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Autore: Love_in_London_night    27/02/2013    7 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 6

Lost child

C’era qualcosa nella sera che la calmava. Le auto non correvano ma viaggiavano inghiottite dalla notte, i rumori si spegnevano per lasciare il posto a silenziose aspettative, i movimenti nelle case animavano una normalità costituita da momenti semplici e intimi.
Pemberley aveva bisogno della sua solita routine prima di affrontare la telefonata con Rhys. Aveva accompagnato a letto Naive, garantendole un sonno riposante e anticipato, visto l’orario in cui l’aveva spinta in  camera, fortuna volle che la giornata era stata stancante anche per la piccola.
Le piaceva accarezzarle la testa, metterle i capelli dietro le orecchie e infine spostarli dietro la schiena, erano gesti che non sapeva quando sarebbero venuti a mancare, perché Naive cresceva in fretta; nemmeno si ricordava l’ultima volta in cui l’aveva presa in braccio,  e ora era una bambina alta e di dieci anni e l’anno prossimo avrebbe iniziato le medie.
Quando avrebbe smesso di dirle tutto? Quando le avrebbe taciuto il primo bacio o la prima cotta?
Quando sarebbe diventata solo un genitore qualunque e non la persona a cui fare riferimento?
Le aveva donato i suoi anni migliori Pemberley, e ora che iniziava a sentire il peso del tempo sulle proprie spalle; Naive stava cominciando ad abbandonarla. Si sentiva persa. Arrabbiata no di certo, sapeva bene che i figli non erano fatti per stare sempre con i genitori, ma le sembrava di stare perdendo un po’ di Naive in modo costante, ogni giorno, inesorabilmente.
«Mamma, Rhys è proprio il principe azzurro». Lo disse vergognandosi, come se notare la bellezza dell’amico della madre fosse un peccato. Eppure era davvero bello, con quei capelli biondi e gli occhi chiari. La sua altezza era innegabile e il vestito faceva di lui un principe agli occhi di una bambina a cui piaceva sognare e vedere il bello in ogni cosa.
Fu Pemberley a trovarsi spiazzata davanti a una simile affermazione.
«Già, la descrizione gli calza a pennello». Almeno quella fisica.
Nel rispondere cercò di sorridere, fingendo di assecondare il parere della figlia.
Non aveva il pennacchio e la calzamaglia, era difficoltoso immaginarlo con simili indumenti e in un’immagine così ingenua e pura; il cavallo bianco nella sua mente venne subito sostituito dalla costosa macchina che aveva guidato durante la loro prima cena. Pemberley si era immaginata sempre un principe azzurro con uno sguardo sereno e cristallino, quello di Rhys era tormentato e duro, poco a che fare con le fiabe che riempivano l’infanzia. Era bello proprio perché scontante dai soliti canoni a cui ci si atteneva per lasciare che il proprio cuore restasse affascinato da una simile persona, era il tipo d’uomo per cui lei si sarebbe strutta.
Non le piacevano i principi tutti fronzoli e piume, a lei piacevano i turbamenti che rendevano vere e tormentate le persone, se no da adolescente non avrebbe mai scelto Nathan per innamorarsi di qualcuno.
«Io sono felice che tu l’abbia incontrato. Sei una principessa, un principe è quello che ti meriti». Nel suo mondo fatato la madre era la principessa del suo universo, al pari di se stessa. Non era egocentrismo quello di Naive, ma solo la visione di chi il mondo lo vedeva limitato a quello che percepiva e conosceva. Un modo infantile di rendere inebriante la propria vita, darle l’aspetto di un mondo entusiasmante, avventuroso e magico che spesso alla realtà mancava.
«Scricciolo, come sei tenera». Le accarezzò il naso con l’indice, liberando una risatina divertita, all’interno l’eco del nervosismo che l’avrebbe accompagnata fino al momento della telefonata.
Naive sorrise allegra. «Se tu sei principessa posso esserlo anche io, vero? Se no non ha senso che tu abbia un principe. Io non avrei nessun beneficio…». Perché quale senso aveva se non la carica che aveva attribuito alla madre? Se non poteva essere considerata principessina lei, perché avrebbero dovuto esserlo le altre?
Non riusciva a capirlo.
«Ho cresciuto una piccola serpe!» sgranò gli occhi, sempre più allietata dai discorsi della figlia. Forse un po’ egoistici, ma comunque acuti, per essere il frutto di una mente di dieci anni.
Naive rise, soddisfatta di aver scioccato la madre.
Pemberley le baciò una guancia, lasciandola immersa nel suo mondo di principesse e principi azzurri, un mondo fatto di certezze e poche cose brutte. «Sogni d’oro… Serpe!».
Si diresse verso la porta.
«E a te tanti principi azzurri» la schernì Naive, prima che la madre spegnesse la luce.
Era ancora in quel buio diffuso, accompagnato dal silenzio interrotto respiro regolare della figlia che stava cercando di addormentarsi, che si avviò verso la propria stanza e un cellulare che sembrava pesare più del dovuto, sempre di più, a ogni passo.
Si stese sul letto dopo aver chiuso la porta della camera, sdraiata sotto lo stilizzato ramo dipinto sulla parete dalla parte del materasso in cui dormiva, lì sotto si sentiva al sicuro, proiettata in un mondo che plasmava sulle proprie aspettative. Un universo che oltre quella porta cessava di esistere per il bene di Naive. Eppure lì dentro, sola, si immaginava solo una ragazza, come se si vedesse da fuori: la protagonista di un film a cui ancora il meglio doveva capitare. Quella che sul letto, insicura e impaurita, rigirava il cellulare che magicamente sarebbe squillato, mostrando sul display il nome della persona che aspettava. Questa le avrebbe detto di essere lì sotto, che tutto non sarebbe stato perfetto ma sarebbe andato bene perché sarebbero stati insieme. Sarebbe corsa giù per le scale, gli avrebbe gettato le braccia al collo e regalato il bacio migliore di tutti i tempi, probabilmente si sarebbe pure messo a nevicare e lei non avrebbe sentito freddo, perché l’adrenalina, l’eccitazione e il sentimento provati in quel momento le avrebbero scaldato il cuore.
Sospirò triste.
Peccato che la vita non fosse un film. Non esistevano quel tipo di uomini come non esisteva il finale perfetto, perché molte volte non era nemmeno felice. Lei aveva una figlia, era freddolosa e non regalava baci infuocati, lei baciava solo con tutta se stessa, il risultato stava agli uomini giudicarlo.
Prese il telefono e digitò il numero di Rhys, era stufa di aspettare il miracolo che non sarebbe avvenuto. Voleva delle risposte e se le avrebbe cercate alla fonte, nonostante fossero le dieci passate di sera. Sapeva bene che un uomo come Rhys a quell’ora non poteva essere a casa a dormire. Era più probabile che fosse con la Cheryl di turno a divertirsi come Pemberley non era riuscita a fare perché interrotta dalla figlia.
«Pronto?». La voce era stanca e scocciata, non cercava nemmeno di nascondere il fastidio per quella chiamata.
«Ciao, vedo che alla fine non ti sei fatto più vivo». Non si era preparata un discorso, aveva così detto la prima cosa utile che le era passata per la testa.
«Acuta» rispose con scherno e amaro in bocca.
Una situazione dove entrambi erano stati feriti dall’altra persona e ognuno pensava di avere ragione. Quella conversazione non li avrebbe portati poi molto lontano.
«Tutto qui? Sparisci con un “è meglio parlarne con calma” e invece non ti fai più sentire? È questo che fa di te il grande uomo d’affari che sei? Wow, mi aspettavo molto di più». Forse non era stato giusto rinfacciargli certe cose, voleva risposte, non l’aveva chiamato per insultarlo in modo gratuito, ma l’indifferenza e il suo fare scocciato l’avevano ferita più del dovuto.
«Pemberley, ti parlerò chiaro, ma solo perché all’inizio ti sei rivelata più intelligente delle altre, poi sei diventata arrivista come tutte loro». Prima di riprendere il discorso parlò con l’assistente di volo e allacciò la cintura di sicurezza: quello non era il momento adatto per una telefonata simile, ma non poteva più evitarla ormai. «Mi avevi colpito, eri riuscita a renderti interessante ai miei occhi. Avevo deciso di provare a vedere dove portava questa cosa tra noi due, ma non è andata. Alla prima opportunità hai mentito. Ok, non è una cosa grave, ma già faccio fatica a vivere una relazione a due normale, stavo provando a entrare nell’ottica, ma proprio di fare il padre di una bambina e il terzo incomodo in una coppia no, questo no. È troppo anche per me».
