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Autore: Himenoshirotsuki    24/02/2013    29 recensioni
Il suo corpo era luce, la emanava come una stella nella volta celeste, i capelli simili a lingue di fiamma. Ledah guardò quell'anima splendente, mentre si faceva strada tra i rovi e le spine. In quel luogo opaco, a cavallo tra la realtà e il mondo dell'oltre, ogni suo passo era troppo corto, la sua voce non era sufficientemente forte perché lei si accorgesse che la stava febbrilmente rincorrendo. Per un tempo indistinto inseguì quelle tracce vermiglie, testimoni delle catene corporee che la tenevano ancorata a questo mondo. Poi lei si girò, incrociando lo sguardo disperato di Ledah, e in quell'istante egli capì: lei era il sole nell'inverno della sua anima, l'acqua che redimeva i suoi peccati, la terra che poteva definire casa. Lei era calore e fiamma bruciante. Lei era fuoco, fuoco nelle tenebre della sua esistenza.
Revisione completata
-Storia partecipante alla Challenge "L'ondata fantasy" indetta da _ovest_ su EFP-
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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Imprevisto

"Chi combatte con i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E se guarderai a lungo nell'abisso, l'abisso guardera dentro di te."
F. Nietzsche

La notte era scesa su Llanowar. Dai falò al centro del villaggio elfico danzavano delle spirali di fumo che si disperdevano nell'aria, mentre uno stuzzicante odore di cibo passava attraverso le finestre delle case per poi diffondersi tra gli alberi. Le voci gioiose dei bambini che giocavano a nascondino nella neve riempivano l'atmosfera di una quieta serenità e le madri e le donne più anziane si affannavano a intorno a bracieri e camini, dove la carne sfrigolava sul fuoco. 
Tutti erano tranquilli e al contempo una grande euforia serpeggiava tra gli abitanti della foresta. Non era né una ricorrenza particolare né tanto meno una festa, semplicemente celebravano la recente vittoria contro gli umani. Anzi, le vittorie: sia Edon che Mera erano state conquistate e l'esercito avversario annientato. Si sentivano meno spaventati ora che non dovevano più subire i costanti attacchi dei nemici e non erano più costretti a montare la guardia notte e giorno. 
Negli ultimi anni la guerra si era inasprita e non era passato un giorno in cui le urla di dolore di fratelli e sorelle non fossero risuonate nella foresta.
I guerrieri che stavano raccogliendo la legna da ardere vennero chiamati dalle mogli per la cena, così, avvolti in pesanti tuniche e coperti da folte pellicce, si avviarono verso le proprie case, dove si sedettero aspettando che venisse servita loro la razione di carne e verdure. In seguito, accorsero anche tutti gli altri che erano di pattuglia, attirati da quel delizioso profumo. Raccolti lì attorno al fuoco, i bambini ascoltavano le storie dei vecchi, leggende di antichi eroi ed epoche gloriose in cui elfi e umani esercitavano il potere con giustizia e magnanimità, epoche che loro non avevano mai vissuto.
Da lontano, su una sporgenza rocciosa immersa nel folto degli alberi, un'ombra li osservava in silenzio, beandosi delle loro voci, triste per non poter prendere parte al raduno. Si sistemò il pettorale in modo da coprire perfettamente il cuore, come se il suo dolore fosse stato visibile e desiderasse nasconderlo, celando finanche il battito sordo e disperato del cuore. Tuttavia, ciò che tentava di seppellire brillava nei suoi occhi verde muschio, carichi di rimorso, solitudine e amarezza.
Continuando a scrutare quelle facce felici, appoggiò la faretra ai suoi piedi, deciso a rilassarsi per quei pochi attimi di tregua che gli dei avevano deciso di concedere al popolo di Llanowar.
Il suo nome era Ledah, ma per quelli che ora si scaldavano attorno al fuoco lui non era più nulla, solo un fantasma che si aggirava ai margini delle loro esistenze, inconsistente, privo di voce e di odore. Anche lui un tempo era appartenuto a quella gente ed era sceso al loro fianco sui campi di battaglia facendo strage di umani, falciandoli sotto i colpi delle sue daghe e trafiggendoli a morte con le sue frecce. Era stato il più bravo tra gli arcieri. Certo, allora il suo plotone era considerato il più temibile, ma lui possedeva comunque un grande talento, superiore a quello di chiunque altro. 
