Non
ce la faccio
Rea non andò
a scuola né il giorno dopo né quelli successivi. Sapeva benissimo che suo padre
sarebbe potuto benissimo andare all’istituto per parlare e non voleva ancora
vederlo.
Si era
instaurata nella stanza degli ospiti a casa di Fabio e lì studiava il caso e
come trovare un modo per smascherare Antonio. Ormai era quasi certa che fosse
lui il colpevole.
C’erano
troppi indizi che puntavano in quella direzione e anche andando a rigor di logica si poteva chiaramente capire che un bidello
come lui, sottopagato e probabilmente anche trattato male dal proprio datore di
lavoro, aveva tutti i moventi per cercare di arrotondare un po’ il salario con
lo spaccio di droga e, nel frattempo, distruggere la credibilità della scuola.
Chiaro e semplice.
“Io vado, Laura è già al piano di sotto che freme per partire.
Ci vediamo dopo, ok?” la salutò Fabio, dandole un lieve bacio sulle
labbra. Lei sorrise.
“D’accordo, quando rientrate avrete il pranzo pronto”
promise Rea.
Li guardò
uscire di casa battibeccanti, poi fu un attimo: Laura si voltò verso di lei con
uno sguardo inquietante negli occhi e lei si bloccò, paralizzata. Un secondo
dopo la bionda si era girata ed era salita in macchina.
Tornò in
camera e aprì il computer, cercando di mettere per iscritto i motivi per cui
dovevano darle l’autorizzazione a interrogare Antonio, poi le venne un dubbio.
La sera in cui Jason era uscito, Laura le aveva chiesto se voleva andare ad una
festa, però poi la festa non c’era stata ed Emma, come aveva purtroppo appreso,
era stata con suo padre, per cui perché chiederle di uscire con una scusa così
stupida?
Altra cosa:
negli ultimi tempi aveva notato che Laura spesso la scrutava con sguardo
indagatore, come se stesse cercando di capire cosa facesse. Non è che era
invischiata anche lei in quell’affare?
Si morse un
labbro: non era possibile che una diciannovenne spacciasse droga e rapisse
ragazzini in un liceo, che senso avrebbe avuto? Era lei che si faceva tanti
problemi per niente.
Tornò a
fissare il monitor, ma quell’idea non la abbandonava. C’era un solo modo per
togliersela di testa.
Emma aveva
sperato per una settimana che Rea andasse a scuola, ma non era stata esaudita.
Stava male, si sentiva una traditrice e una stronza per averla ferita, e quella
lontananza da Jason non la aiutava.
Non ce la
faceva proprio ad affrontare quella situazione da sola, era troppo difficile.
Una mattina,
alla fine, decise di fare festa. Non aveva proprio la concentrazione per stare
in classe.
Si nascose
nel parco vicino alla centrale di polizia, dove sapeva che Jason passava
spesso. Chissà se il lavoro che faceva era collegato con ciò.
Prese il
libro di matematica per studiare, ma già dopo cinque minuti si era messa a
fissare la strada sperando di vederlo. “Ma a chi
voglio darla a bere? Non sono qui perché non riuscivo a stare in classe, sono
qui perché mi manca” si disse sospirando.
Lo aveva
pensato ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da quando Rea aveva scoperto della
loro relazione e non aveva fatto altro che sperare e pregare affinché lui andasse
da lei a dirle che non voleva perderla. Ma non era successo e iniziava a
pensare che forse era stata tutta una sua fantasia, quella di una storia
d’amore tra di loro.
Alla fine,
lo vide uscire dalla centrale di polizia, ridendo con un poliziotto. Lo guardò
incuriosita e vide che lui tirava fuori una pistola dalla cintura (o, più
probabilmente, da una fodera attaccata alla cintura) e la mostrava all’altro,
che sorrideva e annuiva, per poi salutarlo.
Jason era un
poliziotto?
