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Autore: adropintheocean_    31/03/2013    5 recensioni
"Sono un paio di fossette e un sorriso allegro che catturano la mia attenzione.
C’è un ragazzo, in fondo al locale, tiene in mano un vassoio con due bicchieri vuoti e un piatto con qualche briciola. Indossa un grembiule verde scuro, legato sui fianchi, sopra un paio di jeans sgarrati. Sorride cordiale a due ragazze sedute al tavolo, poi si gira per tornare indietro.
Volta lo sguardo, per un secondo questo si intreccia al mio.
Mi viene voglia di alzarmi dal tavolo, andare lì da lui, prenderlo e baciarlo. Quindi lo faccio."
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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All’ora di pranzo Jamie annusa la cucina come un cane da tartufo. Apre la credenza, la osserva un po’, poi la chiude. Accende il gas e poi lo spegne di nuovo.
Jackson e mia madre si siedono in salone a guardarsi in faccia, lei con un piatto di mozzarella e insalata, lui con un panino grondante di sottiletta sciolta e prosciutto crudo. Un pranzo speciale per una giornata speciale, constato ironicamente.
Si guardano negli occhi senza proferire parola, con un sorriso silenzioso ed eccitato appena accennato sulle labbra. Sembrano due adolescenti che hanno la casa libera per la prima volta e la cosa fa sorridere anche me.
“Hai bisogno di aiuto?” mi avvicino a Jamie che imperterrito annusa ogni fonte di cibo.
“Non avete quelle cotolette precotte da mettere in forno pronte in cinque, sei minuti?” mi domanda mentre apre il frigorifero per la tredicesima volta.
“Oh no, mia madre è un medico, ti pare che possiamo permetterci robe scadenti di quel genere?” rispondo sarcastica. “Solo cibo genuino” rido sotto i baffi.
“Sarà dura abituarsi. Di solito mangio almeno una volta a settimana da McDonald’s. È più forte di me, le crocchette di pollo mi chiamano come fossero figli affamati” gongola con un’espressione in estasi.
“Ma sei tu a mangiarle, povere crocchette di pollo!” ribatto fingendomi addolorata.
“Si, certo. Loro cercano la madre, peccato che io sia il lupo cattivo” fa una faccia aggressiva e mima un ringhio.
Gli do una spinta giocosa, poi il campanello trilla facendoci sobbalzare.
“Aspettiamo qualcuno?” domanda Jamie percorrendo il soggiorno seguendomi.
Mia madre mi guarda passare con un’espressione incuriosita, la stessa che colora il viso di Jackson.
Apro la porta senza nemmeno curarmi di  guardare dallo spioncino o perlomeno di chiedere chi è. La mia bocca si spalanca a metà.
Fuori dalla porta ci trovo mio padre, con un’espressione eccitata come quella di un ragazzino che gioca a pallone con gli amici. È vestito del suo solito completo nero, giacca e cravatta sobria, nonostante faccia un caldo da far girare la testa.
“Sorpre … sa” la parola si interrompe a metà mentre i suoi occhi fanno il giro di ricognizione della casa e vedono due intrusi: Jamie (intruso non molto sconvolgente) e Jackson, seduto al tavolo accanto a mia madre, sgomenta. Qualcosa nell’espressione di mio padre mi dice che i due già si sono conosciuti in passato e molto probabilmente non si sono trovati simpatici.
“Papà!” inizio e cerco di sorridere. “Che … che ci fai qui?” anche se non voglio sembrare acida,  la mia frase suona molto scorbutica.
“Allison, Jackson” mio padre fa un cenno col capo a mia madre e all’uomo seduto accanto a lei. Ha il viso tirato, esibisce il sorriso più falso e sconvolto che può. “L’idea era quella di farti una sorpresa. Ma a quanto pare me l’avete fatta voi a me …” si gratta la testa imbarazzato.
Ridacchio fingendomi divertita della situazione, ma non lo sono affatto. “Prego, entra” gli dico e la sensazione che provo quando lo invito ad entrare nella casa che una volta era sua mi scombussola lo stomaco.
S chiude la porta alle spalle, Jamie gli sbarra la strada. “Molto piacere, mi chiamo Jamie. Non so se si ricorda di me” sembra un bambino mentre gli offre cordiale la mano.