Era nato quando la guerra già imperversava e prima di rendersene conto aveva già abbracciato l'arte di uccidere, come se fosse naturale mietere vite, come se facesse parte di lui, come se fosse normale quanto respirare e nutrirsi; ed era giusto, necessario, indispensabile per proteggere i suoi fratelli. Assieme a molti altri aveva giurato di vegliare sul suo popolo e anche ora, nonostante fosse stato rinnegato, continuava a combattere per loro, sperando un giorno di venire perdonato per i propri errori e ottenere così la possibilità di spiegare cosa fosse successo veramente. 
Un sorriso amaro gli si dipinse sul volto: nonostante fosse passato così tanto tempo, lo credeva ancora possibile.
”Illuso. Non ti hanno accettato sul serio sin dal principio, perché mai dovrebbero riaccoglierti adesso, dopo il male che hai fatto?” 
Eppure, guardando quei visi così distesi e assaporando da lontano la gioia che li illuminava, realizzò che avrebbe davvero voluto tornare. 
Rimase lì per altri minuti, in immobile e sospesa contemplazione, mentre le risate dei piccoli lo cullavano elargendo alle ferite del suo animo un po' di sollievo, e al medesimo tempo si infilzavano nel suo cuore come chiodi sotto i colpi di un martello brandito da un aguzzino particolarmente sadico. Si sentiva spezzato a metà, in bilico su uno strapiombo e in costante, precario equilibrio, impossibilitato a sbilanciarsi da un lato piuttosto che dall'altro per il terrore di cadere giù, in quella voragine buia sotto di sé che desiderava solo divorarlo. Senza più una casa, amici, affetto, famiglia, eccetto che per una sorella lontana, la tetra oscurità in agguato dentro di lui avanzava piano piano, passo dopo passo, inesorabile, camuffandosi come la più abile delle spie, in attesa del momento giusto per imprigionarlo per sempre.
A un tratto, un lieve rumore lo mise in allerta. Le sue orecchie guizzarono appena e gli occhi saettarono febbrili da un ramo all'altro, in cerca della fonte. Abbandonò la sporgenza su cui si era appollaiato e iniziò ad arrampicarsi su un albero, senza fare alcun rumore e senza curarsi della neve che gli si appiccicava ai palmi, gelida e bianca. Raggiunta la sommità, si aggrappò saldamente a delle frasche e aguzzò lo vista in direzione dell'accampamento umano.
Strano che ci fosse un così gran trambusto, dato che di norma a quell'ora scattava il coprifuoco. Da quando gli uomini avevano perso Edon e Mera, non avevano più cercato di attaccare Llanowar. Aveva creduto che il morale dei soldati fosse talmente a terra da preferire una strategia di difesa invece che tornare all'attacco, stanchi e prostrati dai recenti scontri, terminati con la loro sconfitta. 
Ma allora perché l'aria vibrava, come pervasa da una sorta di elettricità? Perché la foresta bisbigliava satura di tensione e gli animali erano così silenziosi?
Guardò meglio, concentrandosi sulle ombre che si muovevano veloci fra i tendoni. 
Se pensavano di poterli prendere di sorpresa, si sbagliavano di grosso. Si sarebbero fatti trovare preparati. D'altronde, era risaputo che era quasi impossibile cogliere un elfo alla sprovvista. 
Si sedette su un ramo abbastanza robusto da sorreggere il suo peso, obbligandosi a ignorare il brivido di freddo che gli risalì la spina dorsale, e rivolse l'attenzione alla falce di luna che brillava nel cielo limpido punteggiato di stelle. Tutto pareva quieto, fin troppo.
“Ho uno strano presentimento, come se stesse per accadere un qualcosa di veramente terribile.” 
Sospirò stanco, scacciando inutili pensieri. Si impose di restare calmo e di non lasciar libera la fantasia. In più era esausto, quindi era più che probabile che fosse solo colpa della fatica, che gli giocava brutti scherzi e alterava le sue percezioni. Dopo altri minuti trascorsi a convincersi che tutto era come doveva essere e che il peggio era passato - sebbene una parte di sé ancora si ostinasse a lanciargli moniti allarmanti - chiuse gli occhi, abbandonò la schiena sul tronco e scivolò in un sonno inquieto.