Il bisogno
di sapere cosa stesse facendo fu molto più forte dell’impulso di rimanere lì a
guardarlo mentre sospirava e le sue gambe si mossero da sole, portandola
davanti a lui. L’uomo sobbalzò e impallidì quando la vide.
“Tu lavori qui?” domandò Emma, capendo solo adesso
la sua allusione al servizio pubblico.
“Ehm, n-no, io… ecco… uff, sì, lavoro qui” rispose
lui, sospirando tristemente.
“Perché non me l’hai mai detto?”
Jason si
guardò intorno, poi la prese per un braccio.
“Andiamo via, ti spiegherò tutto a casa”
Dopo averle raccontato
la storia come aveva fatto con Fabio qualche settimana prima, lui si versò un
bicchiere di vodka e lo mandò giù tutto d’un fiato, sperando che gli passasse
quel senso di colpa che stava provando. Aveva messo anche lei al corrente della
loro copertura, il che significava esporre un’altra persona a dei seri
pericoli. Bel colpo.
“Mi basta sapere che tu stia attento, per il resto non ti
sarò d’intralcio” promise Emma, sorridendogli. Quanto gli era mancato
quel viso!
“Bene, perché Rea ha avuto a che fare con loro e ne è
uscita salva per miracolo” le disse.
La ragazza
annuì, poi si mise a fissare le sue mani strette a pugno sulle ginocchia. Erano
entrambi nervosi.
“Non è venuta a
scuola, non ho potuto provare a spiegarle la situazione” esordì la mora,
infine.
“Sì, me l’aspettavo. Venire a scuola significa avere la
paura che io possa arrivare a disturbarla, è troppo esposta lì” rispose
Jason, sedendosi sul divano accanto a lei.
“E poi vedrebbe me” aggiunse Emma.
“Ci odia” sussurrò l’uomo, disperato. Si mise una
mano sul viso, sentendo improvvisamente la mancanza della figlia, e la ragazza
lo accarezzò dolcemente.
“È solo un po’ confusa, ma sono certa che prima o poi
capirà. Però penso che rimanere separati in un momento come questo sia stupido”
ammise lei. Ecco, l’aveva detto, ora tutto stava a cosa le rispondeva.
Jason la
guardò attraverso le dita e comprese che aveva ragione. Che da solo non
riusciva ad affrontare tutto quello.
“Io senza di te non ce la faccio” gli confessò
Emma, avvicinandosi.
L’uomo le
prese il viso tra le mani, baciandola con trasporto, sentendosi subito meglio.
“Nemmeno io” ricambiò, stendendola sul divano. Si
mise sopra di lei e si perse nel suo corpo, senza pensare a niente.
Rea entrò in
camera di Laura solo un paio d’ore dopo, quando riuscì a trovare il coraggio
per farlo. Si sentiva una stupida a fare una cosa simile, era sicuramente
inutile: non c’era niente da cercare.
Guardò la
confusione che regnava sovrana in quella stanza e si mise a ridere, divertita.
“Ok, dove potrei cercare qualcosa anche se non so cosa?”
si chiese.
Si avvicinò
alla scrivania e spostò i libri che c’erano sopra, per poi aprire i cassetti e
controllare cosa c’era dentro. Niente, se non pile di fogli.
“Lo sapevo da sola che non c’era nulla” si disse
imbarazzata.
Si voltò e
fece per andarsene, ma i suoi occhi notarono una piccola scatola di cartone
nascosta sotto a una montagna informe di vestiti. Ormai che c’era, si disse.
La tirò
fuori da lì sotto, spolverandola un po’, e l’aprì.
“Oh santo…”
C’erano
almeno cinquanta diverse fotografie di lei che entrava e usciva dalla centrale
di polizia, che chiedeva a scuola dei fatti strani avvenuti in quei mesi, e
poi…
“Questo non è possibile” sussurrò.
“Divertente,
vero?” domandò una voce dietro di lei. Non fece in tempo a voltarsi che fu
tramortita da una botta alla nuca.
Sentì un
dolore atroce attraversarle la spina dorsale e poi fu il buio.