Parlò ancora con l’hostess, chiedendole di posticipare il volo di qualche minuto ancora. Lei annuì e si diresse professionale e seria verso la cabina del comandante.
«Avevi tutte le potenzialità per essere qualcosa di più, ma per me la storia è chiusa così. Troppi contro e pochi pro a tuo favore». Concluse infine, come se fosse stata la riunione della sua società sui bilanci annuali e non la telefonata che riguardava la presunta relazione tra due persone.
«Certo, e io dovrei essere uguale alle altre sciacquette che ti continui a scopare e farmi andar bene tutto quello che dici perché sei un Hewitt, giusto?». Scattò a sedere, l’adrenalina in corpo era troppa per rimanere ancora distesa e tranquilla sul letto. «Ti sbagli. Io voglio risposte, e me le devi di persona»
«Ma io non ho nulla da dirti». Come se questo potesse liquidare il discorso.
Pemberley si alzò per raggiungere la finestra e fissare la strada cercando ristoro con la fronte nel vetro trasparente, non era possibile avere a che fare con un simile elemento, non credeva che potesse essere così ottuso. Sapeva che con una persona così non sarebbe stato facile avere a che fare, ma non si sarebbe mai aspettata che fosse meschino fino a tal punto.
«Io non sono un’opzione, non sono una seconda scelta o un tentativo. Non sono nemmeno un fottutissimo contratto o un affare di cui valutare i pro e i contro. Sono una persona e come tale vado trattata. Ho sbagliato, è vero, ma tu ti stai dimostrando un vero immaturo. Sarai anche un uomo d’affari, ma il tuo essere virile è limitato a quel campo».
Non riusciva a stare lì e sentirsi sminuire per essere diventata madre, non dopo aver rinunciato a tutto ciò in cui credeva e voleva a diciassette anni. Si era ricostruita, reinventata e aveva fatto in modo che questa nuova lei potesse coincidere con il suo ruolo di madre. Nonostante non avesse seguito la strada che aveva sempre sognato, aveva trovato una buon piano B, quello che prevedeva il provare a essere felice con una figlia piccola da crescere da sola e un lavoro che le piaceva molto. Il resto sarebbe venuto dopo, passo dopo passo.
«Non parlare della mia virilità senza nemmeno conoscermi!». L’errore in cui incorrevano tutti: pensare di conoscerlo dopo averlo visto un paio di volte, la presunzione di sapere chi fosse perché conoscevano il suo cognome e la storia che dietro esso si celava. Lui era sì la HewittCorp, ma era anche altro. Nemmeno lui però sapeva cosa.
«È la stessa cosa che stai facendo tu con me!» urlò Pemberley di rimando, ricordandosi solo in un secondo momento della figlia addormentata nella stanza lì vicino.
Quel commento esasperato era riuscito dove i dialoghi di prima avevano fallito: Rhys sembrò accorgersi della verità di quelle semplici parole, sgonfiando così il petto e l’orgoglio, dovendo ammettere a se stesso che non si era comportato in modo civile. Aveva i suoi modi per discutere con la gente, ma Pemberley non meritava un simile trattamento nonostante avesse sbagliato a nascondergli una cosa così importante come la figlia.
«Senti, io sono sul un jet che mi sta per portare in Russia, ho problemi gravi da risolvere, devo proprio partire. Ti prometto che quando torno parliamo, anche se per me, per ora, il discorso è chiuso. Sono comunque disposto ad ascoltarti, lo trovo giusto».
E forse quelle parole, arrese, sincere e concesse per pietà, la ferirono ancora più del resto del discorso rabbioso affrontato fino a poco fa.
«Buon viaggio. Fatti sentire al tuo ritorno». Riattaccò senza nemmeno dargli il tempo di salutarla, se mai l’avesse desiderato, non voleva dargli minuti necessari a fargli capire il perché della voce incrinata.
Era stata trattata come uno dei tanti contratti che stipulava o rifiutava per lavoro, al pari di un affare poco promettente che non avrebbe voluto chiudere.
Si gettò sulle coperte con la faccia sprofondata nel cuscino, liberando i primi singhiozzi attutiti dal guanciale. Era stata paragonata a un foglio di carta, a un interesse, a un rischio che non andava nemmeno corso. Declassata a quelle ragazze sciocche e belle che frequentava di solito.
E lei prima gli aveva creduto, aveva creduto alla favola che lui aveva iniziato a dipingere con la timidezza di una persona che cammina con i piedi di piombo e armeggiava con pennelli ancora più pesanti. Lei aveva cominciato a intravedere i colori di sfondo, lo scenario che avrebbe contornato le loro avventure, non poteva negare di averlo visto. E ora non c’era più niente.
I pennelli avevano smesso di dipingere, i piedi avevano interrotto la loro andatura greve e la firma non era stata apposta al contratto, perché fallato. Era diventata un foglio di carta straccia, abbandonato sopra le coperte di un letto, mischiato con il pianto che del lattice avrebbe accolto per evitare che Naive si svegliasse.
Lasciò sfogare le proprie illusioni disattese finché i singhiozzi divennero sommessi e gli occhi pesanti, lasciando il posto all’orribile sensazione di addormentarsi con la faccia sul cuscino bagnato dalle proprie lacrime, con la certezza di svegliarsi con lo stesso dolore che sperava di abbandonare nel sonno.
 
«Ciao nonno!» Naive abbracciò Terrence e si diresse nel gazebo riscaldato che era stato costruito in giardino apposta per l’occasione. Era uno di quei the organizzati da Felicia per piantare le basi di un nuovo evento benefico per la Lost Children, ma sembrava più uno spuntino a Versailles, tanto era organizzato nei minimi dettagli.
«Vai piccola, gli altri bambini ti stanno aspettando!» le urlò il nonno vedendola allontanarsi contenta verso l’apposita area bimbi: anche i genitori più reticenti, in questo modo, non avevano scuse per mancare all’evento. Non se c’erano persone addette alla cura dei loro figli, niente scuse a riguardo. Felicia era una maga dell’organizzazione, una manipolatrice del tempo altrui.
«Ciao papà». Aveva davvero voglia di rivedere suo padre. In quel periodo così frenetico non aveva avuto modo di passare a salutare i genitori e passare del tempo con loro. Nonostante fosse stupido, aveva sentito la loro mancanza, i momenti passati con entrambi erano sempre piacevoli.
Gli lasciò un bacio sulla guancia, come suo solito, ma fu lui a stupirla.
«Ciao tesoro». La abbracciò non lasciandola andare. «È da un po’ che non ti fai vedere come si deve, mi sei mancata».
Era cresciuta di colpo la sua piccola. Una mattina si era svegliata grande, con le paure e le responsabilità del mondo degli adulti sulle spalle e una sola, piccola, certezza nella pancia. Quella sicurezza che le aveva stravolto la vita, come la loro.
Aveva passato troppo tempo a criticarla per quella gravidanza prematura e inaspettata, tanto da dimenticare di assisterla e infonderle un po’ di coraggio. Era l’unica figlia che aveva e con lei aveva sbagliato tutto.
Si era dimenticato del torto fatto alla famiglia e al suo nome solo quando le manine minuscole di Naive si erano posate sulla sua, gli occhi neri e vacui che cercano di focalizzarlo.
In quello sguardo aveva rivisto la figlia diciassette anni prima, la sensazione di paura e felicità che la nascita del primo figlio aveva svegliato in lui, il rendersi conto che Pemberley aveva affrontato la gravidanza lontano da tutto e tutti, soprattutto dalla persona che aveva amato.
Si era reso conto di aver perso troppo tempo a insegnarle il galateo, troppi giorni spesi a rimproverarla per non essere la migliore, aveva perso i mesi della gravidanza della figlia con il terrore di non vederla tornare.
