FIORI DI
CRISTALLO
Morbidi
passi scompigliavano la tranquillità di quei
verdi fili d’erba illuminati dal sole. Le voci divertite e gli
schiamazzi dei
bambini si diffondevano nell’aria colorandola di speranza. L’eco di
quelle urla
gioiose arrivava distante alle orecchie di quella piccola e graziosa
bambina di
sette anni, che solitaria restava sempre in disparte, accovacciata su
se stessa
all’ombra di un pino.
I capelli corvini le ricadevano sulle spalle, nascondendo i lineamenti
sottili
del viso e le mani giocherellavano con frenesia su se stesse.
Non era la prima volta che scorgeva la sua immagine.
Quella ragazza era sempre lì, tutti i giorni, sempre da sola. E a
quel
malinconico pensiero, la piccola Alice si sentì colta da un’infinita
tristezza.
«Quella bambina sembra così sola, non possiamo farle compagnia?!» si
azzardò a
domandare alle sue inseparabili amiche, fermando il pallone con le mani.
«Alice, non lo sai? Quella bambina è strana!» ammise con
stizza la
più grande.
«Strana?» domandò a sua volta Alice, un pochino perplessa.
«Sì, strana. A lei non piace giocare con nessuno. E’ un
maschiaccio
antipatico! E poi… Girano voci che sappia parlare con i fantasmi.»
«Credi nei fantasmi?»
«Credo soltanto che sia una persona da cui star lontani. Mi fa
rabbrividire.»
aggiunse poi, sottraendo il pallone all’amica e lanciandolo in aria.
«Dai, continuiamo a giocare!»
Incitata dall’amica si tuffò a raccogliere la palla, malgrado non
riuscì
davvero a credere alle sue parole.
C’era qualcosa in quella
bella
bambina che l’affascinò tremendamente. Forse era solo una sua
impressione, ma
non le sembrava una cattiva persona.
Le sembrava solamente molto sola.
L’aria di primavera le scompigliò i morbidi capelli e velocemente
arrivò
l’autunno, seguito come sempre dal freddo inverno. I giorni
trascorrevano
placidi e sereni, l’uno dopo l’altro, di anno in anno, e le risate
fanciullesche continuavano a propagarsi nell’aria, ad un ritmo
frenetico e
perpetuo. Nulla sembrava voler interrompere quei magici momenti di
quiete e
allegria che avvolgevano la vita della piccola Alice.
La vita le sorrideva – aveva l’argento in bocca.
Tuttavia, non si poteva dire lo stesso di Crystal – l’eterna
ragazzina
solitaria. – E quello era uno dei tanti nomignoli, forse il meno
brutto,
con la quale veniva soprannominata.
Cinque anni erano trascorsi da quando Alice incontrò la sua minuta
figura
all’ombra di quel grande pino, all’entrata delle scuole
elementari. E da
allora non l’aveva mai vista sorridere, nemmeno una volta.
Non aveva amici. E nonostante gli insegnanti avessero provato tante
volte a
farla partecipe delle attività scolastiche, socializzando con i
compagni,
questi finivano sempre per esserne intimoriti e lasciarla da sola.
La verità era che le malelingue non facevano altro che dilagare, e sul
suo
conto di era detto davvero di tutto. Nell’ultimo anno, il pettegolezzo
che più
di ogni altro si era fatto strada su di lei era legato all’immagine
mascolina
che continuava a mostrare sebbene si scontrasse con la sua natura
femminea.
Non era cambiata.
Anche adesso era un maschiaccio.
E forse, ora si atteggiava ad esserlo anche di più.
I suoi lunghi capelli corvini avevano lasciato spazio ad un caschetto
nocciola
e ad un morbido ciuffo che le ricadeva vaporoso sulla tempia. I suoi
occhi
celesti, profondi come due grandi oceani, illuminavano il suo volto
sempre cupo
e rigido – stretto in quell’espressione di totale apatia e disinteresse.
Nascondendo le sue forme leggermente voluttuose, alternava pesanti
maglioni e
felpe colorate a larghe camicie pastello, sempre accostate ad un paio
di
pantaloni o di jeans.