“Si, certo che mi ricordo. Ai pranzi di lavoro giocavi con mia figlia” i due si sorridono ancora educatamente, poi procedono fino ad arrivare al tavolo dove poco prima Jackson e mia madre consumavano il loro primo vero pasto insieme.
Improvvisamente mi rivengono in mente alcune immagini del passato: ci sono io che corro intorno  al tavolo, inseguita da questo bambino in carne con le guance rotonde come quelle di un criceto e nel frattempo ci sono i miei genitori, seduti uno vicino all’altra, che chiacchierano con un uomo alto e brizzolato, con due occhi azzurri come il ghiaccio e un’altra donna. Quest’ultima ha i capelli color cenere e gli occhi castani stanchi e cerchiati. È la madre di Jamie.
Mi blocco per qualche istante guardando la scena surreale che si svolge in casa mia: c’è mio padre, con la sua espressione tiratissima come un elastico allungato al massimo, che stringe (stringe sul serio!) la mano a Jackson, che tiene lo sguardo basso, come un bambino costretto a ridare il giocattolo rubato al suo peggior nemico. Mia madre saluta mio padre con la solita e insignificante stretta di mano, prova a sorridere ma negli occhi leggo una sorta di vergogna, di imbarazzo colpevole per aver fatto qualcosa che non andava fatto. Io e Jamie ce ne stiamo in disparte, silenziosi, con gli occhi puntati verso gli adulti che portano avanti la loro taciturna guerra fredda.
“Essendo domenica ho pensato di fare una sorpresa a Marylou e venirla a trovare” mio padre si volta verso di me. “Mi piacerebbe portarti al parco, oggi è una giornata stupenda. Ci si fa una bella passeggiata, eh, che ne dici?” mi propone, i suoi occhi traboccano di una tenera speranza che per poco non mi commuove.
Non ho alcuna voglia di andare al parco a passeggiare con mio padre dopo aver vissuto una situazione del genere. So che sta soffrendo, glielo leggo in faccia e non voglio arrivare a parlare di lui che è rimasto solo in una nuova città, senza né me e né mia madre. Solo. Ho paura del suo dolore, ho paura di pensare veramente a come sta, a quanto può piangere la sera prima di andare a dormire vedendo la casa vuota e isolata. La tv accesa che trasmette qualche sciocca telenovela sentimentale e lui che la spegne e tira il telecomando sul divano. Lui che arriva in bagno e che vede  il bicchiere di carta che contiene soltanto uno spazzolino per denti, invece di due. E anche se può sembrare una cosa stupida, il solo fatto di vedere due spazzolini adagiati nello stesso bicchiere, uno che pende da una parte e uno dall’altra, secondo me dà una grande sicurezza. Ti dà la forza di resistere al mondo odierno, alla quotidianità  e alla routine che ti distrugge. Ti fa sentire meno solo, anche se in fondo, per quanto una persona si danni alla ricerca dell’amore, siamo tutti soli.
Ma ora che ci penso, se mai dovessi scrivere un libro d’amore, la copertina sarà la foto di un bicchiere e due spazzolini dentro. Ora non riesco ad immaginare niente di più romantico di quest’immagine idilliaca. Il vero amore non è la spiaggia al tramonto vista mano nella mano, non è una scatola di cioccolatini e una rosa rossa; l’amore è una mozzarella tagliata in due perché mangiata da sola è troppo per una persona. L’amore è il dormire insieme e russare infastidendo l’altro. Tutte quelle immagini che ci propinano i film sono stronzate e forse è per questo che siamo tutti costantemente delusi dalle nostre storie sentimentali. Ci carichiamo di aspettative che puntualmente non si avverano e il nostro sogno di amore perfetto, con tanto di carrozza a forma di zucca e principe azzurro, si infrange in mille pezzi, come un specchio scivolato sul pavimento.
Mia madre chiede a mio padre come va il lavoro, se si trova bene nella nuova città, se si è fatto nuove amicizie tra i colleghi.
“Va alla grande. A volte faccio fatica a capire il dialetto, ma la città è pulita e le persone sono gentili” risponde mio padre che evita lo sguardo di mia madre.
Dopo qualche istante di silenzio imbarazzante, tappezzato da qualche falso sorriso di circostanza, giungo in salone e batto le mani a mo’ di incoraggiamento. “Allora, si va?”