E ora, in quel periodo che aveva seguito il Natale e aveva visto il ritorno di Nathan,  aveva desiderato averla di nuovo con sé e per sé. Donarle sicurezza e infonderle amore, rassicurarla e non vederla andare via da loro, la famiglia di lei, perché l’amore per un figlio non cessava nel momento in cui questo diventava adulto. Aumentava nel vedere che con esso si era fatto un buon lavoro, e Terrence era orgoglioso di aver cresciuto una ragazza che, forte, aveva saputo cavarsela da sola così presto e con un peso non indifferente sulle spalle. Era caparbia e risoluta, una donna di cuore, sempre pronta ad aiutare gli altri, di meglio non poteva certo aspettarsi.
Sapeva di essersi sbagliato in passato quando la spronava a fare di più, perché di meglio da Pemberley non poteva aspettarsi.
Non sarebbe mai riuscito a dirglielo, probabilmente, dato che non era nel suo carattere aprirsi a cuor leggero verso il prossimo, ma avrebbe fatto di tutto per farglielo capire e, quell’abbraccio, era un punto di partenza.
Pemberley si ritrovò a gettare la braccia attorno alla spalle del padre. Non si ricordava il tempo di regalargli un po’ d’affetto e le faceva un immenso piacere.
Quell’abbraccio sapeva di nostalgia e famiglia, richiamava l’odore di quella casa e la memoria era andata a parare sul color pesca della carta da parati di camera sua. Quelle braccia erano sicurezza e protezione, amore e tutto ciò di cui aveva bisogno. Non avrebbe mai smesso di abbracciare suo padre, perché non avrebbe mai smesso di volergli bene.
«Papà! A quest’ora già con il gin?» lo ammonì ironicamente non appena sciolto l’abbraccio vide il bicchiere pieno nella sua mano.
«Tesoro, tua madre sta facendo dannare chiunque da stamattina, dovrò pur sopportarla in qualche modo, non trovi?» e sorrise allegro. «Inoltre non è gin, ma scotch»
«È davvero così isterica oggi?» era una di quelle giornate in cui sopportarla sarebbe stata un’impresa davvero difficoltosa.
«Secondo te perché ho aperto io? Agata è stata monopolizzata dalla versione posseduta di mia moglie. Tocca a me aprire la porta e svolgere altri compiti che spetterebbero alla domestica!». Alzò gli occhi al cielo, poi si concesse un sorso del suo scotch.
Oh no. Sua madre in versione “perfetta padrona di casa” era letale. Un misto tra la perfetta casalinga di Wisteria Lane e il più spietato calcolatore strategico di Risiko: niente era lasciato al caso, nemmeno il più piccolo gesto o sorriso. Diventava inquietante, come i serial killer che si vedevano nelle varie serie Crime di cui la televisione era ormai piena.
«Oddio, sarà una lunga giornata»
«Campale, oserei dire» replicò Terrence facendole strada mentre la guidava verso il salotto dove poteva già sentire in lontananza la voce civettuola e lusinghiera di sua madre nei confronti delle amiche più strette, le menti che la sostenevano nell’associazione.
«Hai ancora un po’ di quello scotch? Penso di averne più bisogno del the per sopportare tutto questo» fece una smorfia disgustata.
«Ma certo tesoro. Andiamo nel mio studio» e senza nemmeno avvisarla cambiò direzione. Percorsero stanze immerse nel confortante silenzio prima di arrivare nel sospirato studio. «Tieni Pem cara, si vede che sei una Voight, sono fiero di te».
Fecero tintinnare i bicchieri e poi ne bevvero un po’ prima di lasciare la sensazione pacifica che aleggiava in quella stanza: sapevano entrambi che era giunto il momento di presenziare davanti agli ospiti con il loro miglior sorriso, ma non senza il loro bicchiere di scotch.
Si avviarono verso il salotto con lo stesso passo strascicato di un condannato a morte, prima però che Pemberley potesse palesarsi davanti a sua madre e alla rispettive ospiti, Felicia le comparve davanti in tutto il suo splendore.
Fasciata da un tubino verde acqua, mostrava tutta la sua eleganza nel sapersi muovere a dovere. Tutto in Felicia Voight trasudava portamento e austerità. Il taglio corto con i riflessi dorati del parrucchiere ben rappresentavano l’ordine e il rigore così insiti in lei; gli occhi, a metà tra il verde e il marrone, erano specchi impenetrabili di un animo che non lasciava sfuggire nulla, solo le rughe erano testimoni visibili del tempo e delle esperienze che la vita le aveva posto sul cammino.
Felicia era una donna abile nel persuadere la gente, esperta nel saper gestire il tempo – poco importava che fosse il proprio o quello altrui – come meglio riteneva, maestra nel portare l’opinione dalla propria parte. Ecco perché dopo l’onta portata da Pemberley con la sua gravidanza fuori da un normale matrimonio, aveva saputo ricrearsi, formando un nuovo interesse con lo stesso giro d’amicizie e ampliandolo pure, perché la beneficienza non si fermava davanti a nessuno.
Come un gatto cascava sempre in piedi; fiera e controllata in pubblico come nel privato, era la roccia su cui il marito e l’associazione contavano nei momenti più delicati da affrontare.
Educata nei migliori istituti privati del paese ed europei, ogni suo gesto era moderato e calcolato. Ogni sorriso, ogni espressione facciale – specialmente se correlata ai rapporti sociali – era studiata e controllata, così come tutti i gesti, o le parole.
Aveva provato a essere libera, tempo addietro, ma la sua libertà aveva comunque dei paletti che lei stessa si imponeva. Tutto questo perché Felicia era così, e non poteva essere diversamente.
Metodica e appassionata nell’insegnamento, aveva preso entrambe le doti e le aveva trasposte alla beneficienza. Era una donna che aveva imparato a camminare con le proprie gambe appena potuto, e aveva cercato di insegnarlo alla figlia che, a discapito dei precetti materni, era cresciuta libera da certe imposizioni.
Felicia Voight sapeva come gestire ogni tipo di situazione ma, anni prima, non aveva saputo guidare la figlia: la madre, razionale fino al midollo, sapeva valutare cos’era meglio per gli altri, per se stessa e faceva sempre collimare i due aspetti; Pemberley, invece, del parere altrui non se ne curava affatto, perché a ragionare col cuore arrivava sempre alle conclusioni migliori per sé e per le persone che la circondavano. Il mondo poteva pure andare al diavolo.
«Tesoro, sei arrivata!» le andò incontro per baciarla su una guancia prima che le amiche catturassero tutta la sua attenzione. Solo quando le fu vicina sentì l’odore di alcool.
«Prendi una mentina prima di raggiungerci, cara». Le sorrise confortante e indicò il bicchiere. «Lascia perdere i veleni di tuo padre».
Pemberley storse la bocca, sentendosi di nuovo la bambina in dovere di andare contro a tutta quella perfezione così insopportabile se paragonata alla sua misera persona. Al posto di abbandonare il bicchiere finì l’ambra sciolta contenuta in esso. «Lo farei mamma, ma per affrontare questa scocciatura avrei bisogno che pure il the fosse corretto con lo Scotch».
Felicia alzò gli occhi al cielo ma non ribatté. Pemberley era stata sempre indisponente, in particolar modo nei suoi confronti, ma in silenzio apprezzava molto la dote di tener testa a qualsiasi individuo; sapeva che, in questo modo, non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno. Se si fosse trovata al suo posto, invece, a causa della sua indole così ligia al dovere, avrebbe ascoltato le parole della figura genitoriale da cui sarebbero arrivate e si sarebbe allontanata a testa bassa, con la sensazione di non aver lottato abbastanza per quello che realmente desiderava. Ma la sua adolescenza era avvenuta in tempi diversi e l’educazione ricevuta era stata opposta a quella della figlia.
Guardava Pemberley con preoccupazione e orgoglio, lei era il motivo per cui aveva deciso di non avere altri figli. Aveva sempre la sensazione di non aver fatto abbastanza per la figlia, che al posto di fare la madre si fosse posta come un’insegnante o un’educatrice. Eppure, nonostante la gravidanza fuori programma, il frutto di quegli insegnamenti e quell’educazione erano davanti ai suoi occhi, e non erano affatto male. Il ruolo di madre l’aveva sempre spaventata, era vissuta col terrore di non essere all’altezza del compito, creando così una sorta di distacco emotivo con Pem che era andata a recuperare solo dopo l’arrivo di Naive.
