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Autore: hanabi    20/04/2013    2 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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La Squadra Sacrilega mangiava all’aperto, dopo aver discusso dei nuovi colpi da mettere a segno. I predoni sedevano in capannelli in vari punti del cortile della vecchia e grande casa appartenuta al mercante Kor, prendendo i cibi semplici dai vassoi d’ottone che uno dei loro aveva rubato portandoli poi come dote a tutto il gruppo. Sul brusio delle chiacchiere, il menestrello giocava tra armonie sayanni e melodie kelith (cosa per cui era stato condannato ad avere una mano mozzata nel suo villaggio sulla costa). Il lungo giorno era stato concluso dal solito repentino tramonto del sole giallo, e l’azzurro si avvicinava all’orizzonte, dando al cielo una luminosità perlacea.

Ran non mangiava, non aveva fame. Però beveva, e molto; e guardava giù dal muretto del pozzo, la figura intabarrata nel solito mantello chiaro, col cappuccio alzato, che sedeva a gambe incrociate sul tappeto di seta, srotolando i rapporti del contabile. 

Ricordava la stessa figura, che era finalmente riapparsa alle porte della Grande Casa, completamente avvolta in abiti da deserto, il passo incerto, quasi sonnambulo di chi avesse una lunga marcia alle spalle. Ad attenderla c’erano Saal e alcuni suoi servi, che si erano buttati in ginocchio nel rituale saluto.

E lui, naturalmente: era stato avvertito dalla staffetta di predoni che da giorni faceva la spola tra la sua casa e i Marjaban, in cerca di notizie. 

Deyan-shir sta tornando!  

Gli era andato incontro, diviso tra la voglia di abbracciarlo pieno di sollievo, e quella di tirargli il collo per tutta l’angoscia e la delusione che gli aveva fatto provare. 

Questo dannato testabianca che io stupidamente mi ostino a chiamare amico, e che mi ha lasciato senza una parola, a tormentarmi di rimorso e paura; e già li vedevo, tutti i miei sogni di gloria, impalati su una picca nella piazza di Shana!

Ma non aveva fatto in tempo a scegliere cosa fare: quel mucchio di stoffa impolverato si era semplicemente afflosciato davanti a lui. Era riuscito ad afferrarlo un attimo prima che cadesse a terra, e aveva sentito il suo respiro stentato; gli aveva strappato il velo dal viso per fargli aria, e aveva visto un volto di gesso, con un inquietante reticolo di venuzze azzurre sulle guance, le labbra secche e spaccate dalla sete. Sembrava in punto di morte...

“Dèi del profondo!” aveva esclamato. 

Aveva preso la sua borraccia e gli aveva versato acqua sulle labbra, ma lui non l’aveva inghiottita: era rimasto inerte, con gli occhi dietro la maschera di cristallo persi, quasi allucinati. Era giunto Saal, che si era chinato sul volto del suo padrone, come per fiutarlo... per poi raddrizzarsi, con l’espressione cupa e piena di pena di chi riconoscesse una situazione già nota.

“Mastro Ran lasci fare a questo servo.”

“Ma...”

“Penseremo noi a Deyan-shir.”

E senza altre spiegazioni aveva gridato ordini come un generale in battaglia: i suoi erano scattati a sollevare il corpo inerte del loro padrone per portarselo via, come se fosse stato la preda ambita di un furto; e Ran era rimasto nella piazza da solo, sconcertato e amareggiato.

Non aveva più rivisto Deyan per tre giorni. Inutile anche visitare la sua casa: la sua servitù l’aveva amorevolmente rinchiuso nella shanda, assieme alle sue donne, dove solo il suo eunuco poteva entrare a somministrargli i rimedi ordinati da Saal. 

Quelli, la sua giovane fibra e tanto riposo l’avevano rimesso rapidamente in forze, e quel giorno era finalmente riapparso alla casa di Ran, con il suo solito tappeto arrotolato su una spalla. Non aveva dato spiegazioni sugli ultimi eventi, e nessuno aveva osato insistere: tra predoni era meglio capire alla svelta quando era il caso di farsi gli affari propri.

Ma Ran era convinto che fossero anche affari suoi.

Guardò il suo socio, unica figura isolata in mezzo a quell’atmosfera conviviale, separato da tutti gli altri da un invisibile muro... e provò una sensazione acida alla bocca dello stomaco.

Sono stanco di aspettare una tua parola di chiarimento, Deyan-shir. 

Smontò dal muretto, e deliberatamente si accosciò sul suo tappeto, di fianco a lui. Era un gesto inconsueto, una sorta di invasione, e Deyan si irrigidì lievemente a quella vicinanza; ma non protestò. Posò con calma le carte che stava leggendo, e rivolse a Ran uno sguardo appena educato.

“Cosa vuoi?”

“Dimmi perché sei andato proprio su Shana.”

Lo sguardo si spostò, come per indicare la volontà di non rispondere.

“Avanti, Deyan-shir! Lo sai anche tu cosa sta facendo tuo fratello a ogni predone, vero o presunto che sia. E sulla tua testa c’è una taglia che vale un feudo intero. Per giorni ho temuto che ti avessero catturato...”

“Era un rischio necessario.”

“Dove sei stato?”

“Non posso dirtelo.”

“Non puoi o non vuoi?”

Gli occhi si spostarono su di lui; alla luce del sole azzurro, sembravano viola.

“Non posso e non voglio.”

Ran si adombrò. “Perché non mi hai chiesto di venire con te? L’avrei fatto volentieri!”

“La cosa non ti riguardava.”

“Pensi che il rischio mi avrebbe spaventato? Non mi sembra di averti mai dimostrato di essere un vigliacco. Ti ho seguito persino su Sayanna per rubare quel libro, anche se pure allora mi avevi detto che la cosa non mi riguardava...”