L'eco del suo nome trafiggeva con dolcezza l'immagine mascolina che
prendeva
vita, scontrandosi con quel fantasioso dipinto – scrigno di femminilità
e di
tremante fragilità.
«Guardala! Anche oggi indossa quegli orrendi skinny Jeans!» bisbigliò
crudelmente una ragazza del terzo anno, all’amica al suo fianco.
«Si dice che non abbia mai indossato una gonna in vita
sua!
Credi che sotto quei jeans nasconda un segreto inconfessabile?! Magari
è
davvero un ragazzo!» esclamò l’altra, senza nemmeno aver premura
di non farsi
sentire dall’interessata.
Era abituata a quel genere di calunnia, e senza rivolger loro parola,
Crystal
ascoltò quelle spietate dicerie, inghiottendo ancora una volta la
rabbia, e
sfilando a loro fianco, continuando a camminare senza mai vacillare.
Lo aveva sempre saputo.
Alice, in cuor suo aveva sempre capito quanta tristezza avvolgesse
quella
ragazza.
Molte volte avrebbe desiderato parlarle ed esserle amica, ma tutte le
volte si
era lasciata soggiogare dalle sue stesse insicurezze e aveva
abbandonato quei
pensieri.
E per questo si sentiva come un’infame.
Quella ragazza continuava a soffrire e a venir derisa ogni santo giorno!
E lei era lì, impotente, schiava delle sue più remote
paure, ad osservare
da lontano gli sviluppi di quella vicenda.
Odiava quei comportamenti meschini di cui si macchiavano i suoi
compagni.
Odiava scorgere il modo in cui le loro labbra s’increspavano in quei
fasulli
sorrisi di miele.
Odiava veder soffrire qualcuno solo per poter far appagare
qualcun’altro.
Odiava il modo in cui quell’innocente fanciulla veniva additata. E per
la sua
impotenza, odiava se stessa.
"Perché le persone provavano piacere nel ferire qualcun’altro? Perché
non
si rendevano conto del dolore che infliggevano?
Quello era un modo malsano per raggiungere la felicità."
Una felicità del tutto incolore, possibile che solo lei se
ne
accorgesse?
«Alice, tu cosa ne pensi?» domandò Laura, sorseggiando con la piccola
cannuccia
il suo succo alla pesca. «Secondo te, perché quella ragazza non indossa
mai la
gonna?! Credi abbiano ragione le pettegole del terzo anno?» chiese poi,
addentando quei suoi saporiti biscotti ricoperti di crema al cioccolato.
«Non capisco perché tutti debbano parlar male di lei! Se sei così
curiosa di
saperlo perché non glielo chiedi direttamente?!» rispose con sdegno,
sopprimendo quanta più rabbia le fosse permesso nel suo cuore.
«Alice... Ma che ti prende?» le domandò l’amica, osservando la sua
reazione
seccata, mentre ella s’apprestava a gettare nel cestino la plastica che
stringeva con forza fra le mani.
«Nulla di particolare. Sono semplicemente seccata di vedere quanto vi
divertiate a prenderla in giro!» aggiunse poi, iraconda e frustrata,
incamminandosi da sola verso la sua aula.
Chi poteva stabilire ciò che era "normale" da
ciò che era "diverso"?
Se ogni persona era differente dall'altra, allora la normalità era un
concetto
del tutto soggettivo; perché bisognava etichettare i propri sentimenti,
nascondo ciò che si era?
Fingendosi uguali gli uni agli altri, schiavi d'antiquati preconcetti.
L’immagine sbiadita e un po’ distorta che la sua mente aveva ricreato,
sopraffatta dalla lacrime improvvise che acquerellavano il suo volto,
era
quella di una semplice ragazza come tante altre. Quei pozzi
cristallini che
osservava da lontano gli sembravano aver la forza della
tempesta e la purezza dell’acqua fredda di sorgente.
E anche
quelle sue mani, sottili affusolate e femminee, le facevano percepire
una
profonda limpidezza.
Tutto in quella ragazza le ricordava l’innocenza di un fiore.