A strapparlo dall'oblio fu un rumore assordante, che gli rimbombò nel petto e nelle ossa. Sussultò e si alzò di scatto, rischiando di cadere sfracellato al suolo. Ma all'ultimo secondo riuscì ad aggrapparsi ad un ramo e i suoi polmoni rilasciarono un sospiro di sollievo, che però durò giusto un battito di ciglia. Si affacciò oltre il fogliame e scrutò verso l'orizzonte, oltre le cime innevate degli alberi, dove una linea compatta e scura lentamente si ispessiva, delineandosi fin nei più preoccupanti dettagli. 
In poco tempo la pianura di Rashar, antistante Llanowar, fu invasa dal brillio di centinaia di migliaia di spade e lance, sulle quali si riflettevano i raggi del sole.
L'esercito degli umani stava avanzando deciso con a capo due Generali e sembrava in procinto di attaccarli.
“Non ci credo. Pensano davvero di poter penetrare nella foresta? Stupidi.” 
Ghignò, scalò l'albero agile e leggero, attento a non scivolare nulla neve, e atterrò di nuovo sulla roccia che lo aveva ospitato la sera prima, al fianco della quale aveva lasciato la faretra. La raccolse e se la riallacciò alla cintura, poi imbracciò l'arco con gesti esperti, conscio dell'orda che si stava avvicinando velocemente ai loro confini, mentre dalle case del villaggio uscivano i guerrieri, già pronti allo scontro, di sicuro allertati dal gran baccano della marcia dell'esercito avversario. 
Non avrebbe mai compreso gli esseri umani, così teatrali e incauti da sferrare un attacco frontale agli elfi annunciandosi in pompa magna, come se anelassero in modo malato a diventare i bersagli delle sue frecce. Non che a lui dispiacesse, beninteso. Se proprio ci tenevano a morire come mosche sotto una raffica di dardi, chi era lui per non accontentarli? Però se avesse continuato ad elaborare strategie di quel genere, non sarebbero sopravvissuti a lungo davvero, non contro l'armata elfica almeno, di certo più prudente, silenziosa e organizzata.
All'ordine dei Generali, i nemici si gettarono alla carica. 
Gli elfi, schierati al riparo nella fitta vegetazione, aspettarono con espressione imperturbabile, quasi volessero far credere agli altri di essere stati colti impreparati e di non avere idea di come procedere nella difesa. Poi dalle profondità della foresta, in maniera del tutto inattesa, uscirono dei giganteschi lupi dal pelo folto e irsuto, con occhi lampeggianti di furia, che si scagliarono contro i soldati dell'avanguardia sfondando la barriera di lance e scudi con selvaggia ferocia. Azzannarono direttamente alla gola i cavalieri che tentarono di difendersi, oppure puntarono alle caviglie per farli sbilanciare e cadere nella polvere, e quando i primi corpi giacquero a terra privi di vita le armate elfiche partirono all'attacco. Grida di morte si alzarono da entrambe le parti. 
Un sorriso malvagio si dipinse sul volto di Ledah, le iridi verdi animate da una luce sinistra e assetata di sangue. 
“Oggi ci sarà da divertirsi.”
Si inoltrò tra gli alberi diretto verso la battaglia nell'attimo preciso in cui i due eserciti cozzarono col fragore di un tuono e, muovendosi agilmente, giunse in poco tempo su uno stretto sentiero nascosto nella boscaglia. Udì lo stridio metallico delle spade, il suono cavo provocato dal tonfo delle armi sugli scudi, gli sbuffi affaticati, i gemiti, le urla agguerrite, e aumentò il ritmo della corsa con un obiettivo ben chiaro nella mente. Quando fu abbastanza vicino al campo, in una posizione non eccessivamente esposta, si arrampicò nuovamente su un tronco e si sedette a cavalcioni di uno spesso ramo, dal momento che dall'alto godeva della visuale perfetta per compiere il suo lavoro: vide elfi e umani che combattevano con violenza, senza esclusione di colpi, le facce deformate in maschere grottesche di sangue e rabbia. 