“Stavolta non potevi seguirmi dove sarei andato. Non passi inosservato, tra la mia gente.”

“Nemmeno tu, te lo ricordo.”

“Se mi lascio guardare. Con le vesti da deserto sono uno Shanì indistinguibile dagli altri.”

“Potevi almeno avvertirmi!”

“Non me ne hai dato il tempo. Te ne sei andato, dopo aver festeggiato la morte di mio padre davanti a me, e avermi detto in faccia che mia madre era vittima della mia stessa razza di assassini.”

Ran si sentì friggere le guance. “Deyan-shir...”

Finalmente ho capito, sei in collera con me. 

“E ad ogni modo, a che pro avvertirti? Avresti tentato di opporti alla mia decisione, così come adesso sei qui a chiedermene conto.”

“Ritengo che sia un mio diritto! In fin dei conti tu appartieni alla mia fratellanza...”

“Un concetto sayanni, dietro il quale nascondere un’invadenza da barbaro.”

Ran restò fulminato. “Che cosa...”

“E comunque io appartengo soltanto a me stesso. Non hai alcun diritto su di me, e non ti devo alcuna spiegazione sulle mie questioni personali.” 

Ran digrignò i denti. Adesso sono io in collera con te. 

“Mi devi almeno del rispetto, Deyan-shir.”

“Mentre tu invece puoi mancarmene a piacimento?” Un’occhiata allusiva al suo tappeto. “Bada a ciò che fai, Ran. C’è un limite a ciò che sono disposto a sopportare da te.”

“Non farmi pentire di averti regalato questo limite.”

Gli occhi viola mandarono un lampo. “È tardi per pentirti. E la prossima volta che mi ricorderai la mia passata condizione servile, sarà anche l’ultima. Che ti piaccia o no, non porto più il tuo collare... sono un libero predone!”

Ran strinse i pugni, fissando quel volto insopportabilmente altero. E si rese conto che mai tra lui e Deyan c’era stata una tensione simile... era come se alla fine le loro differenze razziali si fossero accumulate, raggiungendo il punto di rottura. 

C’è solo un modo per sistemare questa faccenda tra noi.

“Un libero predone, hai detto?”

Si alzò, lentamente; prese la propria lancia, e la piantò a terra davanti a lui.

I membri della banda, che stavano chiacchierando, notarono il gesto e si zittirono progressivamente. 

“Che significa?” chiese Deyan, guardando quella lancia conficcata a terra.

“Che da predone a predone ti sfido, Deyan-shir. Nello stile di Luna di Fuoco. Non un duello, solo un bel regolamento di conti tra compagni.”

Tutti emisero un mormorio sorpreso. 

Deyan alzò lo sguardo, con un’occhiata ironica. “Qualcuno mi disse che nessun degno sayanni di Luna di Fuoco avrebbe mai sfidato un debole kelith.”

“Non pubblicamente, certo; ma qui siamo tra di noi, è una faccenda privata.” Un sorriso da lupo. “Avanti, divertiamo un po’ i nostri compagni. Mostrami quel che sai fare.”

“No. Non voglio battermi contro di te, neanche per gioco.”

Ran cominciò a togliersi collane e bracciali, slacciando poi il corsetto di pelle che indossava.

“Sappi una cosa, Deyan-shir: io sono un predone sayanni: posso essere amico di un altro predone, anche di uno coi capelli bianchi e gli occhi rossi... ma non posso essere amico di un principe kelith.”

Un silenzio di piombo cadde intorno a loro. 

E Deyan finalmente capì: Ran lo vide nei suoi occhi. 

“Dunque le cose tra noi stanno così,” mormorò, rialzandosi lentamente. 

Ran annuì. “Ti sfido a dimostrarmi che il tuo tanto prezioso retaggio non ti ha fatto dimenticare che sei ancora un membro di questa Comunità di tagliaborse. Allora, Deyan-shir, deciditi: sei un predone come me... o un principe?”

Deyan affrontò il suo sguardo, leggendovi la vera domanda...

Vuoi batterti per salvare la nostra amicizia?

Esitò, a lungo. Ma poi la sua mano estrasse da sotto il mantello il suo pugnale dalla lama ricurva, e con un gesto misurato lo mandò a conficcarsi davanti alla lancia di Ran.

“Per te sarò un predone.”

Ran lanciò un urlo di gioia guerresca, e i membri della squadra risposero con entusiasmo a veder accettata quell’incredibile sfida. Si slanciarono a liberare uno spiazzo circolare nel cortile, accendendo anche delle torce perché ormai il sole azzurro toccava l’orizzonte.  

“Quali sono le regole?” chiese Deyan, osservando i preparativi. 

“Ci si batte senz’armi,” rispose Ran. “Tra noi sayanni lo si fa nudi, eccetto un’apposita protezione per la membrana. I kelith naturalmente si vergognano e tengono coperta la parte inferiore del corpo, ma si scoprono dalla vita in su.” Fece un sorriso maligno, togliendosi il corsetto. “E pretendo che ti adegui a questo costume, Deyan-shir!”

Una ruga apparve tra le bianche sopracciglia di Deyan. Era noto che per un nobile kelith fosse oltraggiosa, l’idea di scoprire il proprio corpo in un luogo che non fosse il chiuso della sua shanda... solo gli schiavi non avevano diritto al pudore. 

Avanti, Deyan-shir. Principe o predone? Scegli!

Deyan sospirò, e cominciò a frugare sotto ai vestiti, posando sul tappeto una piccola balestra, una manciata di pugnali da lancio e di dardi avvelenati, un laccio da strangolamento e due scarselle di cuoio piatte. Quindi lasciò cadere il mantello, si slacciò la doppia cintura che gli serrava in vita la tunica nello stile del suo paese, e se la sfilò scompigliandosi i capelli.

