che Arthur dovesse essere un uomo di cui ci si poteva fidare, così abbassò il braccio e chiese: «Mi promettete di farmi parlare con Silente?»
«Nessuno sa dove sia» intervenne la ragazza dai capelli viola e sembrava quasi dispiaciuta.
Edmund si sentì svuotato. Non sapeva che cosa avrebbe detto al mago, una volta che si fosse trovato faccia a faccia con lui, ma era certo di aver bisogno di confrontarsi con lui. Ma se nessuno sapeva dove fosse...
«Sono qui» si presentò una voce calma e pacata. Apparteneva ad un mago alto, con lunghi capelli argentei e una barba fiorente degna dei migliori racconti cavallereschi. Sul naso adunco portava un paio di occhialetti a mezzaluna, che non nascondevano del tutto la brillantezza dei suoi occhi azzurri. Albus Silente in persona.
«Metti pure via la bacchetta, Alastor» disse il mago, con voce tranquilla che tuttavia trasudava fermezza.
L'anziano Auror mugugnò qualcosa, ma accettò di eseguire l'ordine.
Il professor Silente, allora, si voltò a guardare Edmund, con quei suoi perforanti e indagatori occhi azzurro cielo. «Lasciateci pure soli: io e Edmund dobbiamo fare due chiacchiere» commentò, accennando ad un mezzo sorriso. Quando Malocchio, o Alastor o come diavolo si chiamasse, fece per dire qualcosa, Silente gli mise una mano sulla spalla; non ci furono bisogno di parole: l'altro borbottò scontento ma alla fine cedette.
Non appena furono rimasti soli, Silente si avvicinò a Edmund con un sorriso affabile. «Ti consiglio di sederti sul divano: hai un aspetto orribile».
Il ragazzo si lasciò cadere come un peso morto e si prese la testa tra le mani. Adesso che Silente era lì, non sapeva cosa dirgli. Perché aveva voluto vederlo a tutti i costi?
La sua mente ritornò a quel pomeriggio a Diagon Alley: poco prima di svenire aveva chiesto di incontrarsi con Silente. Ma perché?
Poi si ricordò: stava pensando a lui, in quegli istanti prima di accasciarsi sul marciapiede. Aveva immaginato di vedere un bambino entrare nel negozio di Olivander, un'allucinazione dovuta senza dubbio alla stanchezza. Non sapeva ancora dire se il bambino fosse lui da giovane o fosse un piccolo Voldemort, ma quella visione aveva scatenato una reazione a catena: si era chiesto come fosse stato Voldemort alla sua età, come fosse stato da bambino. Era come tutti gli altri o aveva già in sé qualcosa di malvagio? Aveva avuto una famiglia, fratelli o sorelle? Doveva aver frequentato Hogwarts: forse Silente avrebbe potuto dirgli qualcosa di lui.
Ma ciò che più lo preoccupava era di scoprire delle somiglianze tra se stesso e il giovane Voldemort, perché, se lui era praticamente un suo clone, che cosa gli avrebbe impedito di diventare malvagio a sua volta?
Mentre si struggeva in questi pensieri, Silente aveva fatto apparire una poltrona azzurra e si era seduto di fronte a lui.
Edmund alzò gli occhi sull'anziano mago e domandò con un filo disperato di voce: «Com'era lui da giovane?»
Fu certo di non aver alcun bisogno di specificare chi intendesse con quel “lui” perché, se davvero Silente l'aveva incontrato da ragazzo, non poteva non notare le somiglianze fisiche tra di loro.
L'uomo gli rivolse un sorriso tranquillo, ma che non riusciva a nascondere del tutto un certo distacco. «Che cosa ti preoccupa?» gli domandò.
E non ci fu bisogno di usare mezzi termini. «Di essere come lui» rispose immediato Edmund.
Silente gli riservò un sorriso più sincero e caloroso del precedente. «Tu non sei come lui» lo rassicurò.
«Com'era da giovane?» insistette Edmund, con un'urgenza tanto devastante da essere quasi dolorosa.
«Si chiamava Tom Orvoloson Riddle» cedette infine Silente. E cominciò a raccontare di quando l'aveva incontrato per la prima volta, a undici anni, di come si comportava il giovane Riddle a scuola, della sua disperata ricerca delle sue origini e della scoperta di essere figlio di un Babbano e al contempo discendente di Salazar Serpeverde attraverso la famiglia Gaunt. E infine di come avesse usato il suo immenso potenziale per il male.
Edmund si sentì male quando considerò tutte le somiglianze tra di loro: entrambi cresciuti in un orfanotrofio, senza sapere nulla dei propri genitori, entrambi estremamente dotati, entrambi apprezzati dai professori. L'ovvia conseguenza era solo una: il male e l'oscurità lo attendevano.
«Tu non sei come lui» fu l'assurda e incongruente conclusione del professor Silente.
«Le somiglianze... sono troppe!» replicò Edmund, ormai sull'orlo della disperazione. Se anche Voldemort non lo avesse mai trovato, se anche l'orrida maledizione che McFarren gli aveva imposto (quella di diventare un burattino senza volontà nelle mani del mago oscuro peggiore di tutti i tempi) non si fosse avverata, il suo destino era comunque segnato: il male era la sua attrazione fatale.
«Non consideri le differenze» gli suggerì Silente.
Edmund, stupidamente, pensò ai suoi occhi azzurri. Quelli non erano di Tom Riddle.. Erano di Melita e quando McFarren glieli aveva donati, si era augurato che Edmund ereditasse dalla bambina anche il cuore. Aveva davvero il cuore puro e innocente di Melita?
Fu Silente a rispondergli, commentando: «Tom Riddle non ha mai avuto amici: non conosceva l'amore».
Edmund si sentì improvvisamente invadere da un senso di calore e insieme di nostalgia. Pensò a Laughlin e Mairead, pensò ai ragazzi del FIE che, nonostante il suo tentativo di allontanarli trattandoli come stracci, non avevano smesso di stargli vicino. Lui aveva cercato di scacciarli, ma i suoi amici non l'avevano abbandonato. Si sentì uno schifo per come li aveva trattati, tuttavia non poté fare a meno di pensare che erano proprio loro a rendere la sua vita sopportabile: quando, quella mattina, aveva ripensato a Laughlin e Mairead si era sentito stranamente più tranquillo, nonostante l'orrore che aveva intorno.
Era davvero quello, era l'affetto che provava nei confronti dei suoi amici a renderlo tanto diverso da Tom Riddle?
Il professor Silente notò che le sue parole avevano instillato il dubbio in Edmund e ne approfittò per rivelargli il suo ultimo segreto: «Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità».
Fu in quel momento che Edmund si rivide sulla riva del lago del Trinity, a dodici anni, ad osservare Mairead che veniva trascinata a fondo dalle alghe carnivore. Si ricordava di essersi sentito onnipotente, perché la vita di Mairead stava nelle sue mani: avrebbe potuto salvarla o continuare a pensare solamente a se stesso e voltarle le spalle. Aveva deciso di aiutarla, perché gli era tornata in mente la frase del filosofo che portava il suo stesso nome: perché il male trionfi, è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione.
Ma lui aveva scelto e aveva agito. Aveva preso una decisione che Tom Riddle non avrebbe mai preso e da quella decisione era nata la sua amicizia con Mairead e Laughlin.
Ora aveva capito qual era la differenza tra di loro: lui era Edmund Burke e sapeva scegliere il bene perché conosceva l'amore.
E Edmund fu certo che, quella sera, la sua bacchetta di abete avrebbe risposto perfettamente ai comandi e lui sarebbe stato in grado di fare un ottimo Patronus.