Mio padre chiede a Jamie se vuole unirsi a noi, ma lui rifiuta dicendo che fuori “ci si scioglie dal caldo”, testuale. Perciò, io e mio padre, come due scolaretti amici, imbocchiamo la porta di casa e ci avviamo a passo lento, indeciso e imbarazzato verso la nostra meta. Sono rilassata perché so di non poter incontrare Adam: nonostante il parco sia il suo luogo preferito, ama frequentarlo solo la mattina presto e ora sono più o meno le due del pomeriggio. Perciò sono salva dall’ulteriore imbarazzo. Mi figuro la scena della testa, il sorrisetto spassoso di Adam che allunga la mano per stringerla a mio padre e fa: “Piacere, sono il ragazzo di sua figlia” e mio padre che sbianca. Sarebbe divertente, se solo io non fossi la figlia.
“Allora …” inizia mio padre grattandosi la testa, gesto che fa sempre quando è in imbarazzo.
Tranquillo papà, siamo in due.
“Che fai in questi giorni?” mi domanda e probabilmente è la prima cosa che gli passa per la testa.
Facciamo il nostro ingresso nel parco, Jamie aveva ragione: il caldo è soffocante e le strade sono quasi deserte, tranne qualche coraggioso sparso qua e là, tipo noi.
Alzo le spalle con nonchalance. “Esco con qualche amica, niente di che” sottolineo il femminile.
Mi indica una panchina poco più in là, si trova accanto alla fontanella davanti alla quale incontrai Adam. Mi sembra ieri quel giorno e invece è passato più di un mese. Le mie labbra si aprono inconsciamente in un sorriso mentre ci accomodiamo.
Mio padre si sfila la giacca e si arrotola le mani della camicia. “E …” sembra un po’ titubante, poi mi dà di gomito e mi fa l’occhiolino. “Il ragazzetto ce l’hai?”
Arrossisco e mi viene improvvisamente da ridere, non so nemmeno io il perché di questa reazione. Mi ravvio i capelli ostentando tranquillità. “Papà!” lo riprendo mentre rido. Dovrei calmarmi, ma non ci riesco.
Oddio, non ci riesco proprio.
Mio padre mi guarda come se fossi un creatura rara, con quello sguardo un po’ incuriosito e un po’ spaventato, mentre io mi dimeno col petto sconvolto da una crisi di ridarella acuta. Ora ne sono certa: ho un serio bisogno di uno psichiatra. Si, uno psichiatra, anche peggio dello psicologo.
Quando finalmente mi calmo, grazie a dei lunghi respiri rilassanti, lo osservo: lui continua a guardarmi con quello sguardo sgomento di fronte alla mia strana reazione.
“Toccato tasto dolente?” domanda dopo poco.
“No … no, no. Anzi” mormoro a bassa voce, non so se voglio che mi senta o meno.
“D’accordo, forse è meglio cambiare argomento, che dici?” mi sorride gentile.
Annuisco con foga. “Mi sa di si. Al lavoro va davvero bene?” gli domando accertandomi che dica la verità.
Stringe le labbra come se ci stesse riflettendo su. “È …” soppesa le parole da dire. “È diverso” conclude infine.
“Quindi va male” deduco abbassando lo sguardo.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto che debba soffrire. Che debbano tutti soffrire.
“No. Diverso non è male. Diverso è … diverso” per quanto si sforzi non riesce a spiegarsi a parole, ma il tono della sua voce e il suo sguardo parlano per lui.
“Ti manca mai la mamma?” non controllo io ciò che esce dalla mia bocca, la frase esce e basta, come fosse un fiotto di sangue grondante da una ferita aperta e non cicatrizzata.
Mio padre, dapprima stupito per la domanda, mi rivolge uno sguardo contrito. “Si. Ma, non fraintendermi, non mi sono pentito del divorzio” posa le mani sulle ginocchia e si sgranchisce la schiena. “Tornando indietro rifarei tutte le scelte che ho fatto. Però la mia vecchia vita mi manca. Non posso impedirmi di guardare al passato con un filo di nostalgia. Anzi, molto più di un filo. Non c’è niente di più difficile di guardare dietro di sé, Lou, e rendersi conto che ciò che si aveva prima non tornerà mai” abbassa lo sguardo, si scrocchia le dita.