Ci fu un mormorio mentre tutti fissavano stupiti quello spettacolo inconsueto, un albino libero a torso nudo. Si erano aspettati il solito corpo flaccido e tendente alla pinguedine di tanti nobili kelith, ma Deyan era snello e nervoso come una frusta, con membra armoniose e muscoli ben rilevati sulle braccia e sul busto. Sembrava una statua di marmo, con quella pelle bianca che catturava il bagliore del sole morente, rivelando le tante cicatrici sottili che ricordavano la sua esperienza nel dolore.  

“Per la bianca dea dell’amore!” dichiarò Aydie a voce alta. “Qualcosa mi dice che le schiave di Gamosh-shir siano ben contente di aver cambiato padrone.”

Quella battuta impertinente scatenò un mare di risate tra i predoni, e Deyan arrossì. In quanto a Ran, non poteva che essere felice di quell’atmosfera: gli si confaceva.

In contrasto col suo avversario, era di un’imponenza monumentale, con i muscoli possenti che sembravano aver voglia di schizzar fuori dalla pelle azzurra. Era anche ovviamente molto più alto di Deyan (che pure non era certo basso tra i kelith), e pure lui ornato di qualche spettacolare cicatrice, ricordi della sua vita passata a lottare per la sopravvivenza; in più aveva i suoi tatuaggi da guerriero sulle guance, a riprova della sua casta. I predoni cominciarono a scambiarsi scommesse a suo favore: l’esito della sfida sembrava segnato.

Si spostò al centro dello spiazzo e fece gesto all’avversario di entrarci a sua volta. 

“Sei pronto? Nemel, da’ tu il via.”

Deyan entrò, con le mani rilassate ai fianchi, l’espressione tranquilla di chi non ha paura.

“Sono pronto.”

“Via!” gridò Nemel.

Ran attaccò, cercando di mollargli un manrovescio. 

Non ti farò troppo male, e cercherò di non umiliarti troppo: non te lo meriti...

Ma andò a vuoto: Deyan si spostò istantaneamente di una frazione di pollice, schivando lo schiaffo. Ran ci riprovò immediatamente, cercando di colpirlo al corpo. E di nuovo, all’ultimo istante, Deyan si girò di lato in modo che il pugno gli sfiorasse appena un fianco. 

Fortuna o abilità?

Di nuovo Ran attaccò, tentando combinazioni di diversi colpi. Ma era tutto inutile: qualunque fosse la sua mossa, Deyan l’anticipava regolarmente d’un soffio, e i suoi movimenti sembravano frutto di magia. Però non contrattaccava: si limitava a schivare ogni pugno e ogni calcio, spostandosi il minimo possibile dalla sua posizione, quasi sfidando il prestante attaccante a riprovarci.

“Adesso basta, Deyan-shir!” ruggì alla fine Ran, senza fiato, ed esasperato da quel gioco. “Un predone non scappa, colpisce!”

Non aveva neanche finito di pronunciare l’ultima sillaba, che un colpo secco alla mascella gliela strozzò in gola. Barcollò all’indietro, stupefatto, rendendosi conto che era stato un pugno... un pugno che Deyan gli aveva assestato senza che lui neanche se ne accorgesse!

Dèi del profondo, è veloce come un serpente!

Il riserbo dei kelith verso Deyan, che già vacillava, crollò del tutto; e da tutti loro partì un grido di trionfo per il loro campione. I sayanni risposero con uno dei loro classici cori di incitamento per Ran, condito però da qualche sberleffo. 

Ran sentì in bocca il sapore del sangue. Lo sputò, si massaggiò la mascella, e fece un tetro inchino verso Deyan, con un sorrisetto compiaciuto. 

“Mica male, kelith.”

Deyan sciolse la mano con cui l’aveva colpito. 

“Mi sto trattenendo, Ran.”

“Me ne sono accorto. Questo tuo pugno è ridicolo. Quand’è che decidi di far sul serio?”

Deyan scattò, entrando sotto la guardia di Ran e fintando un altro pugno. Ran alzò il braccio per pararlo e partì a sua volta all’attacco: il kelith si abbassò fulmineamente e gli stampò un colpo secco nella coscia, scivolando di lato. 

DI nuovo, i kelith applaudirono, e i sayanni mugugnarono.

Ran si girò verso di lui, con una smorfia ironica. Si guardò teatralmente la coscia e se la toccò, come per controllare se si fossero sporcati i calzoni.

“Immagino che tu creda di avermi fatto male,” borbottò. 

E gliene aveva fatto, quel colpetto così ben assestato... gli aveva preso un punto sensibile! Sudò freddo, ma resistette all’impulso di massaggiarsi la coscia e guardò il suo avversario che si disponeva a un nuovo attacco.

Gli elargì un sorrisetto di compatimento. 

“Fammi il piacere, Deyan-shir... pensi davvero di battermi con le tue carezze?” Abbassò le braccia, provocatoriamente.  “Avanti, piccolo kelith. Ho giusto un po’ di prurito a...”

Vide a malapena l’inizio del movimento: un balzo in rotazione. Poi gli arrivò in faccia un altro colpo, stavolta davvero duro. Vide le stelle, e dovette fare una gran fatica per restar saldo sulle gambe.

Cos’è stato?!

Glielo disse uno dei predoni: “Accidenti, che calcio!...”

Calcio?! 

Ma conosceva l’agilità felina di Deyan, specie lì su Luna di Fuoco dove la magia di Sayanna non lo impacciava. Indovinò il movimento che aveva fatto dalla sua posizione finale, rannicchiato con una mano posata a terra. Era una posa difensiva, che indicava una tecnica raffinata e ben esercitata: quello non era un comune combattente d’istinto...

Dannato testabianca!

Deyan lo fissava, respirando a fondo: ora c’era un’aria quasi canzonatoria nei suoi occhi.