Protese l'arco e incoccò. La corda si tese. Prese la mira, i muscoli già pronti a rilasciare la tensione. Lo sguardo gli cadde su un guerriero piuttosto giovane che duellava a poca distanza da lui, armato di un pesante spadone. Questi stava per sferrare un colpo mortale ad uno dei suoi fratelli che annaspava ai suoi piedi con il viso sporco di fango, ma Ledah era ben deciso a non lasciarglielo fare. La sua freccia fendette l'aria e, pochi secondi dopo, l'umano crollò a terra trafitto dritto al cuore.
“Troppo facile.”
Schioccò la lingua deluso e perlustrò il paesaggio intorno a sé, in cerca di una sfida che gli facesse ribollire il sangue nelle vene. 
Ed ecco che in mezzo alla bolgia scorse un soldato rivestito da un'armatura lucente piena di fregi e sopra di essa un mantello arancione che svolazzava sulla schiena larga e possente. In mano impugnava una spada preziosa e, grazie alla sua vista sviluppata, Ledah notò la figura di un leone campeggiare sull'elsa. Già da lontano quell'uomo emanava un'aura regale e fiera, quella di un vero veterano che era sopravvissuto a innumerevoli massacri, e di certo era proprio uno dei due Generali che aveva scorto in testa all'esercito, ma poco importava. Quell'impressione di apparente valore e invincibilità non fece che stuzzicarlo, alimentando la sua voglia di vederlo morto. Lo osservò ancora con i suoi occhi muschiati, poi incoccò e scoccò rapido. Una leggera raffica di vento gli scompigliò i lunghi capelli neri trattenuti in una coda bassa e una ciocca gli finì sulla guancia. Il dardo attraversò sibilando la distanza che lo separava nel tempo di un respiro e infine si conficcò nel punto esatto che Ledah aveva pensato di colpire. 
Il corpo dell'uomo venne scosso da un sussulto e i suoi occhi si sbarrarono di genuina sorpresa. Sollevò una mano per portarla a toccarsi la fronte, ma prima che potesse raggiungerla si accasciò al suolo esanime, mentre un rivolo cremisi colava fuori dal foro nel suo cranio. 
Ledah girò la testa a destra e a sinistra, cercando un'altra vittima, quando un uomo calamitò la sua attenzione: come l'altro, pure questo incuteva soggezione, segno evidente che si trattava del secondo capo. Indossava un lungo mantello verde sopra l'armatura di ottima fattura e brandiva una spada con l'effige di un drago. Tese nuovamente l'arco, umettandosi le labbra per tenere a bada l'eccitazione. La freccia non mancò il bersaglio e trafisse la spalla del Generale, ma l'uomo non cedette, continuando la sua avanzata nelle fila elfiche, falciando i nemici con la lama affilata. Pareva quasi che il colpo non lo avesse scalfito, né nell'animo, né nella concentrazione o nella corazza di acciaio lucido, che gli proteggeva la carne morbida e vulnerabile. 
Quello scandagliò il marasma che lo circondava con estrema minuzia, anche se ci impiegò solo pochi istanti, fino a puntare gli occhi collerici sull'arciere, accovacciato tranquillo sul suo ramo al limitare della foresta di Llanowar, con ancora il braccio proteso innanzi a sé e la mano che impugnava l'arco. Ledah si avvide che era troppo tardi per nascondersi o negare di essere stato lui a scoccare. 
Senza distogliere gli occhi da lui, il Cavaliere del Drago cominciò a marciare nella sua direzione facendosi largo a colpi di spada, lo sguardo fiero e determinato.
“Cosa accidenti crede di fare? Ha del fegato, però.” 
Schioccò di nuovo la lingua, amareggiato per non essere riuscito a ucciderlo subito. Ma a sua discolpa si doveva dire che quel guerriero si era mosso all'ultimo istante in una traiettoria che non aveva considerato. 
Più in basso la terra e l'erba erano già ricoperti di cadaveri, e il nevischio che scendeva pigro dal cielo plumbeo, mescolandosi al sangue, rendeva il suolo fradicio e scivoloso. Spade, lance e scudi cozzavano senza sosta, coprendo ogni altro suono, e nuguli di frecce imbrattavano il cielo come tante minuscole macchioline nere in perpetuo movimento. Gli umani si gettavano contro gli elfi con odio, faticando però a penetrare quella selva di alberi e lame. 