Ai suoi
occhi, Crystal era una persona così maledettamente fragile, nonostante
quella sua aria da maschiaccio che continuava ad ostentare. Sì, era
fragile
quanto il cristallo. E a poco a poco, quelle laceranti ferite a
cuore
aperto, s’insinuavano nelle sue viscere, incidendo quel bellissimo
cristallo
trasparente che se esposto al sole brillava riflettendo l’arcobaleno.
Erano solo piccole crepe, ma prima o poi il suo cuore
si
sarebbe spezzato. Era solo una ragazzina di tredici anni.
Non aveva quella forza.
La mestizia s’istigò sul volto – solitamente allegro e spensierato – di
Alice,
facendola sospirare pesantemente. Con aria assente, rigirava quella
mezza
matita nelle sue dita, preda di un fastidioso tic nervoso, rimirando il
paesaggio irrorato fuori dalla finestra.
Pioveva ormai da alcune ore. Fra poco sarebbe suonata la campanella che
avrebbe
decretato la fine di quella giornata di scuola, e Alice aspettava
impaziente
quel preciso istante per sentirsi finalmente libera di poter respirare
nuovamente aria pulita. E non era l’aria viziata di cui era
pregna
quell’aula, a cui faceva riferimento, ma bensì a quel forte senso di
malessere
che attanagliava il suo stomaco.
A quel peso gigantesco che tratteneva dentro il suo cuore da anni, e
che in
quel giorno si era fatto sentire con più veemenza del solito.
Possibile che si sentisse così stupida e inutile, da non riuscire
neppure
ad afferrare le mani della persona che avrebbe desiderato proteggere?
Assorta fra i suoi
pensieri e
svuotata da ogni sorriso, agguantò frettolosamente il suo ombrello
turchese e
premurandosi d’afferrare anche il suo zaino, uscì dalla classe senza
neppure
aspettare la sua migliore amica.
Semplicemente fuggì.
Fuggì da quel luogo ormai divenuto ostile e s’incamminò verso il
cortile.
«Non posso crederci quella è ancora là! Non dirmi che
sta
aspettando il principe azzurro sul cavallo bianco che
arriva a
salvarla!» esclamò una voce femminea, gracchiando come un corvo. E a
quelle
parole, udite per puro caso, Alice sussultò involontariamente. Alzò la
testa e
scostando l’ombrello quel tanto da permetterle d’avere una visuale più
ampia,
fece roteare freneticamente le pupille da destra a sinistra e poi da
sinistra
verso destra. I suoi occhi scuri adocchiarono quella minuta figura
proprio in
prossimità del cancello a scorrimento della scuola, vicino al grande
ciliegio
che lentamente s’apprestava a sfiorire, colorando di bianco e rosa
pallido il
viale asfaltato.
«No, magari più che un principe sta aspettando la sua
Principessa!» aggiunse
l’altra ragazza, ghignando orrendamente, immobilizzando il cuore
di Alice.
Quelle parole erano affilate quanto lame.
E nei suoi occhi tremanti d’inquietudine, già poteva immaginarsi il
sangue che
sgorgava a flotte, imbrattando l’asfalto di un rosso scuro – cremisi.
E lei era lì, immobile come lo era Crystal, distante anni luce dal suo
mondo
solitario e cupo.
In quell’istante si sentì rapire dall’oscurità ed ebbe ancora una volta
la
sensazione che quel silenzioso sguardo che s’istoriava sul volto di
Crystal
celasse una profonda tristezza.
Si sentì straziare il cuore a quella desolante visione.
I suoi occhi, le sue labbra, le sue orecchie, le sue mani, e persino il
suo
naso, avvertirono distintamente quella silenziosa richiesta d’aiuto,
sussurrata
all’indomabile vento che da solo non riusciva ad alleviare le sue
ferite.
Stava gridando. Crystal stava gridando; era così sola.
Alice prese coscienza di
aver
ignorato quella disperata richiesta d’aiuto per così tanto tempo,
calpestando
quanto di più prezioso la natura aveva generato: quel bellissimo fiore
di
cristallo. Spinta dal suo stesso coraggio, che per anni aveva
preferito
assopirsi dentro di sé, strinse con rabbia l’ombrello e corse verso di
lei,
raggiungendola in pochi istanti.
Crystal con sorpresa alzò la testa e osservò quella particolare
ragazza,
credendo le fosse corsa in contro con l’intento di deriderla e di
ferirla;
proprio come facevano tutti.