“Quand’è che farai sul serio anche tu, Ran? Mi sto annoiando.”

Non direi proprio, bastardo con gli occhi rossi: ti stai divertendo!

Represse un sorriso segreto. Non era quello che sperava che accadesse? Deyan stava uscendo dal suo guscio di ghiaccio, e si stava comportando sempre più da predone... e sempre meno da principe. 

Ma sei sempre un principe, per tua sfortuna.

Ran barcollò appena, e i predoni intorno a lui trasalirono. Socchiuse gli occhi, si portò una mano alla tempia, sentendo il sangue uscire dall’angolo del sopracciglio. Emise un gemito, piegandosi in avanti... e non appena sentì che Deyan gli si avvicinava, scattò in avanti e gli mollò una testata fortissima nello stomaco. 

Si vede proprio, che non sei mai stato in una rissa!

Deyan arretrò barcollando, semisoffocato. Ran ne approfittò subito e gli assestò un calcio alle gambe, falciandolo come grano maturo: i predoni lanciarono un urlo. 

Fine della tua danza, kelith. 

Deyan era caduto nella polvere, sul fianco, e Ran gli piombò addosso prima che potesse rialzarsi e sfuggirgli. Cercò di inchiodarlo al suolo, ma il kelith reagì torcendosi con abilità: per quanto Ran cercasse di rotolargli sopra, si ritrovava sempre assurdamente sotto di lui... e a un certo punto si trovò il suo avambraccio sotto il mento. 

I predoni sembravano impazziti, sgomitavano ai bordi dello spiazzo. 

“Forza, Deyan-shir! Strozzalo!”

“Deciditi a schiacciarlo, Ran!...”

Con un grugnito il sayanni si girò sul fianco, e afferrò con una mano d’acciaio il braccio di Deyan che gli stringeva la gola.

Hai commesso un errore, testabianca: tu sei più agile, ma il più forte sono io!

Sentì Deyan cercare di resistere alla sua trazione, ma ovviamente gli era impossibile... anche se la forza che esercitava era davvero notevole: Ran doveva dar fondo alle sue energie. Il braccio si allontanò lentamente dalla sua gola; Deyan capì che la sua gara era persa e cercò di liberarsi, ma Ran non lo mollò, anzi perfezionò la sua presa.

Sei pericoloso solo se ti lascio andare, ma nel corpo a corpo non hai speranze.

Riuscì ad allacciare con la sua anche una delle gambe di Deyan, in una mossa da esperto lottatore. Si rovesciò tenendo sempre stretto il suo braccio, e il kelith si trovò finalmente sotto di lui, schiacciato dal suo notevole peso, e con il braccio piegato dietro alla schiena. 

I sayanni lanciarono un evviva e pestarono i piedi. 

“Arrenditi,” ansimò Ran. 

Deyan strinse i denti. “No!”

E del tutto in carattere con quella risposta, la sua mano liberà salì come un artiglio, afferrando la testa del sayanni per i capelli intrecciati e dando uno strattone violento. Ran gridò una maledizione: ci teneva, alla sua acconciatura da guerriero... 

Ora basta, dannazione!

Col suo braccio libero mollò una gomitata per nulla elegante sulla testa di Deyan, ma molto efficace. Lo sentì emettere un gemito, afflosciarsi sotto di lui. Si liberò dalla sua presa ai capelli, gli afferrò anche l’altro braccio e glielo torse, puntando le ginocchia nell’incavo della sua schiena. 

“Adesso liberati, se ne sei capace!...”

Deyan voltò la testa di lato, ansimando come una belva prigioniera.

Uno strattone ad alzargli i polsi sulla schiena. “Arrenditi!”

Gli occhi di Deyan si socchiusero, il suo corpo si rilassò del tutto. Ran vide le sue labbra muoversi, un’invocazione nella sua incomprensibile Antica Lingua, e provò un brivido.

Cosa vuol fare?!

In una frazione d’istante sentì il corpo sotto di sé scattare in una torsione impossibile, udì uno scricchiolio e un urlo, seguiti da un tonfo nella testa che riecheggiò nelle sue orecchie mutandosi in ronzio; e ogni luce si spense...

 

 

 

 

 

 

 

 

Ran fissava incredulo la polvere calpestata davanti a sé. 

Non ho vinto!

“Sta’ fermo, sayanni: ti brucerà.”

Aydie gli aveva lavato le ferite, e aveva deciso di cucire quella sul cuoio capelluto: non era un’operazione gradevole. Non si divertiva però neanche Deyan, in ginocchio a pochi passi da lui, con Nemel dietro a lui pronto, e Chat a tenergli il braccio per il polso. Ran tornò a fissare la terra, sapendo cosa si accingevano a fare.

Intorno a loro i predoni litigavano furiosamente per stabilire chi fosse il vincitore. Kelith e sayanni agitavano indici sotto il naso reciproco, e discutevano facendo un baccano indescrivibile: sembrava di essere in piazza nel giorno di mercato.

Alla fine la squadra giunse collettivamente alla sua decisione: Deyan era riuscito a mettere Ran fuori combattimento (in quale modo, il sayanni non riusciva ancora a capirlo). Però per far questo si era deliberatamente slogato un braccio: una mossa coraggiosa, ma che chiaramente gli avrebbe impedito di continuare il duello. Quindi, per le regole di Luna di Fuoco, lo scontro doveva considerarsi chiuso in parità.

A quel punto tutti lanciarono evviva: kelith e sayanni insieme. E improvvisarono su due piedi una sorta di colletta simbolica, raccogliendo al centro dello spiazzo un pugno di monetine di rame, un paio di piccole anfore di vino, un vassoio di noci candite e due spiedi di carne: un modo semplice per esprimere l’apprezzamento ai contendenti. Quindi uscirono, vociando per le strade. 