Pemberley non solo non gliel’aveva mai rinfacciato, ma le aveva permesso di riaffacciarsi nella sua vita come se fosse stata la prima volta. Era felice di aver capito di essere stata utile alla figlia: quando l’aveva vista con Naive, così spontanea, attaccata a lei e vitale, aveva capito di essere stata per Pem l’esatto esempio di madre che lei mai avrebbe voluto essere.
«Io mi dileguo e torno ai miei affari» dichiarò Terrence allontanandosi, prima che la moglie potesse prenderlo sottobraccio come con la figlia per trascinarlo là dove iniziava a crearsi un certo fermento di donne e idee.
«Divertiti anche per me papà!» urlò Pemberley di rimando, strizzandogli l’occhio con fare scherzoso. «Su, andiamo a fare le donne impegnate prima che io scappi nell’area bambini e mi tuffi nelle palline colorate».
Odiava svolgere il ruolo della figlia perfetta, dato che nonostante la finzione non riusciva mai a raggiungere i livelli della madre. Non faceva per lei stare al centro dell’attenzione con quell’aria eterea e patinata, non era lei quella seduta con la schiena fin troppo dritta e la bocca serrata.
Lei era quella che metteva le mani nel colore insieme alla figlia, sporcandosi magliette e capelli, sfornava torte e si divideva in quattro per portare Naive a praticare qualche sport mentre lei era a lavoro. Lei sbagliava, rideva fin troppo, piangeva, si svegliava con gli occhi gonfie e, qualche volta, riusciva a essere davvero impacciata, più del consentito.
Ma chi era lei per rovinare la passione della madre? Erano stati anche questi eventi riguardante la Lost Children a farle legare come mai era successo prima della nascita di Naive, non aveva cuore di negarle una gioia simile.
«Palline colorate? Pem, non siamo in un centro commerciale, qui ci sono artisti che dipingono i volti dei bambini e intrecciano figure astruse nei palloncini!» la ammonì preoccupata, lei non avrebbe mai organizzato una cosa così dozzinale.
Pemberley le mise una mano sulla spalla, affiancandola. «Lo so mamma, ti stavo prendendo in giro».
Felicia le rivolse il sorrise divertito e sincero che in pochi conoscevano. Quel sorriso nuovo, nato con la nipote e sfruttato nei momenti più intimi e veri.
Eppure c’era qualcosa che riusciva a farle spegnere sul nascere quel barlume di segreta e inaspettata felicità.
Si fermò in un salottino piccolo e di passaggio, una stanza già pronta per il party ma ancora vuota delle persone che avrebbero dovuto riempirla. Si girò verso la figlia per affrontarla, la sua indole pignola e ricercatrice doveva sapere.
«Ho saputo che Nathan è tornato in città. A vivere» aggiunse l’ultima parte per sottolineare che sapeva tutta la faccenda nonostante la diretta interessata l’avesse taciuta.
Pemberley le piombò quasi addosso, data la brusca frenata. Ma quello che più la stupì fu la rivelazione della madre. «Come fai a saperlo?»
«Naive né è così felice da dirlo a tutti. Avresti dovuto insegnarle la riservatezza, se avessi voluto vederla mantenere i segreti» si interruppe il giusto per permetterle di accusare il colpo ma non proferire parola. «Perché non me l’hai detto?»
«Perché speravo di evitarmi una spiacevole conversazione con te come questa» ammise contrariata. Nathan era stato uno dei pochi argomenti in grado, in quegli anni, di mettersi tra loro.
«Pemberley» la riprese la madre in tono serio, come se la questione fosse di vitale importanza. «Sei sicura che non sia qui per mettere su famiglia?»
E Pemberley, dopo quelle parole, aveva visto chiaramente negli occhi della madre una scintilla ardere di speranza. Perché per lei la storia di Pem e Nate doveva avere una sola conclusione: doveva finire con una loro riconciliazione. Un matrimonio e un nucleo famigliare normale.
Lo desiderava per Naive, lo anelava per vedere le cose come dovevano andare già nel passato ma, soprattutto, lo voleva per far sì che, agli occhi di tutti, la questione venisse risolta nel modo più semplice possibile, seguendo cioè il corso naturale degli eventi,  con due genitori che, dopo la nascita della loro figlia, convolavano a giuste nozze.
«No, mamma. È qui per lavoro e anche per Naive. Nient’altro». Una rassicurazione per se stessa, una pena in più per Felicia.
«Eppure, se vi impegnaste entrambi, potreste provarci di nuovo…» lasciò cadere la donna, come se una cosa simile non l’avesse pensata dal primo momento in cui aveva saputo del ritorno di Nathan.
Pemberley alzò gli occhi al cielo. Troppe volte avevano affrontato quel tipo di discorso, e nessuna delle due era intenzionata ancora, dopo tempo, a muoversi dalle proprie posizioni. «Sono passati dieci anni da quando stavamo insieme. Siamo due persone diverse, non ci sono più i sentimenti di una volta. Certo, siamo legati, abbiamo una figlia e gli vorrò sempre bene, ma nulla più».
Sapeva a memoria quel breve discorso, perché era sempre lo stesso che riproponeva alla madre. A quanto pare, però, non le entrava in testa.
«Perché non pensi a quello che è giusto? Avete una figlia Pemberley, non è un giocattolo». Le labbra formavano una linea dritta. L’espressione più seria che Felicia potesse mai sfoggiare. La stessa linea dritta da cui Pem si sentiva sempre giudicata e che la metteva in soggezione ma che, col tempo, aveva imparato a combattere.
Difatti non ci stava più a essere trattata come la bambina che doveva essere messa in punizione e castigata. Aveva imparato a dar voce ai propri pensieri, e quello era il momento adatto per dare loro una forma concreta. «Penso a quello che è giusto per me, non a quello che fa felice te. Preferisco che mia figlia abbia due genitori che non stiano insieme ma che vadano d’accordo, piuttosto che una famiglia a tempo determinato e pronta a scoppiare da un momento all’altro per poi lasciarsi dietro solo rancori e pianti».
In quella parte di vita Felicia non aveva potere su di lei, ma ancora non riusciva ad accettarlo. Pemberley non voleva che mettesse il becco in affari che non la riguardavano, ma conosceva troppo bene la madre per sapere che non si sarebbe mai tirata indietro.
«Sono sicura che non sareste a tempo determinato se solo ve ne convinceste». Aveva perso il tono da insegnante che spiegava un concetto semplice a studenti svogliati assumendo quello di una madre preoccupata che sembrava vedere più in là della figlia. Forse aveva l’esperienza dalla sua, non aveva di certo certezze, ma sapeva che quello che diceva non era poi così sbagliato.
Ma Pemberley era irremovibile, preda della rabbia e della sua voglia di sentirsi grande di fronte alla donna che la faceva sentire sempre piccola e sbagliata. Non aveva capito i toni della madre, rovesciandole così addosso tutto il nervosismo accumulato in quei minuti.
«Questo è quello che ti racconti perché ti piacerebbe vederci insieme e mettere a tacere le malelingue che ti hanno costretta a cambiare casa» la voce di lei rotta dalla conoscenza di essere stata il suo più grande dispiacere. «Mi dispiace mamma di essere stata la fonte di imbarazzo di questa sontuosa famiglia, mi spiace essere stata la tua delusione più grande, ma le cose stanno così e non le posso cambiare. E dato che quello che è successo mi ha dato Naive non le vorrei cambiare di una virgola» si asciugò il paio di lacrime che erano rotolate lungo le guance senza notare lo sguardo triste di una madre che non voleva creare tutto quel dolore e concluse: «Ora è meglio tornare dagli invitati, si staranno domandando che fine tu abbia fatto».
 
Il the era diventato, come da programma, un piccolo party a tutti gli effetti. La casa era riempita dal vociare dei molteplici ospiti che riempivano i saloni e altre stanze. Se prima le donne a cui l’associazione faceva riferimento avevano parlato degli ultimi dettagli dell’evento in programma, ora dovevano vendere al meglio il loro prodotto per trovare i fondi da raccogliere in giro per tutta New York.