Eppure, in quei suoi occhi marroni non vi trovò cristalli acuminati
pronti a
trafiggerla, e per la prima volta in vita sua, si sentì quasi
umana.
L’ombrello di Alice cadde non appena ella riuscì a scorgere, da vicino,
quel
candido viso dai lineamenti delicati e perfetti.
I profondi oceani lapislazzuli la fissarono incredula
e
rimanendone ammaliata, si sentì affogare nei loro più reconditi abissi,
intravvedendo pesanti lacrimoni grandi come sfere di cristallo,
imperversare con irruenza. Le piccole gocce di pioggia continuavano a
cadere
dal cielo in un pianto liberatorio, scivolando sui loro corpi
infreddoliti e
mescolandosi con quelle lacrime di cristallo, il tempo sembrò
pietrificarsi.
Non si era sbagliata, Crystal stava piangendo, strepitando come
facevano i
neonati.
Probabilmente, in quei lunghi anni aveva pianto così tanto da affogare
nei suoi
stessi occhi.
Dandosi mentalmente della stupida, per non essersi voltata prima a
scorgere
quei suoi occhi liquidi, e colta da un desiderio irrefrenabile, si
tuffò sulle
sue labbra, accarezzandole e assaggiandole con delicatezza.
Erano inaspettatamente morbide come il velluto e calde come il
sole, quelle
sue labbra, seppur le erano sempre apparse talmente nivee da
crederle
fredde come il ghiaccio.
Stava baciando una ragazza per la prima volta. E
nonostante un
leggero disagio che le imporporò le guance, infiammandole, si sentì
inondare da
un fremito repentino che disperatamente bramava l’amore di quelle
labbra
diafane.
Sciolsero l’unione di quel bacio leggero – al sapore di vaniglia e
zucchero –
solo qualche istante dopo, mentre alle loro spalle un chiacchiericcio
frenetico
prendeva vita.
«Perché lo hai fatto? Vuoi umiliarmi, anche tu?!»
domandò
con amarezza, tradendo la dolcezza di quel bacio, assumendo
un’espressione
contrariata che però agli occhi di Alice sembrò l’ennesima richiesta
d’aiuto,
alla quale s’aggrappava disperatamente.
«No. Voglio esserti amica.» ammise in un sussurro
trascinato dal
vento. «Voglio camminare al tuo fianco.» aggiunse poi, timidamente.
«N-Non… Non dire fesserie!» esclamò Crystal, incollerita.
«Nessuno vuole
essermi amico!».
«Io voglio esserlo.» ammise con
determinazione Alice, sorprendendosi di aver ritrovato tanto coraggio
per fare
ciò che stava facendo.
«Non posso crederci!»
«Le hai viste? Si sono… Baciate!»
Quel fastidioso brusio risuonava nelle loro orecchie come l’irritante
ronzio di
una zanzara pronta a pungerti, succhiandoti il sangue.
«Vattene via.» riprese parola Crystal, bisbigliando appena. «Questo non
è un
gioco, adesso anche tu sarai il loro bersaglio. Le persone sono
crudeli.
Vattene via. Prima che sia troppo tardi.»
«Non voglio andarmene da nessuna parte, a meno che tu non voglia
seguirmi.»
«Non ergerti a Dio. Loro t’annienteranno.» sibilò socchiudendo i
suoi
occhi in due piccole fessure, calcando le parole.
«Lo facciano pure se desiderano! Non li lascerò calpestare i tuoi
sentimenti in
questo modo!» affermò senza esitazione, lasciandosi coccolare dalla
pioggia.
«Mi sono comportata come una codarda sino ad oggi; non voglio più
esserlo.»
«Non li senti i loro giudizi, soffocarti l’anima?» chiese
Crystal, con
gli occhi ancora lucidi.
«Sono due ragazze.»
«Lo avevo detto che quella era strana!»
«E’ immorale.»
«Baciarsi in quel modo, davanti a tutti. Sono scandalose!»
Quel chiacchiericcio pungente era come un coltello conficcato fra le
scapole: tremendamente doloroso e soffocante.