“Sono tutti ansiosi di raccontare questa storia in tutte le bettole,” spiegò Chat. “Non avrei mai immaginato un sayanni e un kelith bianco capaci di battersi alla pari da veri uomini! Gran bel combattimento, Ran! E che carattere, quel Deyan-shir! C’è di che essere orgogliosi, di aver capi come voi.”

Ran si costrinse a sorridere. 

Ha detto “voi”... per la prima volta. 

Alzò appena la testa: Nemel aveva finito con Deyan, e gli aveva gettato il mantello sulle spalle perché l’aria si era raffreddata rapidamente. Il kelith fissava la luce delle torce, evidentemente provato: ma il suo volto aveva un’espressione quasi serena, assai diversa da quella dell’uomo che era giunto lì.

Quanti miracoli ha compiuto, questa semplice scazzottata...

“Ecco,” disse Aydie, applicando polvere astringente sul taglio. “Ho finito.”

“Ti ricompenserò.”

“Stai scherzando, sayanni. Hai avuto un’idea meravigliosa. Non mi divertivo così da quando ho visto i soldati del mio principe impalare l’agente delle tasse per frode. E ora, se permetti, vado a brindare alla tua salute... tra le gambe di quelle che voi pelleazzurra chiamate disonorate.”

E se ne andò anche lui. 

Ran si rialzò, provando un momento di vertigine. Guardò il mucchio delle offerte, afferrò una delle due anfore e raggiunse Deyan, che era rimasto accosciato nella polvere, indifferente al proprio corpo insudiciato e pieno di lividi. Si sedette accanto a lui, ruppe il sigillo del recipiente e tracannò una metà del contenuto, con lunghe sorsate.

“Meglio,” sospirò, posandolo. “Ne vuoi anche tu?”

Deyan annuì. Ran fece per passarglielo, poi si ricordò di aver accanto un principe. 

“Vado a prenderti l’altra anfora,” mormorò.

“No.”

Con un gesto stanco della mano sana, Deyan prese l’anfora e se la portò alle labbra. E davanti agli occhi stralunati di Ran, cominciò a bere senza fermarsi...

“Deyan-shir!” esclamò lui. 

Sta bevendo dallo stesso recipiente da cui ho bevuto io?!

Quando non rimase più niente da bere, Deyan posò l’anfora a terra. “Mi dispiace, Ran,” disse, in un sussurro. 

Per il vino? O per altro?

Non ebbe cuore di fargli quella domanda; accennò invece al suo braccio, legato al collo.

“Fa male?”

“Niente che non abbia già provato.”

“Hai affrontato questo dolore pur di riuscire a colpirmi.”

“Ho scelto le mie priorità.”

“Volevi proprio vincere, eh?...”

“Come te, Ran.”

“Accidenti, potevo ammazzarti.”

Un pallido sorriso. “Anch’io.”

Si guardarono negli occhi, e Ran si rese conto che parlava sul serio.

“Sono un adepto di El,” mormorò Deyan. “Questo già lo sai, ma non sai cosa significa. La Misteriosa ha molti aspetti segreti, e uno palese... la morte.” 

Allora sei veramente un assassino...

“Sono stato iniziato e addestrato nel suo tempio. Ed è lì che sono tornato, quando ho saputo che mio padre aveva incontrato la fine che avevo invocato su di lui. La mia dea mi guida e mi protegge, ma è anche... esigente quando si stringono patti in suo nome. Dovevo pagare il prezzo per mio padre... e mia madre, e sottopormi a un rito di purificazione che mi è vietato descriverti. Rifiutarmi avrebbe voluto dire perdere la mia anima, voltare le spalle alle cose più sacre in cui ho creduto fino ad adesso. Per questo sono tornato su Shana, pur sapendo che rischiavo la vita...”

“Non dirmi altro.” Ran alzò una mano e scosse la testa. “Non serve. Avevi ragione, non avevo alcun diritto di pretendere spiegazioni da te, e mi sono meritato il tuo rimprovero di essere invadente e anche un barbaro. Quindi non sprecare parole con me, sai che tanto non sarò mai in grado di capire...”

“Non è vero, Ran, tu capisci cose che nemmeno i saggi sanno comprendere.” 

Ci fu un istante di silenzio, rotto solo dal sibilare del vento.

Il kelith alzò lo sguardo al cielo. “Nel mio deserto ho passato una notte in cima a una duna, a guardare quella luna che era stata la mia luna, prima di diventare invece il mio mondo...” Chiuse gli occhi. “Ho avuto il desiderio di arrendermi e gettar via la Polvere, per restare e morire lì.” 

Ran tacque. Conosceva la sensazione. Tutti su Luna di Fuoco la conoscevano. Nessuno era giunto lassù pieno di gioia: dietro le risate, i canti e le sbornie c’erano i fantasmi della tristezza e della nostalgia. 

 “Poi ha vinto la ragione, e sono tornato qui; ma dentro di me era rimasto il dolore...” Deyan gli rivolse quel suo lieve, bellissimo sorriso. “E tu sei riuscito a togliermelo, con questa tua strana magia!”

Si chiama libertà, Deyan-shir.

Ran ridacchiò, con gli occhi lucidi. 

“Hai avuto fegato, ad accettare la mia sfida.”

“Sapevo che se non l’avessi fatto, tu non mi avresti più considerato un amico.”

“Non te l’avrei mai perdonato,” annuì il sayanni, sdraiandosi accanto a lui a guardar le stelle. 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Pushpa si accorse che gli tremavano le mani.

Si costrinse a cercare di recuperare la calma. Respirò a fondo, nell’aria ferma e angusta della stanza. Attorno a lui giacevano carte piene di simboli e traduzioni che gli erano costate giorni e notti di lavoro. 