Pemberley vagava per la festa con il suo piattino pieno di biscotti e leccornie varie nel tentativo di evitare la gente. Il suo trucco di non fermarsi un attimo sembrava funzionare, anche se la deprimeva non poco: Naive era insieme agli altri bambini e lei era da sola a fissare facce che non riconosceva neppure.
Nathan era al corrente del party e, parlando con la madre della figlia aveva convenuto che saltarlo sarebbe stata una cosa a suo favore. Eppure, in quel momento, anche lui sarebbe stato di compagnia.
«Ciao Pem» riconobbe subito la voce, e fu grata a sua madre per quell’invito.
«Ciao Cass!». Posò il piatto su un tavolino di fortuna lì accanto e gli mise le braccia al collo in un gesto fin troppo grato. «Finalmente qualche viso amico».
Nel momento in cui Pemberley gli baciò la guancia, sua madre passò di lì e assistette alla scena.
«Pem, tesoro, è lo zio di tua figlia, non il tuo concubino. Un po’ di contegno, su».
Cassidy sorrise a quelle parole, lusingato che a ogni donna nei suoi paraggi si potesse collegare una liaison con lui, dopo però vide la faccia della sua presunta compagna, e la risata si spense nel constatare che Pemberley non l’aveva presa bene tanto quanto lui, così decise di andare in suo soccorso.
«Tranquilla Felicia, se volessi essere il suo concubino» disse avvicinandosi alla donna per poterle girare intorno mentre, con studiata lentezza e voce suadente, le accarezzava le spalle con un solo dito. «Lo sarei già. So come fare per ottenere quello che voglio».
Era un baro, un seduttore che coglieva ogni sfida che gli si presentava davanti. Felicia Voight stava stuzzicando il suo lato peggiore, e si stava divertendo a metterla in difficoltà.
«Come fai?» lo chiese più per cortesia che per curiosità. Anche se, data la situazione imbarazzante in cui si trovava, avrebbe voluto sapere da cosa difendersi. Cassidy era stato presente nella sua vita, ma non l’aveva mai capito. Se serviva a comprenderlo, avrebbe accettato ogni tipo di risposta. Inoltre sapeva che porre quella domanda avrebbe posto fine alla tortura gratuita a cui la stava sottoponendo.
«Studio la preda» iniziò facendole capire a cosa serviva girarle attorno. «La ammalio, la faccio sentire in trappola e le faccio capire che io sono la sua unica via d’uscita». Concluse piazzandosi davanti a lei, come a esplicare il concetto.
«Ma, tranquilla Felicia, le donne sposate e devote al proprio uomo non fanno al caso mio. Peccato, perché sei ancora splendida. Ora vado, ho della compagnia che mi attende assetata». Le fece un inchino, nell’allontanarsi fissò l’amica e le rivolse un sorriso complice e le strizzò l’occhio davanti alla riconoscenza che lei gli aveva sussurrato.
Felicia alzò le mani al cielo con un’espressione scossa «Dio del Cielo, quel ragazzo è un vero demonio tentatore! Su Pem, accompagnami a prendere un po’ d’aria».
Fu nel tragitto che Pemberley, distratta dagli amici della madre, finì per scontrarsi contro uno degli altri invitati.
«Mi scus…». Quando si accorse chi ebbe urtato lasciò da parte le buone maniere per sfoderare tutta la sua sorpresa: «Josh?! Cosa ci fai tu qui?»
Prima che Joshua potesse rispondere, fu Cassidy a girarsi verso di lei – attratto da quel tono allibito – e a risponderle. «L’ho portato io, è il mio accompagnatore all’evento».
La bocca tonda e gli occhi spalancati di Pemberley furono per Cassidy la migliore risposta alla sua affermazione. Si adorava ancora di più quando riusciva a sorprendere le persone a lui più care. Sapeva che nemmeno Pem avrebbe sfidato sua madre invitando un ospite dello stesso sesso con cui intratteneva un rapporto ben poco casto sotto le coperte. Lui invece aveva portato Josh presentandolo solo con il suo nome, senza dare modo a lei di pensar male, ma toccandogli la spalla spesso davanti agli altri invitati in modo di dar adito alle fantasie più scabrose.
Cassidy era così: un narcisista che adorava stare al centro di ogni attenzione, poco importava se fosse benevola o meno. Il suo ego traeva godimento dal suscitare l’interesse altrui, l’orgasmo che gli occhi di emeriti sconosciuti provocavano in lui, leggendo in essi sorpresa e sconcerto, era pari a quello che un amante gli regalava a letto.
«Sì, usciamo insieme». Precisò lui dopo quel silenzio sembrato interminabile a tutti.
Nel voltarsi verso Pemberley si scontrò con lo sguardo d’ammonizione di lei, una cosa che non si sarebbe mai aspettato.
In quel momento il telefono di Joshua squillò e, ignaro delle occhiate dei due, chiese scusa prima di allontanarsi e cercare una zona con meno brusio per il sottofondo di quella chiamata.
«Fino a quando?». Quasi non lasciò il tempo all’amico di allontanarsi abbastanza, rivolgendosi verso Cass. Lo conosceva bene, tanto da sapere che se non avesse ripreso subito il discorso lui avrebbe fatto di tutto per cambiare argomento e soprassedere, peccato che con lei non potesse permettersi un tale lusso.
Cassidy prese a camminare con lentezza tra la gente indaffarata a chiacchierare: ogni passo, una nuova parola da aggiungere al discorso. Un ritmo lento, cadenzato e silenzioso per la sinuosità dei suoi pensieri e del suo essere.
«Fino a quando non mi sarò stancato di quello che può offrirmi, ovvero quando perderà l’odore della novità». In quelle parole, dette nel tragitto che li avrebbe portati in cucina, non c’era accusa, presunzione o altro. Era soltanto Cassidy in una forma meno concreta e palpabile: quelle parole così radicate in lui da sentirle scorrere nel sangue e fluire nel mondo che lo circondava come un vero e proprio biglietto da visita.
«Non voglio sapere altro perché non lo trovo giusto, inoltre è la persona più vicina a un amico che ho, mi dispiacerebbe vederlo ferito da te». Come avrebbe potuto dividersi tra lo zio di sua figlia e quella specie di amico?
Le dispiaceva essere così negativa, ma sapeva bene che con Cassidy non sarebbe durata a lungo, perché la relazione più duratura che aveva avuto era quella con se stesso, ed era così longeva solo perché era costretto a rimanere nella propria pelle. Inoltre aveva una certa esperienza in merito: se non era durato un grande amore come il proprio, pochi altri avevano la possibilità di resistere per sempre. Forse capitava solo nelle favole.
«Tranquilla, non lo perderai e non rimarrò ferito. È solo gay, non è una donna che piagnucola su un uomo per due appuntamenti e, quindi, sull’idea che si era fatta di lui e i relativi castelli in aria». La frecciatina di Cassidy colpì il bersaglio, facendola sobbalzare.
Pemberley ringraziò di aver a portata di mano la penisola della cucina. Avrebbe dovuto dirgli che aveva fatto un passo avanti nei confronti di Rhys, avendone fatti così cento indietro. Avrebbe voluto raccontargli della telefonata per filo e per segno, ma in quel momento sentiva che il the offerto dalla madre non era abbastanza e le serviva del vino. Dell’ottimo vino con cui avrebbe tanto voluto cancellare le ultime informazioni e annegare i propri dispiaceri.
«Dov’eri finita? Ti cercavo! Tua madre stava tentando di farmi entrare nella fondazione come socia. Sono dovuta scappare». La voce squillante e briosa la distrasse dal suo rovistare negli armadietti dell’immensa cucina. Che il catering avesse fatto sparire tutto l’alcool?
«Ciao, angelo». La salutò Cassidy spogliandola con gli occhi.
Quel saluto la mise sulla difensiva, tanto che la nuova arrivata non faticò a trovare e sfoggiare la solita risposta.
«Ciao, stronzo».
Pemberley si lanciò di nuovo nell’impresa di trovare dell’alcool in quella casa. Con quei due nella stanza ne avrebbe avuto ancora più bisogno. Si domandò se qualcuno si fosse accorto di lei mentre cercava di entrare nell’ufficio del padre e finire il suo Scotch.