Da quelle loro vili labbra, affioravano parole e concetti che forse
nemmeno
loro conoscevano a pieno, ma sui quali sancivano i loro spietati
giudizi che
sputavano come fango su quelle due giovani coetanee. Rinfacciando
loro
innegabili colpe d’innanzi a Dio.
«Lasciali parlare.» disse Alice, sbattendo velocemente le palpebre,
senza
lasciarsi impaurire da quelle calunnie ingrate, consapevole di quanta
forza
avesse dovuto stringere nel petto la compagna, per sopprimere le
lacrime.
«Almeno adesso avranno qualcosa di concreto su cui
sparlare!»
aggiunse poi, soffermandosi a sfiorarle una guancia. E a quel
gesto
tanto delicato, Crystal non seppe più trattenere quel pianto furioso e
scoppiò
puntuale come un ordigno.
Liberando gli occhi da frammenti di cristallo stagnanti e la gola da
una voce
afona e incolore.
Con un gesto fulmineo,
Alice
raccolse il suo ombrello e tingendo il cielo grigio in turchese, riparò
entrambe dalla pioggia, sebbene fossero ormai già bagnate da capo a
piedi.
«Guarda: quest’ombrello è dello stesso colore dei tuoi occhi. E’ il
colore del
cielo!»
«Il cielo di oggi, però… E’ grigio e nuvoloso!» ribatté in preda alle
lacrime,
Crystal.
«Allora impegniamoci a farlo nuovamente risplendere!»
Crystal sorrise debolmente, increspando le soffici labbra in una tenera
espressione che celava il desiderio di voler esser felice. E quasi di
riflesso,
anche Alice sorrise compiaciuta.
Era il primo sorriso che le vedeva colorarle il volto. E quasi aveva il
timore
che si trattasse solo di una sua fervida fantasia.
Nel momento in cui la sentì piangere a gran voce, poggiandosi contro il
suo
petto, travolta dagli spasmi violenti, abbracciando la sua forza, Alice
giurò
che le sarebbe rimasta accanto per sempre. E desiderando naufragare,
ancora una
volta, fra i suoi occhi e abbronzarsi sotto i caldi raggi del sole che
le sue
labbra emanavano, sfiorò con le dita le sue labbra chiare e invitanti, ora
tintesi di vita.
Incuranti delle malelingue
e dei
pettegolezzi che di lì a poco sarebbero presto degenerati, si presero
per mano
vicendevolmente, camminando assieme, passo dopo passo, ora finalmente
libere.
Lo scroscio della pioggia, lentamente, si placò, e nell’aria frizzante
si
diffuse la tiepida fragranza dei ciliegi.
Gli occhi di Crystal non erano dissimili da quelli di Alice: entrambi
desideravano solamente abbracciare l’amore.
© LADY
ROSIEL/Luna Azzurra
AUTRICE TIME:
Questa narrazione prende spunto da una ragazza che frequentava la mia
stessa scuola media dell'epoca, una ragazza che ha sempre vissuto la
sua sessualità come un qualcosa particolare. Lei, infatti si è sempre
posta come un ragazzo e portava quel bellissimo nome che invece
era
scrigno di femminilità e fragilità: Crystal.
Ovviamente i fatti
accaduti nella storia sono di pura fantasia.
La canzone che mi ha piacevolmente ispirata e cullata nel mentre questo
racconto prendeva vita, è stata:
• Xiang
Xing Fu De Ren (Lett.: LE PERSONE CHE DESIDERANO LA FELICITA') di Rainie Yang •
Una melodia dolcissima e malinconica. Intensa e commovente.
La parte finale della
canzone, quando Rainie aumenta l'intensità della sua voce è l'apice
dell'emozione. .
Se desiderate
ascoltarla, vi metto il link di youtube, collegato al videoclip - ovviamente con la stessa temtica del mio
racconto.
La scena del bacio è stata: "waoh!" Davvero sorprendente e toccante.(Rainie Yang è anche un'attrice).
Spero solamente che
apprezziate, e che il tutto non vi sembri troppo nonsense!
Ovviamente sono sempre qui, pronta ad accettare commenti, vostre
riflessioni e perchè no, anche le critiche!
Detto questo: Buona Lettura!