Posò le dita sul sarcofago, toccando il cartiglio frontale inciso su quella strana pietra-metallo, il testo ormai così tante volte letto e ripetuto da essere diventato per lui quasi una preghiera.

Questo sacro Feretro rinchiude Naysiak degli Huanai, della casta dei guerrieri, grande tra i Figli della Cometa. Tale perfezione errò solo davanti all’autorità divina: fu arrogante verso Grandi Divinità e disobbedì per salvarle, in nome dell’Arca: perciò gli stessi padri dell’Arca reclamarono il suo corpo. Lo chiusero in questo Feretro, salvandolo dalla morte, ma non consentendogli la vita: solo la coscienza. Le Grandi Divinità sentenziarono che fosse sepolto nella Montagna Sacra, in modo che fosse dimenticato per sempre, e per sempre durasse il supplizio di chi, nato per servirle, le aveva deluse: ma i Tirri dell’Arca predissero che un giorno i loro dèi avrebbero decretato l'avvento di un Liberatore, il Seriema, che avrebbe infranto la maledizione, e tratto Naysiak nel mondo degli umani, o nell'eterna sfera di Ta'Itza dove il Tempo tiranno non ha significato. Inciso nella dodicesima Incarnazione delle Divinità, mese di Shuab, nella Città Sacra. Lode a Kamoh e Lilia, eterni in cielo e sulla terra, patroni della virtuosa Sayanna madre di ogni santità. 

Le sue dita si contrassero, con impazienza. 

Essere il Seriema di un antico Xarani... era il sogno di una vita intera di studi che si realizzava! Aveva spiegato a Deyan cosa comportasse quel titolo: un legame uguale a quello che il guerriero aveva avuto con le Divinità in persona. Avrebbe obbedito a tutti gli ordini, tranne quelli contrari all’onore stabiliti dal proprio rigido codice, e avrebbe messo vita e morte a disposizione del suo Liberatore. 

Un Guerriero della Cometa al mio servizio!

Certo, sperando che la reclusione restituisse un essere ancora in grado di ragionare e parlare; il che era tutto da vedere. E poi legalmente il contenuto del feretro era di proprietà di Deyan, non suo. Ma il saggio era disposto a rinunciare al suo intero munifico compenso, per riscattare colui che stava per salvare; e anche se non vi fosse riuscito, il corpo sarebbe stato comunque una preziosa testimonianza, perché sicuramente sarebbe stato sepolto con tutti i propri oggetti sacri...

Ma prima di ogni cosa, doveva aprire quel feretro. E il testo che aveva tradotto dal Codice d’Oro era quasi incomprensibile. 

Dito energia cerchio linea cerchio croce linea cento tempo acqua resina contenitore miele calore...

Un lungo elenco di parole senza senso. Molte dovevano essere perifrasi, ma mancavano strutture verbali per incasellare quella sequenza di simboli, che sembravano una formula magica...

Forse è una formula magica. 

Pushpa si schiarì la gola e iniziò a cantilenare la sequenza di parole: prima con voce normale, poi provando a modularla secondo le svariate litanie sayanni.

Non accadde niente. 

Non disperare, creatura imprigionata lì dentro. Il tuo Seriema è qui!

Ci riprovò, rallentando la recitazione... a metà però si interruppe. 

Che stupido che sono, questa è la Lingua Antica, non quella di adesso... devo cercare di pronunciare queste parole come un t’yr di quell’epoca!

Di nuovo, provò a leggere l’invocazione, traducendo i simboli ed emettendo suoni che non si erano più uditi dalla notte dei tempi. 

 

 

 

 

 

 

 

Deyan trasalì e aprì gli occhi. 

Nel silenzio della notte, la voce stentorea di Pushpa trafilava dalle pietre, una ritmica e bassa litania ipnotica, che si snodava come le perle di una collana. 

Qualcosa di caldo e soffice aderiva al suo corpo; frusciò mentre si sollevava appena su di lui.

“Padrone?”

Era la ragazza che era stata la favorita di Gamosh. 

Deyan contemplò quel volto cesellato che si stagliava contro il soffitto, alla luce discreta della lampada. La ragazza aveva lunghi capelli bianchi a boccoli, e i suoi grandi occhi rosei erano circondati da un alone di polvere d’oro. Il suo morbido corpo era trafitto di gioielli erotici, secondo il gusto di Gamosh che amava adornare così le sue schiave: gli piaceva provvedere personalmente. 

Ora non più, pensò Deyan accarezzando quella pelle di seta che adesso apparteneva a lui. E quante volte quel pensiero era stato come una spezia, con quella fanciulla: gli piaceva sentirsela accanto, deliziosa e tintinnante preda di quella guerra spietata tra principi rivali. 

“Questo canto ha svegliato il padrone?”

“Forse,” rispose lui.

“Il padrone ordini al barbaro di smettere.”

“No.”

“Il padrone vuole accoppiarsi?”

Deyan la guardò negli occhi avidi. Quella schiava non pensava ad altro, quando era con lui... ma che c’era di strano? Non aveva altro a cui pensare.

“Preparami.” 

Chiuse gli occhi, sentì l’onda dei suoi capelli profumati che si spargeva sul suo ventre. E l’inizio del piacere, acuito dal gioiello che lei aveva nella lingua, e che aveva imparato a usare con maestria. Era una sensazione molle e lussuriosa, e ci si abbandonò rilassandosi, cullato da quella calda voce dal tono ieratico, ondeggiante che trapelava nel silenzio. Pian piano i suoi sensi si staccarono dalla realtà, come quando si concedeva un pizzico di khal, quando la sofferenza che aveva dentro diventava troppo faticosa da sopportare... 

Il sole spezzato!

Trasalì di nuovo, scattando a sedere. Il movimento gli provocò una stilettata di dolore dal gomito alla spalla, che gli strappò un gemito: si serrò il braccio con quello sano, stringendo i denti. 