Con il braccio dolorante e il sangue che gli imbrattava l'armatura, Felther arrivò a pochi metri dall'albero su cui era rifugiato Ledah, ma prima che potesse pensare di sferrare un qualunque attacco un soldato elfico gli si parò davanti, puntandogli la lancia alla gola. Il Generale lo aggirò con grazia sorprendente, per poi staccargli il braccio destro in un unico, poderoso fendente. A quel punto in altro elfo sbucato fuori dal nulla lo caricò impugnando una freccia come se fosse un pugnale. Non appena fu a meno di un braccio, il Cavaliere gli trafisse il torace, affondando la spada fino quasi alla guardia. Si voltò poi verso Ledah con un sorriso spavaldo, alzando il corpo del nemico a mo' di scudo, mentre le due frecce scagliate dall'abile arciere si conficcavano nel cadavere. A un tratto, un lancinante dolore alla spalla sana pervase il Generale, che si ritrovò a boccheggiare incredulo. Abbassò lo sguardo e notò che un terzo dardo aveva trapassato le carni del suo scudo improvvisato fino a penetrare oltre l'acciaio della propria armatura. L'arma gli scivolò via di mano, lasciandolo completamente scoperto e inerme. In quel momento per Felther il tempo sembrò rallentare fin quasi a fermarsi e il passato e il presente cessarono di esistere, portando via con loro la paura di morire e la sensazione di avere un corpo. Infine altre tre frecce si piantarono nel suo petto e il coraggioso Cavaliere del Drago cadde sulle ginocchia, gli occhi azzurri rivolti verso il cielo. Annaspò in cerca d'aria, ma dalla sua bocca fuoriuscirono rivoli cremisi. Posò per l'ultima volta lo sguardo su quell'abile arciere che lo aveva sconfitto, poi si accasciò al suolo senza dire una parola, cadavere tra cadaveri.
Ledah, indifferente, continuò imperterrito a mietere vittime tra i nemici, quando inaspettatamente avvertì uno strano odore, stonato, del tutto fuori luogo in un contesto simile e soprattutto in presenza della neve.
“Ma cosa...? Cos'è che sta bruciando?” 
Un pensiero lo folgorò mozzandogli il fiato. Impallidì e puntò le iridi verdi in un punto indefinito. 
“Aspetta... i Generali degli umani sono tre, non due...” 
Un brivido gli corse lungo la schiena e fece fatica a trattenere un grido. 
Dall'altro lato della foresta si alzò presto un'enorme nube di fumo nero, che ammantò le cime degli alberi e riempì l'aria di un tanfo insopportabile. Anche altri elfi se ne accorsero e allarmati si misero a correre a perdifiato, battendo in ritirata. 
“Dannazione! Hanno dato fuoco alla foresta!” 
Ledah saltò giù dall'albero e li seguì tenendosi a debita distanza. 
Alle sue spalle, la battaglia continuava a infuriare, le urla della sua gente arrivavano alle sue orecchie. Vide uno degli umani perforare il torace di un elfo, mentre alla sua sinistra il corpo di un'arciera si accasciava a terra, il cranio spaccato a metà da un colpo d'ascia. Strinse con rabbia l'arco, accelerando ulteriormente, con il cuore che forte gli batteva nel petto. 
Capì che era il loro piano sin dall'inizio. L'attacco frontale era solo un diversivo per dividere le forze. Se non fossero riusciti a fermarli in tempo, Llanowar sarebbe caduta.
Gli animali si precipitarono al riparo nelle loro tane, i mastodontici lupi loro alleati si gettarono alle calcagna dei guerrieri elfici per aiutarli e tutto intorno si scatenò il caos. 
Sopra la sua testa uno stormo di corvi si alzò in volo, spaventati dall'incendio, anche se quella zona era ancora sicura. Ma per quanto lo sarebbe stata? 
Il cattivo presentimento della sera prima tornò a gravargli sull'animo e si pentì di non aver dato ascolto al proprio istinto, che fino ad allora non lo aveva mai tradito. 
Chiuse gli occhi concentrandosi, cercando sgusciare il più rapidamente possibile attraverso la fitta vegetazione. 
Da ovest il forte vento trasportava l'odore di legna bruciata, ma dal cuore della foresta Ledah percepiva un'enorme quantità di potere magico. Ipotizzò che gli Anziani, i più saggi fra gli elfi, stessero elaborando un incantesimo per placare le fiamme, ma non si soffermò a riflettere troppo. Ora la priorità era un'altra. 