Le sue parole mi fanno sentire un nodo allo stomaco. Mi rendo conto della fugacità della vita e della labilità delle cose. Di quanto la felicità duri davvero un solo istante per poi farti ripiombare nella solita noiosa routine che è la tua vita, la tua reale esistenza. È terribilmente frustrante, ma la verità è che noi non abbiamo il comando di niente, nemmeno di noi stessi. Nessuno controlla il proprio destino, quello c’è e accade. E basta, non ci si può fare nulla, non lo si può impedire.
“Mi dispiace per come sono andate a finire le cose. Ma io e la mamma non avremmo mai voluto finire come quelle famiglie che litigano dalla mattina alla sera. Abbiamo resistito fin quando abbiamo potuto, credimi” mi carezza la guancia con la mano un po’ tremante.
“Ci siete riusciti” mormoro sconsolata. “Intendo a resistere. Non avevo capito assolutamente niente. Né di te e la mamma, né del bambino” dire quella parola mi fa ancora parecchio strano.
“Ah, è un maschio …” sussurra mio padre annuendo tra sé e sé.
“Mi dispiace, papà” balbetto mordendomi il labbro inferiore.
“Oh, non preoccuparti. Tua madre se la  caverà, ora ha Jackson. E me la caverò anche io. Sono grande e vaccinato” mi fa un occhiolino per stemperare la situazione, ma il dolore che trabocca dai suoi occhi mi investe annegandomi.
Gli salto al collo e in quello stesso istante mi rendo conto che io adoro abbracciare le persone. Non faccio altro. Sorrido e lui mi batte una pacca sulla schiena.
“Tuo padre è un ragazzone, che ti credi” lo sento ridacchiare, mi stringe al petto e poi sciogliamo l’abbraccio.
Chiacchieriamo tranquillamente nel ritorno a casa, il treno di mio padre parte alle sette di sera e lui vuole essere puntuale. Saluta mia madre, Jackson e Jamie e siamo di nuovo tutti protagonisti di un lungo silenzio imbarazzante,
“Beh” io e mio padre rimaniamo soli alla porta per qualche minuto. “Mi ha fatto piacere” sorride sincero.
“Grazie di tutto papà. Anche a me ha fatto piacere, davvero” lo abbraccio di nuovo.
Mio padre è un po’ impacciato quando mi accoglie tra le braccia, mi batte ancora sulla schiena, è come se si sentisse in dovere di fare qualcosa. Di sicuro la mia timidezza cronica me l’ha trasmessa tutta lui. Beh, non c’è che dire, grazie papà.
Lo guardo andare via, allontanarsi dalla casa che una volta era sua e l’immagine non potrebbe sembrarmi più strana e irreale. Mi volto, chiudendomi la porta alle spalle. Ho soltanto voglia di chiudermi nella mia camera e piangere. Ho una fottuta voglia di piangere e impregnare completamente il cuscino delle mie lacrime. Non so neanche perché. Forse il problema è che stanno cambiando troppe cose e troppo in fretta. E io ho paura. Ho paura che ormai niente più durerà nella mia vita. Sento le persone a me care scivolarmi via dalle mani, come fossero una brocca d’acqua infranta a terra. Vorrei essere quel dannatissimo panno che assorbe l’acqua, che se la tiene dentro di sé. E forse lo sono, o meglio lo ero. Solo che qualcuno è arrivato e mi ha strizzato fino all’osso e tutto ciò che custodivo gelosamente mi è scivolato di dosso senza che io potessi fare niente.
E anche adesso me ne sto qui, impotente, a piangere le poche lacrime che mi sono rimaste.    


Mi prendo un mini-spazio per augurarvi a tutte/i una BUONISSIMA PASQUA! A tutti voi che leggete, recensite (e robe varie) la mia storia...un grosso, grossissimo e sincero grazie. Vi auguro di mangiare chilate di cioccolata e non ingrassare nemmeno di un etto (this is true love <3). No seriamente, io vi potrei anche amare, siete tutti fantastici, passate delle splendide vacanze e se vi avanza troppo cioccolato...scioglietelo e fateci il bagno! 
Un enorme bacio, spero che il capitolo sia di vostro gradimento :) 
  
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