La ragazza si era interrotta e lo fissava, spaventata. 

“Quest’inutile schiava ha fatto male al padrone?!...”

Deyan non la guardava neanche. Fissava il vuoto, senza fiato. 

Il sole spezzato.

Ormai conosceva quella sensazione. Quell’invasione nella sua mente. Il cuore gli batteva così forte da sentirne la pulsazione sin nelle dita... 

Il sole spezzato.

“Padrone...”

“Aiutami a vestirmi,” le ordinò lui. “Svelta!”

La ragazza si precipitò a obbedire, balzando giù dal grande letto in un tremolio di bianche carni, per staccare dalla stanga i pantaloni e la tunica che vi erano stati disposti. Cercò di aiutare il suo padrone a indossarli, facendo passare con delicatezza il braccio slogato nella manica: la stoffa le si impigliò nei gioielli che portava dappertutto, e quasi scoppiò in lacrime dal terrore; Gamosh, per una goffaggine simile, l’avrebbe fatta mutilare...

Ma Deyan non la degnò di uno sguardo. Sopportò la vestizione con impazienza e uscì rapidamente dalla shanda. 

La voce tellurica di Pushpa lo guidava. Attraversò la casa dirigendosi verso la stanza sotterranea dove il t’yr aveva fatto portare il sarcofago. Aprì la porta e vide il saggio in ginocchio accanto al feretro, gli occhi semichiusi, le mani unite in grembo, che recitava la sua invocazione...

“Il sole spezzato!” esclamò.

Pushpa tacque e si girò a guardarlo, stupefatto. 

“Deyan-shir!”

“Il sole spezzato,” ripeté lui, entrando nella stanza. “La voce... quella visione... quella magia!”

“Magia?...” mormorò Pushpa, spalancando gli occhi. 

“L’ho sentita. Dentro di me. Sull’orlo di un sogno. Pushpa, in nome della mia dea, è così! Che cos’è il sole spezzato?”

Il saggio fissò il vuoto. 

“Sole spezzato... sole spezzato... Dito-Energia-Cerchio-Linea... “Trasalì. “Cerchio-Linea! È un simbolo della sequenza!”

Afferrò la lucerna, una manciata delle sue carte, e le scorse velocemente.

“Ecco!” Si precipitò accanto al feretro, sul lato. Fece scorrere le dita, finché non si interruppe. “Qui c’è un cerchio con una linea tracciata sopra... potrebbe essere il sole spezzato.” Ci passò il polpastrello. “E la superficie... è lievemente concava in questo punto!”

“Premila.”

Pushpa lo fece, più volte. “Non succede niente.” Ci avvicinò la lucerna. “Forse, con uno scalpello...”

Non ebbe il tempo di finire la frase: vide Deyan avanzare, le sua mano scattare in avanti, e il suo indice posarsi su quel simbolo. 

“Deyan-shir!” protestò.

Ma ammutolì. Perché un lievissimo, armonico suono si levò nell’aria... 

Clink.

Attorno al dito di Deyan si formò un alone luminoso e cangiante, e il feretro cominciò a vibrare. 

Pushpa arretrò e cadde seduto a terra, ancora reggendo la lucerna. 

“Kamoh, Lilia, pietà!” gridò, sbalordito.

Deyan staccò la mano, esitando. Il suono che emetteva il feretro era basso, un ronzio che pian piano si elevava. Il sole spezzato brillava come una piccola stella verde.

E poi, lentamente, altri simboli sul fianco del feretro cominciarono a illuminarsi... divennero bianchi, gialli, aranciati, rossi, azzurri. E a ogni simbolo che si accendeva, si levava una nota preternaturale, un suono che non apparteneva a nessuno strumento conosciuto, perentorio e dolce al tempo stesso. 

E il feretro continuava a vibrare, con un suono che ora era costante. 

Pushpa pregava i suoi dèi con voce quasi isterica, gli occhi dilatati. Come t’yr sapeva che esisteva la magia, ma vederla realizzata davanti a sé era un’esperienza assolutamente terrorizzante. Fissò il profilo di Deyan, illuminato da quella distesa di luci davanti a lui, per compartire con lui il suo terrore...

Sentì il sangue gelarsi nelle vene, comprendendo tutto.

No. No! 

Lasciò andare la lucerna, si rialzò, barcollando, e uscì da quella stanza. E quando si trovò nel freddo corridoio, si lasciò di nuovo scivolare a terra, mise la testa sulle ginocchia.

E pianse, in preda allo sconforto, alla rabbia e all’incredulità più estrema. 

Ma perché? Che vuol dire tutto questo? Com’è possibile?!

Non seppe nemmeno quanto tempo fosse passato, ma all’improvviso sentì una mano sulla spalla. Rialzò la testa e vide il volto intento di Deyan, chino davanti a lui. 

“Venerabile Pushpa, che ti succede?”

Il t’yr si terse le lacrime. “L’emozione... e la stanchezza.”

Il kelith sorrise appena, e fece per rialzarsi, ma Pushpa lo trattenne afferrandogli la tunica. 

“E la delusione,” aggiunse, con voce tremante.

“Delusione? Perché? Dovresti essere orgoglioso di te. Hai compiuto l’impresa più straordinaria che qualunque saggio potesse sognare... grazie alla tua sapienza, un antico sarcofago di più di mille cicli fa ha ripreso vita!”

“Ho creduto di poterlo aprire, Deyan-shir. E ho creduto di potermi fregiare di quel titolo del cartiglio... Liberatore! Ma non è così, non è così... io non ho fatto niente.” Si tirò una manata sulla fronte rasata. “Stupido io che non ho accettato la verità sin dall’inizio, che l’ho rifiutata in nome dei miei pregiudizi, perché pensavo di essere superiore, migliore, più santo, un sayanni per un altro sayanni, perché da Kelitha viene ogni male e perché la magia esiste solo per coloro che ci credono... mi chiami saggio?! Guardami! Sono un inutile imbecille!”