Riprese la sua corsa con addosso una nuova inquietudine. Man mano che avanzava, il terreno si faceva sempre più arido e l'aria sempre più calda, finché davanti a lui non si stagliò un paesaggio divorato dal fuoco, che si innalzava oltre le sommità degli alberi lambendo un cielo grigio come la cenere. In mezzo a quell'inferno si era accesa un'altra battaglia: da una parte un manipolo di forse duecento uomini armati combatteva furiosamente cercando di aprirsi un varco, dall'altra c'erano gli elfi, che, assieme ai fratelli che conoscevano la magia, tentavano disperatamente di spegnere le fiamme e di respingere l'assedio. Ma l'acqua evocata dalle loro arcane parole non riusciva a fermare le lingue di fuoco inarrestabili che si stavano propagando ovunque.
Ledah incendiò una freccia e, rimanendo lontano, iniziò a uccidere a uno a uno tutti gli umani che poteva. 
Il calore diventò sempre più insopportabile e il sudore cominciò a colargli in piccole stille salate sulla fronte e sugli occhi, ma lui non ponderò nemmeno per un attimo di arrendersi, rifiutandosi persino di prestare attenzione alle dolorose piaghe che gli si stavano aprendo sulle mani, mentre l'aria diventava sempre più irrespirabile. Intanto le spade degli altri elfi che erano accorsi insieme a lui tagliavano, recidevano, squarciavano e grondavano sangue, bagnando le radici riarse degli alberi. 
Al centro della strage, soltanto uno tra gli umani, una donna, continuava a combattere senza fermarsi, incurante delle fiamme e della desolazione che aveva intorno. I soldati elfici la attaccavano da ogni parte, ma nessuna delle loro lame riusciva anche solo a sfiorarla. 
Ledah la osservò: indossava una semplice armatura leggera, i lunghi capelli del colore delle braci le ondeggiavano attorno in una danza ipnotica ad ogni colpo di spada. Si muoveva con una grazia che non aveva mai visto, assorta nel duello come in un frenetico ballo. Incoccò una freccia e mirò alla testa, quando la sensazione di angoscia di poco prima gli ostruì la gola: l'energia che aveva percepito prima stava crescendo e continuava a scaturire a ondate dal cuore di Llanowar.
Un ultimo urlo interruppe i suoi pensieri: la guerriera dai capelli rossi aveva ucciso tutti gli elfi che l'avevano attaccata e ora si ergeva trionfante sopra i loro corpi. Prontamente, Ledah scagliò il dardo, ma lei si voltò fulminea, sin troppo rapida per essere umana, e con un fendente lo tagliò perfettamente a metà. Dopodiché, posò il suo sguardo vacuo su di lui e l'arciere notò che quegli occhi erano bianchi, vuoti, ciechi. 
Improvvisamente i lineamenti della ragazza si contrassero in una smorfia sbigottita e la bocca si dischiuse leggermente, come sul punto di esalare un'esclamazione. Una luce strana attraversò quelle iridi chiare, veloce come un lampo, tanto veloce da far dubitare a Ledah di aver effettivamente visto qualcosa. Poi tutto tornò alla normalità e la osservò riassestarsi, pronta a combattere.
Un terzo brivido lo scosse da capo a piedi e non seppe spiegarsi perché d'un tratto provasse soggezione di fronte alla sconosciuta, insieme ad uno strano disagio misto al desiderio di fuggire. 
Cominciò a indietreggiare, intimorito dall'aura austera e dall'espressione algida del terzo Generale delle truppe umane. 
La guerriera avanzò come se lo vedesse perfettamente, l'elsa della spada che pendeva dalla sua mano e un'aria indecifrabile. Le fiamme si riflessero sull'acciaio dell'armatura e inondarono di bagliori rossastri l'emblema di un lupo inciso sul pettorale: era lei, la Morte Bianca, Airis Lullabyon, Cavaliere del Lupo. 
“Allora è vero che è cieca!” 
Una voce calma e pacata ruppe il silenzio. 
- Ti offro due possibilità, elfo: puoi tornare da dove sei venuto, incappare nei miei soldati e farti ammazzare, oppure mi affronti e muori comunque. - sorrise divertita, - A te la scelta. -
- Morire per mano dei tuoi sarebbe troppo umiliante, Generale. Preferisco portarti nella tomba con me. - rispose Ledah, ostentando una spavalderia fasulla in contrasto con la tensione e la paura che gli annodavano lo stomaco.