«Allora, quando uscirai con me?». Cass, armato di sicurezza e fascino, la fissava con uno sguardo famelico e divertito, come se prenderla in giro fosse diventata d’improvviso la sua ragione di vita, l’evento della festa.
«Mai, conoscendola. E fa bene». Pemberley si intromise, ma nessuno dei due le diede importanza, racchiusi com’erano in quella bolla creata da scherno bonario e odio ferito.
«Quando i cani saliranno al potere o quando tu concepirai il concetto di monogamia. Quindi oserei dire con una certa sicurezza: mai».
Silene Endeckis era nata con tratti gentili che si riflettevano appieno nel suo nome. Silene, una variazione di Selene che in greco designava la luna, era stata pitturata con i tratti da cui il nome stesso prendeva spunto. Greca d’origine, almeno da parte paterna, aveva la pelle bianca come la luna e gli occhi chiari come il suo lato nella penombra. Tondi come il satellite terrestre nella sua fase di pienezza, colpivano tutti per la sincerità che vi brillava all’interno.
A incorniciare le gentilezze della pelle candida e delle pozze chiare, c’erano dei capelli scuri e ribelli, ondulati come il mare Ellenico che lambiva le coste della civiltà occidentale.
Silene era lo specchio della sua terra d’origine. Era forte e taciturna, solida ed eterea, sembrava fosse sempre circondata da un’aura argentea che, agli occhi altrui, la faceva assomigliare a una dea, nonostante di donne più belle ce ne fossero molte. Era il fascino delle parole che non proferiva, il silenzio brillante che la avvolgeva.
Poi qualcosa l’aveva cambiata, rendendola sempre lei, ma un po’ meno fedele a se stessa.
«Peccato. Saresti l’unica donna con cui sarei disposto a sposarmi e a cui sarei probabilmente fedele». Il sorriso si era cancellato, lo sguardo aveva perso la malizia di prima, il tono di voce era diventato quasi serio.
Eccola lì, la Nemesi della luna. Il nero dentro cui l’argento era stato risucchiato.
Era durante il primo anno di College, quello che Cassidy aveva smesso di frequentare dopo la laurea, che Silene aveva nascosto il suo lato niveo e argenteo dietro l’ombra dell’omologazione.
Il suo anno da matricola si era concessa il lusso di aprirsi al mondo: senza Pemberley al suo fianco aveva partecipato a feste con la sua compagna di stanza, una ragazza divertente e socievole. Era a una di quelle feste che aveva rivisto Cassidy, il fratello dell’ex della sua amica, il ragazzo grande di cui a scuola aveva sempre sentito parlare con ammirazione. Il fratello che Nate doveva portarsi alle feste affinché sorvegliasse i ragazzi, lo stesso con cui lei si era sempre trovata a scambiare quattro chiacchiere e per cui, in segreto, aveva un debole.
Lui si era avvicinato con il bicchiere rosso di plastica in una mano e il suo cipiglio beffardo. Dopo averle detto di essere lì perché si trovava sempre qualcosa di interessante ai party del college, l’aveva ubriacata di parole. Silene si ricordava ancora bene come l’aveva fatta sentire: capita, meno sola ma, soprattutto, unica. Come se le altre ragazze in quella sede della confraternita fossero sciocche e prive di importanza al suo confronto, perché Cassidy aveva ammesso che lei era diversa, con quella luce così particolare e pura a circondarla.
Lei, sul vecchio dondolo sotto il porticato, l’aveva baciato, mostrando un’intraprendenza mai avuta. Aveva fatto scorrere la propria lingua tra le sue labbra, richiamando un istinto primitivo e mai sopito che aveva risposto al suo muto appello.
Cassidy le aveva stretto la mano e l’aveva portata di sopra. Separarsi, lasciare il portico calmo e romantico, aveva interrotto la magia che solo una persona che portava la luna con sé poteva provare. Aveva provato a riprendere il discorso, ma Silene non era il tipo di ragazza pronta a farlo sul letto di uno sconosciuto per far godere le orecchie e le malelingue altrui. Non era da lei concedersi con tanta leggerezza, perché le persone che vedevano la profondità del mondo la ricercavano anche nelle persone.
Aveva cercato la magnanimità di Cass, trovandola. L’aveva accompagnata fino al dormitorio e lei era riuscita a strappargli la promessa di vedersi il giorno dopo. Un appuntamento.
Si era addormentata con la gioia di aver raggiunto un briciolo della felicità prefissata, ma la vita non aspettava nessuno, e il giorno successivo ne portava le tristi prove.
Cassidy le aveva mandato un messaggio sul cellulare dove le diceva che lei era meravigliosa e si meritava di meglio di uno mediocre come lui, perché al momento non avrebbe potuto offrirle quello che lei voleva. Non era pronto a dedicarsi a una sola persona.
Seppur arrabbiata, aveva apprezzato la sincerità. Eppure la sera l’aveva visto con Cindy, e la mano sotto la maglietta di lei non lasciava presumere niente di diverso: in quel caso era riuscito a dedicarsi a quella ragazza e basta. Poi l’aveva rivisto a un’altra festa, in compagnia di Ted, uno del secondo anno. Un’altra sera con Daisy e quella dopo con Zoey. Senza tralasciare Matt.
Forse era vero, non sapeva dedicarsi a una sola persona all’infuori di se stesso, però sapeva offrirsi alla totalità del campus con una certa propensione.
Aveva pianto Silene, lacrime argentee come il suo nome e colme di odio radicato come lo era l’Olimpo nelle memorie degli uomini. Si era lasciata ingannare da parole dette per colpire, non perché sentite. Non voleva essere un’altra tacca sulla cintura di Cassidy, non voleva essere una delle tante, che fosse un Alcott o qualunque altro ragazzo. Non meritava di essere mischiata con la gente qualsiasi, lei valeva e non doveva essere lui a decidere chi lei fosse. Gli aveva creduto, e avrebbe ricordato a vita a cosa aveva portato, e cosa era successo, ad aver fiducia in Cassidy.
Fu così che l’aura di Silene un po’ si spense, o meglio, si nascose nell’oscurità del mondo che la circondava. Mostrarsi per quello che era l’aveva resa debole, e lei – debole – non lo voleva essere più.
Nemesi era ciò che l’aveva distrutta.
Cassidy era stato la sua debolezza, la parte che lei aveva nascosto con il suo lato più ingenuo e puro, quello che la invogliava a fare meglio e fare sempre di più.
«Perché vorresti farmi un simile torto?»
E forse lui era pronto a rispondere, ma non era il momento di affrontare un discorso troppo serio per un tipo così. Fortuna volle che in cucina arrivò un Joshua con gli occhi spiritati, sembrava uscito dalla lavatrice.
«Per fortuna vi ho trovati!» disse cercando di prendere aria, dato che aveva il fiatone.
«Sei scappato perché Felicia stava provando a convincerti di far parte dell’associazione o di fare una donazione?» Cassidy aveva riacquistato il buonumore davanti al suo accompagnatore. Aveva rilassato le spalle e allargato gli angoli delle labbra in un sorriso divertito, come se quello scambio con Silene non fosse mai avvenuto.
Joshua annuì concitatamente, facendo ridere i presenti.
«Ciao, noi non ci conosciamo, io sono Silene».
Una mano tesa verso quello sconosciuto che tutti sembravano conoscere, non le piaceva partire svantaggiata e voleva recuperare il tempo perso. Era un uomo che non aveva mai visto, le sembrava giusto mostrarsi una persona educata e presentarsi, specialmente se il ragazzo in questione era carino ed era una perfetta scusa per dimenticarsi di Cassidy e dell’irritazione che le aveva fatto provare, ancora una volta, con la sua sola parola e la voce profonda che gli grattava un poco la gola e rendeva la sua parlata così sensuale.
Silene si ritrovò spiazzata davanti alla reazione entusiasta del ragazzo orientale.
«Non ci posso credere, finalmente! Ho sentito così tanto parlare di te. Io sono Joshua». Davanti alla faccia poco convinta di lei, e a quei suoi occhi sorpresi e terrorizzati, anche se bellissimi, decise di presentarsi come più poteva conoscerlo. «Yoshi, quello del Café»
«Oh» si stupì ancora di più Silene in uno dei pochi momenti di ingenuità che ormai si concedeva. « Ti immaginavo vecchio e brutto».