“Che intendi dire?”

“Non l’hai ancora capito, Deyan-shir? Non sono io, un sayanni, il Seriema destinato a liberare questo mio campione dall’inferno in cui è da più di un millennio. È il suo esatto contrario... Sei tu!”

 

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

Jenna-shir, margravio del principato di Deera, scriveva di suo pugno il suo messaggio. Usava una carta sottile e un calamo d’argento, posizionando con regolarità i segni degli ideogrammi in codice, uno dopo l’altro. Aveva preso ogni precauzione contro le spie, e davanti a lui, in ginocchio, il corriere veloce di fiducia era già pronto: un campione dalla pelle scura, capace di far volare i corsieri del deserto e raggiungere la capitale di Deera in pochi giorni. 

Gli occhi pallidi di Jenna-shir si alzarono brevemente, per controllare di nuovo che nessuno potesse leggere ciò che scriveva. Poi intinse il calamo. 

Mio Principe, secondo gli ordini ricevuti sono arrivato a Shana per partecipare a nome tuo alla cerimonia solenne di commemorazione del defunto principe Unari-shir. La situazione qui è tranquilla: la transizione di potere è avvenuta senza scosse e non si intravedono cambiamenti alla situazione dinastica. Gamosh-shir è stabilmente sul trono, e ha iniziato un deciso rafforzamento del proprio esercito, finanziato con l’aumento delle tasse su tutti i beni essenziali del paese. Ha aumentato anche la pressione sui propri feudatari, che ormai devono passare alla Corona la metà delle loro entrate per il privilegio di entrare a corte. La repressione del crimine è totale e spietata, e i traffici ne stanno giovando, come testimoniano i prezzi di molte delle spezie sul mercato.  

Ma questa tregua potrebbe avere altre ragioni. Durante la cerimonia al tempio degli Dèi solari, Gamosh-shir ha tenuto un discorso molto lungo celebrando le doti di suo padre; ma prima di concludere ha dichiarato: 

“Unari-shir ha commesso molti errori nella sua vita, trascinato da oscure motivazioni e complotti, per cui prima o poi Shana presenterà il conto ai responsabili. E molte sono state le nobili vittime di tali macchinazioni, vittime che io ora intendo onorare, non potendo più riabilitare perché ormai morte nel corpo... o nella dignità.”

E con queste parole, ha fatto un gesto e una figura misteriosa ha fatto la sua apparizione sul sagrato del tempio. Era un albino, avvolto in una veste nera lunga fino ai piedi, e portava sul volto una maschera che lo celava interamente. A quest’uomo è stato concesso di avvicinarsi al tripode sacro per bruciare incenso, e spruzzare d’acqua sacra il cenotafio di Unari-shir. Poi, nel silenzio stupito di tutti, l’uomo si è ritirato ed è scomparso tra i meandri delle vie, indisturbato dalle guardie. 

Molti hanno chiesto a Gamosh-shir chi fosse quel personaggio misterioso, e il Principe ha risposto:

“Un uomo che ha pagato troppo caro per una colpa che non era solo sua. Potessi cambiare le leggi millenarie che regolano la nostra società, gli restituirei il posto che gli spetta di diritto. Ma per lui ora solo il buio dei templi può aprirsi: gli dèi non tremano di fronte alle ingiustizie degli uomini.”

Mio principe, ho sguinzagliato tutte le spie a mia disposizione, perché la voce corrente più comune su quel che è accaduto è che l’uomo mascherato altri non fosse che il terzogenito di Unari-shir, quel principe Deyan che fu degradato alla schiavitù perpetua per vendicare l’onore del principe di Itka. La sua condanna si rivelò presto un disastro sotto ogni punto di vista, e forse Gamosh-shir ha voluto rimediare in questo modo all’errore paterno, riconciliandosi con il fratello ormai irrimediabilmente disonorato; ed evitando almeno che quel giovane sventurato - che anche se schiavo, è come noi di Razza Sovrana, ed è quindi naturalmente diventato capo dei Predoni dal Nulla - si accanisse contro il suo paese per vendetta. 

Molti però dubitano di questa teoria, dato che l’armonia tra fratelli non è mai stata la regola per la corte di Shana; e ricordano che il principe diseredato ha offeso proprio Gamosh-shir rubandogli scettro e shanda, il che rende alquanto improbabile che i due possano respirare la stessa aria. Ma a questo punto le motivazioni di Gamosh-shir sarebbero piuttosto misteriose, per non dire inquietanti: perché mettere in piedi una sciarada come questa? E a chi si riferiva con “motivazioni e complotti”? Si mormora che abbia fatto dichiarazioni non proprio concilianti verso la politica dell’Augusto Consorzio. Non sappiamo se queste prese di posizione siano rivolte ai propri stessi feudatari per dare l’impressione di un monarca forte, o se nascondano aspirazioni più vaste. Shana, comunque sia, resta uno stato fondamentale nella politica di Kelitha. L’intero continente dipende da essa per più di un prodotto. Sono preoccupato, mio Signore, e il mio consiglio è estendere il sentimento a tutto l’Augusto Consorzio. Questo Gamosh-shir, da bravo cadetto diventato principe, rischia di essere troppo ambizioso. 

Jenna-shir ripose il calamo e attese che l’inchiostro asciugasse. Poi ripiegò la lettera e la infilò nel cilindro speciale, sigillandolo col proprio simbolo. Fece un gesto e il corriere si rialzò, avvicinandosi.

“Se ti intercettano, distruggilo. Morirai, ma se Gamosh-shir legge questo messaggio moriremo comunque tutti. Tu ci metterai solo più tempo.”

  
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