Tuttavia, senza esitare si liberò dell'arco e sguainò le daghe, gettandosi all'attacco. Sgusciò di lato e scattò in avanti, tentando un affondo al ventre. Airis attese finché non fu abbastanza vicina per parare il colpo, e dall'urto delle due spade scaturirono delle scintille. 
- Tutto qui, elfo? - 
Procedette subito al contrattacco, ma Ledah si allontanò prima che la lunga lama violasse le sue carni.
- Agile, - constatò l'umana riprendendo fiato, - ma non abbastanza. -
Si scagliò contro di lui, menando un fendente frontale. Ledah scattò veloce indietro e uno sfrigolio metallico vibrò nell'aria satura di fumo. Quando fu a debita distanza, l'elfo si portò la mano al cuore, dove la lama della guerriera aveva scavato un profondo solco nel freddo acciaio del pettorale.
“Come fa a combattere così bene? È cieca, dannazione!” 
Roteò le daghe, imprecando, e le girò attorno silenzioso, sforzandosi di trattenere anche il respiro per non rivelarle la sua posizione. Cercò di cogliere una falla nella sua difesa, la studiò con attenzione, analizzò la sua postura, i muscoli appena visibili sotto la corazza; esaminò pure il ritmo del suo respiro, che era regolare e calmo, come se non fosse minimamente spaventata da lui, conscia di essere più forte. Però, nonostante fosse sicuro di non stare provocando alcun rumore, Airis lo seguì lo stesso con lo sguardo vuoto, la spada abbassata fingendo riposo.
“Che arroganza. Non si è messa nemmeno in posizione difensiva.”
Camminò sempre più piano, rallentò e infine si arrestò. Trattenne il fiato e a un tratto fu come se avesse cessato di esistere. Non appena gli parve di cogliere un lampo di smarrimento in quelle iridi opache, partì in pesante carica, vibrando un colpo al ventre. La guerriera, contro ogni previsione, si riprese in fretta e fece scivolare la lama sulla sua, costringendolo ad abbassare la guardia, e allora la punta della spada gli perforò lo spallaccio, penetrando nelle carni.
- La tua avanzata finisce qui. - sibilò Airis vittoriosa.
Con l'elsa lo colpì al volto, scaraventandolo a terra. L'impatto col suolo fu talmente violento che l'elfo perse una delle due daghe. Si rialzò subito, prima che un affondo potesse raggiungere il suo cuore, e con uno sgambetto la fece cadere, per poi bloccarla. Con un ghigno di trionfo sulle labbra, le puntò la lama alla gola. 
Airis rimase immobile per alcuni secondi e nell'attimo stesso in cui Ledah ritirò la daga per affondare nel collo di lei, lo colpì violentemente alla tempia con l'elsa della spada. L'arciere istintivamente lasciò cadere anche l'altra lama e indietreggiò, ma il Cavaliere gli fu subito addosso. Gli assestò un altro colpo deciso alla spalla e un suono di ossa che si spezzano lo raggelò. Un dolore acuto pervase l'elfo e il braccio destro si adagiò inerte al suo fianco. 
“Dannazione...”
Non fece in tempo a finire di pensarlo, che un altro calcio gli venne sferrato alla bocca dello stomaco e poi un altro e un altro ancora, finché l'ultimo lo scagliò contro un'enorme masso. Ledah tentò di rialzarsi, ma i muscoli doloranti non rispondevano ai suoi comandi. Airis avanzò fino a lui, la determinazione dipinta sul viso dai lineamenti dolci. Quando furono l'uno di fronte all'altra, con un gesto brusco strappò gli strappò il pettorale e poggiò la spada al centro del suo torace. Tuttavia, la lama non trapassò mai il cuore dell'elfo, perché all'improvviso nella foresta piombò un silenzio surreale, elettrico, che fece venire a entrambi la pelle d'oca. 
“Qualcosa sta per accadere.”
Non seppero di averlo realizzato in contemporanea, ma servì a poco.
Un fischio acuto squarciò l'aria e si diffuse per tutta Llanowar e annientando qualsiasi altro suono. 
Dopodiché la luce li avvolse.

 

  
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