Lui le strinse la mano, e lei ritrovò la sensazione di casa e abitudine che Pemberley sempre le aveva descritto quando parlava di Joshua. Lo stesso ricordo avvolgente e rassicurante che un caffè caldo con una spruzzata di cioccolato e caramello regalava al palato. Non poté non essere conquistata, almeno un po’, da tutto quello. Era un ragazzo affascinante.
«E invece?» la rimbeccò. Era divertito dal suo fare così trasognato. Gli piaceva essere studiato da quegli occhi chiari che sembravano anni luce da tutti gli altri occhi che aveva incontrato. Continuava a sbatterli senza volerlo, cercando di capire cosa si nascondesse dentro di lui e non per cercare di catturare la sua attenzione con fare da gatta morta. Quel continuo movimento, però, lo incuriosiva parecchio.
«Sei giovane e sexy!» decretò lei infine con una risata divertita e un’ammiccata voluta.
Era ritornata la Silene che nel mondo si era inserita come uno squalo, quella che parlava con tutti e aveva sempre la battuta pronta. La parte di sé spaurita e rovinata da un uomo come Cass l’aveva nascosta in un angolo del suo essere, tenuta a bada da un raziocinio fermo e severo.
Yoshi alzò per un secondo soltanto le sopracciglia, assecondando lo strano spettacolino che si era venuto a formare davanti al suo accompagnatore e Pemberley, non calcolandoli nemmeno.
«Mi piacciono le persone che la pensano come me» e le strizzò l’occhio con fare complice.
A creare l’elemento di disturbo in quella fittizia armonia ci pensò Naive con la sua presenza. Era sgattaiolata dalla zona bambini per concedersi un bicchiere d’acqua. Era stufa di andare al buffet per l’acqua aromatizzata e tutte quelle cose strane che offriva da bere la tavola imbandita. Lei voleva della semplicissima e banalissima acqua.
Quando si ritrovò davanti quella riunione improvvisata, composta da quattro paia d’occhi che la scrutavano quasi straniti, si sentì in dovere di spostarsi i capelli dietro l’orecchia, piegare la testa verso destra e domandare: «Di cosa state parlando?».
Pemberley, se avesse potuto, le avrebbe detto che stava cercando dell’alcool per ubriacarsi, dato che la sua vita era un totale fallimento da quando aveva diciassette anni ed era il disonore della madre e il pessimo investimento di Rhys. Decise di optare per un fastidioso silenzio che sperava di riempire con qualche idea dell’ultimo minuto.
Cass e Sil sapevano che non era il caso di dire a una bambina di dieci anni che avevano problemi a relazionarsi tra loro a causa del sesso e delle incomprensioni che la mancanza di questo aveva portato nel loro rapporto, avevano provato a rispondere in modo neutro, ma nulla era uscito dalle loro bocche.
«Di quanto sia bella l’amica della tua mamma, piccola». Yoshi aveva visto lo sguardo preoccupato di Naive davanti alle espressioni colte in fallo degli altri tre, aveva così deciso di salvare tutti, parlando e interrompendo quel fastidioso silenzio.
L’ultima frase, insieme a quella precedente, fecero scattare qualcosa in Cassidy.
«Sei bisex?!» quasi urlò nel rivolgersi al suo accompagnatore.
Intanto Pemberley aveva provato a tappare le orecchie a Naive, ma non sapeva quanto avesse ottenuto, dato che era avvenuto tutto in un attimo.
«Perché, tu no?». Una domanda retorica.
«Certo» rispose ovvio Cass. «Ma io te l’ho detto».
Joshua alzò le spalle con fare indifferente. «Io no, in fondo non era utile ai fini del nostro frequentarsi».
Talmente semplice che non faceva una piega come discorso.
Il silenzio si era fatto teso, nessuno sapeva cosa dire o fare per smuovere la situazione.
Fu la famosa ingenuità infantile a parlare per bocca di Naive.
«Mamma, cos’è bisex?» lo sguardo curioso di chi non riusciva a capire nonostante lo desiderasse con tutto il cuore e la voglia di conoscere di chi sapeva che doveva ancora scoprire molto riguardo il mondo che le stava attorno: Naive era così.
Amava la figlia per la sua sagacia, ma odiava quanto in fretta potesse apprendere e registrare il suo cervello. Non voleva farla crescere prima del tempo, voleva che si godesse un mondo popolato da unicorni, fiori e farfalle fin quando avesse potuto. Era facile volerlo abbandonare alla sua età, il voler sentirsi grandi a tutti i costi, ma era un’innocenza che – quando andava persa, con il senno di poi – si rincorreva per una vita intera da adulti, una sensazione che mai più si sarebbe provata.
«Un biscotto» rispose d’istinto la madre, cercando di salvare la situazione.
Se la sentenza fece trattenere un sorriso a Silene e Joshua, fece invece scoccare un’occhiata di rimprovero da parte di Cassidy. Aveva imparato dalla paura verso le diverse sessualità a comportarsi in quel modo sfacciato. Ostentava il sesso e le sue preferenze sessuali per irritare chi non le condivideva, perché aveva passato troppo tempo confuso e in balìa delle persone meschine che lo giudicavano senza sforzarsi di capire.
Davanti a quello sguardo ferito Pemberley sospirò arresa all’evidenza: Cassidy non gliel’avrebbe fatta passare liscia, e forse era giusto iniziare a trattare la figlia come un piccolo adulto e non come la bambina che aveva sempre visto.
Silene, capita la gravità della situazione, prese Joshua a braccetto e indicò con la testa il party che, nel frattempo, incalzava senza di loro. Quale modo migliore per dare fastidio a Cassidy se non cercare di rubargli il divertimento di turno? Josh, d’altronde, non le dispiaceva affatto; non doveva neppure sforzarsi di fingere che le interessasse, perché era incuriosita da lui in modo sincero.
Cassidy era poggiato al bancone della cucina: le braccia incrociate e negli occhi il fuoco inquisitorio di chi pretendeva che la verità venisse rivelata e fosse fatta giustizia, non intendeva cedere di un passo finché non avesse sentito Pemberley dare delle spiegazioni decenti alla figlia. E la diretta interessata sapeva di non potere sfuggire né a lui né al suo sguardo.
Non sarebbe scappata da lui, dal suo giudizio muto che sapeva di delusione, fino a quando non avrebbe spiegato a Naive come girava davvero il mondo, senza raccontare favole o frottole.
«Tesoro, avvicinati». Naive, che si stava allontanando, tornò sui suoi passi e si fermò davanti alla madre. «Bisex non è un biscotto, ma è una persona che ama sia uomini che donne».
Sperava che fosse abbastanza per Cassidy, anche se aveva storto la bocca e alzato gli occhi al cielo prima di annuire, e che lo fosse pure per Naive, perché non avrebbe retto davanti alle sue domande dirette e sincere.
Lei, dall’alto dei suoi dieci anni e delle sue conoscenze sull’amore, alzò le spalle prima di parlare. «Bello! Tutti dovrebbero amarsi, uomini e donne».
Cassidy, chiuso nel suo silenzio fatto di speranze, aveva sorriso dietro alla barba di qualche giorno, sentendo nelle parole della nipote uno spirito libero da pregiudizi, avendo la sensazione che forse, un giorno, il mondo sarebbe stato un posto migliore.
«Ma certo amore, tutti e indistintamente». Le sorrise la madre, tranquillizzata dalla sua reazione entusiasta.
Fu Naive a sorprendere i presenti, rabbuiandosi un poco. «Però io non sopporto Nancy Decker, ecco perché sono scappata dall’area gioco. Ora ci torno, ma non penso che adesso mi starà simpatica o le vorrò bene» si allontanò dallo zio e dalla madre agitando la mano. Poi, sulla soglia, si girò verso di loro «Cavoli, è difficile amare tutti».
Riprese il percorso che aveva interrotto, lasciando aleggiare tra Cassidy e Pemberley un clima disteso che fece dimenticare loro il perché si erano ritrovati in cucina.
«Ottimo lavoro» si congratulò lui, soddisfatto del discorso che Pemberley aveva fatto a Naive.
«Sei un cretino. Ti sei occupato tanto dei tuoi affari da non notare che Silene ti ha soffiato l’accompagnatore da sotto il naso».