Welcome back Edmund Burke!
Lo so di essere in ritardo di qualche giorno ma, come poteve vedere, questo è un capitolo bello farcito. Eddy finalmente sta prendendo in considerazione l'idea di non essere proprio un mostro malvagio... alla buon ora, direte voi!
Avevo bisogno che Edmund incontrasse Silente perché solo lui sapeva di Tom Riddle e volevo che Edmund conscesse il segreto del giovane Voldemort; al tempo stesso, avevo bisogno di mostrare come la bacchetta di Ed ha bisogno di propositi fermi, perché un punto debole glielo devo pur trovare a questo fanciullo, altrimenti che gusto c'è? Tronerà questa storia della bacchetta, fra un bel po' di tempo, ma mi serviva di introdurla già adesso. Ovviamente, le proprietà del legno di abete sono prese da Pottermore.
Infine, cominciano i contatto con il mondo anglosassone: e questo è solo l'inizio!
Prometto anche che nei prossimi capitoli ci sarà un po' di azione... un bel po' di azione, a dire la verità! Ma anche tante risate, perché il FIE (quasi) al completo scenderà in campo. Spasso assicurato con Faonteroy e Dedalus, promesso! ;)
Avrei tante cose da dire ma ho poco tempo per dirle, quindi lascio la parola ai vostri commenti... suvvia, non siamo mica qui a fare tutù per Mollicci! ^^
Nel frattempo, godetevi qualche immagine:
QUI una visione dell'allegro salotto di Grimmauld Place, con la sua adorabile tappezzeria;
QUI un'immagine di Tom Riddle (a 11 e a 16 anni) e di Edmund (a 12 e a 17 anni)... giusto per apprezzare un po' somiglianze e differenze!
QUI, infine, l'immagine del capitolo: Edmund (conciato un po' male) a Grimmauld Place con Malocchio, Arthur e Tonks.
Grazie a tutti voi per l'appoggio e l'affetto dimostratomi!
Ci vediamo, se tutto va bene, lunedì 11 marzo, nel pomeriggio con un altro super capitolo.
A presto,
Beatrix B.

   
 
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