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Autore: LawrenceTwosomeTime    25/02/2013    1 recensioni
Un po' di tempo fa scrissi un romanzo breve intitolato "Le mie vacanze al mare": parlava di sole, di mare e di speranza, anche se a una prima occhiata non sembrava. DreamNini - che sottoscrivo, da molto tempo legge i miei lavori con infinita pazienza e sincero interesse - mi suggerì di realizzare una sua versione speculare. Ora, non ho scritto un altro romanzo breve, perché la portata della storia che intendevo realizzare non era così ampia: si tratta di un racconto di medie dimensioni, suddiviso in tre microcapitoli, e parla del freddo, della disperazione e delle mie personalissime turbe (perciò siete avvertiti). Il tema dell'incubo "reale" alla maniera di Kafka (non che voglia fare paragoni!) ritorna in molte delle mie produzioni, e questa è una delle tante; solo, è forse la più personale e la più nostalgica. Si, ho nostalgia delle mie paure infantili. Detto questo, beh, mi sa che è più lunga la descrizione della storia in sé. Un grazie a DreamNini.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quel mattino ero di buon umore. Decisamente di ottimo umore.
Erano le cinque antimeridiane, il primo dell’anno per l’esattezza. Rincasavo dopo una nottata passata a fare festa, con tutta probabilità una delle migliori della mia vita - e non lo dico per indorare l’incipit di questa storia, era così e basta.
Non mi soffermerò sui particolari, sarebbe puerile. Diciamo che avevo riscoperto il calore umano e la gioia di vivere. D'accordo, c'era stato un pelatone molesto che aveva rischiato di rovinare l'atmosfera, ma ce n'eravamo liberati in grande stile.

Non appena misi piede sul pianerottolo capii che qualcosa non andava. Il cane dei vicini non abbaiava, tanto per cominciare. Quel piccolo bastardo petulante riempiva l’ingresso di casino non appena qualcuno muoveva una paglia, che fosse Natale, Capodanno o Pasqua; l’avevo soprannominato scherzosamente Cerberus. L’avevo fatto in cattiva fede, perché quella bestia era malvagia e la sua padrona maliziosa. Ma non divaghiamo.

C’era un silenzio assoluto, e la cosa non avrebbe dovuto suonare strana – perdonate il gioco di parole – dato che era appena trascorsa la notte di Capodanno. Reduci dai baccanali, i tiratardi si stavano sicuramente grattando la pancia in una giungla di coperte rivoltate o nelle loro automobili puzzolenti o saldati a qualche panchina del centro città.
Salii la prima rampa con tutta una serie di presentimenti indefiniti legati a perdite di gas, incursioni ladresche e chissà che diavolo.

“Diavolo”

In effetti, la mia pur prolifica mente non avrebbe mai potuto immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco.
Dopo la prima rampa c’era un altro salone. Lo stesso salone in cui ero entrato una manciata di secondi fa, a cui faceva seguito un'altra rampa di scale. Ma questo sembrava abbandonato da anni.
Liane polverose pendevano dalla travatura del soffitto. Lastre di metallo ondulato e rugginoso erano sparpagliate a casaccio sul pavimento, le piastrelle rosse indistinguibili da quelle bianche.
In un angolo, una bestia morta più simile a una scultura moderna che a un animale giaceva, apparentemente imbalsamata, sul fianco. Imbalsamata male.

"Cerberus?"
Nessuna risposta.

Mi chiesi se non avevo bevuto troppo. Forse mi ero drogato e non me lo ricordavo. No. L’alcool non mi aveva mai fatto di questi scherzi.

Salii di nuovo la rampa con il cuore in gola.

Sbucai in un vicolo alto e stretto, ammantato da una foschia cinerea. L’aria sapeva di palude e fognature intasate. Mi misi a correre. La calle sembrava infinita.
Le pareti cominciarono a trasudare una melassa densa e rosso scuro, alcuni mattoni traballarono e presero a staccarsi. Poi i muri iniziarono a stringersi. Si divoravano la pavimentazione, in basso, e la luce di un pallido sole invernale, in alto.
In pochi secondi immaginai la mia morte per mano di un’entità malevola e sconosciuta, la mia morte fisica e spirituale. Sarei spirato in un modo lento e orribile, e non avrei nemmeno saputo con esattezza il perché.
Poi avvistai una fenditura nella parete di sinistra. Mi ci infilai nell’esatto momento in cui i muri si toccavano con uno schiocco soddisfatto, come le fauci di un serpente che ingoia un ratto.

Ero in una stanza da bagno. L’illuminazione era fioca e giallastra, ma comunque sufficiente per vedere una vasca e qualcosa, qualcosa senza capelli, dentro la vasca, che respirava. Il rubinetto aperto singhiozzava grumi di fango che finivano per traboccare e dividersi in tante venature squadrate sul pavimento. La cosa aveva un asciugamano nero sul volto. Sembrava canticchiare. L’odore di incenso cominciò a insinuarsi nelle mie narici, provocandomi dei conati.

Spalancai con forza il pesante uscio di legno e fuggii per un viottolo di campagna. Intorno a me, sotto al cielo bianco, si estendeva una prateria sconfinata; un nuvolone verde deformava gli alberi e le case sparpagliate alla rinfusa.
L’erba era alta quasi quanto me, al suo interno sgambettavano delle sagome nere e curve. Ombre a sei zampe. Lasciavano dietro di sé una cacofonia assordante, come se il vento si strappasse al loro passaggio.
Pensate al rumore che produce una zanzara, solo centuplicato.

Individuai, poco al di là della fine del sentiero, un santuario votivo simile a un tempietto greco.
Raggiunsi la facciata con il cuore in gola. Stampigliate sul colonnato campeggiavano delle bruciature che ricordavano vagamente dei volti; pensai ai monoliti dell’Isola di Pasqua. Tratti tribali, essenziali, feroci. Un’opera strappata dal caos della materia informe, e non certo grazie alla mano di un artista, bensì al fuoco.

Non vidi altra soluzione che entrare. Dentro era buio pesto.

Una scintilla rossa balenò da qualche parte, seguita da un rumore liquido di risucchio, quello che si sente quando sorbiamo una bibita con la cannuccia.
Poi una serie di pannelli rotondi dotati di una cupa fosforescenza sanguigna si materializzarono alle estremità del buio. Sembravano come tappeti di pelle conciata, fatta a brandelli e poi ricucita insieme. Erano solo degli addobbi senza vita, dei macabri festoni privi di coscienza, eppure non potei fare a meno di sentirmi giudicato. Si espansero, simili a bolle di sapone, e perdettero gradatamente la loro luce malata, finché le pareti e il soffitto non furono fatti di carne.
Allora la terra mi mancò da sotto i piedi e caddi.

  
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