Pemberley lo fissò mentre, preoccupato, si ributtò nella festa, lasciandola senza compagnia e senza vino.
 
«La HewittCorp è davvero molto legata alla Lost Children, se siamo qui è proprio grazie a loro…» sua mamma, menzionando le grandi società di New York, stava cercando di far colpo su quella coppia di texani appena conosciuti. D’altronde si presentava alle feste a Manhattan proprio per trovare nuovi accoliti, e quale modo migliore se non pronunciare il nome di una società rinomata in tutti gli Stati Uniti?
Un’idea improvvisa colpì Pemberley in quel momento di noia.
«Mamma, appena siamo più tranquille mi racconti la storia della famiglia Hewitt?» gliel’aveva sussurrato soltanto quando i coniugi del sud si erano distratti un attimo, spinta da quel moto di curiosità che la portava a chiedersi come mai, a due settimane dalla parte, Rhys non fosse ancora tornato.
«Con piacere tesoro, con calma ti racconterò quello che so». Lo faceva con piacere, perché vedere interessata la figlia a qualcosa che riguardava la società era un evento unico, un’occasione irripetibile che non si sarebbe fatta certo sfuggire.
Inoltre, a un po’ di pettegolezzo, non avrebbe mai detto di no.
 
Era quasi febbraio, la sera in cui era felice di essere rintanata in casa con Naive, dato che fuori imperversava un vero e proprio acquazzone.
Stesa sul divano grande, avvolta da una coperta e in compagnia della figlia – sdraiata sul divano più piccolo – si godeva la pioggia che, violenta, batteva sui vetri scivolando poi arresa sulle finestre. Il rumore aveva creato un dolce sottofondo a cui si accompagnava solo il bagliore di qualche lampo o il frangente di un paio di fari che passavano sotto casa loro.
Fu nel momento in cui sentirono picchiare alla porta con una certa forza e disperazione che si spaventarono entrambe.
«Mamma, chi è?» Naive , terrorizzata da quel colpire furioso e inaspettato, si era tirata il plaid fino al naso, come se servisse a proteggerla.
«Non lo so, vado a vedere. Tu resta qui».
La piccola non se lo fece ripetere due volte. Cercava soltanto di spiare dal divano verso la porta, in tensione.
Pemberley, con il cuore a mille, aprì l’uscio il minimo indispensabile, quello che la catena permetteva per spiare fuori casa.
Se, fino al momento prima di alzare lo sguardo, il cuore aveva accelerato i battiti, davanti a ciò che le si era presentato aveva smesso di martellare per una manciata di secondi.
Chiuse la porta per togliere la catena e poterla aprire del tutto: doveva vedere con i propri occhi che non si stava sognando la persona al di là dell’uscio.
Senza niente a separarla dalla persona fuori di casa, il cuore le sprofondò nello stomaco, ingoiato da quella stretta piacevole e dolorosa al tempo stesso.
Due occhi chiari e duri del colore della tempesta, tanto erano burrascosi, da farle paura. La pelle imperlata dalla gocce di pioggia che non l’avevano risparmiato, nonostante per molti fosse una specie di Dio sceso in terra. Ma si sapeva: la natura non faceva sconti a nessuno.
E poi Pemberley si accorse che non c’era rabbia in quello sguardo, ma solo la stessa disperazione che aveva percepito nei colpi sul legno che tanto l’avevano spaventata. Intimorita lo era ancora, perché nonostante la persona davanti a lei fosse vestita di tutto punto, quello sguardo e quella disperazione erano la nudità di ciò che aveva dentro: paura, terrore, smarrimento.
Rhys Hewitt vestiva un impermeabile fradicio di pioggia, ma era la sua anima a essere corrosa dal ticchettio della pioggia, non l’esterno che, nonostante tutto, era curato. Era vestito delle sue scuse, indossava le sue paure per la prima volta senza vergognarsene, troppo preoccupato per pensare di apparire debole o fragile, perché la vita l’aveva infine travolto.
«Ho trovato il portone aperto. Io lo so, non dovrei essere qua… Solo che…» era fermo sulla porta, incerto su quale parola mettere in fila alla precedente. «Non sapevo a chi rivolgermi»
«Cosa c’è?».
In quel momento Pemberley aveva visto i fantasmi del suo passato vorticargli attorno. Dopo aver parlato con la madre della storia degli Hewitt aveva compreso il motivo del viaggio in Russia, sapeva cosa c’era là, almeno in parte.
«Ho bisogno del tuo aiuto». Il tono supplichevole che mai gli era appartenuto in ventotto anni di vita, la richiesta che non aveva avuto bisogno di fare prima di quel momento.
Alzò le sopracciglia in un’espressione stupita, perché non riusciva a trovare le parole adatte per invitarlo a proseguire.
Voleva che lo facesse? Era lì, disperato, bisognoso del suo aiuto in quel momento, ma era la stessa persona che aveva tagliato i ponti con lei per non aver raccontato la verità. E, anche se l’avesse fatto, l’avrebbe scaricata per un esubero di responsabilità da parte sua. Era disposta a concedere aiuto a una persona simile?
Rhys fu bravo a leggere la sua incertezza. Decise così di giocare a carte scoperte almeno una volta, ne aveva bisogno.
Si girò verso la propria sinistra, invitando qualcuno a farsi avanti.
Comparì, timido e lento, un bambino sui dieci anni dai capelli incredibilmente biondi e gli occhi chiari. A dirla tutta, sembrava la copia di Rhys, o la sua versione infantile.
«Lui è Austin» disse appoggiandogli la mano sulla spalla con fare paterno.
Non le ci volle altro per capire la situazione.
Ora il viaggio in Russia aveva assunto un significato diverso, aveva compreso lo sguardo di terrore di Rhys.
«Vieni, entrate pure». Si fece da parte, liberando la via d’entrata per permette loro di accomodarsi. Aveva deciso, ancora una volta, di essere la persona buona che meglio le riusciva.
E capiva cosa l’aveva convinta ad accettare quella richiesta d’aiuto.
Gli occhi di Austin erano spaventati tanto – e come – quelli di Rhys.
Occhi di chi non sapeva dove guardare, lo sguardo di chi aveva perso tutto, soprattutto la via da seguire.
Ecco cosa l’aveva impietosita: negli occhi di Rhys aveva visto lo sguardo di un bambino sperduto.
Lo sguardo di Austin.

* * *

Buonasera! Mi scuso per il ritardo, ma il capitolo è stato ostico e io sono stata risucchiata dalla vita vera... è stato difficile far conciliare tutto. Ma alla fine ce l'ho fatta, no?
Per farmi perdonare ho scritto un capitolo più lungo del solito e, alla fine, ho sganciato la bomba. Questa parte sarà fondamentale ai fini della storia perchè "la riscriverà" ancora, nel prossimo capitolo verrà spiegato chi è Austin e perchè si trova in America.
Avete notato che non c'è stato Nathan? Cosa ne dite, meglio o peggio?
Non sarà sempre così, purtroppo per voi, perchè anche lui è un protagonista. Inutile dire che Rhys, qui, è stato uno schifo d'uomo. Riuscirà a redimersi, prima o poi?
Spero che possa esservi piaciuto!
Intanto vi ringrazio per aver continuato ad aggiungere la storia nonostante la mia latitanza prolungata.
Come avete notato ho modificato il titolo della storia. Questa parola m'è balzata in mente per sbaglio, sentendo una canzone e giocando con le parole. Ho trovato che, come titolo, fosse adatto, solo che odio cambiare i titoli alle storie in corso, così l'ho solo aggiunto. Ecco tutto.
Siccome dovrò lavorare alla tesi e studiare per gli ultimerrimi esami *w*, non so quando arriverà il prossimo capitolo. Sappiate solo una cosa: non abbandono la storia.
Nel mio gruppo fb troverete le facce dei protagonisti. Nel caso foste curiose vi lascio il link, lì aggiorno sempre anche sulla situazione del capitolo in lavorazione: Love Doses.
Ho notato una cosa: se dopo aver letto guardate la copertina della storia nel capitolo 1, capirete tutti gli elementi e tutte le foto. Gli spilli, il metro, i due bambini...
A presto, sbaciucchiamenti, Cris.

 

   
 
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